VIII MONACHISMO E FEUDALESIMO

Il Medioevo cristiano rappresenta una delle esemplificazioni tipiche della complessa simultaneità con cui operano negli organismi associati le leggi elementari della vita umana.

Mai nella storia, come nel Medioevo europeo e cristiano, fattori spirituali e fattori materiali si sono amalgamati e fusi in un unico piano d'azione, per creare un tipo di configurazione sociale nel quale la vita spirituale esercitò le sue imponenti ripercussioni sulla vita economica, e questa di rimbalzo reagi su quella e la disciplinò.

Se l'Impero carolingico e poi l'Impero germanico rappresentarono il piú superbo tentativo della sociologia uscita dal Vangelo di creare, di fronte alla gerarchia dei poteri spirituali, una gerarchia di poteri politici che le servisse di strumento e le desse cooperazione, il feudalesimo rappresentò un tipo di organizzazione economica in cui, scomparso il vecchio concetto quiritario della proprietà, la materia prima del vivere aggregato, che nel Medioevo è essenzialmente la terra, venne sottoposta ad una serie gerarchica di diritti, che ne rendevano piú vasto e piú frazionato il godimento.

Il Medioevo cristiano ha visto sostituirsi, agli scomparsi concetti romani di Stato e di proprietà, concezioni sociali che implicavano un singolarissimo equilibrio instabile di vincoli associativi spirituali e di forze economiche.

Si comprende perfettamente come storici non addestrati alla valutazione e al riconoscimento della efficienza concreta dei valori spirituali e religiosi, si siano mostrati incapaci di cogliere, nella sua genesi e nel suo primordiale funzionamento, la tecnica dell'organizzazione feudale.

Per comprendere la quale bisogna fare contemporaneamente appello alle forze dissolutive dell'Impero romano decadente, come a quelle ricostruttive della comunità cristiana, che, dall'epoca specialmente di San Gregorio Magno, si era consacrata in Occidente, affrancata piú o meno integralmente dalla pressione dell'Impero orientale di Bisanzio, ad un'opera di costruzione sociale di cui il nuovo Impero e il regime feudale sono rispettivamente la estrinsecazione sul terreno politico e sul terreno economico.

Alla base dell'ordinamento greco-romano era stata la polis, il municipio. La polis, la civitas, il municipium, erano apparsi per secoli come il centro insostituibile e necessario della vita civile.

La disgregazione politica e il disastro economico dello Stato romano nei secoli IV, V e VI, avevano portato modificazioni radicali a quelle che erano state le condizioni e le consuetudini di vita sociale nelle città e nelle terre dell'Impero.

Gli onori municipali, che erano stati altra volta ansiosamente ricercati e attivamente ambìti, si erano rivelati ora cosí carichi di gravami finanziari, da non dare piú alcuna soddisfazione.

Il fiscalismo statale, che non rifugge piú ormai da alcuna violenza e da alcuna ferocia, pur di sopperire alle disperate condizioni dei bilanci, faceva ormai responsabili i decurioni della esatta riscossione delle imposte. La condizione pertanto degli appartenenti allecurie si era fatta disperata. Dall'altra parte, l'accentramento sempre maggiore di ogni potere in una burocrazia dilagante e opprimente, toglieva ai magistrati elettivi della città qualunque iniziativa.

L'attività manifatturiera si era andata, dopo che il trasporto della capitale a Bisanzio aveva bruscamente spostato il centro della immensa burocrazia imperiale, racchiudendo sempre piú entro i modesti limiti della fabbricazione domestica.

Le disastrose condizioni economiche del tempo, d'altro canto, rendevano piú agevole ai ricchi il procurarsi sempre piú vasti latifondi. Chi non sa che è molto piú facile comprare quando il piccolo e il medio proprietario non resistono alla dilagante crisi economica?

Già ai suoi tempi Ausonio chiamava le vaste proprietà terriere regna. Ed egli doveva bene essere in grado di parlare con conoscenza diretta della situazione di fatto, perché il favore di due imperatori, come Valentiniano I e Graziano, gli aveva permesso di procurarsi in Gallia immense estensioni di terreno.

Se entro le mura cittadine si sentiva sempre piú schiacciante l'incubo della servitú burocratica e politica, nei vasti latifondi terrieri i ricchi proprietari potevano conquistarsi e mantenere una indipendenza quasi sovrana.

Già sin dai tempi prosperi dell'Impero molte grandi proprietà potevano facilmente raggiungere una completa autarchia ed una assoluta indipendenza economica.

Alla mensa di Trimalcione un convitato assevera spavaldamente: Omnia domi nascuntur. All'epoca di Petronio si trattava forse semplicemente di una grottesca millanteria. Ma piú tardi le parole avrebbero potuto bene esprimere la realtà delle grandi ville romane, dove, nella massa degli addetti, schiavi o liberti, non si contavano solamente agricoltori o pastori, bensi anche artigiani e tecnici di ogni categoria, che sapevano elaborare e trasformare i prodotti, e rispondere cosí ai bisogni quotidiani della mensa, come a quelli delle vesti, degli strumenti di lavoro, dei mezzi di trasporto, come infine alle piú svariate esigenze di una civiltà fastosa e raffinata.

Di qui il trapiantamento delle famiglie proprietarie nelle abitazioni di campagna, dove esse fanno dei coloni, in virtú dei nuovi ordinamenti sociali statici e immobili, i loro sudditi. Questi proprietari si circondano di guardiani che costituiscono quasi una milizia privata, si arrogano la facoltà di giudicare le controversie dei propri subordinati, e perfino di vicini che non sono alle loro dipendenze, e arrivano a tenere delle prigioni private.

Lo Stato naturalmente non riconosce in maniera esplicita questa condizione di cose per la quale sembrano costituirsi gruppi di sudditi quasi indipendenti. Ma d'altra parte non può fare nulla per arrestare questo sciamare della popolazione urbana verso le campagne e per porre un freno a questa disarticolazione sociale. Lo Stato sa che la vecchia denominazione di honestiores si è cambiata in quella di potentiores.

Sa che esistono i buccellarii che sono gli sgherri armati delle grandi case. Sa che questi potentiores usurpano ogni giorno allo Stato nuovi poteri accogliendo schiavi fuggitivi, nascondendo delinquenti ricercati dalla polizia, rifiutando di pagare imposte, esercitando giurisdizioni e patronati a danno delle autorità statali.

Si vengono cosí preparando quelle condizioni di cose per le quali l'aristocrazia sarà rurale anziché cittadina, e le città spopolate si ridurranno a comunità di artigiani, di mercanti e di plebe, incapaci di espansione e di arricchimento.

Si stanno cosí realizzando i coefficienti primordiali di quella che sarà la costituzione feudale.

Di pari passo con questo disgregarsi della rete di rapporti gerarchici e di tessuti economici del vecchio Impero, si svolge il processo ricostruttivo della società ecclesiastica.

Non bisogna mai dimenticare che alla base della vita cristiana, uscita dalla propaganda dei primi secoli e dalla elaborazione concettuale e teologica rappresentata dalla sintesi di Sant'Agostino, sta una visione della vita duramente pessimistica e quindi fondamentalmente antidemografica. La dottrina del peccato originale, quale era stata formulata dal vescovo d' Ippona, che era riuscito a fare del dualismo manicheo un elemento imponderabile e quasi irriconoscibile, ma latentemente operante della vita cristiana, aveva immobilizzato, si potrebbe dire, la psicologia collettiva in una specie di complesso d'inferiorità al cospetto del grande e misterioso dovere della procreazione umana e della continuità della vita.

Noi non dobbiamo mai dimenticare che quel che contrassegna la vita associata nell'alto Medioevo è quel canone della limitazione delle nascite che opera, non in virtú di una angusta e brutale considerazione delle difficoltà inerenti al sostentamento delle moltiplicantisi collettività umane, ma in virtú di una visione pessimistica della vita e di una ispirazione ascetica.

La società medioevale è essenzialmente ascetica e monastica. Il monachismo è il grande fatto della Cristianità medioevale.

E il feudalesimo non sarebbe per caso un monachismo laicizzato? La curtis feudale non è forse l'equivalente laico della curtis monastica?

Sta di fatto, che mentre da un canto gli storici del feudalesimo, i quali non tengono l'adeguato conto dei fattori religiosi nello sviluppo della società feudale, sono imbarazzatissimi ad individuare le ragioni del fenomeno feudale, dall'altro la caratteristica saliente del mondo medioevale è la persistente scarsità demografica, di cui non può non riconoscersi come causa cooperante il dilagare dell'ascetismo organizzato.

Pertanto per una completa esplorazione delle origini feudali, occorre assolutamente tener sempre presenti i fattori ascetico-religiosi che hanno avuto ed hanno spiegato nell'alto Medioevo la loro piú viva efficienza.

Già Carlo Martello aveva dato il primo abbrivo alla costituzione feudale nei suoi territori. I vescovi dei suoi tempi avevano accumulato cosí vaste e pingui proprietà, da costituire nel loro complesso una classe a cui si calcola spettasse una terza parte di tutta la terra coltivabile della Francia.

Le immunità connesse al possesso facevano cosí, della gerarchia episcopale, una casta pressoché autonoma, sia politicamente che religiosamente.

Fu l'epoca nella quale la deposizione dei vescovi sotto i pretesti piú avventati permise alla Corona di sostituire uomini fedeli e guerrieri ai vescovi malfidi.

Carlo Martello spogliava in questo modo chiese e conventi di parte considerevole delle loro possessioni, trasferendole a capi guerrieri che sostenevano le spese delle armi.

Si cominciavano fin da allora a delineare quelle manomissioni del potere politico sul terreno religioso che avrebbero un giorno determinato la reazione violenta dell'autorità papale, per la insindacabile autonomia della amministrazione carismatica. Carlo Martello, sotto le esigenze del suo programma di ricostituzione statale, mentre faceva del legame vassallatico e del regime beneficiario un aspetto ed una funzione eminentemente pubblici che prima non erano, secolarizzava d'altro canto il patrimonio ecclesiastico.

Erano esigenze militari quelle che lo guidavano. Una parte dei nuovi vassi fu distribuita lungo le linee confinali dove appariva piú pressante la minaccia araba.

A loro volta questi fedeli avevano sotto di loro altri seguaci che rivestivano analoghi obblighi militari.

E prendendo a prestito dalla Chiesa anche usi e consuetudini di trasmissione proprietaria, le concessioni fatte ai vassi, e da questi ai loro subordinati, non furono piú consumate in forma di donazione, come era la pratica tradizionale, bensí nelle forme in uso nelle trasmissioni dei beni ecclesiastici, vale a dire mercè una lettera di preghiera (precaria) all'ente proprietario.

Si prepara cosí fin dai primordi della costituzione carolingica tutta una serie di vassi, ai quali incombe come preminente fine della concessione ricevuta la prestazione di un servigio di natura fisicamente militare. Il che dà al rapporto di commendatizia un carattere bellico che diviene essenziale: quel che è nel feudo monastico il servizio nella milizia di Dio, è nel feudo laico il servizio nella milizia temporale.

La conquista carolingica dell'Italia trapianta nella penisola la installazione di vassi franchi. Si tratta di guerrieri fedeli al re, che questi distribuisce nella penisola per poter avere disseminati fra i Longobardi, di dubbia fede, uomini interamente fidati.

Ma le concessioni beneficiarie qui si conformano al tipo di patto già praticato al tempo dei Longobardi medesimi.

Si sa come i re, i duchi, i gastaldi, e forse con loro altri personaggi eminenti, fossero circondati da fedeli legati loro da uno speciale giuramento e chiamati, come nelle file di altri popoli germanici, gasindi.

Questi gasindi erano adoperati nella corte, nell'amministrazione del palazzo regio o ducale, nello spiegamento di missioni delicate. Divenne proverbiale e leggendaria attraverso i racconti di Paolo Diacono la fedeltà di un gasindo del re Grimoaldo che, inviato dal re al figlio Romualdo assediato dai Bizantini, e da questi preso prigione, per farsi condurre sotto le mura di Benevento finse di accondiscendere all'imposizione dei nemici che lo volevano costringere ad annunziare a Romualdo la sconfitta e la morte del padre. Giunto però là, questo gasindo ammoní a gran voce Romualdo che tenesse saldo, perché il padre stava per giungere con un forte esercito. I Bizantini, per rappresaglia, gli troncarono la testa e la gettarono, con una catapulta, entro le mura. Il racconto di Paolo Diacono soggiunge che il giovane duca Romualdo la baciò sulle labbra.

Una parte di questi gasindi passò automaticamente fra i vassi franchi, man mano che la dominazione carolingica si rafforzava.

La trasmissione ereditaria di questi benefici doveva dare all'istituzione stessa stabilità e figura politico-giuridica.

Era un modo di frazionare nel medesimo tempo il concetto della proprietà e il concetto dell'autorità statale. Ma il propagarsi di una istituzione di tal genere non sarebbe stato possibile se a favore della sua costituzione non avesse lavorato in pari tempo l'andamento dello sviluppo demografico e della cultura terriera.

Ed eccoci di nuovo a constatare la interferente efficienza di fattori morali e di fattori economici, nelle vicende della civiltà carolingica e post-carolingica.

Tutte le fonti superstiti d'informazioni ci attestano il fenomeno dell'inselvatichito spopolamento nell'Italia dell'800 e del 900.

Per qualche secolo, escursioni ed immigrazioni barbariche, scorrerie di predoni, guerre desolatrici, nel cui divampare popolazioni intiere erano state passate a fil di spada e ridotte in schiavitú, si erano succedute ininterrottamente sul territorio italico, senza lasciar tempo agli abitanti di riparare le perdite. L'Italia era stata in preda ad una desolazione permanente, che aveva veduto edifici pubblici e case private, città fortificate e villaggi aperti, messi a ferro e fuoco, dando il varco alla solitudine e al deserto.

Sotto Agilulfo, Padova, Mantova, Cremona erano state rase al suolo. Le città lungo la costa del Tirreno, da Luni fino al confine dei Franchi, cioè Genova, Savona, Albenga, erano state distrutte da Rotari.

Uguali rovine nel Mezzogiorno d'Italia. Le carestie e le pestilenze avevano fatto il resto.

Si capisce come in queste condizioni la natura selvaggia avesse ripreso il suo incontrastato dominio. Molti territori si erano coperti di boschi, ove erano rimasti preda alle acque stagnanti, agli straripamenti dei fiumi, alla malaria.

Era avvenuto cosí che il territorio che forma oggi la provincia di Ferrara, le opime pianure del Modenese e del Mantovano, si erano andate frastagliando tra le paludi formate dalle acque del Po, abbandonate a se stesse e private di ogni disciplina regolatrice.

La Toscana e la Maremma senese e volterrana, che avevano costituito altra volta l'Etruria annonaria, furono cosí rovinosamente danneggiate dalle guerre gotiche e dall'invasione longobardica, che immensi spazi restarono abbandonati e deserti, coperti di boschi nelle alture, di acque nelle parti basse e marine.

Paolo Diacono parla della vastissima silva nella quale i re Longobardi andavano a caccia e che si estendeva fra il Tanaro e l'Orba, nel territorio di Marengo, Tortona, Alessandria.

Da Agnello Ravennate, il famoso autore del Liber pontificalis della sua Chiesa, sappiamo che alle porte della capitale dell'Esarcato si stendevano non solo paludi, ma grandi boschi.

Di pari passo con questo inselvatichimento del territorio italico, sua causa e suo effetto nel medesimo tempo, va lo sviluppo dell'organizzazione feudale e l'ampliamento della proprietà monastico-religiosa.

La grande proprietà feudale, le curtes che continuavano ad essere in gran parte costituite dai fundi e dai latifundia dell'epoca imperiale, sono ormai tutte nelle mani del fisco regio e dei signori laici od ecclesiastici, devoluti cosí o per infeudamento o per donazione.

Orbene: le carte superstiti ci mostrano in maniera incontrovertibile come questi grandi possessi regi o signoriali fossero in gran parte costituiti da terre incolte e boschive.

E tanta era la sproporzione fra la terra disponibile e la densità demografica, che oltre ai boschi comuni ogni famiglia teneva a bosco una parte della sua proprietà.

Le carte medioevali ci mostrano uniformemente come spesso, ad un appezzamento di terra coltivata, andasse congiunta una piú grande superficie di terra boschiva, appartenente allo stesso proprietario.

In ogni carta di donazione o di investitura di terre, leggesi: cum aquis, silvis, paludibus, pratis, pascuis, ecc.: e questa formula continua ad incontrarsi anche nei documenti piú tardivi. Ogni villa, o curtis, comprendeva estensioni notevoli di boschi e di paludi. Solo una parte della curtis era coltivata, il resto era abbandonato alla natura selvaggia e quando il centro della curtis, cioè la casa dominicata, crebbe e si trasformò in castrum circondato da mura e fossati, furono messe a cultura le terre prossime al castello, ove si rinserravano i coltivatori all'avvicinarsi di qualche pericolo. Nell'epoca feudale crebbero anzi i boschi perché i signori andavano a gara nell'averne e vietavano di tagliare un albero e dissodare porzione alcuna di terra.

I grandi cenobi stessi italiani, Montecassino, Farfa, Subiaco, Bobbio, Pomposa, Leno, Polirone, hanno le loro origini in solinghi eremitaggi sorti in mezzo a grandi boschi, che solo mano mano cedettero il posto al dissodamento e alla coltura quando la popolazione feudale, che andrà dal Mille in poi prendendo un ritmo ascendente, imporrà il migliore sfruttamento del terreno, prima, la trasformazione radicale del sistema economico, poi.

È questa complessa situazione economica-religiosa del mondo italico e franco fra il secolo IX e X che occorre tenere costantemente presente per spiegare nella maniera piú verosimile possibile lo sviluppo degli istituti ecclesiastici e politici fra l'epoca della decadenza carolingica e quella che, all'indomani della costituzione dell'Impero ottoniano, vide prepararsi l'alba della rinascita.

Roma aveva tratto dalle viscere della sua tradizione cristiana la sistemazione provvisoria dei due poteri, religioso e politico, rappresentata dalla consacrazione imperiale.

A ottant'anni di distanza dalla consacrazione di Carlo Magno per opera di Leone III, Giovanni VIII si era trovato nella piú imbarazzante delle situazioni per decidere della trasmissione dell'Impero, come per la delimitazione piú acconcia dei suoi fini, dei suoi diritti, dei suoi doveri. Proprio per questo nessun Papa piú spesso di lui ha avuto nelle sue mani i destini della Francia, della Germania e dell'Italia, delle tre parti cioè del mondo carolingico piú direttamente sensibili ai moti e alle oscillazioni del nuovo organismo politico. E per quanto egli cercasse di destreggiarsi nella maniera piú cauta fra i partiti in contesa, le ambizioni delle case feudali italiane finirono ben presto col rendere precaria e discussa la sua politica.

Erano appena scorsi quindici anni dalla morte di Giovanni VIII, e già quelle che erano state le piú vaste rivendicazioni del Papato di fronte alle invadenze imperiali, erano sottoposte a violenta discussione.

Nei patti spirituali con Carlo il Calvo, Giovanni VIII era riuscito ad ottenere che l'Impero non intervenisse nelle elezioni pontificie, non amministrasse la giustizia in Roma per mezzo dei suoi missi, non percepisse censo dalle Badie piú propinque alla sede romana, come Farfa e il Soratte.

Giovanni era riuscito inoltre ad ottenere la cessione alla Santa Sede di una parte considerevole del ducato spoletino.

Il famoso libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, compilato indubbiamente a pochi anni di distanza dalla morte del Pontefice, denuncia questi fatti non solamente come illegali e perniciosi, ma anche come causa di tutti i recenti mali d'Italia, perché violanti cosí i diritti imperiali come quelli reali e ducali. Questo libellus rispecchia esattamente la condizione di cose in Italia al tramonto del secolo IX, sola epoca nella quale gli interessi dell'Impero, del regno italico e del ducato spoletino si sono trovati d'accordo.

È l'epoca nella quale i duchi franchi di Spoleto, dopo essersi fatti proclamare re d'Italia dai grandi feudatari del regno, riescono ad ottenere dalla Santa Sede l'unzione e la corona imperiale.

Periodo assai breve, del resto, che va dall'891, quando il primo dei duchi di Spoleto è consacrato imperatore da Stefano V, fino al cadere dell'898 quando muore Lamberto, portando con sé nel sepolcro le ultime speranze e le ultime pretese della sua casa all'Impero.

È proprio in quel torno di tempo che i Papi chiamano dalla Germania Arnolfo per contenere le pretese spoletine avanzate da Lamberto e da Guido e soprattutto da Ageltrude, una di quelle donne di origine longobarda, le piú tenaci nell'avversione al Papato, che in questo momento prendono audacemente il sopravvento nella politica.

Arnolfo scese nell'895 e prese Roma asserragliata dagli spoletini: poco dopo moriva Formoso. Dopo una serie rapida di quattro Papi, Bonifacio VI, Stefano VI, Romano, Teodoro II, sale al soglio pontificio Giovanni IX. Ci rimangono di lui e della sua politica conciliante due atti: un sinodo tenuto a Roma nella primavera dell'893 e un convegno di Ravenna, tenuto subito dopo, in cui furono vidimati e sanzionati gli articoli dei nuovi patti fra i due poteri, il politico e il religioso.

La campagna spoletina per riconquistare i diritti imperiali su Roma che Giovanni VIII aveva limitato con la sua convenzione con Carlo il Calvo si chiudeva cosí in un compromesso, nel quale ciascuna delle due parti abbandonava qualcosa delle rispettive rigorose pretese.

Lamberto restituiva le terre e le città tolte da lui alla Santa Sede durante la lotta, ma recuperava alcuni privilegi annessi, prima di Giovanni VIII, alla dignità imperiale, quali quello dell'appello, quello dei missi presenti all'elezione pontificia, quello dei tributi da riscuotere dai monasteri compresi nel ducato.

Alla luce di queste competizioni può anche essere piú oggettivamente valutata la politica imperiale del grande Papa Giovanni VIII. Non è vero quel che è stato tante volte ripetuto che egli avesse cercato di svalutare l'Impero, sicché la sua politica avrebbe portato nella seconda metà del secolo IX ad una diminuzione delle grandi istituzioni con cui il secolo si era inaugurato. Non è vero che, se dal naufragio dell'Impero è nato il feudalesimo, la colpa vada attribuita a Giovanni VIII e al suo eletto Carlo il Calvo, il quale non avrebbe saputo fare né il suo mestiere di imperatore né quello di re, e che per compiacere il Pontefice avrebbe abbandonato a lui i piú cospicui diritti e le migliori terre dell'Impero, mentre di pari passo la nobiltà del regno strappava alla ignavia sovrana le piú gelose prerogative della Corona.

Tutto ciò è completamente difforme dalla realtà storica.

A Carlo il Calvo, è vero, si riporta il famoso capitolare di trentatré articoli emanato il 14 giugno 877 a Quiercy, allo scopo di regolare l'amministrazione del regno durante il suo viaggio in Italia. L'imperatore intendeva con esso affidare la reggenza a suo figlio Ludovico il Baldo, ma nello stesso tempo gli imponeva dei limiti.

Tra gli articoli del capitolare, il nono stabilisce che in caso di morte di un conte, il cui figlio si trovasse al séguito di Carlo il Calvo o fosse ancora in minore età, il reggente non aveva il diritto di nominare un nuovo signore, ma dovesse provvedere all'amministrazione provvisoria della contea in attesa della decisione sovrana.

Noi cogliamo qui il momento delicatamente preciso in cui il beneficio vitalizio è sulla via di trasformarsi nel feudo ereditario. Donde le grandi conseguenze dell'atto di Carlo il Calvo.

Ma sarebbe straordinariamente angusto ed unilaterale far nascere uno dei tratti capitali del mondo feudale da questo transitorio e circoscritto provvedimento sovrano.

Il feudalesimo ha avuto ben altre origini, infinitamente piú complesse, meno personali, piú diffuse, meno visibili, in mezzo alla massa gerarchica dei possessori di terre, fra il secolo IX e il secolo X. Bisogna oggi riguardarlo sullo sfondo globale delle condizioni economiche e religiose nelle quali si era venuta svolgendo la vita del continente europeo, dall'epoca delle ultime trasmigrazioni etniche a quella della tentata ricostituzione unitaria del continente medesimo.

Se la regalità imperiale in Francia era decaduta e si era infiacchita dopo Carlo il Calvo, la causalità di tutto ciò va ricercata, non nella inettitudine dell'uomo, ma nella complessa condizione e nella impetuosa efficienza delle correnti pubbliche.

Quando nel marzo dell'876 Carlo rientrava in Francia incoronato, l'Italia conservava la sua tradizionale organizzazione: il ducato di Lombardia con Bosone e i marchesati del Friuli con Berengario, di Toscana con Adalberto, il ducato di Spoleto con Lamberto.

Su un punto solamente l'opera del nuovo imperatore sembrava allontanarsi da quella di Carlo Magno. L'Italia ormai non formava piú un regno a parte, perché non aveva altro re che l'imperatore. Ma in fondo il cambiamento era molto sapiente. Se i carolingici dovevano custodire scrupolosamente l'unità dell'Impero e se l'Impero doveva assolvere la sua funzione di speciale protettore della Santa Sede e di focolare della riunita civiltà romana, l'Italia doveva figurare naturalmente al primo posto.

Furono soltanto l'ambizione di Bosone, il pericolo longobardo, e quello saraceno, che spinsero Carlo a cambiare di fronte all'Impero la situazione politica del Papato.

Col patto di Ponthion dell'876 le situazioni in Italia erano rovesciate, perché il duca di Spoleto Lamberto si trasformava in soggetto del Papa, da protettore che era prima, e gli Stati longobardi del Sud furono sottoposti alla direzione del Papa. In pari tempo furono trasferite alla giurisdizione papale cause fino allora riservate ai missi imperiali.

L'applicazione del patto non fu agevole, ma ad ogni modo esso aveva rappresentato una chiarificazione notevole della situazione politica italiana.

Con la scomparsa di Carlo il Calvo nell'877 si iniziava un periodo torbido che sarebbe poi sboccato nella costituzione dell'Impero germanico.

L'effimero impero di Carlo il Grosso non fece che ritardare di pochi anni la disgregazione imperiale, di cui Arnolfo raccoglieva i frammenti, mentre venivano costituendosi regni autonomi in Francia e in Italia, e Guido di Spoleto poneva la sua candidatura alla corona franca.

Questo periodo di lotte particolaristiche, mentre si va logorando e consumando la grande idea unitaria imperiale, investe di rimbalzo la sede apostolica, che sembra divenuta anch'essa oggetto di cupidigie feudatarie e di ambizioni familiari.

Per quella desolante legge umana che mostra come le idee piú alte e piú nobili si depauperano e intristiscono nel processo della loro realizzazione concreta, le grandi idealità che sembravano aver costituito il fermento delle nuove istituzioni imperiali, sono incapaci di frenare il dilagare delle ambizioni e delle rivalità di casta.

Quello Stato romano che, costituito nel 754, era stato affidato alla direzione del Pontefice e del clero, con la esclusione della aristocrazia laica, tornava ad essere la posta di famiglie nobili in lotta fra loro. Dopo vari sforzi mancati, questa aristocrazia laica coglie l'occasione propizia per uscire dall'oscurità.

Scomparsa la casa carolingica, apparso ormai chiaro che il titolo imperiale non corrispondeva piú ad una reale autorità, questa aristocrazia laica, rimasta ora sola di fronte al clero romano, lo asserviva e lo dominava.

E dal seno di questa aristocrazia locale emerse una famiglia potente che assunse la direzione degli affari e la conservò per 60 anni. Fu la famiglia di Teofilatto vestiarius e di Teodora vestiarissa con le loro due figlie Marozia e Teodora.

La storia dell'episcopato romano e della Curia si trascina ora fra le competizioni dei signorotti locali. Mancano alla vita ecclesiastica romana le grandi idee e i grandi uomini che sollevino le dignità politiche e religiose ai fastigi altre volte raggiunti.

Solo un momento di un certo lustro segnò la vittoria del Garigliano nel 915 contro i Saraceni, che si erano spinti fino a Farfa organizzando audaci avamposti contro i possessi della Chiesa romana.

Ma fu una parentesi effimera. Il Papato precipitò sempre piú in basso nelle competizioni familiari, per trovare, strano ma non inconsueto paradosso, in queste stesse rivalità e ambizioni personali il principio del proprio riscatto.

E la liberazione venne da un groviglio cosí paradossalmente singolare di circostanze, da poter essere segnalato fra i frequenti incroci di fattori in contrasto, che piú di una volta hanno salvato la tradizione del cristianesimo nelle ore piú drammatiche della sua storia, e che dimostrano quanto sia fatuamente semplicistico sottoporre le indagini della vita ecclesiastica ad un'intima dialettica schematica, quando invece i sentimenti piú difformi e piú eterogenei hanno presieduto allo sviluppo e alla maturazione dell'esperienza cristiana nella storia.

Il naufragio dei Carolingi non aveva in alcun modo vulnerato o affievolito il fascino grandioso dell'idea imperiale cristiana.

Il formarsi rapido dell'organizzazione feudale all'ombra della universale idea imperiale aveva potuto di rimbalzo determinare nel centro stesso della Cristianità, in grembo al personale di Curia e alla classe aristocratica romana, lo scatenamento di rivalità crudeli e di ambizioni smodate, che sembravano dover portare al piú basso livello dell'abbiezione i valori spirituali viventi nell'atmosfera della vita carismatica della Chiesa.

Ma per un riflesso incoercibile della stessa spiritualità cristiana, vissuta e sentita in profondità, sulle aberrazioni stesse delle passioni politiche e delle sfrenatezze morali, nell'ora del piú grave repentaglio la idealità cristiana riprendeva il sopravvento e imponeva la sua norma agli istituti universali della sociologia cristiana medioevale.

Marozia, la figlia di Teofilatto, per mantenere il predominio della sua casa in Roma aveva, dopo la morte di Alberico I, sposato Guido di Toscana e in terze nozze nel 932 il fratello di quest'ultimo, Ugo di Provenza re d'Italia. Il matrimonio era stato celebrato con grande pompa in Castel Sant'Angelo, ma alla aristocrazia romana esso era apparso come un affronto ed una minaccia. Roma non correva rischio, a causa di quel matrimonio fra cognati, di cadere definitivamente in soggezione ad un sovrano straniero?

Ed ecco che il figlio di Marozia e di Alberico I, Alberico II, fattosi interprete e antesignano del generale malcontento e d'altro canto timoroso della rappresaglia crudele del patrigno, insorgeva contro di lui e, messosi a capo di un pubblico movimento, prendeva d'assalto Castel Sant'Angelo costringendo Ugo alla fuga e sottoponendo a vigile custodia la madre infida e il Papa suo complice, che era del resto figlio esso stesso di Marozia e quindi fratello di Alberico.

Per ventiquattro anni Alberico II fu signore di Roma, princeps atque senator omnium Romanorum. Il suo potere era nato da un'insurrezione e il suo metodo di governo aveva del tirannico.

Ma evidentemente le grandi idee cristiane, quali si erano venute sviluppando nel corso degli ultimi secoli, dominavano nel suo spirito e gli davano una sensazione precisa ed avvertita di quel che occorresse fare, per mantenere quell'equilibrio fra poteri spirituali e poteri politici, di cui la creazione imperiale di Leone III era l'espressione visibile e di cui si cercava allora una reincarnazione adeguata ai nuovi bisogni e alla nuova configurazione etnico-politica dell'Europa continentale.

Il suo governo è in qualche modo una applicazione concreta del principio feudale e della esperienza religiosa associata, quali si sono venute concretando nel secolo decimo.

Non per nulla al suo fianco compare, mentore e consigliere, il principale rappresentante della riforma monastica di Cluny, Odone.

Di fronte al Papa, Alberico non può, in virtú delle idee che avvolgono e disciplinano la sua anima, non tenere una posizione subordinata. Sovrano effettivo di Roma e dello Stato della Chiesa, lascia che il Papa continui ad esserne il sovrano nominale, e che il computo degli anni sia fatto secondo quelli di dominio dei Papi, e non secondo quelli del proprio, mentre sulle monete si limita ad aggiungere, al nome del Papa, il suo. Il Papa d'altro canto, praticamente escluso dagli affari di carattere politico, conserva maggiore libertà di azione nel campo religioso.

Ma certo anche qui Alberico vigila in quanto l'opera dei Pontefici può toccare e investire l'efficienza del regime da lui instaurato. L'elezione dei Papi pertanto non si sottrae alla influenza albericiana. Come fare un taglio netto fra i due poteri nella pratica della convivenza quotidiana?

Come ai tempi della instaurazione carolingica, anche ora il monachismo esercita una rilevantissima azione pubblica. E come ai tempi di Carlo Magno, Benedetto di Aniano era venuto in soccorso della nuova disciplina politica con la sua feconda riorganizzazione della disciplina monastica, cosí ora, al fianco di Alberico II, nella riorganizzazione del patrimonio romano, alla vigilia del trasferimento imperiale nella dinastia sassone degli Ottoni, noi troviamo un grande riformatore monastico: Odone.

L'11 settembre 910 il duca di Aquitania, Guglielmo, aveva fondato, nella solitudine boschiva di Cluny, un monastero benedettino, e, facendosi forte del diritto, che si era riservato, di scegliere il primo abbate, ne aveva affidato la direzione all'abbate di Baume, Bernone, nobile borgognone, rinomato per lo splendore delle sue virtú.

Onde garantire alla nuova casa monastica un libero avvenire, Guglielmo la faceva esente da qualsiasi potestà secolare ed ecclesiastica, collocandola direttamente sotto la giurisdizione e la protezione della Santa Sede.

Era un'innovazione piena di conseguenze, che tradiva palesemente la nuova funzione dell'ascetismo organizzato cristiano nel mondo, trasformato ormai sotto l'azione profonda dei valori religiosi usciti dalla predicazione evangelica.

Ai suoi albori il monachismo benedettino, nell'epoca della disperata ed irresistibile disgregazione imperiale romana, aveva rappresentato, a norma della separazione neo-testamentaria fra valori empirici e valori trascendenti, un tentativo superbo di federazione spirituale e carismatica, all'infuori di qualsiasi compromettente ingerenza di autorità statali.

A mano a mano che il potere ecclesiastico centrale di Roma era venuto rivestendosi di mansioni politiche e di còmpiti pubblici, il monachismo aveva rappresentato la sua scolta avanzata e la sua milizia volontaria. Al momento in cui il programma della ricostituzione unitaria europea aveva indotto la Santa Sede ad una consacrazione imperiale che rappresentava la prima e piú organica distinzione dei due poteri, il politico e il religioso, il monachismo, entrando anch'esso a vele spiegate nell'esplicazione delle forze collettive, aveva costituito il centro di raccolta delle tendenze culturali e della pedagogia spirituale associata.

Ma l'Impero nuovo aveva mostrato di nascondere nel proprio seno, come possibile minaccia ed insidia, e le inframmettenze del potere politico nella vita religiosa, e la tendenza alla mondanità, e la secolarizzazione dei cenobi, troppo esposti a degenerare in feudi.

La subordinazione diretta dei centri monastici alla suprema vigilanza del magistero romano, rappresentava una magnifica salvaguardia e l'unica possibilità di immunizzazione.

Con il secondo abbate di Cluny, Odone, la Badia di recente formazione assumeva senz'altro una funzione universale.

Già paggio di Guglielmo di Aquitania, poi canonico di San Martino di Tours, Odone trentenne entrava nel cenobio di Baume.

Scomparso Bernone, ne prendeva il posto a Cluny.

Nel momento in cui tutta la vita spirituale e politica del continente europeo stava per assumere, con la trasmigrazione della dignità imperiale nella casa di Sassonia, una nuova configurazione, la riforma benedettina di Cluny, immediatamente soggetta alla Santa Sede e in pari tempo impegnata ad una vasta azione di penetrazione e di disseminazione sociale, assume un rilievo caratteristico.

E ancora una volta questa grande azione del monachismo riformato prende le mosse da una reviviscenza studiata e voluta delle forme ascetiche piú rigide e dello spiegamento liturgico piú solenne.

Sempre, cosí, nella storia del cristianesimo, le grandi realizzazioni sociali si sono compiute e hanno trovato la loro celebrazione, attraverso il piú disdegnoso ripudio del mondo e il piú solennemente proclamato allontanamento dalla vita empirica.

Cluny segna una reazione totalitaria alle degenerazioni del secolo e agli abusi che hanno disonorato la vita del santuario.

Il silenzio, la preghiera, il lavoro, sono i canoni centrali della rinnovata vita monastica.

L'opus Dei, la preghiera liturgica, cioè, e il canto sacro associato, torna ad essere l'anima ispiratrice del cenobio. Odone ne innalza la celebrazione mercè la piú vasta varietà di cerimonie: ne affina lo splendore mercè la perfetta esecuzione delle melodie, la magnificenza degli indumenti sacri, il decoro degli edifici religiosi.

Nulla, si sarebbe detto, poteva uscire di socialmente fattivo da queste predominanti funzioni liturgiche. Eppure, l'azione di Cluny sul mondo circostante fu imponentissima. Il mondo feudale ne fu tutto penetrato in virtú, si direbbe, di una di quelle propagande latenti e inavvertite, che sono poi in realtà le piú insignì e formidabili energie della storia: essa si fece risentire su tutti i punti della Cristianità.

A Roma piú presto che altrove. Fin dal 931 Giovanni XI aveva messo il monastero di Cluny sotto la propria protezione, confermandogli il libero diritto di elezione dell'abbate, e autorizzando Odone a propagare l'opera e lo spirito della riforma, «in quei tempi in cui quasi tutti i cenobi erano scandalosamente infedeli alla loro Regola», dovunque si facesse appello al suo intervento.

Giovanni XI autorizzava perfino Odone a trattenere a Cluny monaci di altri conventi che desiderassero di condurre una vita piú disciplinata e piú austera, fino al giorno in cui questi altri cenobi fossero per accettare la riforma.

I cenobi riformati sarebbero dovuti restare sempre sottomessi a Cluny. Si veniva a costituire cosí, sotto gli auspici e per il favore della Santa Sede, una congregazione cluniacense, che avrebbe avuto una vastissima efficienza spirituale e politica.

Cluny marcia rapidamente da conquista a conquista. I cenobi su cui si fa sentire la sua azione occupano un raggio geografico dei piú vasti.

Le conquiste di Cluny si nomano: in Borgogna, Romainmoutier; in Aquitania, Aurillac, Tulle, Sarlat, Lézat, donde l'azione riformatrice raggiunge Limoges, Solignac, San Giovanni d'Angély, Jumièges in Normandia, piú lungi Fleury, San Pietro a Sens, San Giuliano a Tours.

Verso il 936 Odone scende a Roma e trova in Alberico II un sostenitore reciso. Da lui ebbe in dono un palazzo sull'Aventino, perché vi sorgesse un monastero in nome della Santa Vergine.

A Odone è affidata, sempre da Alberico, la cura del monastero di Sant'Elia presso Nepi, come la sorveglianza di tutti i cenobi vicini a Roma.

Sotto l'ispirazione di Odone, Alberico restaura e dota riccamente parecchi cenobi della città, come San Paolo fuori le mura, San Lorenzo, Sant'Agnese, Sant'Andrea al clivo di Scauro.

Cure affettuose Alberico prodiga pure ai cenobi del Soratte e di Subiaco, al quale ultimo assegnava in Roma il monastero di Sant'Erasmo sul Celio, che era stato abbandonato. Infine fiancheggiò con tutto il suo favore i fautori della riforma monastica nella Badia di Farfa in Sabina.

Quando Odone moriva il 18 novembre 942, l'opera della riforma cluniacense aveva ormai la sua vita bene assicurata.

Ma non fu qui soltanto il tratto saliente, dal punto di vista religioso, della prodigiosa attività albericiana.

Per un singolarissimo destino storico, questa figura di duce e di condottiero che era nata da una sommossa e che si era innestata sul tronco della potestà feudale e gentilizia romana, al centro stesso della Cristianità, proprio per il fatto di operare a Roma, dove, si direbbe in virtú magica, tutto quello che da Roma è toccato, assume contenuto e sagoma di universalità, ha rappresentato un elemento decisivo nel trapasso della dignità imperiale dai Carolingi ai Sassoni, vale a dire dall'Europa occidentale alla media Europa, con tutto quel complesso immenso di ripercussioni e di conseguenze che la storia ha registrato. Proprio per salvare questa universalità romana e di rimbalzo quella universalità che era insita nella creazione cristiana e papale del nuovo Impero, Alberico si oppone tenacemente alle pretese imperiali di Ugo di Provenza.

Per rafforzarsi nella sua posizione, cerca dapprima un appoggio contro di lui nell'amicizia dell'imperatore d'Oriente, verso cui già la madre Marozia si era volta.

Alberico trattò, pertanto, per avere in isposa una principessa bizantina, come anche forse per ottenere il riconoscimento del regime da lui creato a Roma. Falliva nel primo scopo. Può darsi che riuscisse nel secondo.

Tuttavia il sostegno di Bisanzio era lontano e problematico. Non c'era qualcuno, in Europa, piú vicino, che avrebbe potuto ereditare dagli spentisi Carolingi la figura politica e giuridica creata cento e cinquant'anni prima dal gesto consacratore di Leone III? Sta di fatto che Alberico resistette a Ottone quando questi nel 951, sceso per la prima volta in Italia, svolse la sua azione personale su Papa Agapito II, per ottenere da lui la corona imperiale.

Ma questo spostamento della dignità imperiale doveva avvenire per via indiretta proprio dagli armeggii di Alberico.

Sentendosi prossimo a morte, questi, mirante ad una riconciliazione suprema fra la potestà ecclesiastica e la nobiltà laica a Roma, faceva giurare a questa ultima, riunita nella Basilica di San Pietro, il 31 agosto 954, che avrebbe dato ad Agapito II, il giorno della sua scomparsa, come successore, il proprio figlio Ottaviano.

A pochi mesi di distanza Alberico moriva e Ottaviano gli succedeva nella dignità di Princeps. Quando un anno dopo Agapito morí, Ottaviano, appena sedicenne, veniva innalzato, in virtú del patto stipulato un anno prima, alla dignità papale. Prendeva il nome di Giovanni XII.

Fu proprio lui ad incoronare Ottone I. Era figlio di Enrico I, di quell'Enrico I che aveva esordito agli inizi del Novecento combattendo a lungo contro gli Slavi dell'Elba e contro gli Ungari, che quelli avevano chiamato in soccorso.

Alla morte del padre, Ottone, duca di Sassonia, aveva prestato man forte, con Carlo il Semplice di Francia, ad Arnolfo di Baviera e ai duchi di Svevia Ercangero e Bertoldo contro Corrado I re di Germania, per avere questi rifiutato di confermargli l'intiero retaggio amministrato dal padre.

Mercè l'intervento di Giovanni XI, Enrico aveva fatto atto di resipiscenza, forse dopo le assicurazioni ricevute di essere designato come successore al trono di Germania.

Sta di fatto che, morto Corrado nel 918, Eberardo suo fratello rinunciava ai propri diritti e riconosceva Enrico come il nuovo re.

Si iniziava cosí la dinastia sassone, che Enrico portava subito a luminoso prestigio, restaurando il principio monarchico di fronte alla inquietudine dei príncipi e dei signori feudali. Le sue campagne gli assicuravano di fronte ai barbari la linea dell'Elba e del quadrilatero boemo.

Enrico seguí una politica religiosa prudente e condiscendente. Ad ottenere la collaborazione dei vescovi e del clero convocava, il primo giugno del 932, un Concilio a Erfurt, a cui convennero, oltre ai prelati di tutta la Germania, anche numerosi principi laici.

Enrico sentiva come la sicurezza del reame, a cui forse cominciava ad essere già familiare l'idea di una possibile coronazione imperiale, dovesse essere raccomandata al sostegno ecclesiastico.

E difatti, dopo la vittoria di Riade del marzo 933 contro i Magiari, divenuto cosí sovrano assoluto di tutta la Germania, Enrico deliberava di recarsi a Roma per accordarsi col Papa o comunque per farsi conferire la corona imperiale.

Ma dovette rinunciare al suo intento, perché sorpreso da grave malattia.

L'intento doveva essere riassunto e portato a conclusione dal figlio primogenito Ottone.

Successo al padre il 2 luglio 936, questi si fece immediatamente ungere e incoronare re di Germania ad Aquisgrana. Aquisgrana era la città di Carlo Magno e la scelta di questa città per la cerimonia fu un eloquente indizio di quel che fossero le aspirazioni e le velleità del nuovo sovrano.

Ma non fu un'impresa agevole quella che doveva portare Ottone alla corona imperiale. Per un periodo di non meno di un ventennio, Ottone dovette lottare aspramente contro i príncipi indocili e mal sicuri.

La influenza germanica, attraverso le sue imprese belliche fortunate, si estese dall'Elba fino al Mar Baltico, al corso superiore dell'Oder e al confine della Slesia.

Simile confine, lungo il quale si propagò una intensa emigrazione germanica, fu da Ottone sagacemente rafforzato con la fondazione di nuovi vescovati, la cui serie si allineava dai monti della Boemia al Baltico e oltre, fino alla Danimarca.

Ottone cercò di collegare le nuove diocesi in un'unica provincia ecclesiastica, riuscendo nel 968 ad ottenere la erezione dell'arcivescovado di Magdeburgo. Tale nuova organizzazione episcopale serví inoltre ad intensificare l'opera di cristianizzazione alla quale si dischiudeva, tra la Svezia ed i Balcani, un immenso campo di azione.

Le mire di Ottone dovevano fatalmente orientarsi poi verso sud. Avendo Berengario catturato Adelaide, figlia del suo predecessore Lotario, sorella del re Corrado di Borgogna, che Ottone proteggeva, questi fu senz'altro indotto a cogliere l'occasione per inserirsi nelle contese interne dell'Italia.

Il 23 settembre 951 egli si faceva proclamare re d'Italia a Pavia chiedendo la mano di Adelaide, con la quale veniva a guadagnare un titolo legittimo alla corona italica. Forse pensava già allora ad assumere la corona imperiale. Ma Alberico II non avrebbe allora consentito una simile intronizzazione, palese minaccia al suo potere principesco romano. Ottone comprese come il momento non fosse maturo e rinunziando alla corona d'Italia ne investiva Berengario. Mossa abilissima, perché Ottone intuiva che il Papato avrebbe avuto un giorno o l'altro bisogno di fare ricorso a lui, contro la pressione molto piú vicina e molto piú rischiosa del sovrano nazionale Berengario. E cosí fu.

Quando la potenza di Berengario si fece sentire anche sul territorio della Chiesa, Giovanni XII, proprio il figlio di Alberico, chiamava in soccorso il dinasta sassone.

E Ottone discese. Il 2 febbraio 962 Giovanni XII gli conferiva la corona imperiale, rimasta vacante da una generazione. Il 13 febbraio successivo Ottone confermava al Pontefice i patti degli imperatori precedenti. Vale a dire, Ottone garantiva al Pontefice i suoi possessi, e il Pontefice prometteva fedeltà all'imperatore e gli concedeva il diritto dell'approvazione alle nomine dei futuri Papi.

Ma le antinomie drammatiche nascoste nella stessa concezione dell'Impero cristiano e nella attuazione pratica dei rapporti che questa implicava fra potere politico e potere religioso, ricominciavano immediatamente ad esercitare il loro imperio.

Era appena trascorso un anno dalla incoronazione di Ottone, che, avendo di nuovo il Pontificato pencolato verso il suo rivale, l'erede di Berengario, Adalberto, l'imperatore sassone tornava a Roma per giudicare il fedifrago Pontefice. Giovanni XII fu deposto e i romani, per le mene imperiali, eleggevano in suo luogo Leone VIII.

Cosí tumultuariamente si iniziava la storia dei rapporti fra la Sede romana e l'Impero teutonico.

Per secoli le vicende di questa storia accompagneranno come una scia movimentatissima le fortune del Pontificato e dell'Italia.

È destino dei principi cristiani nella storia di non riuscire a costituirsi su assise normali e tranquille. Fondati paradossalmente su una economia che vuole essere di questa terra, pur avendo di mira unicamente realtà e valori trascendenti, questi principî non possono non portare a lotte irreconciliabili e ad inquietudini mai placate.

Ma non è in una inquietudine di questo genere la possibilità unica che la storia sia precisamente quella coabitazione di città del mondo e di città di Dio che Agostino aveva preconizzato come l'unica filosofia della storia compatibile con le idealità del Vangelo?

Morto improvvisamente Giovanni XII nel 964, i romani nominarono Benedetto V, il quale era però poco dopo deposto da Ottone, tornato subitamente a Roma, come contravventore al patto stipulato al momento della incoronazione imperiale.

Un anno dopo moriva anche quel Leone VIII che era stato surrettiziamente nominato al posto di Giovanni XII al momento della sua deposizione.

Per amore di conciliazione Ottone designava a succedergli un parente di Giovanni XII, Giovanni vescovo di Narni, legato cosí con i Crescenzi quanto con Alberico, in grado quindi di esercitare un'azione mediatrice e di conciliazione tra le varie fazioni che lottavano per il predominio di Roma. E fu Giovanni XIII. Ma il suo potere si rivelò cosí mal sicuro, che Ottone dovette ancora una volta scendere in Italia nel 966 per portargli soccorso.

Ottone colse questa occasione per far incoronare suo figlio, che sarà Ottone II, come collega nell'Impero.

Fin da questo momento l'Impero teutonico spinge le sue mire di conquista sull'Italia meridionale, dietro il miraggio di riunire sotto il proprio scettro la intera penisola.

In che modo raggiungere tale intento: mercè trattative diplomatiche e connubi sovrani o attraverso azioni guerresche? Mentre il corso delle cose sembrava dover sboccare in una guerra dichiarata fra i due imperi, una rivoluzione di palazzo a Costantinopoli apriva la via ad intese amichevoli.

L'usurpatore del trono imperiale bizantino, Giovanni I Tzimisce, probabilmente in compenso del riconoscimento piú o meno ufficiale del proprio usurpato titolo imperiale, dava la propria nipote Teofano in moglie al figlio di Ottone. Un'alleanza politica valeva per il momento un'occupazione territoriale e rinunciando alla occupazione dei superstiti territori bizantini nell'Italia del Sud, Ottone I si accontentava che Pandolfo I Testadiferro si costituisse intorno a Benevento una Marca sul tipo di quelle che Gera ed Ermanno Billung tenevano ad Oriente in suo nome.

Nel 972 Ottone moriva. Con lui l'asse della politica imperiale cristiana medioevale si era spostato verso oriente.

Anche i Franchi erano popolo di ceppo germanico. Ma la loro assimilazione con i vecchi elementi indigeni della Gallia romanizzata e cristianizzata aveva fatto di essi un popolo piú profondamente foggiato dallo spirito cristiano, piú cedevolmente incline al magistero dei valori evangelici, quali erano entrati nell'elaborazione della cultura e della filosofia religiosa patrocinate e professate dai grandi vescovi galli del IV e del V secolo.

Ora che la corona imperiale passava a popoli germanici di piú schietto e di meno assimilato temperamento extra-romano ed extra-cristiano, si comprende come la convivenza dei due grandi principî, il religioso e il politico, l'ecclesiastico e il sovrano, in quella istituzione imperiale che era sorta per volontà di un vescovo di Roma, dovesse riuscire piú ardua e piú agitata.

Senza dubbio l'attività politico-bellica di Ottone era stata mirabilmente proficua.

Nell'Europa che ancora qualche decennio prima correva rischio di essere sommersa dall'invasione degli Arabi e dei Vichingi, si era venuto costituendo un blocco compatto, piú capace di durata e di resistenza.

L'anarchia interna era stata domata. Una grande fioritura artistico-culturale si era venuta svolgendo. Ma si vide subito la tendenza ad un certo predominio, nella inframmettenza piú petulante che l'imperatore manifestò per quel che riguardava le elezioni pontificie.

Il figlio di Ottone I, Ottone II, raccoglieva la successione. Salito al trono diciottenne senza opposizione (tanto era il fascino che la figura del padre aveva diffuso intorno a sé), rafforzava la corona imperiale assegnando la Svevia al figlio del fratellastro Liudolfo, Ottone anche lui.

Nel 980 scendeva in Italia, e avendo dovuto nel frattempo la famiglia di Teofano cedere gli usurpati diritti imperiali alla dinastia legittima, egli si atteggiò di nuovo ad emulo ed avversario dell'Impero d'Oriente, donde assunse il titolo d'imperator romanorum, titolo che gli imperatori d'Oriente rivendicavano come loro esclusivo privilegio, invece del semplice titolo di imperator.

Scendendo verso il Mezzogiorno d'Italia, completamente incurante dei diritti bizantini, marciava contro l'Emiro di Palermo, con scarsi risultati militari.

Si accingeva ad una campagna contro gli Slavi, quando moriva a Roma, precocemente, il 7 dicembre 983, non ancora trentenne.

Gli succedeva, come re proclamato a Verona e incoronato ad Aquisgrana, il figlio Ottone, sotto la reggenza della madre Teofano fino al 991 e poi sotto la reggenza della nonna Adelaide, fino al momento della sua maggiore età, nel 995.

La reggenza delle due donne durante la minore età del futuro imperatore lasciava che a Roma risorgessero le ambiziose velleità di predominio delle famiglie nobiliari.

Giovanni Crescenzio vi aveva accampato un vero principato. Come già all'epoca di Giovanni XII, il Papa doveva nuovamente fare ricorso all'aiuto del sovrano teutonico. E questo Papa, Giovanni XV, fu immediatamente ascoltato. Ma mentre Ottone si avviava verso Roma, Giovanni moriva. A succedergli fu eletto, nell'accampamento reale, un cugino dell'imperatore, il quale assunse il nome di Gregorio V.

Non era questo il sintomo piú eloquente della rinnovata tendenza ad affrancare il Papato dalle lotte e dalle rivalità dei partiti romani?

Nel maggio del 996 Gregorio coronava imperatore Ottone, il quale, illudendosi di avere assicurato la normalità e il buon ordine a Roma, se ne tornava ad Aquisgrana.

Crescenzio si prendeva sollecitamente la sua rivincita e appoggiandosi sul partito bizantino che non aveva mai cessato di esistere a Roma, cacciava Gregorio V per porre al suo posto, col nome di Giovanni XVI, un greco dell'Italia meridionale, Filagato.

Impossibilitato a scendere immediatamente a far le sue vendette, Ottone dovette aspettare un anno prima di poter reintegrare il suo eletto. Nell'aprile del 998 Ottone, calato a Roma, espugnò Castel Sant'Angelo dove Crescenzio si era asserragliato, catturò il patrizio ed espose il suo cadavere all'impiccagione, perché servisse di monito alla turbolenta nobiltà romana.

Ripristinate cosí nel medesimo tempo l'autorità papale e la dignità imperiale, Ottone veniva, per una provvida convergenza di circostanze, a simboleggiare, non diversamente da Carlo Magno, quella profonda armonia di valori culturali e spirituali da una parte, politici ed artistici dall'altra, in cui sembra che lo spirito del Vangelo potesse adagiarsi nel Medioevo, come sul piú alto fastigio delle sue conquiste.

Al fianco di Ottone noi troviamo una figura strana di Pontefice, il francese Gerberto, che espulso dal seggio arcivescovile di Reims, e innalzato da Ottone all'arcivescovado di Ravenna, era eletto nel 999 a successore di Gregorio V, assumendo in ricordo della leggendaria collaborazione di Silvestro I e di Costantino il Grande, il nome di Silvestro II.

Quasi ad esprimere piú concretamente questa rievocazione del primo contatto fra potere politico romano e potere religioso cristiano, Ottone stabiliva la propria residenza sull'Aventino, largheggiando di titoli e di favori ai Tuscolani, rivali della famiglia dei Crescenzi.

Tra il 999 e il 1000 frattanto Ottone si recava, attraverso la Germania, in Polonia, dove, d'accordo col Papa, istituiva un arcivescovado, con tre vescovadi suffraganei.

Sanzionava, sempre di intesa con Silvestro, l'ingresso dell'Ungheria nella comunità cristiana, erigendola a regno. Fu durante questo viaggio che Ottone assunse il titolo apostolico di servus Jesu Christi.

Ma troppo rosea sarebbe stata l'avventura di Ottone III se le difficoltà insite nella convivenza dei due poteri non si fossero rivelate anche questa volta piú forti e piú crude di tutte le migliori intenzioni degli uomini.

Una riconciliazione di Tuscolani e di Crescenzi determinava a Roma una sommossa che cacciava dalla città in pari tempo Papa e imperatore. D'altro canto le pretese imperiali avevano cominciato a sollevare dei dubbi sulla legittimità delle precedenti donazioni ai Pontefici. Aspri conflitti si profilavano all'orizzonte quando, quasi a risparmiargli delusioni piú amare, la morte venne a rapire a Paterno presso il Soratte il non ancora ventiduenne imperatore.

Ma ormai, in quell'alba del secondo millennio cristiano, erano già in azione i fattori elementari che preparavano negli strati piú profondi della vita europea rivolgimenti economici e sociali destinati ad avere ripercussioni incalcolabili attraverso secoli e secoli.

La leggenda dell'anno 1000 coi suoi terrori apocalittici si direbbe che stia quasi ed esprimere il sentore subcosciente di questa palingenesi europea, che si preparava proprio in quel torno di tempo, attraverso un improvviso impeto demografico ed economico travolgente e destinato alla fine ad annullare tutte le vecchie concezioni antropologiche e morali che, sistemate da Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei, avevano retto l'impalcatura della prima società medioevale.

Perché a questo decisivo momento non mancasse la figura simbolica completa, Gerberto, l'umile oriundo dell'Aquitania, monaco del monastero di Aurillac, maestro di filosofia a Reims, abbate di Bobbio, arcivescovo di Reims e di Ravenna, sta di fianco ad Ottone come rappresentante di una cultura in cui, come nelle opere di Scoto Eriugena all'epoca di Carlo il Calvo, si assomma tutto il sapere del suo tempo.

Le opere che ci rivelano i suoi metodi e le sue predilezioni scientifiche sono: la Regula de abaco computi; il Libellus de numerorum divisione; il Liber de rationali et ratione uti.

Questo sognatore di un ripristinamento di quella leggendaria amicizia tra Silvestro e Costantino che aveva ispirato la politica dei Carolingi e dei Papi del loro tempo, è un esperto conoscitore di letteratura classica e un amante appassionato delle migliori tradizioni romane.

Gerberto conosce Virgilio e Stazio, Terenzio e Giovenale, Orazio e Lucrezio, Cicerone e Boezio, Porfirio, Aristotele e Platone. Come retore, ama la risonanza densa del dire e lo stile ricercato. Come poeta è solenne, ma freddo. Come filosofo, il pensiero di Gerberto sta a segnare una notevole evoluzione nella tradizione culturale dell'epoca carolingica quale era giunta fino a lui.

Se Alcuino non aveva separato nella definizione della filosofia l'esercizio delle capacità speculative astratte dalla pratica del bene, Gerberto, pieno di reminiscenze classiche, definisce la filosofia «la comprensione della verità delle cose divine ed umane, preoccupata però di non smarrirsi nella sterile speculazione astratta e di giovare all'apprendimento degli altri».

Facendo ricorso alle categorie aristoteliche, addita la filosofia come un genere di cui la ragion pratica da una parte, la ragione teoretica dall'altra, sono le specie. E della filosofia pratica addita le sottospecie, distinguendo la pratica dispensativa dalla distributiva e dalla civica. Sotto la denominazione di filosofia teoretica comprende l'esplorazione fisica e naturale, l'intelligenza matematica, la teologia dialettica. Maestro di matematica, Gerberto ha esercitato la sua multanime intelligenza nell'ampliamento dell'abilità nelle operazioni matematiche. In pari tempo Gerberto appare come un teologo irreprensibile e un difensore tenace dell'ortodossia.

Al fianco di Ottone III Gerberto ha sognato un'armonia indefettibile tra potere civile e potere ecclesiastico. È un'ora effimera la sua, ma altrettanto piena di luce e di validità normativa quanto l'ora di Leone III.

Se il cristianesimo, come fattore di costituzione sociale, poggia soprattutto sulla separazione netta fra valori politici e valori religiosi, il periodo segnato nella nostra storia dalla comparsa di queste due fugaci, ma solenni figure, che sono l'imperatore Ottone III e il Papa Silvestro II, sta veramente a segnare uno dei momenti simbolici piú significativi nella storia spirituale del mondo europeo.

E non è senza profondo significato che proprio in questo torno di tempo si viene definitivamente a consumare quella separazione fra Roma e Bisanzio che aveva avuto, all'epoca di Fozio, in un'ora straordinariamente analoga, la sua avvisaglia piú clamorosa.

Nel 995, in un sinodo locale tenutosi a Costantinopoli, nelle acclamazioni con le quali i congregati avevano augurato, secondo le consuetudini e le formule rituali, lunghi anni felici agli imperatori Basilio e Costantino e al patriarca ecumenico Niccolò il Mistico, era stata anche augurata e desiderata eterna memoria agli imperatori e ai patriarchi defunti. Tra questi erano stati esplicitamente nominati Ignazio e Fozio. Già qui c'era un indizio della insofferenza sempre piú viva che a Bisanzio si sentiva del magistero romano e della sua politica ormai completamente e irriducibilmente autonomistica.

Il successore di Niccolò, il patriarca Sisinnio, credeva di poter andare oltre e per far cosa che rinfocolasse i sentimenti antiromani della comunità cristiana orientale riesumava vecchie lettere foziane di polemica antipapale e ne favoriva la circolazione in mezzo al popolo. A sua volta il successore di Sisinnio, Sergio, ancor piú infervorato nella ricelebrazione di Fozio, cancellava il nome del Pontefice dai dittici ufficiali, riportandosi alle decisioni del sinodo di Trullo, del 692. Si trattava di un riferimento erroneo e, probabilmente, consapevolmente mendace. O che forse da quell'epoca in poi i rapporti ufficiali regolari non erano stati reintegrati fra Roma e Costantinopoli, e che forse il nome del Pontefice non era stato di nuovo inserito nei dittici canonici?

Ma si trattava evidentemente di un mendicato pretesto, che rivelava però a chiare note quale spirito andasse ormai decisamente e inguaribilmente trascinando Bisanzio alla completa, ufficiale e definitiva rottura.

In fondo i dissensi fra Roma e Bisanzio non erano stati mai di natura dottrinale e teoretica. Era una vera e propria incompatibilità di temperamento religioso, determinata dal diverso indirizzo che i rapporti fra autorità politica e autorità religiosa erano venuti automaticamente assumendo fin dalla prima costituzione di Bisanzio tra la vecchia e la nuova capitale dell'Impero.

Roma, dal giorno del trasporto della capitale a Levante. era divenuta una città essenzialmente sacra e carismatica, alla ricerca di un equilibrio politico con gli insorgenti poteri statali. Bisanzio era diventata invece una capitale essenzialmente politico-statale, alla ricerca di una subordinazione docile e flessibile dell'autorità patriarcale. Il conflitto fra Roma e Bisanzio, piú che il conflitto di due capitali in rivalità fra loro, era veramente il conflitto dello spirituale che domina l'empirico e dell'empirico che asservisce lo spirituale.

Un conflitto di questo genere non poteva maturare nel giro circoscritto di pochi decenni. Doveva lentamente consumarsi attraverso le vicende di quello che è stato il permanente programma della vita mediterranea ed europea: il programma della unificazione e della complementarità.

Ora, a mezzo il secolo XI, a piú di due secoli di distanza dalla costituzione dell'Impero carolingico, i rapporti fra Roma e Bisanzio non potevano non risentire della lenta, ma irresistibile maturazione che l'unificazione mediterranea e continentale, di cui l'Impero era nel medesimo tempo la registrazione e la tutela, aveva raggiunto.

Sicché, quando nel 1043 Michele Cerulario era innalzato alla dignità patriarcale di Costantinopoli, dopo una vita avventurosa che aveva rispecchiato le stesse vicende burrascose delle dinastie succedutesi al potere sovrano che egli stesso aveva vagheggiato una volta, la situazione offriva elementi non spregevoli ad uno spirito ambizioso e intrigante come il suo.

Il Papato, che aveva nella costituzione dell'Impero d'Occidente esercitato un'azione cosí mal vista e cosí deprecata a Bisanzio, versava in precarie condizioni. La lotta con i Normanni del Mezzogiorno d'Italia aveva portato il Papato ad una tremenda umiliazione. La disfatta di Civitella del 17 giugno 1053, aveva fatto di Leone IX il prigioniero dei Normanni a Benevento.

Fu il momento che Michele Cerulario prescelse per menare alla rivale del Tevere il piú mancino e brutale dei colpi. La stessa grossolana viltà di questo attacco proditorio dimostra quale fosse lo spirito con cui Bisanzio si accingeva a consumare definitivamente la sua separazione dalla metropoli occidentale del cristianesimo.

In una lettera di quell'anno al patriarca d'Antiochia Pietro, Michele Cerulario deplora che il nome dei Pontefici sia ancora menzionato nei dittici dei patriarcati orientali, mentre Costantinopoli lo ha definitivamente cancellato.

Dall'Oriente la polemica sull'argomento doveva trasportarsi in Occidente. E l'occasione fu offerta, non senza intesa con Costantinopoli, da una lettera che Leone, già chierico della Chiesa costantinopolitana e ora arcivescovo di Acrida in Bulgaria, diresse a un vescovo delle Puglie, Giovanni di Trani.

L'Italia meridionale era l'eterno pomo di discordia fra la giurisdizione romana e la giurisdizione bizantina. Leone di Acrida non nascondeva le velleità aggressive dell'Oriente greco contro l'autorità pontificia nel Mezzogiorno italiano, osservando che la questione da lui affrontata coinvolgeva le pratiche religiose di tutta la Chiesa latina.

Il vescovo bulgaro rimproverava cosí all'ecclesiasticismo occidentale due secondarie pratiche religiose: l'uso dei pani azimi nel Sacramento eucaristico e il digiuno del sabato.

Mai si vide conflitto religioso mascherare piú puerilmente le proprie ragioni profonde di natura politica e sociale con piú futili motivi. Leone di Acrida credeva di poter asserire che si trattava di due usi tipicamente ebraici, che la nuova economia evangelica aveva ripudiato, e la cui conservazione faceva rassomigliare la Chiesa latina ad una vera e propria comunità mosaica.

La lettera terminava, non senza impertinenza, invitando il mondo ecclesiastico latino ad un ritorno verso le vere consuetudini ecclesiastiche, di cui Bisanzio pretendeva di avere il monopolio.

Come tutto fosse congegnato da Costantinopoli appare dalla circostanza che, nel medesimo tempo, Michele Cerulario faceva diffondere uno scritto di un monaco studita, contro la Chiesa di Roma. In questo trattato si faceva anche addebito a Roma e al suo mondo religioso del celibato ecclesiastico.

Passando dalla teoria alla pratica, Michele Cerulario faceva chiudere tutte le chiese latine esistenti a Costantinopoli. Altra volta Fozio aveva attaccato Roma per difendere se stesso e la propria causa. Michele Cerulario attaccava apertamente e senza intenti difensivi.

La separazione delle due Chiese era giunta evidentemente al suo stadio perfetto di maturazione, come perfettamente maturata era la costituzione autonoma del mondo mediterraneo occidentale.

Leone IX non fu, dalle circostanze penose in cui si trovava, tratto ad attenuare la dignitosa asprezza della sua risposta. Nella sua lettera di risposta egli portava la lotta sul suo genuino terreno, che era quello su cui si levava il problema della dignità primaziale romana.

Non c'è in lui il proposito della rottura definitiva: al contrario c'è il proposito palese della sopravvivente concordia. Ma, in pari tempo, c'è la rivendicazione piena dei diritti romani e la discoperta schietta e senza sottintesi dei veri motivi che hanno inasprito ed esasperato il contrasto romano-bizantino: la questione dei possessi bizantini nell'Italia meridionale.

Interferenze politiche e territoriali non avevano sempre pesato sinistramente sui rapporti fra Roma e Costantinopoli? E le direttive di marcia dei collegamenti religiosi fra i due mondi non avevano sempre subìto il contraccolpo degli atteggiamenti politici ed economici delle due zone mediterranee? In realtà nessun imperatore bizantino aveva mai rinunciato all'idea di rappresentare, per diritto naturale e storico, il sovrano legittimo dell'Italia. Si potrebbe anzi dire che mai i sovrani di Bisanzio si erano acconciati a ritenere che fosse ormai definitivamente eliminata la possibilità di riprendere il dominio di Roma, riportando la storia al di là di Carlo Magno e al di là di Teodosio. Si trattava palesemente di un'illusione ormai condannata dalla storia ad essere relegata nel mondo dei piú fatui miraggi.

Eppure, questa illusione era alimentata da una tenace e irriducibile compiacenza in fondo alla quale era un sentimento sacrale delle tradizioni auguste che non avrebbero mai potuto essere scisse dalla prestigiosa figura di Roma. Non è da trascurare del resto il fatto che nell'Italia meridionale erano piú vive che altrove le memorie affascinanti della potenza bizantina.

Da questo insieme di circostanze profondamente contrastanti si levano considerazioni e impressioni che inducono da una parte e dall'altra a misurare le mosse e a calcolare le decisioni.

Solo Michele Cerulario, di fronte alla irremovibile fierezza romana e alla condiscendente tattica imperiale bizantina, mantiene indeclinabilmente il suo sussiego patriarcale e il suo covante rancore contro il magistero romano.

Avendo perfettamente intuito come la questione territoriale del Sud d'Italia dovesse pesare sui sentimenti della corte bizantina e in particolare sugli atteggiamenti dell'imperatore Costantino IX, Leone IX, mandando a Bisanzio con la sua risposta il cardinale Umberto, Federico cancelliere della Chiesa e Pietro arcivescovo di Amalfi, non aveva dato istruzioni dure e rigide. L'imperatore dal canto suo fece apprestare ai legati le piú solenni e propizie accoglienze. Abilmente il Pontefice aveva mirato ad approfondire il divario tra sovrano e patriarca.

Ma era un po' scherzare con il fuoco. Perché la stessa costituzione politico-religiosa dell'Impero bizantino, con il suo asservimento delle dignità ecclesiastiche al potere centrale politico, lasciava costantemente adito ad una di queste due alternative ugualmente perigliose: l'alternativa di un assorbimento sempre piú completo dei poteri spirituali da parte dell'autorità politica, o il tentativo della dignità patriarcale di assumere direttamente nelle proprie mani la direzione degli affari politici.

Questa volta, poiché l'imperatore si mostrò recalcitrante a seguire il patriarca nella sua irriducibile ostilità al romanesimo, Michele Cerulario, audacemente, ruppe ogni indugio ed entrò a volto scoperto in una congiura di palazzo che doveva avere ripercussioni gravissime dinastiche e politiche. Fomentò cosí senz'altro una sommossa contro Costantino IX e alla morte di questi, anziché favorire la successione del designato Niceforo, si schierò dalla parte della vecchia imperatrice Teodora, che naturalmente fu in un primo tempo tutta condiscendente verso il patriarca.

Ma il governo bizantino non poteva mai, per la stessa instabilità dei coefficienti su cui si reggeva, mantenere a lungo le medesime direttive politiche. Michele Cerulario doveva conoscere ancora vicende movimentate, il cui momento culminante fu segnato dall'avvento al trono di Isacco Comneno, il quale del resto dovette a lui e alle sue mene l'elevazione imperiale.

Fu gran ventura per Michele Cerulario questa assunzione, che abbandonò ai suoi poteri tutti i diritti sugli affari ecclesiastici, fino allora compresi nelle attribuzioni imperiali.

Michele Cerulario toccava cosí fra il 1057 e il 1058 l'apogeo del suo potere. L'imperatore si considera dinanzi a lui come un suddito, anziché un sovrano. Il favore di Michele alla corte è illimitato. La sua ambizione, che ormai non conosceva piú limiti, poteva guardare come definitivamente consumata la separazione da Roma.

Anche quando l'ex-legato pontificio a Bisanzio, Federico di Lorena, saliva al Pontificato col nome di Stefano IX, nutrendo in cuore, per il suo sentimento antinormanno, il piú vivo desiderio di riappaciarsi con la Chiesa greca, il comportamento di Michele Cerulario fu tale da frustrare qualsiasi proposito di pace.

Roma e Bisanzio erano ormai su due linee separate per sempre.

Avvenimento pieno di conseguenze per la vicenda storica di quel programma unitario del mondo mediterraneo, che sta, si potrebbe dire, alla base di ogni momento nello sviluppo ciclico della nostra civiltà.

Michele Cerulario finirà oscuramente in disgrazia. Ma quello che era stato l'intento costante della sua politica religiosa, l'umiliazione cioè e la separazione da Roma, aveva ottenuto la sua drammatica realizzazione.

Per una singolarissima coincidenza, però, nel momento in cui il Vicino Oriente bizantino consumava cosí la sua scissione dall'Occidente romano, l'Occidente romano, unificato per virtú e per volere di Roma nella rinata istituzione imperiale d'Occidente, si trovava in un periodo di tale effervescente esuberanza demografica e civile, che in questa turgida pienezza di vita erano i germi fecondi di tutta una nuova storia.

Se gli ultimi secoli avanti il Mille avevano veduto decrescere continuamente la densità della popolazione italica, distribuita in pochissimi centri importanti e disseminata in vaste solitudini, questa condizione di cose, a giudicare da quei documenti, soprattutto monastici, che pressoché soli ci consentono un'approssimata statistica italiana, lascia intravvedere intorno al Mille una ripresa demografica carica di promesse.

È in quel torno di tempo che quasi tutte le città italiane rifanno e rafforzano le loro fortificazioni: da Milano, che è in quel momento la città piú popolosa d'Italia, fino alla piú umile cittadina, tutte hanno la loro cinta murata. Milano ha un recinto di oltre due miglia con 310 torri. Cremona è difesa da un doppio muro e da sette torri con un fosso intorno. Pavia, Vercelli, Parma, tutte hanno fortificazioni importanti, nelle quali i cittadini si asserragliano nel momento della difesa.

Le vicende e gli statuti municipali dell'epoca ci fanno intravvedere un assiduo studio delle città e dei comuni per attirare gente ed accrescere il numero degli abitanti. Sembra di intuire che nelle campagne feudali il numero dei legati alla terra vada rapidamente crescendo e che d'altro canto il traffico cittadino esiga l'immigrazione urbanistica della gente del contado.

Si accorda la cittadinanza ai nuovi venuti, ai rustici che vengono ad abitare in città, esentandoli dal pagamento delle imposte. Si concede libertà ai servi che vi immigrano. Si accordano privilegi a chi costruirà una casa, a chi andrà a negoziarvi in panni. I centri urbani cercano di svilupparsi in ogni modo, costituendosi luoghi di sempre piú vasto e intenso consumo.

Si tratta di primeggiare fra i comuni vicini, si tratta di disporre di maggiori forze armate, si tratta di logorare le costituzioni feudali pesando sui feudatari perché si arrendano alla città e vadano ad installarvisi.

Il numero dei quartieri Cittadini cresce col crescere della popolazione e con l'allargamento delle mura. Le basi stesse dell'economia subiscono una profonda e radicale alterazione. La clausura della vita feudale è minata alle radici dalla popolazione che non subisce piú le limitazioni automatiche dell'economia arretrata e della visione della vita tutta ancora impregnata del vecchio pessimismo ascetico agostiniano.

E d'altro canto la impossibilità per l'economia feudale di bastare a se stessa rompe gli argini della clausura del feudo per cercare nel traffico della vita cittadina il suo complemento e il suo sostentamento.

C'è qui la genesi di tutto un incalcolabile rivolgimento morale, sociale e religioso, di cui le manifestazioni saranno sul terreno della spiritualità cristiana associata le nuove riforme monastiche, la nuova cultura teologica, la trasformazione stessa della Chiesa dal vecchio tipo di società ascetica in aperta autonomia di fronte ai valori politici ed empirici del mondo, in una società pronta a venire a patti e ad accettare mutue e complementari collaborazioni col mondo della cultura profana, della politica temporale, dell'economia comunale.

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