VII LA CULTURA TEOLOGICA

Non ci sono età le cui correnti culturali non ne rispecchino in qualche modo le aspirazioni profonde e le tendenze meno appariscenti.

Non sempre i grandi avvenimenti politici e le solenni rivoluzioni sociali trovano immediatamente il loro riflesso espressivo in sistemi di pensiero e in indirizzi culturali. A volte lo specchio ideale di una determinata configurazione politico-sociale tarda a profilarsi all'orizzonte.

Ma immancabilmente ai grandi avvenimenti storici seguono, a piú o meno breve scadenza, sistemazioni culturali, che ritraggono, in qualche modo, le fattezze del periodo storico da cui dipendono.

L'espressione specifica della società carolingica sul terreno della riflessione filosofica e religiosa ce la dà un pensatore irlandese che, capitato alla corte di Carlo il Calvo, vi assume immediatamente un rilievo preminente, si da individuare con la sua produzione speculativa tutta l'età cui egli appartiene.

È Giovanni Scoto Eriugena, piú che Incmaro o Rabano Mauro, che personifica la rivoluzione politica e sociale rappresentata dalla costituzione dell'Impero occidentale.

Questo Impero aveva rappresentato una sistemazione superba dei principi sociologici che il messaggio cristiano recava nel proprio grembo e che avevano impiegato secoli per trovare le vie di una organizzazione politico-religiosa conveniente.

Separazione dei poteri; unità globale della società rinnovata nel nome di Cristo; sostituzione, al concetto quiritario romano della proprietà e dello Stato, di una concezione nuova, a norma della quale la proprietà è essenzialmente una funzione sociale e collettiva, e lo Stato è un agganciamento di nuclei autarchici, sotto il concetto unitario di una dignità imperiale sottoposta alla investitura e alla garanzia dei valori spirituali; queste le idee basilari su cui si era venuta innalzando la costruzione imperiale carolingica.

La filosofia di Scoto Eriugena rappresenta la sintesi provvisoria del sapere umano alla luce e a norma di questa armonica e gerarchica configurazione della vita associata.

La credenza in Dio è il presupposto di questa filosofia. La società cristiana è ancora in quello stadio di sviluppo nel quale la credenza in Dio è un presupposto che non ha bisogno di dimostrazione e di prova.

Scoto Eriugena non è mai preoccupato – e nessuno scrittore cristiano prima di lui – di dimostrare la realtà di Dio. Questa s'impone come un fatto garantito dalla Scrittura e dalla Chiesa. Essa rappresenta il principio e non già l'oggetto delle riflessioni teologiche. Tutto quel che Giovanni Scoto, al séguito dei «teologi ispirati da Dio», si permette in argomento, è di spiare amorosamente, nella creatura, la traccia palpabile della sua origine: in altri termini, di illustrare il divino mediante analogie create.

Ecco un dato di fatto di cui bisogna tenere il massimo conto nella esplorazione e nella segnalazione dei momenti di sviluppo della speculazione cristiana. La quale parte da due capisaldi ugualmente inconcussi e al di fuori di ogni possibilità di dubbio e di discussione.

Questi due capisaldi sono: la realtà del mondo esterno, oggetto della nostra conoscenza, la quale è, per definizione e per natura, portata a farsene un'idea veritiera e fedele; e l'esistenza di Dio, presupposto inviolabile di ogni nostra capacità conoscitiva e morale.

La stessa vastità delle conoscenze di Scoto Eriugena dimostra come nel prendere per punto di partenza questi due momenti capitali della spiritualità cristiana, Giovanni Scoto rispecchi nella maniera piú aderente e piú concreta la tradizione cristiana del primo millennio.

Il suo De divisione naturae rappresenta nel medesimo tempo una ricapitolazione felice del travaglio concettuale cristiano dell'antichità e dell'alto Medioevo, e il punto di partenza dell'ulteriore riflessione teologica.

Non importa che Scoto Eriugena appaia nella sua età come un isolato e un solitario. Sono spesso le figure che si ergono maestose al disopra della mentalità e delle possibilità speculative dei loro contemporanei quelle che esprimono piú adeguatamente il punto di arrivo di una tradizione e di una istituzione.

La poderosa opera di Scoto, dettata in un latino elegante e forbito, sola sintesi teologica e filosofica dell'alto Medioevo, sarà un giorno, nel 1225, condannata al fuoco da Onorio III, sotto l'imputazione di avere offerto esca al panteismo di Amalrico di Bena.

Ma lo stesso fatto che siano dovuti passare piú di tre secoli perché la sede romana abbia scoperto nell'opera del filosofo di Carlo il Calvo sentore di panteismo, mostra a chiarissime note che fra 1'880 e il 1225 la società e la cultura cristiane avevano percorso un lungo tratto di strada, smarrendo precisamente quel senso della onnipresenza divina, che caratterizza l'apologia eriugeniana e di cui, agli albori del secolo XIII, si era perduta la capacità, dopo che Dio era diventato un problema da risolvere ed una realtà da dimostrare.

Professa Scoto Eriugena a principio della sua speculazione religiosa: «Che i falsi ragionamenti dell'opinione umana, cosí remoti dalla verità, mi abbiano altra volta indotto in errore, io non posso negarlo. Fu cosí: io sono andato vagando quando ero ancora senza istruzione, sedotto da fallaci apparenze di verità.

«Ma oggi, messomi alla sequela dei santi padri, e guidato sul retto cammino dal raggio della luce divina, io abbandono ogni falsa pista. Perché la bontà di Dio non permette che coloro, i quali vanno piamente e umilmente alla ricerca della verità, si smarriscano nelle tenebre dell'ignoranza, e cadano, per perirvi, nel tranello delle false opinioni.

«Non c'è morte peggiore di quella che è rappresentata dal disconoscimento della verità. Noi dobbiamo pregare senza posa e dire: – Dio, nostra salvezza e nostra redenzione, tu ci hai dato la natura, accòrdaci anche la grazia. Guida con la tua luce coloro che procedono a tentoni nella notte dell'ignoranza, per trovarti. Traici dai nostri errori. Tendi la tua destra agli infermi, che senza di te non possono venire a te. Mostrati a coloro, che nulla domandano fuori di te. Dissipa le nubi delle vane immaginazioni, che impediscono allo spirito di vedere te, l'invisibile. Degnati di mostrarti a coloro che desiderano di contemplare il tuo volto, vale a dire che cercano il loro proprio riposo e la loro finalità, al di fuori della quale nulla v'è di desiderabile, perché nulla v'è al disopra del bene supremo che è il bene superessenziale».

Non si potrebbe immaginare formulazione piú precisa dello stato d'animo di un cristiano colto del secolo IX di fronte al problema del mondo, della vita, del fine ultimo.

La natura è là dinanzi ai nostri sguardi. È la realtà commisurata alla nostra capacità conoscitiva. Ma non esaurisce le possibilità della vita universa. Il mondo della grazia è il complemento del mondo della natura, ma il collegamento fra i due mondi è dono esclusivo ed immediato di Dio. Bisogna invocarlo. E poiché non c'è conoscenza del mondo che non postuli conoscenza dell'ultra-mondo, anche per la conoscenza del mondo occorrerà chiedere sempre e ottenere l'aiuto corroborante di Dio.

Gli sbarramenti fittizi fra filosofia e teologia non hanno senso per l'anima religiosa del nono secolo cristiano. Per lo stesso fatto di appartenere alla società cristiana, il credente ha già in sé la iniziazione alle realtà del mondo soprannaturale, e non ha bisogno, per attingerla, di una peculiare ulteriore iniziazione.

Si consideri ad esempio il modo stesso con cui Scoto Eriugena ripartisce l'orizzonte delle realtà esistenti.

Ne troviamo la formulazione al principio stesso dell'opera di Scoto, De divisione naturae: «Avendo molto spesso riflettuto ed essendomi applicato con la piú diligente cura, nella misura delle mie forze, a delineare la prima e suprema divisione dell'insieme delle cose percettibili dallo spirito o superiori ad esso, cosí quelle che sono come quelle che non sono, mi è apparso che il nome generico che a tutte loro meglio conviene è il nome greco di phisis e il nome latino dinatura. La natura mi appare come comprendente quattro differenze, vale a dire quattro specie: la prima è la natura che crea e che non è creata; la seconda è quella che è creata e crea; la terza è quella che è creata e non crea; la quarta è quella che non crea e non è creata. La prima deve intendersi della causa di tutte le cose; la seconda deve intendersi delle cause primordiali; la terza deve intendersi di tutto ciò che appare come prodotto nello spazio e nel tempo; la quarta è la causa finale, in cui ritorneranno le creature».

C'è qui un tentativo gigantesco di abbracciare la totalità dell'universo esistente, Dio compreso, come facente parte di una sconfinata ed organica circolazione di Essere, che parte da sé ed in sé ritorna.

Sotto le forme ingegnose di Scoto, si nasconde in sostanza il duplice schema della concezione totalitaria neo-platonica, la processio dalla causa alle cause e agli effetti e la reversio dagli effetti, attraverso le cause, alla causa.

Il profondo realismo che caratterizza il pensiero eriugeniano, in quanto questo pensiero è tutto tuffato nella tradizione della speculazione mistica cristiana, appare ben chiaro dalle enunciazioni del teologo carolingico sui rapporti fra la dialettica che noi applichiamo alle cose e le cose stesse: «L'arte», egli scrive, «che divide i generi in specie e riduce le specie in generi e che viene chiamata comunemente dialettica, non è già il frutto degli sforzi soggettivi dell'uomo. Ché l'autore di tutte le arti vere, Dio, l'ha creata egli stesso e l'ha posta nella natura delle cose, dove i sapienti vanno a scoprirla per utilità della sana ricerca».

Parlando in particolare delle categorie dialettiche dell'agire e del patire (nel significato metafisica del vocabolo) e delle loro molteplici applicazioni, Scoto scrive: «I generi e le specie dell'essere si rivelano operanti quando si moltiplicano e si rifrangono nelle specie e negli individui. D'altro canto, se si pensa a chi, mercè la ragione, riconduce gli individui all'unità della specie, e le specie all'unità dei generi, e i generi all'unità dell'essere, si dirà che specie e generi sono passivi. Non già naturalmente perché chi opera simi1e passaggio dialettico produca lui stesso l'unità, poiché è bene nella realtà della natura che queste cose sono unite e distinte, ma perché, mercè l'atto razionale, egli si dà l'aria di fonderle insieme e di riunirle».

Il problema tipico degli universali, che poco piú di due secoli piú tardi solleciterà cosí vivamente il pensiero delle scuole teologiche, non è ancora avvertito nella sua formulazione logica e metafisica, ma è sentito nella sua concretezza, come un problema di conformazione spontanea dell'umano pensiero alla trascrizione della mano di Dio nel creare.

Ecco perché, per Scoto Eriugena, la teologia è attingimento della realtà suprema nella sua intima essenza e nel suo esprimersi concreto. Il suo itinerario è chiaramente delineato: Dio; la formazione delle idee creatrici nel Verbo; la formazione sensibile dell'universo, ricapitolato nell'uomo, attraverso il tempo e lo spazio.

Questa la linea discendente. La linea ascendente segue inversamente il cammino della divinizzazione dell'uomo: la trasformazione in questo, per virtú della redenzione del Cristo, del sensibile in spirituale e dello spirituale in contemplazione deifica.

Il piano pertanto del pensiero umano nella sua massima esplicazione è chiaro e perentorio. Eriugena ne fissa il metodo. Partendo dal desiderio appassionato di conoscere il vero, che non è altra cosa se non il senso profondo delle Scritture, tale metodo mira a raccogliere e a raggruppare in una sintesi fedele le teofanie sparse nell'universo, il cui insieme organico costituisce la teologia.

L'insegnamento tradizionale dei Padri rappresenta il tracciato su cui non può non muoversi la dialettica dello spirito ricercante.

Questo senso profondo della inscindibilità di ogni apprendimento religioso e di ogni funzionamento dialettico, questa consapevolezza costante che nella vita dello spirito non vi sono compartimenti isolati, ma tutto è fluido e intercomunicante in virtú della nostra vivente aderenza al fascio delle realtà uscite dall'azione creatrice e gratifica del Padre, fa si, per uno strano paradosso, che nell'atto stesso di esplorare fino nell'intimo l'azione di Dio, Scoto Eriugena riconosca l'ineffabile misteriosità e l'inviolabile clausura di Dio.

«La ragione», scrive egli in tutte lettere, «ha per còmpito di far comprendere e di mostrare che, a norma di una regola generale inderogabile, nulla si può dire di Dio con proprietà, poiché Egli sorpassa ogni intelletto ed ogni espressione sensibile o intelligibile. Se tutto ciò che esiste, dal piú elevato al piú basso, può in qualche modo e con qualche ragione dirsi di Lui, ciò è soltanto mercè una certa rassomiglianza o una certa dissimiglianza o una certa contrarietà ed opposizione, dal momento che tutto viene da Lui. Ma che si tratti degli optima nella natura o di qualsiasi altra qualità creata, si ritenga bene che nulla conviene a Dio propriamente. Siano pure le cose piú nobili e piú alte, la vita, la virtù, ciascuna delle virtú; siano le cose dell'ordine medio: il sole, la luce, le stelle e tutto quello che appartiene alle parti piú sublimi di questo mondo visibile; siano le cose dell'ordine inferiore: il vento, le nubi, le albe, i tramonti, il tuono, la rugiada, la tempesta, la pioggia, e cosí di séguito: nulla può offrire termine di comparazione adeguato alla conoscenza di Dio».

La vera speculazione cristiana ha sempre, cosí, avvertito la insondabile ed inarrivabile oscurità del mistero divino, nell'atto stesso in cui avvertiva di essere piú direttamente partecipe e piú intimamente mescolata, in virtú della rivelazione e della grazia, a questo mistero. Il famoso criterio della doppia teologia, caro alla mistica orientale, si ritrova in Scoto Eriugena come in fondo ad ogni rappresentante della teologia ortodossa nell'età aurea della speculazione e della contemplazione cristiane.

Nella sua traduzione di Dionigi l'Areopagita lo stesso Giovanni Scoto celebra la duplice forma della riflessione teologale: «La teologia mistica si divide in due branche: la teologia affermativa e la teologia negativa. La teologia dell'esse e la teologia del non esse. Per giungere alla Verità, causa di tutto quello che è stato creato da essa e mediante essa, in essa e per essa, noi dobbiamo negare tutto quel che si può dire e tutto quello che si può conoscere a ragione stessa della supereccellenza della realtà essenziale di Dio».

Ma Scoto Eriugena addita la possibilità di riconciliare le due apparentemente antitetiche posizioni: «L'una e l'altra, pur comparendo come irriducibilmente opposte a vicenda, si accordano perfettamente. L'una negando, l'altra affermando, entrambe affermano e negano. L'affermativa non afferma quel che nega la negativa e la negativa non nega quel che afferma l'affermativa. In fondo queste due parti generali della teologia possono applicarsi non solamente a Dio, ma ad ogni cosa creata, come mostrano eloquenti esempi. Mediante le due forme di teologia gli ordini delle essenze celesti e si riconoscono e si individuano e vicendevolmente si ordinano».

Non è il solo punto nel quale la sintesi eriugeniana, nel momento stesso in cui si viene consumando la separazione fra la Chiesa occidentale e la Chiesa orientale, concepisce ed attua una superba sintesi delle tradizioni teologali della Chiesa d'Oriente con quelle della Chiesa d'Occidente.

Prendendo lo spunto da una parola di Sant'Agostino sulla incapacità radicale delle categorie di offrirci elementi per la conoscenza di Dio, Scoto sottopone a critica le dieci categorie aristoteliche, di cui pur dice che «racchiudono per virtú della penetrantissima analisi del filosofo greco l'innumerevole varietà delle cose esistenti al di fuori di Dio e da Dio create».

Secondo Scoto tutti questi generi supremi dell'attribuzione debbono negarsi risolutamente quando si tratta di Dio. Come applicarli a Colui che non è né genere, né specie, né accidente?

Ma nulla di piú inesatto che scorgere in questa posizione eriugeniana dell' agnosticismo. Il credente del secolo nono non può in nessuna maniera tradir sentori agnostici.

Basta a convincersene segnalare i passi nei quali Scoto addita le fonti che ci conducono alla verità: la Scrittura e la creazione visibile, secondo le immaginifiche comparazioni del teologo celta, rappresentano la duplice veste del Cristo, vale a dire il duplice rivestimento della verità totale: la duplice impronta dei piedi del Salvatore.

Ecco in proposito un passo saliente del De divisione naturae: «Io non oso dire che il mondo reale oltrepassi la capacità intellettuale della natura ragionevole. Non è esso stato fatto per lei? E l'autorità divina non solamente non ci vieta, bensí al contrario ci consiglia di scrutare le ragioni delle cose visibili e delle cose invisibili. A norma della sentenza dell'Apostolo, quel che vi è di invisibile presso Dio, la creatura terrestre lo conosce attraverso quel che è stato fatto. Non è dunque un grado trascurabile, è al contrario un grado alto e prezioso quello che la conoscenza delle cose sensibili offre per la intelligenza delle intelligibili. Poiché, come attraverso il senso si giunge all'intelletto, cosí attraverso la creatura si ritorna a Dio. Noi infatti non ci dobbiamo limitare, al modo degli animali irragionevoli, a riguardare la superficie delle cose visibili. Noi dobbiamo piuttosto cercare di comprendere quel che il nostro senso corporeo percepisce. L'aquila vede con piú acutezza di noi la forma del sole. L'uomo sapiente indaga con maggiore perspicacia la sua collocazione e i suoi movimenti nello spazio e nel tempo. Se l'uomo non avesse peccato e non si fosse reso, cadendo, simile alle bestie, avrebbe dunque ignorato il dominio della sua proprietà, vale a dire di questo mondo che egli era chiamato a governare con giustizia secondo le leggi della natura? Era necessario un altro angelo per lodare Dio nelle creature sensibili e l'uomo non ha affatto perduto, pur dopo il peccato, tutta la dignità del proprio essere. Egli ha conservato la curiosità razionale che cerca di conoscere le cose e non vuole essere ingannata, anche se a volte, non sempre, s'inganna. E se al momento della trasfigurazione del Cristo i suoi due indumenti sono apparsi bianchi e candidi come la neve, vale a dire la lettera delle divine parole e la forma delle visibili cose, perché mai noi dovremmo sentirci costretti a toccare con amore uno solo di questi indumenti per meritare di trovare Colui che lo porta, vietandoci di considerare l'altro, vale a dire la creatura visibile? Io non vedo proprio perché si dovrebbe pensare ciò. Abramo infatti ad esempio ha conosciuto Dio non già attraverso la lettera scritturaleche non esisteva ancora, bensi di su il movimento degli astri. O che forse egli riguardava soltanto, alla maniera degli animali, le nude forme esteriori di quegli astri, senza poterne comprendere le ragioni? Io non oserei davvero asserire simile cosa di un cosí grande e sapiente teologo. Ora, se qualcuno ci fa addebito di adoperare ragionamenti filosofici, che costui sappia bene come, fuggendo l'Egitto, il popolo di Dio, stimolato da un consiglio soprannaturale, ha portato con sé il suo bottino e se n'è servito senza meritare rimbrotti. Possiamo dire di piú. Quelli stessi che si sono consacrati e dedicati alla sapienza mondana non sono stati accusati di aver sbagliato circa le ragioni della creatura sensibile, bensí sono stati accusati di non avere con sufficiente destrezza cercato al di là della creazione il suo autore, mentre avrebbero precisamente dovuto trovare il Creatore desumendolo dalla creatura, come sappiamo che riusci di fare al solo Platone».

Come si vede, sarebbe difficile immaginare una posizione di spirito piú densamente sincretistica di questa. La vecchia comparazione geronimiana delle spoglie portate via dall'Egitto dai partenti ebrei per comando divino, torna spontaneamente alla fantasia dello scrittore.

Nella pienezza della sua visione mistico-teologale, il pensatore cristiano del nono secolo non disdegna la considerazione del mondo nei suoi procedimenti strettamente religiosi.

Non siamo ancora al momento in cui la teologia normativa della Chiesa chiederà al mondo empirico la prova apodittica di Dio. Quel che è apodittico in Scoto è la fede preliminare in Dio.

Ma nel ragionare di Dio preconcepito e preaffermato, la natura sensibile offrirà elementi e riprove altrettanto sicure che quelle sicurissime della Scrittura.

Ma di nuovo la mancanza assoluta di qualsiasi interstizio fra conoscenza razionale e conoscenza soprannaturale, fra vita di ragione e vita di grazia, appare nella maniera stessa con cui Scoto solennemente riafferma la necessità della luce divina per l'apprendimento degli insegnamenti biblici.

Fedele e aderente alla tradizione agostiniana Scoto, come tutto il mondo religioso del suo tempo, sa che qualsiasi sforzo di pensiero, qualunque gesto attivo tradotti in trascrizione letteraria, imponevano una elevazione a Dio.

Il pensiero per i teologi di questa età è preghiera, e l'atto pratico è qualcosa di sacramentale.

«È col sudore della sua fronte», scrive Scoto, «che la ragione dell'uomo deve mangiare il suo pane che è la parola di Dio, e coltivare la terra delle sante Scritture coperta di spine e di triboli, folta cioè della sottile complessità dei pensieri divini. Essa deve, nonostante l'assenza di vie tracciate, perseguire la sapienza attraverso il cammino assiduo della speculazione finché scopra la dimora del Signore, il tabernacolo dell'Iddio di Giacobbe: vale a dire fino al momento in cui, in virtú dello studio assiduo e laborioso delle divine Lettere, sotto la guida della grazia divina, con il suo aiuto, la sua cooperazione, il suo impulso, pervenga alla contemplazione della verità smarrita con la caduta del primo uomo».

Conformemente allo schema platonico delle scienze, leggermente modificato, Scoto distingue tre ordini o sfere che suddividono, al di là del significato letterale, l'universo spirituale delle Scritture. Vale la pena di citare alcuni suoi postulati in proposito.

Li prendiamo dalla sua omelia sul prologo del Quarto Vangelo: «La Scrittura è come un mondo intelligibile alla composizione del quale contribuiscono quattro parti, quasi altrettanti elementi. La terra, che si trova al centro, è la storia intorno a cui, come le acque, è effuso il mare del senso morale. Al di là della storia e dell'etica, che rappresentano per dir cosí le parti inferiori di questo mondo, si stende l'aria della scienza naturale. Al di là e al disopra di tutto ciò si trova il fuoco sottile e ardente del cielo empireo, vale a dire della contemplazione suprema della divina natura. Oltre questa nessun intelletto potrebbe salire».

Questi successivi ordini, che dividono i molteplici significati scritturati come in fondo ripartiscono l'insieme delle umane conoscenze, costituiscono il dominio della teoria, della contemplazione, della speculazione, della considerazione razionale.

Ma le ascensioni speculative di Giovanni Scoto attraverso i dati biblici non è da credere che siano suggerite e guidate da un criterio precario e variabile.

C'è una dialettica, nelle sue esplorazioni bibliche, che è parallela a quella ch'egli chiama «la guida di Dio».

Nulla di piú mirabile e di piú sorprendente che questo accoppiamento della grazia e della ragione in una consapevolezza di valori trascendenti che non riesce a fare una dicotomia netta fra il puro processo razionale e la illuminazione carismatica.

C'è una particolarità idiomatica, sottile ed esigua in se stessa, ma piena di significato e larga di portata, che traduce felicemente questa duplicità delle speculazioni religiose di Giovanni Scoto.

«Occorre osservare», egli dice, «che tutti i termini in composizione con la particella super esprimono mirabilmente i due volti della doppia teologia affermativa e che fa valere i suoi diritti. Nel procedimento intellettivo è la forma negativa che predomina. Dio è essenza: ecco l'enunciazione. Dio non è essenza: ecco la negazione. Dio è superessenziale: ecco la fusione delle due. Nel modo di esprimersi manca la negazione. Nel procedimento intellettivo è la negazione che signoreggia. Poiché colui che dice: Dio è superessenziale, non dice affatto quel che Dio è, ma dice quel che Dio non è. Dice cioè che Dio non è essenza, ma è piú che essenza».

Il principio cardinale dell'analogia dell'essere ha qui in Scoto Eriugena un'apparizione eloquente.

La nostra conoscenza del divino è una conoscenza traslata: non per questo illusoria. Non può essere espressa che mercè termini rafforzati da un prefisso superlativo. E questa conoscenza non può essere concreta e reale se non è accompagnata da una umile balbettante preghiera.

Scoto la formula al termine della sua opera: «Gli intelletti umani ti cercano ininterrottamente e sempre simultaneamente ti trovano e non ti trovano. Ti trovano nelle teofanie in cui tu appari in forme molteplici e come attraverso molteplici specchi, nella misura in cui tu permetti che ti si conosca. Non precisamente in quel che tu sei, ma in quel che tu non sei e perché sei. Non possono trovarti nella tua superessenzialità, in virtú della quale tu oltrepassi e sorpassi qualsiasi intelletto si muova e si innalzi per conoscerti. Tu ammannisci loro in una maniera ineffabile la presenza della tua apparizione. Ma tu passi lungi da loro nella eccellenza incomprensibile e nella infinità della tua essenza».

Si comprende come, muovendosi in una cosí complessa atmosfera di atteggiamenti esteriormente contraddittori di speculazione razionale da una parte, di attingimento mistico dall'altra, Scoto Eriugena, come tutta la produzione teologica anteriore a lui, si affisi sul mistero trinitario come terreno eccellentemente tipico della riflessione cristiana.

Era stato la prima volta vagamente elaborato dai teologi del terzo secolo come trascrizione teologale di una filosofia della storia, a cui dava alimento la certezza apocalittica del veniente Regno di Dio. Aveva subìto nel quarto e nel quinto secolo il tormento di diuturne polemiche di scuole e di partiti cercanti di fare di questo mistero trinitario il caposaldo di una visione totalitariamente soprannaturale della Chiesa e dei suoi valori.

Nella teologia di Sant'Agostino il dogma trinitario, uscendo dalla sfera della sua prammatistica efficienza di interpretazione misterica della storia, si era assimilato tutto un vasto corredo di idee proprie della speculazione ellenica. Questo corredo aveva il suo fulcro e il suo centro nel concetto di relazione personale.

Un concetto di tal genere era stato completamente assente dalle speculazioni religiose dei primi teologi ecclesiastici che si erano ex-professo occupati del dogma trinitario.

Tertulliano aveva affermato che il Padre e il Figlio per esistere debbono necessariamente coesistere. Dio non è mai esistito senza Verbo. Ma d'altro canto il Padre e il Figlio sono l'uno di fronte all'altro «altri». Le parole che le persone divine si rivolgono vicendevolmente nelle testimonianze scritturali segnano chiaramente e indiscutibilmente la loro reciproca distinzione. Ma se le tre persone divine non costituiscono un unus, costituiscono però un unum. E secondo le testuali parole dello scrittore africano le tre persone sono unius substantiae et unius status et unius potestatis.

Si può scorgere qui implicita e potenziale l'idea di relazione personale. Ma la sua formulazione manca.

Non la si trova neppure in Novaziano. Si direbbe che l'uno e l'altro ne vanno in cerca, ma non riescono mai a toccare la soluzione soddisfacente.

E la ragione ne è chiara. È troppo viva negli scrittori del terzo secolo la preoccupazione prammatistica e storico-sociologica delle formule trinitarie, perché ad essi interessi di arrivare fino in fondo nella trascrizione teologale e concettuale possibile del medesimo dogma.

Una simile preoccupazione non poteva essere che retaggio di una piú tarda speculazione, impoveritasi sempre piú di contenuto apocalittico e di aspettative escatologiche.

Anche qui, le formulazioni teologiche non guadagnano di proprietà, si direbbe, geometrica, che nella misura in cui si allontanano dal fervore apocalittico della prima età cristiana.

Le formulazioni dogmatiche hanno rappresentato sempre nel decorso della vita cristiana qualcosa di analogo al processo in virtú del quale le formazioni stalattitiche sostituiscono la fissità dei depositi calcarei al flusso primitivo delle infiltrazioni acquee.

Se ancora alla metà del terzo secolo, nel pieno delle discussioni ecclesiastiche intorno al problema trinitario, i primi formulatori come Tertulliano e Ippolito Romano soggiacevano alle preoccupazioni storico-escatologiche che trovavano nel dogma stesso il piú diretto loro riflesso, nel quarto secolo, all'indomani delle definizioni di Nicea contro la dottrina subordinazionistica di Ario, Sant'Ilario di Poitiers, trasportando in Occidente la già avanzata elaborazione teologale della ortodossia orientale, in una temperie religiosa tanto ormai profondamente difforme dalla escatologia dei cristiani del terzo secolo, apriva il varco alle nozioni che dovevano avere poi tanto valore e tanta efficienza nella teologia agostiniana.

A proposito del testo evangelico: «Io sono nel Padre e il Padre è in me», Ilario, nel suo grande trattato consacrato alla Trinità, riassume la posizione ortodossa collocandola in mezzo alle due contrapposte eresie: quella che sbocca esplicitamente o no nell'affermazione di due dèi e quella che si cristallizza nel riconoscimento di un Dio solitario: «Gli eretici sono condannati in un modo o nell'altro a cancellare», dice Ilario, «la professione del Figlio a norma della parola evangelica: – Io sono nel Padre e il Padre è in me – per finire con l'ammettere o due dèi o un Dio senza rifrazioni. Ma non si accorgono che non sono significazioni di nature quelle contenute nella proprietà di una sola natura. Non sono due dèi che la verità di Dio trae da Dio, né la verità di Dio tollera un Dio solitario. Né sono una cosa sola quei che sono l'uno in rapporto all'altro. Si è in rapporto a un altro Dio, proprio perché uno solo è da uno solo. Infatti l'uno non diede all'altro attraverso la generazione se non quel che era suo, né l'uno riceve dall'altro attraverso la genesi se non quello che è dell'uno».

La frase nella sua capillare finezza è solenne e perentoria. Il Padre dunque ed il Figlio sono una sola e stessa natura, semplicemente per il fatto che sono in rapporto reciproco indissolubile. E lo sono perché l'uno procede dall'altro, perché in altri termini quegli che è generato non ha altra cosa che quel che è Colui che genera. L'unità di natura pertanto non è affatto intaccata dall'opposizione delle relazioni, e questa è costituita sulla scambievole processione.

Anche se il termine di relazione va inteso qui, nel passo ilariano, in una significazione generale anziché in una significazione tecnica e anche se noi lo dobbiamo ricavare dall'avverbio vago ed impreciso che Ilario adopera, invicem, sta di fatto che le formule concise e felici adoperate dal grande teologo di Poitiers, il perseguitato di Costanzo, racchiudono di già gli elementi essenziali che saranno ampiamente sviluppati nel grande trattato agostiniano consacrato alla Trinità. E precisamente il concetto di relazione, destinato a garantire l'unità della natura, è suggerito dalla fede nella generazione del Verbo.

Attraverso Ilario elementi di teologia greca entravano nella riflessione ecclesiastica occidentale.

Non è da credere però che Sant'Agostino entrasse a contatto col pensiero della patristica orientale solamente attraverso la trasmigrazione dei motivi registrati da Ilario.

Numerose traduzioni di scritti greci, anche se la conoscenza diretta della lingua non consentiva sempre a Sant'Agostino l'attingimento immediato della produzione ecclesiastica orientale, permettono al vescovo d'Ippona di consultare cosí Gregorio di Nazianzo, come Didimo.

La traduzione delle Enneadi d'altro canto, la traduzione compiuta da Mario Vittorino, si sa quanto abbia contribuito a familiarizzare Sant'Agostino nelle ore decisive della sua maturazione spirituale col pensiero neoplatonico.

Nel diuturno travaglio del pensiero ecclesiastico orientale intorno alla formulazione del dogma trinitario, a mano a mano che si venivano affievolendo le correnti millenaristiche di cui Metodio di Olimpo era stato l'ultimo corifeo e l'ultimo rappresentante, si possono distinguere due correnti parallele.

Secondo una di queste, l'idea di relazione va considerata come il vincolo di due persone divine, di cui l'una procede dall'altra per via di generazione o di processione tornando al proprio principio.

Ecco un primo modo di spiegare la comunanza di natura e in pari tempo la coesistenza delle ipostasi distinte.

C'è qui come una specie di dinamismo immanente che riflette e trascende il pensiero neo-platonico e stoico.

Stando alla seconda corrente la relazione è nettamente contrapposta alla sostanza. I termini che esprimono le relazioni non hanno nulla che tocchi la sostanza. Se tali relazioni sono multiple, distinte, correlative e ordinate l'una all'altra, né la molteplicità, né la distinzione, né l'ordine scambievole raggiungono necessariamente le realtà sostanziali.

C'è qui una dialettica concettualistica che ricorda la concezione aristotelica delle categorie.

Sant'Agostino ha il sentore dell'una e dell'altra corrente. Se nelle prime opere del convertito piú pervase da neo-platonismo si ritrovano formule che Agostino ha attinto da Platino, piú tardi l'influenza aristotelica sopraffà quella neoplatonica.

In San Basilio due tratti avevano caratterizzato la generazione divina: la schesis, «relazione, rapporto», e la oicheiosis, «familiare consanguineità». Mercè questi due concetti il grande vescovo di Cesarea aveva raffigurato in qualche modo la comunità di natura che esiste tra Padre e Figlio, in virtú della generazione.

È in questo rapporto originario, sola causa di differenziamento tra il Padre e il Figlio, che la loro identità anziché essere distrutta è confermata e spiegata.

Ma Basilio non vuol dire che, presupposte la unità e la entità dell'essenza divina, la generazione immanente non tragga con sé che una distinzione di relazioni. Egli comincia dal rapporto generativo per procedere attraverso la relazione ad una comunanza di natura. Piú tardi la riflessione teologica di San Tommaso d'Aquino partirà dalla semplicità divina per concludere a termini di processione puramente relativi.

Sant'Agostino è già in questa orientazione teologale.

Comunque, Sant'Agostino batte il sentiero della patristica greca. Si era trattato di trovare una via d'uscita fra il dilemma rappresentato dalle due posizioni contrastanti del subordinazionismo di Ario e della immedesimazione di Sabellio. Il concetto di relazione aveva fornito la via d'uscita.

Naturalmente in questa maniera, né Sant'Agostino, né i padri greci prima di lui erano riusciti a dissipare le oscurità sconcertanti che avvolgono la dottrina delle tre persone reali in una essenza numericamente una. Non erano riusciti, si capisce, a trapassare le ombre del mistero propriamente detto.

Il principio però che permette di risolvere la principale difficoltà contenuta nella simultaneità dell'uno e del triplice, per quanto è consentito alla fralezza della speculazione razionale umana, era stato chiaramente posto dai padri greci, di cui Sant'Agostino si era costituito erede, insegnando che le persone divine si distinguono fra loro in virtú di relazioni originarie.

La speculazione di Giovanni Scoto Eriugena trovava la tradizione ecclesiastica a questo punto. Si trattava di riprendere il filone lasciato aperto dal pensiero agostiniano.

Ma, e qui è uno dei tratti piú eloquentemente significativi della speculazione eriugeniana, il problema trinitario non lo si vede piú, si potrebbe dire, in funzione strettamente teologica, ma lo si vede in funzione cosmogonica e dialettica.

I primi sentori dell'illuminismo razionalistico, che si riveleranno in pieno nella Scolastica, possono essere già qui avvertiti.

La natura che crea e non è creata, è, nella visione totalitaria di Scoto Eriugena, al vertice della processione delle cose. Non già nel senso che sia il primo frutto e l'immediato risultato di questa processione, bensí nel senso che si tratta di un principio supremo e trascendente di tutto quel che procede.

Lo Scoto è al riguardo di una chiarezza inequivocabile. Gli domanda il discepolo al principio del libro III: «Vorrei sapere per quale ragione tu hai assegnato a questa natura che sorpassa infinitamente, in virtú della sua eccellenza, l'universo delle nature, il posto di prima zona e porzione di questo stesso universo. A partire infatti dalle cause primordiali, l'universo comprende gli ordini naturali delle essenze intelligibili e celesti, visibili e terrestri, scendendo fino all'ultimo ordine di tutta la creazione, costituito e rappresentato dai corpi e dalla loro capacità di crescenza e di decrescenza. Dato ciò, io non vedo perché tu collochi la natura creatrice tra le divisioni dell'universo».

E il maestro risponde: «Non è affatto vero che io assegni alla natura creatrice un posto nell'universo creato. Ma io ho le mie buone ragioni per ritenere necessario di annoverarla tra le divisioni dell'universo. Col termine infatti di natura si suol designare non solamente l'universo creato, ma anche la sua causa creatrice. La prima divisione del bene universale è quella che distingue il Bene sostanziale, che è uno, supremo, immutabile, per sé, e dal quale ogni bene deriva, dal bene il quale non è tale che in virtú della sua partecipazione al Bene supremo. Capisci tu ora perché il Creatore dell'universo occupa il primo posto nelle stesse divisioni dell'universo? Vedi che non a torto io l'ho cosí collocato, perché il Creatore è il principio del tutto ed è inseparabile dall'universo che Egli ha creato e che non può sussistere senza di Lui».

Il passo è di una capitale importanza. Secoli di speculazione filosofica hanno già portato la fede cristiana del IX secolo a tradurre l'esperienza del Nuovo Testamento in termini di riflessione concettuale. Ma l'idea di Dio, che è onnipresente in tutti i processi della vita spirituale e della società cristiana medioevale, non si è ancora allontanata tanto dall'idea di Dio neo-testamentaria, che è l'idea di un Padre ininterrottamente generante, la cui assistenza e la cui azione generativa sono indispensabili ad ogni istante della nostra esistenza.

Ed ecco che nella visione filosofico-religiosa di Scoto Eriugena il problema di Dio va sí diventando un problema speculativo, ma Dio, la cui esistenza non ha bisogno di essere dimostrata, non è ancora tornato ad essere il motore immobile di Aristotele, lontano dal mondo una volta che l'abbia posto in essere.

Dio, causa creante, è decisamente posto da Eriugena nel novero automaticamente interdipendente delle realtà costituenti l'universo. Non è questo l'unico punto nel quale la presenza infallibile dell'atto di fede nella speculazione eriugeniana appare in maniera trasparente.

Siamo parecchio lontani ancora da quello stadio di sviluppo della esperienza e del pensiero cristiani nel mondo mediterraneo e nel continente europeo di cui sarà espressione e formula la ricerca di una trascrizione intellettuale e razionale del patrimonio tradizionale della fede scaturita dal Vangelo.

Qui, in Scoto Eriugena, non c'è neppure possibilità di distinzione tra ragione e fede. L'elaborazione teologica del pensatore irlandese implica palesemente un ininterrotto esercizio dialettico.

Ma questo esercizio dialettico riveste continuamente in pari tempo la forma dell'esegesi biblica e del commento scritturale. Ragione e rivelazione non sono due zone separate l'una dall'altra, fra le quali si cerchi di instaurare ponti di passaggio e mezzi di comunicazione. Fede e ragione, intelletto e Scrittura, sono espressioni simultanee e concordi del medesimo patrimonio spirituale di credenze e di speranze.

Lo vediamo molto bene nel modo stesso con cui Scoto pone la solidarietà inscindibile fra Dio e l'universo da una parte, fra la fede in Dio e la fede nel dogma trinitario dall'altra.

Giovanni dice esplicitamente che «nulla può esser detto o pensato a proposito di Dio da coloro che vivono piamente e ricercano con zelo la verità, se non ciò che si trova nella Sacra Scrittura. Solo di espressioni e di figure contenute nella Scrittura gli uomini debbono fare uso nelle formulazioni della loro fede, nelle loro enunciazioni toccanti la veneranda essenza di Dio. Poiché chi potrebbe aver mai la sfrontata audacia di affermar qualcosa della sua natura ineffabile, che rappresenti la sua personale invenzione e differisca da quel che la natura stessa di Dio ha formulato di sé attraverso i suoi veicoli di rivelazione, che sono gli speculatori teologici del messaggio biblico?».

Ed ecco subito che, toccato appena l'argomento di Dio, Scoto Eriugena enuncia la fede nell'unità essenziale di Dio e nella sua ripartizione in tre sostanze.

Erede ed interprete cosí di tutta la speculazione trinitaria precedente, sia dell'Oriente come dell'Occidente, Scoto Eriugena ama usare simultaneamente le ufficiali formule orientali e quelle occidentali.

Le sue preferenze ad ogni modo vanno alla formula greca. Nel suo linguaggio, il termine substantia designa piú comunemente la persona, mentre il termine essentia designa la natura.

In pari tempo la dottrina agostiniana dei vestigia divini nel mondo è largamente utilizzata e spiegata da Scoto Eriugena.

«Considerando l'essere delle cose», egli dice, «i teologi vi hanno scoperto che Dio è. Considerando, d'altro canto, la divisione delle cose in essenze, generi, specie, differenze, individui, i teologi ne han potuto concludere che Dio è sapiente. Infine, considerando il movimento universale, essi ne han potuto ricavare che Dio vive. In questa maniera essi hanno potuto rendersi conto che la causa di tutte le cose esiste in tre sostanze. E in realtà questa causa è, si mostra sapiente, vive. E allora nell'essenza hanno riconosciuto il Padre, nella sapienza il Figlio, nella vita lo Spirito Santo».

Come si vede, paradossali antinomie sembrano maculare la speculazione eriugeniana. La teologia positiva che si svolge in maniera cosí lussureggiante non sopraffà il timore venerabondo della teologia negativa? Scoto Eriugena si riprende immediatamente e pone limitazioni inviolabili all'ardimento della sua virtú speculativa.

«Tutto quel che si dice e si pensa a proposito della semplicissima Trinità, è traccia pallida e teofania riflessa del vero, ma non è la verità stessa, perché questa sorpassa qualsiasi teoria, sia della creatura ragionevole quanto della creatura intellettuale (angelica). Poiché questa unità e questa trinità non son realtà di cui una creatura qualsiasi possa farsi una immagine o un'idea, comunque queste siano luminose e propinque alla verità. Noi siamo tratti da tutto ciò in errore se noi ne facciamo il termine diretto ed immediato della nostra contemplazione.

La formula abituale di Scoto Eriugena è che noi dobbiamo limitarci al quia e mai pretendere di attingere il quid.

Tutto questo potrebbe apparire a noi contraddittorio per il fatto che i lunghi secoli della posteriore letteratura teologale· e cristiana hanno scavato un abisso fra vita di fede e vita di pensiero.

Ma se ci trasferiamo in quella solidarietà di natura e di sopranatura che caratterizza la Cristianità del secolo IX, assisasi sulla distinzione dei poteri e sulla subordinazione immanente della natura alla sopranatura, noi vediamo molto bene che le apparenti contraddizioni di Scoto Eriugena, gli ondeggiamenti superficiali delle sue posizioni in contrasto, non sono che la polarizzazione ambivalente della spiritualità collettiva che vive in un mirabile equilibrio instabile fra le percezioni dell'intelletto ragionante e le realtà carismatiche della pratica misterica vissuta.

Cosí profondo è in Scoto Eriugena il senso del mistero divino che quando egli, nel De praedestinatione, affronta il piú oscuro problema della scienza divina, si perde in una molteplicità di distinzioni che riecheggiano il De divisione naturae, facendoci constatare come, per proclamare l'ineffabilità assoluta di Dio, Giovanni Scoto non esiti a parlare perfino di una ignoranza di Dio anche di fronte a se stesso.

«Ce ne vorrà del tempo», egli dice, «prima che noi possiamo enumerare tutti gli esempi scritturali o naturali della divina ignoranza».

Scoto preferisce segnalare soltanto tre tipi principali di questa. Secondo il primo, Dio ignora il male. Secondo il secondo, Dio ignora tutto quel che non è contenuto nelle sue ragioni eterne, quel che è, cioè, impossibile. Secondo il terzo, Dio ignora tutto quello che non appare ancora nell'esperienza, ma le cui ragioni esistono però in Lui.

C'è un quarto tipo d'ignoranza di Dio, ed è quello a norma del quale «Dio è detto ignorare di essere nel novero delle cose che Egli ha fatto e che i filosofi si sforzano di raggruppare in dieci categorie». A norma di questo tipo di ignoranza divina, a cui Scoto Eriugena è particolarmente attaccato, «bisogna affermare senza restrizione che Dio non si riconosce affatto esistente: né fra le cose che i filosofi hanno raggruppate nei dieci generi, né fra quelle, sostanze o accidenti, che un esame attento della realtà fa scoprire, né fra quelle che non è possibile trovare in alcuna sostanza o in alcun accidente, sia nelle ragioni segrete, sia nelle possibili, sia nelle impossibili». Dio sa di non essere nel novero di alcuna di queste cose, perché sa che le sorpassa tutte con la sua ineffabile ed essenziale potenza, anzi piú che potenza, che le sorpassa tutte con la sua incomprensibile infinità. Ed eccoci di nuovo in piena teologia negativa, il massimo dell'essere e il minimo del conoscere.

In una formula paradossale Giovanni Scoto scrive che Dio stesso è creato. Naturalmente non vuol dire con ciò che Dio sia il prodotto di un altro essere, vuoi dire soltanto che in un certo senso Dio crea se stesso. Tocchiamo qui il punto piú oscuro e più delicato della speculazione eriugeniana. «Quando noi affermiamo», scrive il teologo di Carlo il Calvo, che Dio si crea, non bisogna intendere altro che la creazione stessa delle cose. Poiché la creazione di Dio, vale a dire la sua manifestazione, è la produzione degli esseri».

Non bisogna trarre scandalo da questa affermazione e pensare che ci si trovi in piena atmosfera panteistica. Dio, vuol dire Eriugena, crea se stesso nel senso che si manifesta e che la sua opera è una teofania. Lo scrittore chiama a soccorso una immagine non infelice: «Come l'intelligenza umana, quando riflette su una immagine ricevuta e si esprime quindi mediante segni sensibili, mediante parole o mediante gesti, può dirsi che divenga, cosí la divina essenza, che sorpassa ogni intelletto, è detta, a buon diritto, creata nelle cose che essa produce, affinché coloro che cercano di conoscere tale essenza divina possano ritrovarvela».

Tale manifestazione, attraverso la quale Dio è detto crear se stesso, è duplice. Si realizza cioè nelle cause primordiali e secondariamente negli effetti contingenti di queste cause.

Talmente viva e avvincente è l'atmosfera di mistica consapevolezza dell'appartenenza a Dio in cui si muove la vita religiosa e spirituale di cui Scoto Eriugena è interprete e guida, che il rapporto permanente instaurato da Eriugena fra Dio e la creatura ha qualche cosa di statico.

«In Dio», egli dice, «tutte le cose esistono immutabilmente ed essenzialmente. Egli è di tutte le creature la divisione e la riunione, il genere e la specie, il tutto e la parte; senza essere né il genere, né la specie, né il tutto, né la parte di alcuna. Ma tutto è rampollato da Lui, è in Lui, è per Lui. Egli è il principio, la struttura, il fine dell'universo».

Accusare di panteismo questa visione significa non saper cogliere i caratteri genuini del pensiero cristiano nelle sue varie epoche storiche.

Se Dio è tutto e tutto è Dio per Scoto Eriugena, questo è vero soltanto perché il vero essere delle cose non è quel che esse sembrano avere in se stesse, ma quel che esse hanno nella conoscenza divina, in cui tutto è uno e tutto è Dio stesso.

Ma qual è dunque la consistenza autonoma dell'universo?

Non c'è da pensare, neppur lontanamente, che per Giovanni Scoto Eriugena questa esistenza autonoma si volatilizzi e si disperda nella unica assoluta e trascendente realtà di Dio.

Quella fondamentale costituzione dialogica che è alla radice della esperienza religiosa cristiana, e sulla base della quale il rapporto tra l'uomo e Dio, tra il mondo e il Divino, è concepito costantemente come un rapporto di finito ad infinito, dell'io all'altro dall'io, traspare passo per passo da tutta la speculazione eriugeniana. Si aggiunga che la nozione basilare del Verbo, come sintesi e paradigma delle idee primordiali, sul modello delle quali la realtà cosmica è stata foggiata nelle sue molteplici forme, è al centro della visione, sul cui sfondo si profilano, agli occhi di Eriugena, le essenze create.

La natura che è creata e crea, l'insieme cioè delle cause primordiali, appare a Eriugena come la realtà che per prima è stata creata dalla causa creatrice del tutto, e la natura che crea a sua volta tutto quel che esiste al di qua di esso. Queste nature create e creanti sono appunto considerate creanti in quanto rappresentano i prototipi dai quali derivano le creature contingenti. E sono in pari tempo create, in quanto riflettono la superessenza divina, di cui costituiscono le supreme partecipazioni. La loro capacità creativa non è che il riflesso e la derivazione della capacità creativa di Dio.

Ma si cadrebbe in un palese e riconoscibile errore dandosi a credere, come si suoi dire comunemente, che nel pensiero di Scoto Eriugena riaffiori la visione neo-platonica della progressiva degradazione dell'essere dall'Uno.

Chi sogna e vaneggia di reviviscenze neoplatoniche nel pensiero cristiano medioevale si rivela insensibile a quelle che sono le peculiarità inconfondibili della speculazione del Medioevo cristiano.

Il cristiano medioevale, per quanto affinato nell'esercizio delle sue capacità dialettiche e speculative, non avrebbe mai osato uscire in quelle espressioni, per il cristiano blasfeme, con le quali, accennando alla inutilità di ogni forma di culto esterno, Plotino aveva detto una volta che gli dèi sarebbero dovuti andare a lui anziché lui andare agli dèi, data la sua estatica ricongiunzione filosofica alla spiritualità dell'essere primo.

Per Scoto Eriugena la dipendenza delle cause prime come degli esseri contingenti da Dio è una dipendenza di partecipazione, ma non di commistione.

È piuttosto la distribuzione dei doni e delle elargizioni divine, consumata e celebrata dagli esseri superiori agli inferiori. Scoto Eriugena fa esplicitamente ricorso ad un vocabolo greco piú esatto e piú espressivo per indicare, senza possibilità di equivoci, la natura speciale di questa successiva e gerarchica partecipazione: metochè o metusía, vale a dire post habens o secundo habens, post-essentia o secunda essentia. Donde è facile comprendere che la partecipazione di cui parla Eriugena non è altro che la derivazione di un'essenza secondaria di fronte ad una essenza superiore, e distribuzione di esseri compiuta da questa.

Le enunciazioni di Scoto Eriugena al riguardo sono inequivocabili. Dopo avere raggruppato sotto il medesimo termine di «creatura» cosí le cause principali come i loro effetti contingenti, il filosofo dell'età carolingica decadente rileva perentoriamente che la distinzione tra queste due forme della quadriforme natura non è affatto un risultato della nostra capacità cogitante e gerarchicizzante.

Essa s'incontra piuttosto nella natura stessa delle cose, dove le cause sono nettamente e antologicamente separate dagli effetti.

Dio contiene in sé l'essere di tutte le cose, in modo però che sussista una reale distinzione fra la sua natura e la natura di queste cose create.

Se è vero che Dio solo rappresenta e costituisce la genuina e primordiale essenza delle creature, è altrettanto vero che tutto quello che esiste al di fuori di Dio e sussiste in qualche maniera, in quanto comincia a sussistere per virtú della produzione divina, è contenuto e racchiuso nello spazio e nel tempo.

La esistenza spaziale e temporale non è un'esistenza primordiale. Questa esistenza primordiale è solo negli abissi incommensurabili di Dio. Ma questo non vuol dire che l'esistenza spaziale sia un nulla. Nell'ordine della partecipazione le realtà contingenti possono apparire fantasmi. Ma in rapporto all'esistenza effimera ed umbratile degli epifenomeni sensibili le realtà create posseggono nel loro intimo una autentica sussistenza.

Questi effetti delle cause primordiali racchiudono in sé tutti gli esseri distribuiti nel tempo. Visibili o invisibili, spiegano la loro esistenza in un ordine determinato in anticipo e costantemente sotto la guida della Provvidenza.

L'uomo in particolare occupa nel loro novero un posto eminente, come mondo in miniatura, in cui tutti i generi, tutte le specie, tutte le forme, tutte le loro molteplici suddivisioni, sono raffigurate e in qualche modo attuate.

«L'uomo», scrive Eriugena, «è stato creato ad immagine di Dio perché in lui si celebrasse il connubio della creatura intelligibile e di quella sensibile che egli riassomma in sé come i due poli estremi. È stato creato per costituire la medietas e la adunatio di tutte le creature. Perché non esiste creatura al mondo che non possa essere ritrovata e considerata nell'uomo».

L'uomo è pertanto la conclusio e l'officina di tutto quello che esiste. Partecipa all'intelletto angelico, alla sensibilità degli animali, alla vita delle piante ed ha in proprio la sua ragione. Sussiste in un corpo e in un'anima.

Ma ha subìto a causa del peccato originale un'intima contaminazione. Da cui è stato riscattato e da cui dovrà evadere per raggiungere la sua meta e la sua spiritualizzata destinazione.

La quarta ripartizione degli esseri secondo Scoto Eriugena era quella che non è né creatrice né creata. Si identifica dunque con Dio in quanto Dio è il fine verso cui tutte le creature aspirano a ritornare. Se Dio è il principio che ha creato il tutto, è parimenti il fine in cui ogni essere va cercando il suo riposo eterno ed immutabile. Il ciclo cosí si chiude e l'espiazione del primo fallo di Adamo è un còmpito cosmico oltre che umano.

Domanda il maestro al discepolo nel De divisione naturae: «Credi tu che il Verbo di Dio in cui, attraverso cui e per cui tutte le cose sono state fatte, sia disceso negli effetti delle cause primordiali come uomo?». «Lo credo fermamente», risponde il discepolo. E il maestro sussurra: «Perché mai è disceso?». Il discepolo non sa che rispondere e il maestro stesso spiega: «È disceso per un solo motivo, che è quello di salvare nella sua umanità gli effetti di quelle cause primordiali che a lui sono, come a Dio, eternamente e immutabilmente presenti. È sceso per farli rientrare in esse, in virtú di una ineffabile unione, onde salvarli e salvare con questi effetti le cause stesse».

Il passo va rilevato. Siamo qui ad un momento di transizione capitale nello sviluppo della soteriologia cristiana. L'antropologia agostiniana, quell'antropologia della polemica antipelagiana che aveva riportato in auge, inconsapevolmente, la visione ultra-pessimistica del manicheismo, che aveva veduto nell'umanità erede d'Adamo una massa di dannazione e di colpa, è già di fatto superata.

Quel pessimismo agostiniano che, investendo soprattutto il fatto centrale della trasmissione della vita, aveva drammaticamente visto nella storia un processo faticoso di reintegrazione degli elementi di bene e di luce sepolti nel fango e nelle tenebre dell'universo, cedeva il posto ad una visione di reintegrazione causale del cosmo, già preludente alla soteriologia ottimistica che troveremo nettamente enunciata in Anselmo di Aosta.

Il pessimismo agostiniano aveva dato l'abbrivo alla costituzione della dualistica società medioevale. Ora che questa società medioevale aveva trovato il suo equilibrio instabile nella costituzione dei due grandi istituti universali, Chiesa e Impero, si direbbe che con la nuova antropologia e con la nuova soteriologia cercasse di dare consistenza duratura a se stessa.

E con questo stesso programma e con questo stesso intento finiva invece col preparare il proprio disfacimento.

La cristologia di Scoto Eriugena, la inhumanatio del Verbo, come egli dice, è una cristologia realistica. Il Cristo, vero uomo e vero Dio, uno nella sua persona, duplice nelle sue nature, si è offerto qual vittima per il peccato.

Ma gli effetti della sua redenzione non sono limitati e circoscritti all'umanità. Anche gli angeli ne hanno risentito beneficio. E la Chiesa, che è il risultato dell'opera redentrice, è una società spirituale che comprende gli spiriti celesti come le anime dei giusti trapassati.

La Chiesa, corpo mistico del Cristo, si forma in virtú dei due grandi Sacramenti: il Battesimo e l'Eucaristia.

Ma nel processo di reintegrazione che dopo Cristo porta i redenti alla vita soprannaturale, tutto il mondo è impegnato.

Perché anche il mondo materiale, che è frutto del peccato, aspira a ritornare alle sue cause, che ne costituiscono la struttura genuina.

Questo ritorno si effettuerà alla fine dei tempi mercè la scomparsa delle forme sensibili. Non saranno soltanto le creature sensibili ad effettuare il loro rituffarsi nelle cause primordiali, bensí anche le creature dotate d'intelligenza effettueranno il medesimo ritorno mercè la fusione intima della loro capacità conoscente e della causa conosciuta.

C'è una natura buona dell'universo che attende sollecita questa ricongiunzione finale con le cause prime. La sua aspettativa sarà coronata da successo. Tutto quello invece che è malvagio ed empio sarà destinato alla distruzione futura e all'annullamento.

Alla risurrezione degli uomini, che rappresenterà la prima tappa del ritorno universale delle cose alla fonte prima della loro sussistenza, seguirà un secondo movimento ascensionale delle cose tornanti a Dio. Sarà il momento in cui Dio assorbirà nella propria sostanza tutti gli esseri ancora sussistenti non alla maniera delle cause primordiali, ma come l'aria sembra trasformarsi in luce e il ferro fuso in fuoco, senza che con questo siano annullate le rispettive sostanze.

Bisogna ben riconoscere spiritualmente che al tramonto del mondo, ogni natura, sia corporale, sia spirituale, sembrerà trasformata e riassorbita in Dio solo, pur rimanendo intatta a se stessa. E Dio stesso, che è per sé incomprensibile, diverrà attingibile in qualche modo nella creatura, la quale diverrà prodigiosamente Iddio: ipsa vero creatura ineffabili miraculo in Deum vertetur.

Questa sarà la beatitudine celeste.

Cosí si chiude la visione mistica del filosofo carolingico. Il programma dell'economia cristiana si spiega cosí integralmente dinanzi ai nostri occhi.

In esso si inquadra alla perfezione una concezione totalitaria del mondo, ben rispondente alle condizioni politico-sociali della Cristianità, cui la creazione dell'Impero d'Occidente per opera di Leone III aveva dato delle assise politiche e internazionali perfettamente consone all'esperienza cristiana.

C'è qui definita la funzione capitale del Verbo incarnato, della sua opera e della sua grazia, nel cammino dell'universo in direzione della sua reintegrazione finale.

I corpi risorti saranno convertiti in spirito. Una spiritualizzazione totale dell'universo farà scomparire tutti gli elementi impuri della carnalità derivata dal peccato d'origine.

E il ritorno del contingente alle cause, del finito all'infinito, del teofanico a Dio, conchiuderà il ciclo di questa esistenza universale che, posto dall'atto creativo di Dio, si ricongiunge a Dio mercè il mistero della redenzione nel Verbo incarnato.

La visione agostiniana del mondo ha qui perduto la sua agonistica drammaticità.

La società e la cultura cristiane sembrano travasate dal loro periodo dinamico nel loro incipiente periodo statico.

La Chiesa, che ha costituito un suo tipo di società, tende a fissarne e a farne saldamente stabili le sostruzioni, attraverso una visione del mondo in cui il processo della vita non è che l'avviamento ad una pacifica reintegrazione cosmica nella sua primitiva causalità.

I procedimenti che saranno caratteristici della sintesi scolastica sono già in azione.

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