IV LA ICONOCLASTIA

Ci sono rivalità storiche e rancori etnico-politici cosí profondi e cosí malefici, da ripercuotersi pur nel significato dei vocaboli di per sé piú naturali ed ingenui.

Bizantino per noi suona sinonimo di vuotaggine intellettuale e di cavillosa sottigliezza, perdute dietro disquisizioni vacue ed insignificanti. Romano vale, per tutti gli aderenti alle Chiese ortodosse nate e patrocinate da Bisanzio, come sinonimo di formalista, di insidioso, di accaparratore, di prepotente, se non di satanicamente magico e menzognero.

Sono secolari lotte politico-religiose svoltesi fra le due parti orientale ed occidentale dell'Impero romano, che pesano ancora sulla nostra terminologia storico-geografica, e sulle nostre consuetudinarie abitudini mentali.

La storia è un eccellente mezzo pedagogico per superare queste contratte idiosincrasie e per scoprire, dei fatti da cui queste si generarono, la spiegazione naturale e la logicità inflessibile.

Nulla di piú stolto che immaginare le lunghe controversie dibattutesi sul terreno teologico fra Roma e Bisanzio e nel dominio di Bisanzio stesso tra le comunità cristiane dell'Anatolia e quelle ad esempio della Siria e dell'Egitto, quali puro risultato di un ozioso e sofistico esercizio speculativo.

Sono i nostri criteri storiografici impenitentemente materialistici che ci hanno fatto perdere il senso del significato profondo e della portata illimitata dei conflitti sociali e morali, svoltisi in profondità, sotto il velame superficiale delle polemiche teologiche.

Non fu pura coincidenza che la grande polemica ariana si delineasse e si svolgesse all'indomani della cosiddetta conversione di Costantino e del trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio.

E non fu neppure una coincidenza fortuita o un caso capriccioso che alla controversia ariana seguissero per piú di un secolo le laboriosissime polemiche cristologiche e che all'indomani stesso di Calcedonia, dove Roma aveva riportato un cosí brillante successo con la condanna del monofisismo, le lotte religiose divampassero piú che mai ardenti nel mondo orientale, dilacerandolo e consumandone la piú intima natura.

Lo storico non deve perdere mai di vista il collegamento inscindibile fra le condizioni politiche di un determinato organismo statale e lo sviluppo della spiritualità e della religiosità del suo popolo.

Roma e Bisanzio si avviarono lentamente, attraverso il corso di quattro secoli, alla consumazione definitiva della loro separazione confessionale, passando per tappe, ciascuna delle quali ha il suo rilievo caratteristico e la sua specifica ragione.

La polemica ariana era stata la prima clamorosa avvisaglia di un conflitto che, se all'apparenza era strettamente teologico, nascondeva, sotto la sua superficie, un conflitto infinitamente piú vasto di forze politiche, etniche e sociali.

Col trasporto della capitale imperiale a Bisanzio era tutta la rete delle comunicazioni economiche e spirituali nel vasto mondo della Romània che subiva un radicale dislocamento e una imponente metamorfosi. Segno infallibile di questo dato di fatto, il particolare che la controversia nata ad Alessandria in Egitto, ad Alessandria trovò il suo teatro piú acceso e il suo centro piú irriducibile. L'ultima città conquistata da Roma ora si mostrava la piú fedele nel voler mantenere i collegamenti e la solidarietà con essa.

Tutta la lotta di Atanasio contro il sovrano di Costantinopoli e la sua pretesa di interloquire in materia religiosa, non erano forse una espressione eroica di fedeltà alla metropoli del Tevere? I successori di Costantino avevano dovuto adagio adagio pencolare sempre piú verso la professione ariana, quasi per tener saldi, intorno alla nuova capitale bizantina, i nuclei d'Oriente, che piú pertinacemente avevano recalcitrato e recalcitravano al magistero e al dominio romani.

Poi l'arianesimo sciamò verso quelle popolazioni barbariche, per le quali la religiosità non era che uno sdoppiamento, solo alla parvenza autonomo, della vita politica.

Al Concilio di Costantinopoli del 381 la sede episcopale bizantina, tutta ormai già asservita ai voleri del sovrano, aveva accampato pretese a un avanzamento gerarchico nella serie degli episcopati bizantini, che la poneva subito di fianco a Roma come sede della residenza imperiale della corte e della nuova curia senatoriale.

Il cesaro-papismo bizantino era già in funzione, mentre Roma, orbata delle sue insegne di capitale politica, poteva cominciare a spiegare la sua azione storica di sede giurisdizionale religiosa, che si appoggiava alle forze politiche, pur rimanendone separata e potenzialmente nemica.

Frattanto le controversie teologali assumevano quei nuovi aspetti che, implicitamente presupposti dalla prima controversia ariana, e logicamente postulati dal dogma trinitario, continuavano ad essere espressione dottrinale di rivalità episcopali e di contrasti etnici e culturali del mondo orientale.

Ad Efeso aveva vinto ancora una volta Alessandria e quindi Roma contro Bisanzio. Ma era stata una vittoria insidiosa. Alessandria, ormai spinta, dalla sua lotta contro Bisanzio, in cui Roma non la seguiva come essa avrebbe istintivamente voluto, a trarre tutte le possibili conseguenze dalle sue stesse vittorie, aveva compiuto una vera sopraffazione al conciliabolo di Efeso (449), di cui Calcedonia (451) era stata una clamorosa riparazione.

Ma la condanna del monofisismo aveva lasciato uno strascico di inquietudini, che per una impressionante, ma non casuale coincidenza, erano venute a cadere insieme con avvenimenti politici che non potevano fare a meno di conturbare l'Impero di Bisanzio.

Quando nel 476 uno dei capi barbari operanti in Occidente, Odoacre, rovesciò l'ultimo imperatore occidentale, il giovane Romolo Augustolo, impadronendosi del trono italiano, credette bene di inviare, secondo la sua concezione dello Stato romano, un'ambasciata a Zenone, imperatore orientale, assicurandolo che l'Italia non aveva alcun bisogno di un monarca proprio, e che il suo imperatore poteva essere il medesimo Zenone. Nel medesimo tempo Odoacre chiedeva a Zenone di conferire a lui la dignità di patrizio romano, delegandogli il governo dell'Italia. Zenone dovette far buon viso a cattivo giuoco, e Odoacre divenne il signore legittimo dell'Italia.

Può darsi che questa condizione di cose in Occidente contasse per qualcosa nella politica religiosa dell'Impero bizantino.

La condanna del monofisismo non era stata affatto coronata da grande successo. L'Egitto, la Siria, una parte della Palestina e dell'Asia Minore, erano rimasti prettamente aderenti alla forma teologica condannata a Calcedonia.

Se dunque la situazione militare e politica d'Occidente, pur sotto la vernice degli accordi ufficiali, nascondeva germi di disunione tanto operosi, la situazione religiosa in Oriente era altrettanto preoccupante.

Fu sotto la pressione di tali circostanze che il patriarca costantinopolitano Acacio, come il patriarca alessandrino Pietro Mango, si sentirono spinti a trovare una formula conciliativa.

E la formula conciliativa fu quel testo pieno di concessioni reciproche che Zenone divulgò nel 482 col nome di Enotico. Fine piú cospicuo dell'editto era quello di non irritare né i partigiani di Calcedonia né i pervicaci monofisiti, scivolando quanto piú fosse possibile sull'unione delle due nature, la divina e l'umana, nel Cristo. Naturalmente il documento era stato stilato con tutte le possibili precauzioni di cui fosse capace il virtuosismo teologico orientale.

E mentre proclamava come inviolabili i principi religiosi sanzionati nei primi tre Concilî universali, anatematizzava in blocco cosí Nestorio come Eutiche, dichiarando solennemente che Gesù Cristo era «della stessa natura del Padre nella natura divina e della stessa natura nostra nella sua natura umana». Ma evitava scrupolosamente le brucianti espressioni «una natura», «due nature», sottacendo la dichiarazione calcedonese relativa all'unione delle due nature nel Cristo.

L'Enotico ricordava una sola volta il Concilio di Calcedonia, con queste semplici ed evasive parole: «E qui noi colpiamo di anatema tutti coloro che hanno sostenuto o sostengono ora o abbiano sostenuto altra volta a Calcedonia o altrove in ogni altro sinodo, qualsiasi opinione diversa».

Come tutti i testi politico-religiosi destinati a riconciliare partiti confessionali in lotta fra loro, l'Enotico di Zenone fallí completamente al suo scopo. I dissensi si acuirono, anziché placarsi. Roma protestò contro l'atto imperiale e, scorgendovi una iniziativa pericolosamente autoritaria del patriarca costantinopolitano, decise di radiarlo dalla gerarchia ortodossa della Chiesa. Acacio dal canto suo sospese ogni menzione del vescovo di Roma nelle ufficiali preghiere liturgiche.

Per la prima volta, la Roma papale e la Bisanzio patriarcale si ignorarono a vicenda. La rottura era stata riparata solo un quarantennio piú tardi, sotto l'imperatore Giustino I.

Sotto Giustiniano la polemica sui tre capitoli di nuovo risollevò le acri animosità fra la vecchia e la nuova capitale dell'Impero. Anche allora lo scisma dei tre Capitoli mostrò come precarie e mal sicure fossero le vie di comunicazione spirituali e culturali fra il mondo occidentale e il mondo orientale.

La lotta fra calcedonesi e monofisiti aveva poi avuto una improvvisa reviviscenza agli inizi del secolo settimo con l'avvento di Eraclio sul trono di Bisanzio. Il suo governo durò fra il 610 e il 641: epoca militarmente e politicamente turbinosa che vide le grandi campagne bizantine contro i Persiani e la improvvisa esplosione della conquista islamica.

Vittorioso nella campagna contro i Persiani (sembra che la dinastia di Eraclio fosse di origine armena e che la sua famiglia avesse vincoli di parentela con la casa armena degli Arsacidi), Eraclio aveva riconquistato all'Impero le sue provincie monofisitiche (Siria, Palestina, Egitto), il che riponeva sul tappeto la questione religiosa, che in quel momento si identificava tutta con l'atteggiamento da assumere di fronte a quella dottrina dell'unica natura in Cristo condannata formalmente da Roma e da Bisanzio, momentaneamente riconciliate, a Calcedonia.

Riprendendo il programma di Zenone, Eraclio, dopo aver preso contatto con l'episcopato monofisitico delle provincie orientali, consigliato dai suoi vescovi di corte, ritenne che un'unione degli spiriti sarebbe stata possibile, qualora gli aderenti di Calcedonia si fossero piegati ad un diversivo, il quale sarebbe dovuto consistere nel riconoscere in Cristo due sostanze ed una sola operazione, o volontà che la si volesse chiamare.

Era, né piú né meno, che un sotterfugio. Volendo evitare qualsiasi allusione alla duplicità o alla unicità della natura nel Cristo, si parlava piú genericamente di duplicità di sostanza e di unità di operazione e di volontà. La nuova posizione teologale fu designata col nome di monotelismo dal vocabolo greco thelisis che vale volontà.

I rappresentanti ecclesiastici ufficiali delle tre grandi metropoli orientali, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, parvero disposti a collaborare con l'imperatore, per l'unificazione degli spiriti su questa base concertata.

Ma l'opinione pubblica egiziana non parve altrettanto cedevole, e il vescovo di Roma, Onorio, venne a trovarsi in serio imbarazzo.

In un primo momento dichiarò che la dottrina di una volontà unica non era difforme dalla tradizionale professione cristiana.

Ma il dilagare delle polemiche doveva indurre la sede romana a una linea di condotta piú rigida e piú intransigente.

Un monaco palestinese, che viveva ad Alessandria, Sofronio, si levò energicamente contro l'accomodamento aulico, che credeva di eludere le difficoltà teologiche mercè il cambiamento delle formule verbali.

Per scongiurare piú acri dissensi e piú sconvolgenti discussioni, Eraclio, consigliato dal suo patriarca Sergio, volle accreditare una formula meno compromettente e in una ufficiale esposizione di fede, Ectesi, proclamò la dottrina delle due nature e di una sola volontà in Cristo.

Su questa formula, cosí sapientemente addomesticata e edulcorata, non sarebbe stato possibile di realizzare la conciliazione di monofisiti e di ortodossi, in un momento in cui cosí gravi si presentavano le sorti dell'Impero orientale?

Proprio in quel medesimo anno 638 in cui l'Ectesi era divulgata a Costantinopoli, la Siria, la Palestina, la zona bizantina della Mesopotamia cessavano di far parte dell'Impero, sotto la marea livellatrice della irruzione islamica.

Rimaneva ancora a Bisanzio, nel bacino orientale del Mediterraneo, la provincia egiziana. Ma anche per questa provincia i giorni erano contati.

In quell'ora cosí perigliosamente uraganica, Bisanzio sentiva piú che mai il bisogno di poggiare ad Occidente, di fronte alla minaccia che veniva dal Sud.

Roma si pronunciò nettamente contro la nuova formula di fede. È da pensare che soprattutto dovesse dare ombra al magistero episcopale romano questo continuo e malaccorto legiferare religioso dell'autorità politica bizantina, la quale, cercando di venire sempre piú verso l'Occidente ortodosso, fedele a Calcedonia e alla condanna del monofisismo, e diffidente quindi di fronte a qualsiasi accomodamento, cercasse di eluderne le sentenze, escogitò una nuova formula.

Questa volta fu Costante Secondo che pubblicò nel 648 il Tipo di fede che faceva divieto «a tutti i sudditi ortodossi che erano nella fede cristiana immacolata e appartenevano alla Chiesa cattolica e apostolica di polemizzare gli uni contro gli altri a proposito dell'una volontà o dell'una operazione o delle due operazioni o delle due volontà nel Cristo». Il Tipo di Costante non solamente vietava qualsiasi controversia a proposito della unità o della dualità nelle volontà nel Cristo: ma ordinava ugualmente che si facessero scomparire dalla circolazione tutte le dissertazioni dedicate a tale problema, compresa l'Ectesi di Eraclio.

Neppur questo valse a stabilire la pace.

Le discordie religiose orientali rivelavano dissensi profondi di comunità e di gruppi etnici, cui il pericolo esterno si potrebbe dire che desse alimento anziché placazione.

Emissari del clero greco vennero a Roma a stimolare il Pontefice Martino, sulla via della intransigenza, e il Papa, in pieno sinodo lateranense, condannava «la empia Ectesi e lo scellerato Tipo», dichiarando colpevoli irrimediabilmente di eresia tutti coloro che erano mescolati alla compilazione e alla pubblicazione dei due editti.

Questa volta la reazione di Bisanzio fu brutale. Costante Secondo ordinava all'esarca di Ravenna di catturare il Pontefice e di inviarlo a Costantinopoli, dove Martino, accusato di avere provocato in Occidente una sollevazione anti-bizantina, fu, attraverso inenarrabili umiliazioni, condannato al confino nella lontana città di Cherson, sul litorale meridionale della Crimea, dove moriva fra gli stenti.

Fu un modo per intimidire la Sede romana.

Il secondo successore di Martino, Vitaliano, ristabilí le comunicazioni pacifiche con Bisanzio. Fu ottima politica. Bisanzio stessa venne a resipiscenza sotto la pressione dei catastrofici avvenimenti politici e militari d'Oriente.

Il successore di Costante Secondo, Costantino IV, sempre piú deciso a ristabilire i buoni rapporti con l'Occidente superstite nella sudditanza a Bisanzio, apprestava a Costantinopoli nel 689 quel sesto Concilio ecumenico che condannava definitivamente il monotelismo riconoscendo nel Cristo Gesù due nature in una sola ipostasi, e «due volontà e due operazioni armonicamente coesistenti in vista della salvezza del genere umano».

Cosí era reintegrata la pace con Roma. Nell'indirizzo che questo sesto Concilio ecumenico inviava al vescovo di Roma, questi era apertamente e solennemente definito «il Capo della prima sede della Chiesa universale, assiso sulla incrollabile rocca della fede». Vi si aggiungeva che il messaggio del Papa all'imperatore aveva esposto, in maniera inequivocabile, i veri principi della religione.

Ancora una volta la sede di Bisanzio, che si atteggiava piú o meno confessatamente ad emula e rivale di Roma, era condannata a subire le oscillanti ripercussioni della circostante situazione politica e militare, nel suo modo di comportarsi al cospetto dei poteri religiosi della vecchia e detronizzata capitale.

Con questo sesto Concilio ecumenico, il governo bizantino, sotto la pressione degli avvenimenti orientali, che avevano cosí rovinosamente mutilato i suoi poteri, si era recisamente dichiarato contro il monofisismo e il monotelismo.

Non significava questo per Bisanzio rinunciare, in maniera tutt'altro che edificante, a qualsiasi sopravvivente contatto con la vita spirituale e religiosa di quelle provincie monofisitiche e monotelitiche, Siria, Palestina, Egitto, che del resto la conquista arabica aveva violentemente strappato al dominio politico della metropoli del Bosforo?

Lo scotto pagato per la riconciliazione col mondo occidentale, col quale Bisanzio sentiva di dover venire a patti, quasi a compenso del suo diminuito dominio orientale, era dunque ben alto.

Abbandonando cosí al loro destino eterodosso regioni come la Siria, la Palestina e l'Egitto, Bisanzio non faceva altro che facilitarvi il rassodamento del dominio arabo.

E quando la dinastia imperiale di Bisanzio, successa alla dinastia eracliana, vorrà riconquistare il terreno perduto, dovrà a propria volta tornare sui suoi passi e senza sconfessare le decisioni del sesto Concilio ecumenico dovrà su altro terreno adottare provvedimenti religiosi che la porteranno di nuovo, e questa volta in una maniera irreparabile, alla rottura con l'Occidente nella ormai scompaginata e lacerata Romània.

I prodromi dell'uragano del resto si poterono già osservare durante il governo del successore di Costantino IV, Giustiniano II.

Con la innocente intenzione di sanzionare e ribadire il V e il VI Concilio ecumenico, questo imperatore convocava nel 692 a Costantinopoli un nuovo sinodo, che si tenne nel palazzo a cupola, donde il suo nome di sinodo trullano o quinisesto, come conferma dei due precedenti Concilî.

Il Pontefice Sergio rifiutò però di approvarlo, perché parecchie prescrizioni sue, di natura disciplinare, erano in conflitto con la disciplina della Chiesa romana: prescrizioni disciplinari di nessuna portata teologica (digiuno del sabato, matrimonio del clero) che solo in virtú delle circostanze politiche ambientali assumevano il valore di dissensi irreconciliabili.

Ormai la Chiesa romana avvertiva molto lucidamente che le si era venuta formando intorno una tale coalizione di interessi, di forze spirituali, di propositi autonomistici, da poter sfidare impunemente l'ira bizantina.

E infatti quando Giustiniano II, credendo di poter farla franca come l'aveva fatta Costante II con Papa Martino, ordinò al suo esarca ravennate di arrestare Papa Sergio recalcitrante e di condurlo a Costantinopoli, il commissario imperiale fu pienamente neutralizzato nella sua azione dalle soldatesche italiche e solo per l'intervento del Papa ebbe salva la vita.

La lezione fu efficacissima. Anziché insistere nel suo proposito di rappresaglia, Giustiniano II, tornato sul trono nel 705, invitava il Pontefice a Costantinopoli, e il Papa del tempo, Costantino, accettando l'invito vi si recò, e vi fu ricevuto con i piú splendidi onori. Era l'ultima volta che un vescovo di Roma entrava nella capitale dell'Impero orientale.

Si trattava di una riconciliazione effimera e di una pace caduca. Lo si sarebbe potuto arguire dalla stessa forma che veniva prendendo l'Impero d'Oriente, cosí nella sua configurazione etnico-politica, come nella sua struttura amministrativa.

Quali profondi rivolgimenti si erano verificati in quel lasso di tempo nei Balcani e nel Mediterraneo orientale!

Nella penisola balcanica si erano venuti installando, adagio adagio, popoli nuovi. Già Eraclio aveva dovuto tollerare nel Nord-Ovest l'installazione di Croati e di Serbi, a condizione che si convertissero al cristianesimo e divenissero vassalli dell'Impero. Anche in altre regioni gli Slavi si erano venuti copiosamente insinuando. Vi erano oasi slave nella Mesia e nella Macedonia, fino alle porte di Tessalonica. Si erano accentrati Slavi in Tessaglia, nella Grecia centrale, perfino nel Peloponneso e nelle Isole dell'Arcipelago. Anche nel Nord-Est della penisola i Bulgari si erano stabiliti in massa subendo un rapido processo di slavizzazione.

D'altro canto l'aspetto gerarchico e burocratico dell'Impero aveva perduto sempre piú il suo carattere romano, per assumere quello ellenistico.

Per la prima volta nel 627, all'epoca di Eraclio, era apparsa nel protocollo imperiale, al posto della tradizionale titolatura romana, la designazione greca di «basileus fedele in Dio» che da ora in poi designerà costantemente tutti gli imperatori bizantini.

La lingua greca frattanto diventava la lingua ufficiale dell'Impero.

Già ai suoi tempi Giustiniano, pur considerando la lingua latina come la lingua protocollare, aveva, per renderle piú comprensibili, concesso che la maggior parte delle sue Novelle fosse promulgata nella lingua comune che era la greca.

Nel settimo secolo tutte le ordinanze imperiali e parimenti tutti gli atti del governo sono dettati in greco. Nei quadri dell'amministrazione i vecchi titoli latini scompaiono o si ellenizzano e nuove appellazioni ufficiali ne prendono il posto.

Nell'esercito, in cui predominano gli elementi asiatici ed armeni, il greco diviene la lingua del comando. E sebbene fino al suo ultimo giorno l'Impero bizantino abbia continuato a chiamarsi l'Impero dei Romani, Romaioi comincia ad essere sinonimo di greci e la lingua latina comincia ad essere incompresa. La Roma orientale dimentica completamente le consuetudini, la terminologia, le concezioni stesse della vecchia madre del Tevere, e l'Oriente, il fascinoso Oriente, spiega ormai irresistibile il suo predominio esclusivista ed intransigente.

La Cristianità orientale subisce il contraccolpo di questa progressiva e vittoriosa trasformazione etnica e culturale di quel che era stato l'Impero romano.

Sulle orme di Costantino e molto piú di Giustiniano, lo Stato fa sentire sempre piú imperioso e potente il suo potere nelle cose ecclesiastiche. Le questioni religiose vengono ad assumere una importanza ed una posizione preminenti nello sviluppo della vita collettiva. Le guerre dell'imperatore Eraclio sono combattute come altrettante crociate, e i problemi teologici rappresentano una delle preoccupazioni assillanti del governo imperiale.

Da questo momento, l'ortodossia si confonde a Bisanzio con la nazionalità. Dal canto suo il patriarca di Costantinopoli è divenuto, dopo che gli Arabi hanno conquistato e cattivato i patriarcati di Alessandria, di Antiochia, di Gerusalemme, il capo unico della Chiesa bizantina, e la sua azione nello spiegamento della politica imperiale si fa letteralmente onnipotente.

Lo sviluppo sorprendente del monachesimo che pure aveva rappresentato ai suoi inizi, fra l'Egitto e l'Anatolia, una protesta collettiva contro la mondanizzazione della Chiesa ufficiale, porta alla moltiplicazione infinita e all'arricchimento fantastico delle case conventuali.

L'influenza che i monaci esercitano nella direzione delle coscienze, la venerazione che si tributa alle immagini sacre, possedute dai loro monasteri, vengono a costituire elementi di cospicuo rilievo nella vita dell'Impero orientale.

È strano osservare che, mentre si viene cosí locupletando l'ascetismo organizzato e l'episcopato aulico nell'Impero, l'organizzazione statale subisce una trasformazione significativa, nel senso di una sempre piú prevalente azione degli elementi militari. La minaccia persiana prima, quella araba poi, instillano nel governo di Bisanzio la consapevolezza di necessità belliche cosí impellenti, da prendere il sopravvento su ogni altra considerazione e su ogni altra esigenza amministrativa.

L'Impero viene organizzato sui «temi». S'intende con questo termine una speciale organizzazione delle provincie, col presupposto della completa egemonia dei poteri militari sui poteri dei governatori provinciali.

Naturalmente, la trasformazione non si effettua di colpo. Si trattò piuttosto di una lenta evoluzione.

Per lungo tempo il termine greco thema aveva designato un corpo di armata stanziato in una provincia. Adagio adagio il vocabolo cominciò ad essere adoperato per designare, non solamente le forze militari, bensí, senz'altro, la provincia da esse occupata. E cosí cominciò ad essere applicato alle divisioni amministrative dell'Impero.

La costituzione a «temi» dell'Impero d'Oriente aveva avuto come fatti precursori gli esarcati di Ravenna e di Cartagine, creati già alla fine del secolo sesto.

Anche allora necessità difensive avevano indotto ad assegnare ai reggitori di queste provincie lontane e insidiate poteri militari predominanti su quelli civili. Gli avvenimenti sconvolgenti, verificatisi in Oriente per opera dei Persiani e degli Arabi, portarono adagio adagio ad una trasformazione similare di tutta la struttura amministrativa dell'Impero, nei limiti della quale l'autorità militare doveva necessariamente assumere funzioni direttive, rese dal repentaglio pubblico assolutiste e incontrollate.

È questa complessa situazione morale, politica, amministrativa, religiosa, che va considerata come l'antefatto capace di far convenientemente comprendere e valutare l'epoca iconoclastica, che segna una svolta decisiva non solamente nella storia di Bisanzio, ma nella storia di tutta la civiltà occidentale.

Senza la crisi iconoclastica non sarebbe sorto l'Impero d'Occidente.

Basta enunciare un aforisma di questo genere per intuire di colpo l'importanza storico-mondiale di quella crisi.

Chi dice iconoclastia dice dinastia isaurica a Bisanzio. Donde veniva, quali tradizioni e quali aspirazioni portava con sé questa dinastia?

La dinastia isaurica, che si frappone fra due dinastie riconoscibilmente o illirico-macedoni o nettamente macedoni, rappresenta una fase caratteristica nel processo di sviluppo del bizantinismo, e va quindi considerata in tutte le sue significazioni etniche, morali, religiose, politiche.

Il nome tradizionale la dice appunto proveniente da quella Isauria, o parte orientale della Panfilia, che si stende nell'estremo Mezzogiorno dell'Anatolia, confinante con le provincie della Siria e della Cilicia.

Secondo indagini recenti, anzi, l'appellativo di isaurica, dato alla dinastia che occupa il trono di Bisanzio dal 717 con l'avvento al trono di Leone III, fino alla morte di Michele III nell'867, sarebbe errato. La dinastia avrebbe avuto invece le sue origini a Germanicia, e Leone III stesso sarebbe siriaco di nascita.

Una fonte araba parla esplicitamente di Leone come di un cittadino cristiano di Germanicia, che poteva esprimersi correntemente e correttamente in greco e in arabo.

Il figlio di Leone III, Costantino V, detto il Copronimo, col nomignolo beffardo («che prende nome dallo sterco») coniato per dispetto dagli ortodossi contro il sovrano reo di aver condotto fino in fondo la campagna contro le immagini sacre, sposava in prime nozze Irene, figlia del Khan dei Khazari, avendone un figlio, Leone IV detto appunto il Khazaro.

Questo Leone IV, nel quale doveva scorrere il sangue siriaco del nonno, ebbe la mala ventura di sposare una giovane ateniese, Irene, che divenne la vera sovrana dell'Impero alla morte di suo marito.

Il rampollo delle loro incongrue nozze fu il disgraziato Costantino VI. Quando il giovane raggiunse l'età per poter regnare da solo, indipendentemente dalla tutela e dalla reggenza della madre, il conflitto delle due razze, la siriaca e la greca, che dilacerava la consistenza politica e morale dell'Impero, assunse le forme drammatiche di un tremendo dissidio familiare.

Nuova Medea, Irene, nel cui animo si direbbe che covasse un rancore inestinguibile contro la razza dello scomparso marito, si vendicò sul figliolo. Lo espulse dal regno, lo detronizzò, lo fece acciecare. Dopo di che esercitò da sola il potere supremo, per un quadriennio, che rappresenta un periodo notevolissimo nella storia della civiltà mediterranea in quanto è l'epoca in cui, in contrapposizione al degenere Impero bizantino, il Papato di Roma solleva le insegne imperiali di Carlo Magno.

La comparsa di Irene sul trono di Bisanzio pone allo storico un problema di una certa importanza. Fu possibile nell'Impero bizantino alle donne di esercitare il potere supremo dal trono, regnare sull'Impero nel pieno significato del termine? Dall'epoca della fondazione imperiale le mogli degli imperatori avevano sempre portato il titolo di Auguste, e durante la minore età dei loro figli avevano sempre assolto funzioni imperiali, in nome però dei loro rampolli ed eredi. In pieno secolo V, Pulcheria, sorella di Teodosio, aveva retto il governo durante la minore età del proprio fratello. Una sovrana aveva anche goduto di una situazione eccezionale operando in maniera sensibile ed efficace sugli affari politici, e fu Teodora, la moglie di Giustiniano. Irene è veramente però la prima donna che abbia regnato a Bisanzio con piena ed assoluta autorità. Deve quindi riconoscersi che il fenomeno rappresentò nella tradizione bizantina una innovazione contraria assolutamente alle secolari tradizioni imperiali.

È significativo a questo riguardo notare che nei documenti ufficiali e nei suoi decreti Irene non riceve la qualifica di imperatrice, ma mantiene, con una strana anomalia idiomatica, l'appellativo di «imperatore fedele». Si direbbe che cosí viva fosse l'ostilità degli elementi ellenico-anatolici alla dinastia siriana di Leone III e dei suoi successori, da aver tollerato una imperatrice, ma di sangue greco.

La rivoluzione dell'802, concepita e condotta da uno dei piú alti funzionari civili, Niceforo, rappresentava in certo modo la rivincita degli elementi orientali e siriaci.

Se si chiudeva cosí la successione di Leone III, si avvicendavano ancora sul trono elementi di origine orientale.

Questi particolari d'indole etnica hanno la loro, troppo trascurata, importanza.

Il periodo dell'iconoclastia non segna un periodo di lotta epica fra elementi ellenici e anatolici ed elementi siriaci e semitici, nel governo della cosa pubblica, nell'amministrazione imperiale, nelle direttive religiose?

Le invasioni islamiche avevano sconvolto in radice le tradizionali preoccupazioni della civiltà romano-bizantina. La lacerazione dell'unità mediterranea, lo scompaginamento della vecchia e veneranda Romània, Io spostamento di tutti gli interessi e di tutte le linee di traffico tra l'Occidente e l'Oriente, ponevano a Roma, come a Bisanzio, dei còmpiti nuovi, nonché allo sviluppo progressivo del cristianesimo e alle direttive della sua espansione, prospettive inconsuete.

Tutto il corso della successiva storia mediterranea trarrà da questa situazione iniziale i suoi caratteri e i suoi itinerari obbligati.

Bisogna partire dalla constatazione inoppugnabile che dal punto di vista militare e amministrativo la dinastia isaurica rappresenta una fase di fortissima tensione e di impetuosa energia.

Al momento dell'avvento di Leone III, l'Impero traversava uno dei periodi più critici della sua storia. All'interno una spaventosa anarchia, determinata dalla lotta implacabile tra la corte e l'aristocrazia, divenuta particolarmente aggressiva dopo la prima deposizione di Giustiniano II. Al disordine interno si aggiungeva la minaccia araba sempre piú vicina alla capitale.

Le forze terrestri dell'Islam erano riuscite a traversare l'Asia Minore intiera da est ad ovest, occupando Sardi e Pergamo. Proprio pochi mesi dopo l'ingresso trionfale di Leone III a Costantinopoli, nel 717, gli Arabi, partiti da Pergamo, si slanciavano verso il Nord, raggiungendo Abido sull'Ellesponto, passando sulla riva europea e giungendo cosí sotto la capitale costantinopolitana.

Contemporaneamente una considerevole flotta araba, forte di non meno di 1800 vascelli di differenti tipi, traversando l'Ellesponto e la Propontide investiva la capitale dal mare. Leone III mostrò subito di possedere brillantissime capacità militari, preparando, chiaroveggentemente, la capitale all'assedio. E lo superò vittorioso.

Dopo un anno di resistenza indomabile, la capitale vide allontanarsi gli Arabi, e sentí di dovere la sua salvezza alla genialità e alla forza d'animo di Leone.

È per la prima volta durante questo assedio che noi troviamo le prime allusioni alla catena che doveva sbarrare la strada del Corno d'Oro alle navi nemiche.

Questo scacco dei musulmani dinanzi alle porte di Costantinopoli ebbe le piú vaste ripercussioni storiche.

Rivelatosi cosí esperto condottiero, Leone III mostrò anche di essere un legislatore sagace e illuminato.

Fin dai tempi di Giustiniano il testo latino del suo Codice, del Digesto e delle Istituzioni era mal compreso nella maggioranza delle provincie.

In numerosi distretti, specialmente orientali, vecchie consuetudini locali avevano, come norma pubblica, la preferenza sulle leggi ufficiali.

Era ben necessario apprestare per l'uso generale ordinario una raccolta legislativa in greco che rispecchiasse tutti i profondi cambiamenti che si erano effettuati nelle condizioni della vita pubblica dall'epoca di Giustiniano. E Leone si accinse a questa bisogna, mostrando con ciò stesso, quanto cammino, nella sua orientalizzazione e nel suo allontanamento quindi dallo spirito e dalla tecnica della prima Roma, avesse compiuto l'Impero della nuova Roma del Bosforo.

Nacque cosí il nuovo codice intitolato Ecloga. Se anche la data della sua emanazione non è al sicuro da incertezze e da discussioni, è difficile non assegnarne la compilazione all'epoca di Leone III e di Costantino V.

La sua titolatura è cosí concepita: «Scelta schematica di leggi, ordinata da Leone e Costantino, i saggi e pii imperatori, sulla base delle Istituzioni, del Digesto, del Codice, de le Novelle del grande Giustiniano e corretta con intenzioni di piú larga umanità».

Molti sono i tratti differenziali di questa Ecloga in confronto con il codice giustinianeo.

In complesso si può dire che mentre questo atto legislativo volle rappresentare una accettazione sincretistica di costumi e di pratiche giudiziarie venute formandosi di fianco alla legge giustinianea per il soddisfacimento di esigenze locali nelle varie regioni dell'Impero, nel medesimo tempo rappresentò una piú larga accettazione dei concetti cristiani, specialmente in materia matrimoniale.

Le sanzioni hanno carattere di violenza barbarica, che è esso stesso segno della natura composita, dal punto di vista etnico e politico, della legislazione isaurica.

Ma non bisogna isolare l'insieme di queste sanzioni dall'epoca nella quale esse sono decretate e dalla tradizione delle precedenti consuetudini penali.

Non si deve ad esempio trascurare il fatto che nel maggior numero dei casi queste crudeli sanzioni decretate nell'Ecloga vengono a prendere il posto della precedente sanzione della pena di morte. Donde non si potrebbe assolutamente dire che gli imperatori isaurici, autori dell'Ecloga, facessero del millantato credito, quando proclamavano che la loro opera legislativa tradiva un sentimento di umanità piú alto di quello manifestato dai loro predecessori.

Sta di fatto che l'Ecloga pareggiava tutti i delinquenti, a qualunque classe sociale appartenessero, nella assegnazione delle pene, mentre la vecchia legge giustinianea introduceva molto spesso differenze antiumane e antigiuridiche, tra delinquente e delinquente, secondo la condizione sociale rispettiva.

Nella stessa sua dicitura esteriore l'Ecloga si riportava molto piú di quanto non avesse fatto la precedente legislazione giustinianea ai dettati scritturali, per cui non è arbitrario riconoscervi un approfondimento sempre maggiore dell'eredità giuridica romana, nell'atmosfera religiosa apportata dal messaggio cristiano e dalla sua trasmissione.

L'Ecloga ha avuto ripercussioni storiche di una certa ampiezza. Essa venne a far parte delle raccolte giuridiche della Chiesa ortodossa, specialmente in Russia. La si ritrova cosí nel «Libro delle Regole» o «Codice amministrativo», sotto il titolo: «Capitoli del sapientissimo Czar Leone e di Costantino, i due imperatori fedeli».

Dai tempi di Zacharia von Lingenthal si sogliono pure attribuire all'attività legislatrice dei due primi imperatori isaurici quei tre Codici, il rurale, il militare e il nautico, che ci sono pervenuti attraverso una copiosissima tradizione manoscritta, costantemente al seguito della Ecloga, e sebbene l'attribuzione sia tuttora messa in discussione da specialisti, non ci sono argomenti irrefragabili per negare simile paternità.

Del resto, dato il fervore riformatore della dinastia, è perfettamente comprensibile che tutta la materia della vita economica e civile dell'Impero, in un'ora di profonda metamorfosi e di serio repentaglio, sia stata sottoposta ad una disciplina legislativa adeguata ai bisogni del momento.

Si tratta ad ogni modo di testi giuridici che s'inquadrano perfettamente nel momento storico degli Isaurici, quando soprattutto il sopravvenire delle genti slave imponeva all'Impero d'Oriente un adattamento giuridico-economico, che rispondesse alle nuove esigenze etnicosociali e militari dello Stato.

Il Codice rurale contempla soprattutto regolamenti di polizia agricola, colpendo severamente reati concernenti la proprietà agraria e l'economia terriera. Vi si parla principalmente delle varie forme di furto di legname, dei frutti della terra, della violazione dei diritti di proprietà, delle negligenze degli agricoltori e dei pastori, dei danni inferti al patrimonio zootecnico.

Il Codice appare soprattutto come un complemento e un riconoscimento ufficiale delle consuetudini praticate ab immemorabili dai contadini.

Il Codice ha una posizione rilevante nella storia dello sviluppo economico dell'Oriente, specialmente perché permette di gettare uno sguardo sullo sviluppo della proprietà terriera tra le forme collettive e le forme individuali a Bisanzio, sullo sviluppo del lavoro libero e sulla costituzione delle piccole proprietà immobiliari.

Il Codice militare o altrimenti detto Diritto del soldato è costituito da estratti dei paragrafi greci del Digesto, del Codice di Giustiniano e dell'Ecloga con qualche elemento sovrapposto.

Si tratta in fondo di una enumerazione minuta e pedante delle punizioni inflitte ai soldati colpevoli di ammutinamento, di disobbedienza, di diserzione e di adulterio.

Esso s'inquadra molto bene nel piano integrale delle riforme della dinastia isaurica, premuta soprattutto dal bisogno di irrigidire militarmente la costituzione statale e di offrire alle possibilità di resistenza della collettività armata la piú rigida costituzione.

Infine il Codice nautico rappresenta uno statuto destinato a regolare la navigazione commerciale.

Anche qui il Codice appare il risultato di una compilazione di materiali dell'epoca e di natura diversa. Lo scopo della compilazione, il cui spirito differisce sensibilmente da quello del Digesto di Giustiniano, è quello di fissare nella maniera piú scrupolosa la responsabilità dei singoli nei rovesci della navigazione mercantile. Determina cosí la responsabilità e del proprietario del vascello e del negoziante che lo ha in affitto, e dei passeggeri, in tutti i rischi della navigazione attraverso i quali il carico possa andare perduto.

Era contemplata anche l'assicurazione preventiva del carico in previsione di tempeste o di attacchi pirateschi. Si ha qui la sensazione chiara di una condizione di incertezza del traffico marinaro, quale si deve essere verificata nel Mediterraneo orientale dall'epoca di Eraclio e dal primo divampare delle scorrerie islamiche.

Evidentemente la pirateria era divenuta un fenomeno cosí normale, che armatori e negozianti si erano dovuti mettere d'accordo per dividere equamente i rischi dei viaggi marittimi.

In questa cornice di febbrile attività militare e legislativa occorre collocare quella politica eversiva del culto esteriore nelle comunità cristiane che è nota nella storia col nome di politica iconoclastica e che ha fatto passare nella storia del cristianesimo la dinastia degli Isauri come una dinastia di blasfemi e di irreligiosi persecutori.

Ma la questione delle origini e del significato della lotta contro le immagini è questione cosí complessa e d'altra parte gli interessi e i valori che tale politica ha messo in giuoco e a repentaglio sono di tale rilievo, che chi voglia giudicare equamente questo capitale momento nello sviluppo della vita bizantina e piú genericamente nello sviluppo della civiltà mediterranea, deve non solamente tener conto delle peculiari circostanze in cui gli Isauri hanno governato, bensí anche dello sviluppo del culto delle immagini nel cristianesimo e degli elementi etnici compositi che hanno portato nella Cristianità dell'ottavo secolo le rispettive esigenze e le rispettive aspirazioni.

Si aggiunga che, come suol succedere quando ci si trova dinanzi a fatti che hanno costituito vere svolte nella storia della nostra civiltà, la documentazione di cui noi possiamo disporre nel ricostruire le fasi della campagna iconoclastica e della resistenza accanita e multicolore che essa incontrò è straordinariamente mutilata e parziale. Le opere degli scrittori iconoclastici, i decreti imperiali in cui fu consegnata la legislazione religiosa degli Isauri, gli atti dei sinodi iconoclastici del 753-754 e dell'815, i trattati teologici compilati ex professo dai corifei del movimento degli «eversori di immagini» sono stati tutti distrutti, non appena si delineò il trionfo dei loro avversari.

Sicché noi possiamo dire di conoscere la letteratura iconoclastica solamente attraverso gli estratti che ne hanno introdotto nelle loro opere i «cultori delle immagini», per combattere i loro avversari. Cosí il decreto finale del sinodo del 753 è stato conservato unicamente e molto probabilmente in una forma incompleta, negli atti ufficiali del settimo Concilio ecumenico. Il decreto conclusivo del sinodo dell'815 è stato scoperto in uno dei trattati del patriarca Niceforo.

Si comprende come le testimonianze superstiti degli impugnatori della iconoclastia, come ad esempio i tre «trattati contro coloro che sprezzano le sante immagini», del resto preziosi, di Giovanni Damasceno, siano viziate irrimediabilmente dallo spirito di parte.

D'altro canto, è impossibile valutare convenientemente l'insurrezione iconoclastica, legiferata da Leone III e da suo figlio Costantino V, e poi ripresa dai restauratori dell'iconoclastia nel nono secolo, dall'armeno Leone V e dai frigi Michele II e Teofilo, senza collocare convenientemente tale insurrezione nella traiettoria di sviluppo, non solamente delle polemiche religiose orientali, bensí anche del culto cristiano.

Le primissime comunità cristiane, le comunità dell'epoca paolina, non avevano conosciuto che due riti, come nucleo primigenio ed elementare della disciplina culturale nel cristianesimo. E questi due riti erano il rito della iniziazione battesimale e il rito della celebrazione agapico-eucaristica.

Nel momento di essere inserito nella comunità cristiana, l'iniziato veniva calato, come in un sepolcro, nella piscina battesimale, e sul suo capo veniva pronunciata dall'anziano della comunità la formula della consacrazione a Cristo: «A Cristo», o, nella dicitura che presto ne prese il posto, «Al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

Inserito nella comunità dei fedeli, che era sentita come il corpo mistico del Cristo formantesi nella storia, il neo-credente, l'iniziato, poteva partecipare al secondo rito liturgico della comunità vivente nell'attesa del Regno di Dio, il pasto agapico.

Era il sacramento dell'amore fraterno, concretato ed espresso nella celebrazione del pasto egualitario, commemorazione e rievocazione dell'ultimo pasto consumato dal Cristo con i suoi fedeli discepoli. Il pasto associato non era che la simbolica e in pari tempo concreta realizzazione di quella solidarietà carismatica, in virtú della quale l'insieme dei fedeli appariva veramente come il Corpo del Signore.

Ancora Sant'Agostino ai suoi tempi, pur avendo già alle spalle quella profonda e sostanziale trasformazione che cosí il pensiero come la pratica liturgica della comunità cristiana avevano subìto in piú che tre secoli di laboriosissima esistenza, continuava a proclamare, a proposito dell'Eucaristia, che i fedeli in essa non facevano che consumare e manducare quel che essi erano: «vos manducatis, quod estis».

Tutta presa dalla aspettativa del Regno veniente la primitiva comunità cristiana non aveva bisogno di altri riti, oltre quelli della iniziazione e del pasto associato: molto meno aveva bisogno di qualsiasi raffigurazione cultuale.

L'arte cristiana che nasce nelle catacombe è semplicemente all'apparenza un'arte funeraria. La si potrebbe definire piú propriamente l'arte della palingenesi beata nel sopravveniente Regno di Dio.

Se già San Paolo ai suoi tempi, nella sua corrispondenza con i fedeli di Tessalonica, aveva proclamato che i fedeli pre-morti all'avvento del Regno non si sarebbero trovati in una condizione di inferiorità di fronte ai fedeli che sarebbero stati raggiunti da vivi dall'avvento del Regno beato del Cristo, si comprende come, finché visse la speranza dell'imminente Regno, nelle varie sue forme di cui la millenaristica era stata la piú duratura e la piú entusiasmante, (basta ricordare a questo proposito i voli lirici di Metodio di Olimpo nel suo Simposio), questa certezza della partecipazione dei defunti non difformemente dalla partecipazione dei sopravviventi al veniente Regno di Dio, non potesse ispirare altra arte che quella delle immaginazioni gaudiose del banchetto messianico, cui il Cristo convitava e chiamava i suoi eletti.

La stessa rappresentazione della Vergine, nel cimitero di Priscilla, che è la piú antica espressione diciamo cosí del culto mariano, racchiude una significazione profetica, che si rifrange automaticamente nella visione del Regno.

Il Cristo e la sua Madre sono stati preannunciati dal Profeta: e il Cristo e la sua Madre hanno a loro volta il valore di una proclamazione profetica di fronte al Regno di Dio.

Le prime rappresentazioni artistiche con una portata cultuale, noi le ritroviamo nel movimento gnostico, che, trasformando la figura del Cristo da quella di profeta e di garante della salvezza beatifica nel Regno in quella del Maestro rivelatore della perfetta saggezza e della compiuta gnosi, era automaticamente portato a rappresentare il Cristo in una sagoma che doveva prestarsi senz'altro al culto della comunità iniziata.

Sta di fatto che la prima raffigurazione artistica del Cristo in gesto di insegnante noi la troviamo in quella statuetta deliziosa del giovane Cristo maestro che è conservata nel Museo delle Terme a Roma.

La trasformazione religiosa dell'Impero con la conversione di Costantino apriva il varco ad una fioritura rigogliosa dell'arte cristiana.

Le forme architettoniche della vita pubblica e religiosa del paganesimo erano senz'altro adottate dalle comunità cristiane arricchite. Il tipo basilicale, adottato non solamente dalla vita romana nelle sue espressioni della attività pubblica, ma anche dalle comunità degli iniziati, come ha dimostrato in una maniera superbamente sorprendente la Basilica pitagorica scoperta nei pressi di Porta Maggiore a Roma, passa nel culto cristiano. E con i tipi architettonici passano nell'arte cristiana le forme ornamentali della decorazione musiva, come le raffigurazioni parietali della storia biblica e cristiana.

Siamo ancora nello stadio fluido delle regole iconografiche e la tradizione non ha ancora fissato i tipi dei personaggi esposti alla celebrazione commemorativa sulle pareti dei luoghi sacri.

Ma già si delinea una unità d'ispirazione, nascente logicamente dalla lettura assidua delle Scritture.

La divulgazione di queste non poteva non esercitare un'azione di prim'ordine sullo sviluppo dell'arte. Si vengono cosí costituendo i tipi iconografici che rimarranno immutabili nei secoli artistici del cristianesimo.

Il culto dei santi, giunto a Roma dalla Chiesa cartaginese, sviluppatosi rigogliosissimo in quelle comunità orientali tutte dominate dal fascino delle tradizioni artistico-elleniche, doveva offrire un alimento copioso alla progrediente arte cristiana.

Non è detto che simile moltiplicarsi dei saggi figurativi destinati a fissare le immagini del culto cristiano, passasse senza protesta e senza reazione.

L'arte cristiana, rappresentando la figura umana nei mosaici, negli affreschi, nelle sculture, aveva da lungo tempo preoccupato lo spirito di credenti che avvertivano, con loro scandalo, l'andatura rassomigliante con le pratiche del paganesimo abbandonato.

Già nel terzo secolo una certa questione dell'arte religiosa era sembrata profilarsi nella cornice della polemica cristiana.

Clemente Alessandrino, nella sua posizione mediana fra lo gnosticismo esagerato e l'ortodossia intransigente, trova opportuno di ricordare la proibizione dell'Esodo di qualsiasi rappresentazione sensibile di Dio e delle realtà trascendenti.

Il sinodo spagnolo di Elvira, agli inizi del secolo IV, proibiva in termini formali di adornare le chiese con pitture, «affinché», esso diceva, «l'oggetto del nostro culto e della nostra adorazione non appaia esposto sulle mura».

Eusebio, pur descrivendo minutamente la suppellettile e gli ornamenti delle nuove chiese che Costantino veniva costruendo, denunciava come costumanza pagana quella di custodire immagini portatili del Cristo e degli Apostoli.

Alla fine del secolo Sant'Epifania, secondo la testimonianza di San Girolamo, avrebbe sentito una volta la necessità, per dare un esempio, di lacerare in una chiesa un prezioso tendaggio rappresentante il Cristo.

Nel 488, secondo la testimonianza di Teofane, il vescovo monofisita di Gerapoli, Xenaia, espulso poi dalla sua sede sotto l'imputazione di manicheismo, avrebbe interdetto nella sua diocesi le immagini della Vergine e dei santi.

Ed eccoci qui, a trent'anni appena dal sinodo di Calcedonia, nella possibilità di cogliere sul vivo una delle correnti che destavano e alimentavano l'opposizione alle rappresentazioni cultuali del Cristo, di Maria, dei Santi.

Era dunque forse tutta una visione antropologica, la visione del dualismo manicheo; era tutta la concezione orientalistica dei principi dominanti nel mondo, che suggerivano la opposizione irriducibile alle raffigurazioni sensibili del divino e dei suoi strumenti nell'opera di avviamento dell'universo verso il trionfo del bene?

Erano gli elementi semitici tradizionalmente fortissimi nell'esperienza cristiana che si opponevano radicalmente alla figurazione di Dio, quegli stessi elementi semitici che rinnovavano il divieto dell'Esodo nel movimento islamico?

Interrogativi di questo genere fanno intravvedere come complessi fossero gli elementi che entravano nel giuoco delle forze politiche e religiose, al momento in cui gli Isaurici intraprendevano la grande riforma e il vasto programma di consolidamento del vacillante Impero d'Oriente.

Nei secoli immediatamente precedenti le questioni teologiche, cosí appassionatamente fomentate dal turbolento monachismo egiziano ed anatolico, avevano in assoluta prevalenza assorbito e concentrato in sé l'appassionato fervore del composito mondo bizantino.

Anche nelle questioni trinitarie e cristologiche, che avevano avuto le loro tappe salienti nei Concili di Nicea e di Costantinopoli, di Efeso e di Calcedonia, si sarebbero potuti constatare soggiacenti interessi e rivalità di gruppi etnici diversi, di scuole diverse, di movimenti ascetici e spirituali rivali.

Ora l'enorme sviluppo assunto dal monachismo orientale, la sconfinata ricchezza immobiliare che questo monachismo era venuto accentrando nelle proprie mani, spostavano automaticamente l'interesse religioso dal terreno della pura speculazione teologica a quello della disciplina cultuale, sí da rendere il problema della riforma religioso-politica dell'Impero un problema di manomorta e di espropriazione ai fini dell'interesse statale.

Il cristianesimo era entrato nel mondo come una forza innovatrice e restauratrice di tutti gli istituti, dei valori, delle forme inerenti alla vita associata, non perché avesse preconcepito e formulato il proposito di trasformarli secondo un piano prestabilito e secondo un programma predisposto. Mirando a tutt'altra cosa che a riforme sociali, mirando precisamente ad attendere nella preghiera e nel desiderio la instaurazione del Regno di Dio, aveva effettivamente e praticamente scompaginato e sconvolto tutta la struttura dell'organismo sociale.

Aveva cosí insegnato e rivelato agli uomini per la prima volta una dialettica storica che non aveva precedenti e che sembrava in se stessa paradossale ed assurda. In realtà, non era che un'adeguazione perfetta di quelle che sono le ineffabili e misteriose capacità dello spirito umano, in virtú delle quali il vero assurdo per l'uomo è di concepire piani di trasformazione sociale, quasiché l'uomo possa essere la pedina inerte e meccanicamente determinabile di un giuoco tutto affidato a forze fisiche ed empiriche.

La verità è invece che la vita associata degli uomini riposa, per una buonissima parte, su forze imponderabili e su finalità imprevedibili, donde l'eterna validità della legge della eterogenesi dei fini, per cui la realtà conseguita è sempre immancabilmente diversa se non contraria alle intenzioni e alle visuali di coloro che credono di creare a loro libito i fatti e la storia. Il cristianesimo aveva mirabilmente trasfuso in sé la consapevolezza di questa legge, spingendo lo sguardo degli uomini oltre tutti gli orizzonti dell'attività materialmente disciplinabile e osservabile, per farne cosí dei creatori piú operosi di rinnovamento e di palingenesi.

Ma era una consegna molto ardua quella che il cristianesimo si assumeva nella storia. Il fascino della realtà empirica sopraffà e paralizza i grandi ideali spirituali.

E la comunità cristiana, nata dall'aspettativa del Regno, non si era potuta mantenere a lungo in quella condizione d'isolamento sdegnoso di fronte alla realtà empirica, a cui pure era collegata la sua azione piú alta e la sua virtuosità piú efficace. La trasformazione apparentemente cristiana dello Stato l'aveva portata piú decisamente che mai a mescolarsi agli interessi della terra e a rivestirsi di incombenze sociali.

Era naturale che lo Stato a sua volta si levasse irritato contro questa che poteva apparire subito una ingerenza insidiosa della Chiesa nel terreno delle proprie mansioni specifiche e delle proprie funzioni inalienabili.

Bisanzio doveva fare, prima di Roma, questa esperienza dello Stato, che offeso e vulnerato dalla penetrazione della Chiesa sul terreno dell'economia pubblica e delle direttive politiche, si rifaceva, ingerendosi sul terreno della spiritualità e del culto associato.

Quando la Chiesa dimentica che la legge della sua attività è la legge delle realizzazioni empiriche attraverso la negazione dell'empirismo e mercè una posizione antitetica a tutti gli interessi terreni, non è che logico e naturale che anche lo Stato tenti di realizzare i suoi fini empirici attraverso una intrusione per antitesi sul terreno degli interessi spirituali e religiosi.

Ci dice il cronista bizantino Teofane che nel 726 l'empio imperatore Leone cominciò un discorso sul rovesciamento delle sante e venerabili immagini. Come era consuetudinario a Bisanzio, fu probabilmente durante una assemblea del popolo tenuta all'ippodromo o al tribunale della Magnaura che l'imperatore annunciò la sua volontà in materia.

Giunto al potere nel 717, vale a dire un decennio prima, in mezzo a catastrofi inenarrabili, Leone aveva già dato prova di capacità sorprendenti nella riorganizzazione militare ed amministrativa dell'Impero. Ora egli voleva rinsaldare la sua opera riformatrice, colpendo quella potenza monacale che era tutta raccomandata alle forme devozionali delle superstizioni popolari.

Chissà che nel suo spirito non parlasse la voce ancestrale di semiti istintivamente avversi ad ogni raffigurazione del divino e chissà che in certo modo egli non volesse, attraverso le sue misure avverse al culto delle immagini, tendere la mano all'Islam cosí vicino e cosí pericoloso?

Ma la reazione alle decisioni imperiali fu formidabile. Tutta la parte ellenistica dell'Impero si schierò contro i provvedimenti imperiali.

L'Italia intiera, i cui vincoli con l'Oriente avevano ormai già subìto un cosí profondo logoramento, si sollevò. Papa Gregorio II inviava all'imperatore una lettera dogmatica, in cui protestava energicamente contro la sua intromissione nel dominio inviolabile della fede. Tutte le città della Venezia, dell'Esarcato e della Pentapoli, colsero l'occasione a volo per costituire milizie autonome.

Leone III, nient'affatto spaventato da queste resistenze, che egli si trovava vicinissime a Costantinopoli nella persona del patriarca, non si diede per vinto. Nello stesso mondo arabo, che Leone III probabilmente si era illuso di accattivarsi con le sue misure anticultuali e quindi antimonastiche, le conseguenze furono disastrose.

Dal suo monastero di San Saba a Gerusalemme, Giovanni il Damasceno faceva sentire la sua voce in tre discorsi «contro coloro che denigrano le sante immagini».

L'Islam dovette gioire di vedere queste divisioni intestine delinearsi nell'Impero che non aveva cessato di sognare ancor piú manomesso.

A Roma il successore di Gregorio II, Gregorio III, spingeva piú avanti la reazione della Curia romana, convocando un sinodo di 93 vescovi, tra i quali quelli di Grado e di Ravenna, dove furono dichiarati esclusi dalla comunione ecclesiastica quanti si rifiutassero di venerare le immagini.

Leone III, al colmo della irritazione, infierí contro i suoi territori occidentali, cosí dal punto di vista fiscale come dal punto di vista amministrativo.

Quando nel 740 il sovrano bizantino moriva, la lotta era in pieno sviluppo.

Una divisione netta si era stabilita tra le provincie europee dell'Impero e le provincie asiatiche: quelle irremovibili nel culto alle immagini, queste tutte guadagnate alla campagna imperiale.

Sotto le forme religiose del dissidio non operavano in maniera palese le irriducibili antinomie etniche e culturali dell'Impero?

Il figlio di Leone III, Costantino V, fu piú feroce che mai nella propaganda iconoclastica.

Nel febbraio del 753, per sua volontà 388 vescovi, venuti da tutte le parti dell'Oriente, si radunavano nel palazzo di Hieria sulla riva asiatica del Bosforo e pur proclamando la maternità divina di Maria e la validità della intercessione dei santi, condannavano qualsiasi culto delle immagini. Costantino aveva ormai cosí il titolo giuridico per perseguitare legittimamente dal punto di vista politico e religioso chi rifiutasse di sottoscrivere alla pratica iconoclastica. Che cosa egli mai faceva in tal modo se non dare esecuzione alle sentenze della riconosciuta autorità ecclesiastica?

Quando Costantino V moriva di carbonchio il 14 settembre 775, si può dire che il terrore regnasse su tutto il territorio dell'Impero.

Roma frattanto non era stata inattiva. Nel 769 il Papa Stefano III aveva nuovamente fatto condannare da un sinodo le sentenze del sinodo orientale del 753.

Il figlio e successore di Costantino V, Leone IV, rallentò la persecuzione iconoclastica. Egli aveva al suo fianco una ateniese, Irene, cui evidentemente il partito asiatico di corte non riusciva accetto. I propositi e le convinzioni di questa donna non comune ebbero modo di manifestarsi apertamente e vittoriosamente quando, morto Leone IV l'8 settembre 780, essa prese nelle sue forti mani le redini del potere, lasciando completamente nell'ombra il figlio Costantino VI, contro cui infierí in crudelissimo modo.

E il suo programma religioso era null'altro che quello della restaurazione del culto delle immagini. L'opera dei primi due imperatori isaurici era completamente annullata.

Gli esiliati tornarono a Costantinopoli, i monaci ricomparvero in pubblico, le reliquie disperse sotto Costantino V furono ricollocate nelle chiese, in mezzo a grandi manifestazioni di popolo. Ma occorreva ufficialmente annullare le decisioni sinodali del 753, che erano divenute in certo modo leggi statali. E allora Irene favori la convocazione di un Concilio ecumenico, creando patriarca il suo segretario Tarasio, ed invitando il Papa a fare il viaggio di Bisanzio.

Si adunava cosí a Costantinopoli nella chiesa dei SS. Apostoli il 17 agosto 786 il settimo Concilio ecumenico.

Fu interrotto nei primi giorni stessi della sua convocazione da una irruzione armata della guardia imperiale, fedele alla memoria di Leone e di Costantino. Irene non si spaventò per questo. Trasferí le truppe insorte in Anatolia sostituendole con legioni tracie, sicure, e il sinodo fu riconvocato a Nicea in Asia Minore, il 24 settembre 787, nella chiesa di Santa Sofia.

Vi assisterono 350 vescovi e uno sterminato numero di monaci, che vedevano giunta la loro rivincita. In sole otto sessioni il culto delle immagini fu solennemente restaurato, i vescovi che si erano dichiarati iconoclasti riconciliati o deposti, la dottrina del culto delle immagini dogmaticamente sanzionata.

Rivendicando di fronte allo Stato la piena autonomia della propria liturgia e della propria organizzazione religiosa, la Chiesa spingeva il monachismo verso una organizzazione autonoma che era in pari tempo fonte di intensa operosità spirituale e di pericoloso accentramento plutocratico e politico.

È durante la lotta iconoclastica che si forma nel sobborgo costantinopolitano di Saccourion il famoso cenobio dello Stoudion. Il suo principale rappresentante Teodoro si costituisce agli inizi del secolo IX patrocinatore energico della divisione dei poteri fra Chiesa e Stato e in pari tempo del potere supremo del vescovo di Roma.

Gli imperatori iconoclastici non erano stati né degli infedeli né dei razionalisti. Al contrario, erano stati uomini di una particolare fede religiosa sinceri e convinti, che avevano creduto di purificare la tradizione cristiana da sopravvivenze pagane. «Io sono imperatore e sacerdote», scriveva Leone III a Papa Gregorio II ed era partendo da questo principio che Leone III aveva creduto suo diritto dar forza di legge alle proprie concezioni religiose e imporle ai propri sudditi. E poiché alla sua anima di orientale la rappresentazione e il culto dei santi costituivano contaminazioni superstiziose, su cui si era venuta a deporre come una incrostazione parassitaria la floridezza pecuniaria dei monaci, egli e suo figlio ricorsero ad ogni mezzo per distruggere la potenza monacale.

Che l'iconoclastia avesse radici piú profonde di quelle che potrebbe immaginare chi ritenga il movimento iconoclastico risultato di un capriccio di corte, appare ben chiaro alla ripresa del movimento sotto Leone V l'Armeno che nell'813, deposto Michele Rangabes, ritornò in pieno alla politica di Leone III e di Costantino V. Nell'815 un secondo sinodo iconoclasta si riuniva a Santa Sofia a Costantinopoli, il cui decreto, conservatoci nelle opere apologetiche del patriarca Niceforo, proclamava «di condannare la pratica vana, non autorizzata dalla tradizione, di fabbricare e venerare immagini, e di preferire l'adorazione spirituale e sincera». Questo decreto riproduceva le idee essenziali del sinodo iconoclasta del 753, confermandone gli atti e proclamando di nuovo la interdizione del culto alle immagini.

Questa seconda fase del movimento iconoclasta fu altrettanto crudele e implacabile che la prima. La politica di Leone V fu seguita dai suoi successori Michele II e Teofilo. Alla morte di questi si verificò la stessa situazione che si era verificata alla morte di Leone IV.

La vedova di Teofilo, Teodora, era, come lo era stata Irene, fautrice del culto delle immagini e la morte prematura del marito la poneva ora alla direzione dello Stato, in nome del minorenne figlio Michele, come Irene aveva padroneggiato lo Stato in nome del figlio Costantino.

Ma il còmpito di Teodora fu questa volta molto piú facile. Ormai la situazione generale dell'Impero cosí in Oriente come in Occidente era profondamente cambiata e una politica di temperanza si imponeva.

Un nuovo sinodo convocato nell'839 confermava i canoni del sinodo niceno del 787 e restaurava definitivamente il culto delle immagini. Quando il sinodo ebbe terminato i suoi lavori, una pompa solenne si svolse nella chiesa di Santa Sofia, la prima domenica di quaresima, l'11 marzo. Ancora oggi la Chiesa greco-ortodossa celebra il ricordo di questa fastosa cerimonia nella cosiddetta festa annuale della ortodossia. Contemporaneamente i tre patriarchi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme proclamavano nel Vicino Oriente la restaurazione del culto liturgico alle icone.

Frattanto il movimento aveva sortito conseguenze di una portata incalcolabile in tutti i domini della spiritualità e della politica nel Vicino Oriente e nel mondo mediterraneo.

Nel dominio dell'arte le conseguenze dell'iconoclastia furono singolari. Se numerosi e magnifici monumenti, mosaici, affreschi, statue, miniature, andarono perduti, una nuova arte decorativa fu creata. Si tornò alle vecchie tradizioni alessandrine, con una spiccata tendenza all'osservazione della natura e al realismo. Se le rappresentazioni scultoree dei santi scomparvero dalle consuetudini delle chiese orientali, nuove scene apparvero nell'arte parietale: scene di caccia, scene dell'ippodromo, scene di genere con animali, uccelli, alberi. Nelle arti minori tutto un nuovo tipo di monete e di sigilli compare sotto le insegne delle idee iconoclastiche.

Ma le conseguenze piú gravi si realizzarono sul terreno politico. Il distacco dell'Italia e del Papato dall'Impero fu completo e una folla di monaci orientali si trapiantò sulla penisola.

Roma, affrancata piú che mai dai legami bizantini, poteva iniziare liberamente e speditamente, sulla falsariga dei dettati cristiani, la sua grande opera di costituzione politica occidentale, nei rapporti tra vita politica e vita religiosa, in tutte le loro ramificazioni e in tutte le loro espressioni.

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