VI LO SCISMA GRECO

Insediandosi nel mondo, ormai, come forza disciplinatrice e sistematrice degli elementi che presiedono alla economia della vita associata, il cristianesimo ecclesiastico affrontava il piú duro cimento della sua carriera.

Non si entra mai impunemente nel giuoco dei fattori sociali, e un messaggio come quello cristiano, tutto rivolto verso i valori trascendenti e verso le idealità dell'Assoluto, non poteva non risentire pericolosamente il contraccolpo delle inevitabili contaminazioni politiche, nell'atto stesso in cui si sforzava di installare la civiltà circostante sui principi e sui fondamenti del trascendentismo evangelico.

Già Sant'Agostino, tracciando idealmente nel suo De Civitate Dei le linee programmatiche di quel che era e che doveva fatalmente essere il cammino della Cristianità nella storia, era caduto in patenti e irriducibili contraddizioni.

Si può dire che in quella sua opera capitale il dottore di Ippona era stato tratto inconsapevolmente a lasciare in un ondeggiamento, che potrebbe anche chiamarsi provvidenziale, la stessa idea centrale della sua filosofia politica, l'idea della civitas Dei.

Nel suo concetto primordiale ed essenziale infatti la civitas Dei, come comunità di coloro che pongono l'amore di Dio al disopra dell'amore di sé, è cronologicamente prima e spazialmente al di là della Chiesa visibilmente costituita.

Essa infatti è nata, potenzialmente, in contrasto con quella civitas terrena che è la comunità di coloro i quali pongono l'amore di sé sopra l'amore di Dio, il giorno stesso in cui, nel primo uomo, si delineò la polarizzazione antitetica dei due amores: l'amor Dei e l'amor sui.

Il suo reclutamento e la sua anagrafe, definitivi e infallibili, sono qualche cosa che qui sulla terra è tuttora avvolta nella oscurità e nel mistero, per essere rivelata appieno solo nel Regno di Dio nel cielo. Quaggiú, di questa civitas Dei non c'è altro contrassegno e altra tessera di riconoscimento che l'umiltà docile e silenziosa, il caritatevole servizio reciproco.

Prosperata, prima dell'avvento del Cristo, rigogliosamente in grembo al popolo d'Israele, prefigurazione predestinata della comunità dei santi, la civitas Dei vive in qualche modo una sua abscondita vita dovunque un conglomerato di anime umane realizzi, nel mistero, il problema dell'eterna salvezza.

Cosí Sant'Agostino avverte e segnala l'aspetto misterioso e ineffabile della configurazione delle due città, che vivono permiste e interferenti, dovunque si trovino uomini associati.

È questa una sociologia fatta di visioni mistiche e di realtà carismatiche. Ma, d'altro canto, Agostino vive nel grembo di una comunità ecclesiastica, che ha già, ai suoi tempi, una struttura riconoscibile, un funzionamento gerarchico, una disciplina organizzata.

La Chiesa tende, nelle sue visuali, a diventare una cosa sola con la città di Dio. Sant'Agostino a volte lo riconosce e lo proclama. Essa sola, secondo lui, ha il diritto di gridare alto, al cospetto del mondo, l'encomio di sé, che la madre di Samuele aveva pronunciato una volta, quasi misteriosamente prefigurandola: «Il mio cuore trasalisce di gioia in Jahvè, la mia forza è stata esaltata da Jahvè!».

Non è però da credere per questo che una simile identificazione, intravvista appena e piú tosto vagheggiata che affermata, facesse smarrire a Sant'Agostino il senso tremante e inquieto della impossibilità astratta di immedesimare, sempre e dovunque, la Chiesa visibile con la città di Dio. Nei sermoni pronunciati al cospetto del suo gregge, Sant'Agostino non esita a tornare insistentemente sul motivo mistico della inconfondibile e invalicabile separazione tra istituti empirici e valori trascendenti.

Le due città procedono a fianco a fianco nella storia, spoglie di qualsiasi segno di riconoscimento esteriore, e di qualsiasi connotato percettibile. L'esteriorità non può essere che ragione di abbaglio. «La città di Dio e la città di Satana», dice in tutte lettere Sant'Agostino, «sono destinate ad essere nel corso dei secoli stranamente mescolate l'una all'altra. Solo alla fine dei tempi saranno nettamente separate. Nel frattempo, esse lottano ininterrottamente, l'una contro l'altra, l'una schierata a favore dell'iniquità, l'altra schierata a favore della giustizia. L'una militante per tutto quello che è fatuo e vano, l'altra militante per la verità e per l'eterno. Questa stessa mescolanza nel tempo fa sí che a volte individui appartenenti, nell'intimo, alla città di Babilonia, amministrino le realtà e i valori che appartengono a Gerusalemme. E può capitare di rimbalzo che individui appartenenti a Gerusalemme siano chiamati ad amministrare realtà e valori appartenenti a Babilonia».

Cosí profondi in Sant'Agostino sono il senso mistico delle realtà carismatiche e la visione puramente spirituale delle due città militanti nel mondo, da spingerlo a ritenere possa verificarsi il caso mostruoso che cittadini di Satana siano deputati a reggere, rimanendo tali, l'amministrazione della Gerusalemme, che è la Chiesa. Ci sembra che previsione piú esatta di quel che doveva essere la storia della Chiesa nel suo movimentato cammino medioevale, una volta installatasi sul terreno delle concrete applicazioni dei principî sociologici cristiani, non si sarebbe potuta immaginare.

Se la politica implica sempre qualche contaminazione, comunque essa sia praticata, la Chiesa, uscita dal Vangelo, doveva fare la piú amara delle sue esperienze nell'atto stesso in cui, con la creazione dell'Impero d'Occidente, cercava di dar forma sensibile e palpabile al principio evangelico della netta separazione fra i poteri di Dio e di Cesare. La nascita carolingica segnava l'alba di un'epoca brillantissima dal punto di vista civile e culturale; ma questa stessa stabilizzazione dei rapporti fra Chiesa ed Impero apriva il varco ad aberrazioni giuridiche, teologiche, disciplinari, che avrebbero poi pesato per sempre sullo sviluppo ulteriore della Cristianità cattolica. Seguire questo processo di lenta e sottile contaminazione è straordinariamente malagevole.

Il secolo nono, se rappresenta, da alcuni punti di vista, l'età aurea per le possibilità costruttrici di una sociologia e di una politica ricavate dai presupposti basilari del Vangelo, rappresenta d'altra parte un'età di formidabili lotte teologico-morali fra l'Oriente e l'Occidente e nel medesimo tempo un periodo di raffinatissimi raggiri e di colossali falsificazioni, diretti a permettere e a consolidare i privilegi materiali che dignitari politici cercano contemporaneamente di captare, all'ombra delle nuove istituzioni politico-religiose.

Nessuna storia, come la storia religiosa, conosce falsificazioni letterarie.

Ma c'è modo e modo di falsificare i testi o di lanciarli alla circolazione sotto mentite spoglie. Gli apocrifi e gli pseudo-epigrafi sono, si potrebbe dire, un retaggio indispensabile di tutte le propagande spirituali religiose.

Si direbbe che, in particolar modo nelle età di trapasso, le nuove idee, per acquistare credito e per trovare piú agevole la possibilità della propaganda, hanno bisogno di ricorrere a nomi illustri di vecchie glorie spirituali e letterarie, per affibbiare ad esse la paternità dei nuovi scritti di propaganda.

La letteratura giudaica, dall'epoca degli Asmonei al tramonto del primo secolo cristiano, fu probabilmente quella che di letteratura apocrifa fece piú lussureggiante uso. Quanto numerosa non fu la suppellettile letteraria e propagandistica che circolò allora sotto il nome del patriarca Enoch?

Il cristianesimo antico, nella moltiplicazione delle sue correnti e nella difformità dei suoi orientamenti, fece anch'esso ricorso larghissimo alla letteratura pseudo-epigrafa.

Si potrebbe sentenziare che la intensità di vita spirituale di un'epoca storica ha precisamente il suo contrassegno piú eloquente e il suo sintomo piú significativo proprio nella spontanea molteplicità degli scritti pseudo-epigrafi.

La letteratura pseudo-epigrafa del giudaismo dell'epoca neotestamentaria era una letteratura diretta a propagare, di contro all'accaparratrice e accomodante intransigenza della casta sacerdotale, il pio sogno del veniente Regno di Dio. Presso a poco sul medesimo solco, gran parte della letteratura pseudo-epigrafa del cristianesimo primitivo volle servire particolari movimenti di propaganda circa il significato e le applicazioni da dare al messaggio del Cristo. In casi di questo genere tale letteratura, spoglia da qualsiasi interesse di lucro e da qualsiasi fine di profitto individuale, è una letteratura edificativa, e fa completamente dimenticare ed assolvere il peccato di origine che è nella falsa attribuzione e nella mentita paternità.

Ma il caso morale cambia completamente aspetto quando, come nel nono secolo, ci troviamo di fronte a produzioni pseudo-epigrafe che non hanno altro scopo che quello di garantire privilegi o di assicurare poteri arbitrari o immunità giurisdizionali.

Tra questi monumenti letterari pseudo-epigrafi del secolo nono il posto piú eminente è occupato dalle cosiddette Decretali dello pseudo-Isidoro. Esse rappresentano la documentazione palmare di quelle che erano le conseguenze umanamente viziate della costituzione paritetica, instaurata dal gesto consacratorio di Leone III.

Se la Chiesa di Roma volle con questo gesto consacratorio porsi al riparo di una nuova formidabile autorità politica per assicurare il proprio potere autonomo di fronte a Bisanzio, l'autorità imperiale di Carlo Magno, investita da cosí sacrosanta legittimazione religiosa, si lasciò andare a manomissioni nel dominio delle cose ecclesiastiche, da cui le autorità vescovili non trovarono altro modo di garantirsi, che escogitando una serie innumerevole di vecchie decisioni papali atte ad immunizzare i poteri religiosi da ogni manomissione civile.

Per la prima volta nell'858 Lupo, abbate della Badia di Ferrières, scrivendo a Papa Nicola I, cita una decisione della raccolta di decretali nota nella tradizione manoscritta sotto il nome di Isidoro. Un anno prima, nella lettera sinodale emanata dal sinodo di Quiercy a nome di Carlo il Calvo, parecchi testi della medesima raccolta sono pure citati. Nello stesso anno Incmaro, vescovo di Reims, adoperava la medesima raccolta nella redazione della propria opera intitolata: Collectio de ecclesiis et capellis.

Quando cosí la raccolta entrava nell'uso della Chiesa del regno franco occidentale, da piú che cinquanta anni l'Impero di Carlo Magno era stato costituito. La vita ecclesiastica si era tutta impregnata dei nuovi abiti mentali ed aveva fatto l'esperienza del nuovo regime politico-religioso.

Questa raccolta, divenuta cosí rapidamente testo ufficiale, tradisce di per sé preoccupazioni tali che fanno palesemente riconoscere i motivi che l'hanno suggerita.

L'anonimo compilatore ha voluto evidentemente, con la raccolta di lettere attribuite ai Pontefici romani da San Clemente a San Gregorio Magno, e di canoni conciliari composti di sana pianta, corroborare un suo fine particolare che è molto facile riconoscere.

Il falso Isidoro non si occupa di polemiche teologiche, con quell'ampiezza che avrebbe potuto fare attendere la vivacità delle polemiche teologali del suo tempo. Il suo intento è preciso e determinato. Poiché l'autorità politica ricorre spesso e volentieri alle accuse e alle imputazioni disonoranti, per colpire i dignitari ecclesiastici e spogliarli cosí della loro autorità e dei loro possessi, l'autore della raccolta apocrifa si propone, attraverso decisioni che egli attribuisce, sulla scorta delle indicazioni sommarie del Liber Pontificalis, ai Papi dei primi secoli, di porre al sicuro i dignitari ecclesiastici dalle facili accuse.

Lo pseudo-Isidoro pertanto tende a venire cosí in aiuto ai vescovi perseguitati dai potenti del secolo, che molto spesso tentano di mascherare i loro atti di violenza sotto l'apparenza di una giustizia che è grossolana e irregolare. Si sforza di denunciare e di render vane le mene che la cupidigia ispira a questi potenti del secolo. Le false decretali non si stancano di pronunciare le piú severe condanne contro gli autori delle usurpazioni ai danni della Chiesa, ponendo bene in luce i caratteri peculiari, inconfondibili e sacri dei beni e delle proprietà devoluti a Dio. Nulla deve distrarre mai questi possessi dalla loro destinazione religiosa. I laici, anche quando sono animati dalle intenzioni piú pie, non hanno alcuna veste giuridica per disporne.

E perché a tutte queste sentenze di condanna non manchi la opportuna sanzione, lo pseudo-Isidoro raccomanda, contro i depredatori dei beni ecclesiastici, come contro i persecutori dei vescovi e dei preti fedeli alla loro vocazione, il ricorso alle censure spirituali piú gravi e in particolar modo alla scomunica, che l'autore della raccolta si sforza di rendere il piú possibile efficace. Per questo egli ripete spesso e volentieri di porre lo scomunicato al bando della società cristiana: «Excommunicatos nullus recipiat... nec cum eis communicet». Che si tratti di persone o di beni ecclesiastici, le false decretali rappresentano innanzi tutto un energico sforzo diretto a rivendicare ed a proclamare l'indipendenza della Chiesa, al cospetto dei potenti di questo mondo.

Ed ecco uno dei sorprendenti paradossi della storia ecclesiastica in questo meriggio del secolo nono, cosí ricco di avvenimenti costruttivi della politica cristiana nel mondo.

Il proposito dei vescovi piú direttamente dipendenti dall'autorità politica imperiale in Occidente e dai rappresentanti subalterni del regime feudale che si viene rapidamente costituendo sotto l'egida dell'Impero carolingico, di garantirsi, in nome di vecchie decisioni ecclesiastiche, dalle manomissioni economiche e finanziarie perpetrate dalle rivali autorità politiche, porta l'episcopato medesimo ad appoggiarsi con tanto maggiore zelo e con tanta maggiore forza sul sostegno e sulla salvaguardia del Pontificato romano.

Il potere della Sede romana viene cosí innalzandosi sempre piú nell'estimazione e nell'ossequio della gerarchia episcopale occidentale, in quanto questo episcopato occidentale sente il bisogno di appoggiarsi a Roma, come fulcro e sostegno contro le indebite e illecite invadenze di quell'autorità imperiale che Roma stessa ha creato, e dei suoi funzionari.

Lo pseudo-Isidoro è straordinariamente favorevole all'autorità della Chiesa romana. Per sottrarsi alla pressione soffocante del potere laico, le Chiese particolari non hanno altro mezzo efficace che quello di stringersi sempre piú intorno al centro della loro unità spirituale. Altrimenti esse sarebbero fatalmente ridotte al medesimo stato di servilismo e di soggezione, di cui la storia parallela delle Chiese orientali offriva, in quel medesimo torno di tempo, cosí lacrimevoli esempi. Per questo il falso Isidoro ama rievocare assiduamente i privilegi della Chiesa romana, madre di tutte le Chiese, Chiesa che non ha mai errato, perché mai si è allontanata dalla tradizione ricevuta dagli Apostoli.

Il Papa è designato come il giudice supremo nella Chiesa, colui il quale emana l'ultimo verdetto e pronuncia l'ultima parola, non solamente nelle cause dei vescovi, bensí anche in tutte le controversie maggiori, direttamente e solennemente. Il ricorso pertanto alla sua autorità rappresenta, per i pastori delle Chiese singole, un diritto che non può esser mai loro sottratto e un dovere che molto spesso ad essi si impone.

A norma delle decretali pseudo-isidoriane la giurisdizione del Pontefice romano non si esercita soltanto su vescovi isolati, bensí anche su vescovi radunati in concilio. Lo pseudo-Isidoro insegna che la convocazione dei Concili, anche quelli che riuniscono soltanto i vescovi di una provincia, è subordinata al consenso o quanto meno al controllo della Chiesa apostolica. Solo cosí i sinodi si salvano dal pericolo di soggiacere ad una docilità troppo supina alle sollecitazioni del potere laicale.

Naturalmente è da tener presente che le false decretali non sarebbero state mai e poi mai redatte nei termini in cui noi le possediamo, se la Santa Sede, al momento della loro redazione, non fosse stata già in possesso, nel mondo occidentale, di un potere di cui era indispensabile ottenere il concorso per assicurare l'indipendenza necessaria alla Chiesa nell'Impero franco.

Ed ecco allora che un documento abilmente redatto, suggerito da peculiari controversie economiche e giurisdizionali della Chiesa franca nelle sue controversie con la Chiesa celtica e pervaso dal bisogno di premunire i possessi ecclesiastici e piú genericamente la giurisdizione vescovile dalle immancabili manomissioni di un potere laicale che tanto piú mirava ad ingerirsi di affari ecclesiastici in quanto era uscito da un solenne atto consacratorio della Santa Sede; un documento compilato, con molta probabilità, nella provincia ecclesiastica di Tours, diviene un testo ufficiale per la Chiesa stessa di Roma per la giustificazione del proprio potere universale.

A norma delle vecchie decretali ecclesiastiche compilate dall'anonimo raccoglitore, il Papa possiede nella Chiesa il supremo potere legislativo senza condividerlo affatto con l'episcopato. Egli è superiore ai Concilî di cui deve disciplinare l'azione e confermare le decisioni.

Nicola I nell'865 dava una esplicita sanzione e un ufficiale riconoscimento alle false decretali isidoriane, condannando la dottrina del vescovo Incmaro secondo cui i canoni e i sinodi sono superiori alle decretali pontificie. Nicola I pone invece l'autorità delle decretali al disopra di ogni sentenza sinodale e in virtú di esse pone l'autorità del Pontefice al disopra di qualsiasi sentenza vescovile o sinodale. L'universalità del potere pontificio ha cosí, in un documento apocrifo e surrettizio, la prima sanzione giuridica e il primo riconoscimento ufficiale.

Proprio nel medesimo torno di tempo l'autorità del Pontefice romano, cosí gagliardamente appoggiata all'autorità imperiale da una parte, dall'altra a una raccolta apocrifa escogitata per garantire i vescovi stessi dalle intrusioni di questo potere imperiale, riceveva in Oriente un colpo di una gravità irrimediabile.

La creazione dell'Impero occidentale con tutte le sue conseguenze faceva perdere a Roma l'Impero d'Oriente.

Bisanzio era anch'essa e per le peculiari circostanze della vita etnica e politica dell'Oriente europeo e come sotto la ripercussione degli avvenimenti occidentali, ad un'ora decisiva della sua storia.

A mezzo il secolo nono, lungo tutte le frontiere della monarchia bizantina si muoveva un oceano confuso e turbolento di tribú selvagge, residuo della vasta invasione che fra il quinto e il settimo secolo aveva mancato poco non sommergesse l'Impero. A nord-ovest della penisola balcanica si muovevano i Croati e i Serbi, giunti cosí, lungo il litorale dalmatico, fin sulle sponde dell'Adriatico. A nord-est, fra il Danubio e l'Emo, si allineavano i Bulgari, sovrappostisi alla popolazione slava della regione e slavizzatisi al suo contatto.

Al di là di questi Stati costituitisi su l'antico territorio imperiale si spiegava, oltre il Danubio, la grande Moravia, altro Stato slavo anch'esso occupante il territorio dell'attuale Ungheria. Orde magiare premevano sempre piú. Nella valle media del Dnieper intorno a Kiev si muovevano i Vareghi che con Rurik e i suoi compagni arrecavano agli Slavi della Russia un primo embrione di organizzazione sociale.

Piú a sud ancora, lungo il Mar Nero, dal Danubio al Caucaso, sul corso inferiore del Dnieper, si stendevano i Peceneghi di razza turca, mentre sul Don vivevano i Khazari.

Bisanzio si trovava dinanzi questa multiforme corona di popoli appena appena iniziati alla vita civile, posti al bivio di andare a cercare le fonti e le forme della loro educazione o a Roma o alla nuova Roma del Bosforo. Era un conflitto formidabile quello che si profilava all'orizzonte fra la vecchia e veneranda metropoli del Tevere e la capitale imperiale che Costantino le aveva contrapposto ad Oriente: si trovavano in giuoco le sorti stesse unitarie o divise della civiltà europea.

Purtroppo, quel che avrebbe potuto essere l'elemento riconciliativo fra i due centri, quel Mediterraneo cioè che all'epoca dell'Impero augusteo aveva rappresentato effettivamente l'elemento connettivo di tutta la Romània, secondo la denominazione usata dagli scrittori dell'epoca di Agostino per indicare il dominio unitario di Roma, era percorso ancora dalle scorribande islamiche e il sogno crociato non aveva ancora illuminato la coscienza cristiana dell'Occidente.

Fu fatale legge storica che Roma volgesse l'asse della sua politica unificatrice, attraverso l'insegnamento e la disciplina del Pontificato romano, verso le popolazioni occidentali.

Cercò in qualche modo anch'essa di far giungere alle popolazioni slaviche, calanti verso il Sud e propagantisi verso l'Occidente, la voce del suo insegnamento e il prestigio del suo magistero.

Ma come in pieno quarto secolo, all'epoca dell'imperatore Costanzo e della propaganda dell'arianesimo, ci fu sulla linea del Danubio una parete divisoria fra la ortodossia occidentale e l'eresia orientale, cosí anche ora la necessità di salvaguardare l'unità dell'Impero carolingico fu piú forte di qualsiasi possibilità di proselitismo verso Oriente.

Gli sforzi sporadici compiuti in questo senso attraverso alternative delle direttive pontificali che travolsero la Curia romana in uno dei piú foschi drammi della sua storia, furono sommersi e sopraffatti dal pencolare preponderante delle popolazioni slave, nuovamente battezzate, verso la capitale bizantina.

Furono missionari bizantini che, propagandando la fede orientale, iniziarono al cristianesimo le popolazioni rozze, calanti dal Nord-Est, insegnando in pari tempo ad esse, attraverso la religione, tutto quello che costituisce lo Stato organico e civilizzato.

Ai popoli da lei convertiti, Bisanzio ha dato la nozione del governo e i principî del diritto, le forme di una vita piú raffinata e la cultura intellettuale ed artistica.

I suoi ingegneri costruirono le città dei Khazari come i suoi architetti edificarono le chiese dei Russi. Le sue cronache tradotte in bulgaro, in serbo, in russo, offrirono agli annalisti slavi gli esemplari che questi imitarono. Le sue leggende popolari affascinarono la fantasia di questi popoli adolescenti, avviati contemporaneamente alla professione cristiana e alla educazione della intelligenza e della fantasia.

Ma c'è ancora qualcosa di piú grande e di piú decisivo che Bisanzio ha dato agli Slavi, e questo è l'alfabeto e la lingua letteraria, il giorno in cui Cirillo e Metodio, gli «Apostoli degli Slavi», incaricati dall'imperatore Michele III di evangelizzare i Moravi, tradussero per i nuovi convertiti i libri santi in un dialetto slavo e inventarono, per fissare questo dialetto nello scritto, la scrittura glagolitica, derivandola dalla minuscola greca.

Infine le razze dell'Europa orientale trovarono nei Bizantini gli annalisti delle loro origini. Sono Menandro e Teofane, il Porfirogenito, Leone Diacono e Cedreno che ci hanno conservato le primitive memorie storiche di Russi e di Ungheresi, di Serbi e di Croati.

Ancora oggi, in tutto il mondo slavo milioni di fedeli ortodossi usano l'alfabeto cirillico e lo slavonico ecclesiastico, inventati piú di dieci secoli fa dai due fratelli Metodio e Cirillo venuti da Tessalonica.

Questo grande rivolgimento etnico-politico si effettua, per una singolarissima coincidenza storica, proprio mentre ad Occidente dell'Europa Roma prende sotto la sua tutela quell'amalgama di popoli e di tradizioni culturali che Carlo Magno effettua e favorisce sotto il suo regno.

Quale sarebbe stata mai la convivenza di questi due grandi organismi morali e politici e quali ne sarebbero state le scambievoli comunicazioni?

La lotta iconoclastica aveva lasciato un penoso strascico di rancori, di recriminazioni, di malintesi. È sotto la foschia temporalesca di quella persecuzione che Roma aveva guadagnato piú che mai nitida la consapevolezza della sua efficiente autonomia e l'aveva volta a farsene strumento di rinnovamento unitario nell'Occidente europeo.

Di rimbalzo, Bisanzio guardava con tanto maggiore diffidenza la potenza occidentale di Roma e ne era tratta d'istinto a rinchiudersi in una sua autonomia che, data la mentalità orientale, non poteva non essere religiosa oltre che politica e culturale.

Teofilo, il penultimo imperatore iconoclasta della dinastia dei Leoniani, moriva nell'842. La vedova imperatrice Teodora assumeva le redini del governo, come tutrice del figlio minore Michele III a cui la vita sregolata meritò l'appellativo di Ubriaco.

Teodora restituiva il culto delle immagini, chiudendo cosí la lunga parentesi delle agitazioni religiose orientali attraverso cui gli imperatori della dinastia leoniana avevano, per la piú gran parte, cercato di rafforzare la potestà dello Stato a danno della potestà monastica ed ecclesiastica.

Ma insieme con l'imperatrice curavano la tutela del minorenne erede tre dignitari di corte profondamente diversi l'uno dall'altro per temperamento, per aspirazioni, per formazione spirituale: Teotisto, Emanuele, Bardas. Il terzo, piú ardimentoso e intraprendente degli altri, raggiunse ben presto un prepotente primato.

Nell'854 Teodora si ritraeva dalla sua amministrazione, Emanuele si ritirava dalla corte, Teotisto moriva in carcere.

Bardas, piú abile e sagace, con la dignità di Cesare prendeva nelle mani le redini del potere.

Era patriarca di Bisanzio Ignazio, figlio del disgraziato imperatore Michele Rangabes. Vissuto dall'età di 14 anni nel cenobio di Satira, dove aveva diviso il suo tempo fra l'esercizio della pietà e lo studio delle scienze sacre, aveva raggiunto tal fama di virtú e di umiltà che alla vacanza del patriarcato, alla morte di Metodio, la voce pubblica lo designò alla successione, data anche la nobiltà del suo lignaggio.

Installato sulla sede patriarcale di Costantinopoli, Ignazio non poteva non portarvi, si direbbe, i suoi sentimenti di famiglia e le sue reminiscenze ancestrali.

Bardas non godeva le sue simpatie e poiché la vita privata di costui non era delle piú raccomandabili, Ignazio lo allontanò dalla comunione sacramentale.

Quando Teodora lasciò la corte per chiudersi in un convento, Ignazio fu additato come complice di un complotto destinato a sbalzare Bardas dal suo dispotico potere. Fu pertanto spogliato della dignità patriarcale e relegato nell'isola di Terebinto.

Bardas innalzava allora alla dignità di patriarca un uomo fatale all'unità religiosa della Cristianità europea, Fozio. Era semplice laico e dignitario di corte, di una cultura vastissima, (il suo Mirobiblios, che è un riassunto delle sue letture, tradisce una erudizione prodigiosa), esperto nelle scienze sacre e profane: era ritenuto dai suoi contemporanei come l'uomo piú dotto che vivesse nell'Impero. Possedeva una singolarissima duttilità di spirito, risorse infinite di dialettica, una eloquenza appassionata, che gli conferiva un ascendente sovrano sulle masse.

Accettò senz'altro l'alta situazione procuratagli da Bardas.

Era un'intrusione irregolare, perché Ignazio si era dignitosamente ed ostinatamente rifiutato di formulare l'atto delle sue dimissioni, e d'altro canto Fozio doveva passare di colpo dallo stato laico alla dignità patriarcale.

Si trovò un vescovo greco di Occidente, Gregorio Asbestas di Siracusa, che, profugo a Costantinopoli per motivi tutt'altro che raccomandabili, si prestò a consacrarlo patriarca.

Il decimo canone del concilio di Serdica vietava la subita elezione vescovile di un laico. La consacrazione di Gregorio Asbestas era pertanto tutt'altro che regolare.

Una certa insurrezione contro l'elezione di Fozio si determinò fra l'episcopato orientale, ma Fozio riuscí ad averne ragione convocando una congrega di vescovi fedeli che sottoscrisse l'anatema d'Ignazio e la scomunica dei recalcitranti.

Tuttavia la dignità patriarcale bizantina non avrebbe potuto essere considerata valida senza una sanzione romana e Fozio cercò di estorcerla con l'astuzia ed il raggiro. Nell'859 pertanto un'ambasceria partiva da Bisanzio per Roma, incaricata di informare il Pontefice degli avvenimenti orientali secondo una versione naturalmente addomesticata.

La qualità delle persone prescelte per l'ambasceria, la copia dei donativi che essa arrecava con sé, minutamente descritti dal compilatore del Liber Pontificalis, avrebbero dovuto lusingare e sollecitare l'amor proprio di Papa Nicola I, tutto impegnato ormai in una politica, diciamo cosí, occidentalistica. Il sagace Pontefice non si lasciò prendere in inganno. E poiché da Bisanzio si domandavano rappresentanti romani che assistessero e presenziassero e sanzionassero con la loro presenza un sinodo destinato a metter fine alla polemica iconoclastica, Nicola scelse legati adatti, incaricati però di astenersi da qualsiasi sentenza definitiva sulla legittimità della sostituzione patriarcale che aveva veduto Ignazio cacciato in esilio e un laico improvvisamente rivestito dì infule sacerdotali.

Roma dovette avvertire che al di là di quella sostituzione di persone si nascondevano cospicui interessi non solamente di corte bensí anche di orientamenti politici e religiosi, al cospetto di quelle nuove masse slave che si avviavano alla iniziazione cristiana e si sarebbero ben presto trovate all'immancabile bivio fra Roma e Bisanzio.

I messaggeri papali portarono con sé due lettere papali, l'una all'imperatore, l'altra a Fozio.

La prima mostrava una certa sorpresa per il ritiro inopinato di Ignazio. La seconda si rifiutava senza ambagi di riconoscere l'avvenuta consacrazione prima di avere ricevuto dai legati una relazione diretta e scrupolosamente vagliata.

Giunti a Costantinopoli nel febbraio dell'861, i legati papali si accinsero ad assolvere il loro delicatissimo còmpito.

Non fu facile bisogna. La vecchia animosità tra le due capitali rivali ebbe modo di tradirsi attraverso una sorveglianza sospettosa e diffidente, che le autorità politiche bizantine organizzarono intorno ai rappresentanti del Papato romano.

Adagio adagio questi due legati, Rodoaldo di Porto e Zaccaria di Anagni, furono sapientemente circuiti e captati. Quando si trovarono dinanzi all'imponente assemblea di 318 vescovi nella chiesa dei Santi Apostoli e quando videro presentarsi Ignazio e assisterono alla violenta invettiva pronunciata contro di lui dall'imperatore Michele, il loro spirito tentennò.

Dimentichi della consegna ricevuta, non si levarono a difesa del reietto e non osarono contrapporsi alla manifesta maggioranza episcopale, guadagnata dalle arti e dalla nomea di Fozio.

La deposizione di Ignazio fu solennemente pronunciata, basandosi sul trentesimo canone apostolico comminante la deposizione del vescovo che si fosse servito della potenza secolare per rientrare in possesso della sua chiesa.

Roma era disfatta attraverso i suoi rappresentanti.

Nicola provvide a ristabilire la violata giustizia. I legati reduci da Costantinopoli recavano lettere dell'imperatore Michele e dell'usurpatore patriarcale Fozio.

La lettera di quest'ultimo è un vero gioiello di astutissimo accorgimento bizantino. Lo scrivente comincia col celebrare la virtú santa della carità cristiana, per concludere abilmente e sottilmente che nelle difficoltà in mezzo a cui l'aveva gettato l'inopinata elezione a patriarca, egli aveva fatto particolare assegnamento su un conforto caritatevole del Papa. I messaggi romani l'avevano invece amaramente deluso.

Dopo di che Fozio affrontava il lato canonico della sua situazione, osservando che di laici innalzati senza periodo interstiziale alla dignità episcopale, la storia ecclesiastica forniva esempi copiosi. Ricordava le elezioni vescovili di Nettario, di Ambrogio, di Tarasio. Dopo di che toccava discretamente le questioni pendenti tra la sede romana e la sede bizantina, tra cui capitale quella della giurisdizione religiosa sulle sedi vescovili della Bassa Italia, sulle quali Bisanzio non aveva mai cessato di rivendicare il predominio. Capziosamente Fozio osservava trattarsi qui di affari politici, non dipendenti dalla propria volontà, quasi che un patriarca potesse abdicare al suo intervento giurisdizionale in questioni di gerarchia episcopale, per demandarne la competenza all'autorità politica.

Nicola rispose. In tale risposta egli si dilungava rivendicando il dovere e il diritto della sede episcopale romana di intervenire in tutti i singoli affari religiosi della Chiesa cristiana.

«Noi dobbiamo con ogni cura evitare», egli scriveva, «che si possa a noi applicare il detto profetico: – Ecco dei cani muti, incapaci di latrare. – Noi dobbiamo piuttosto ottemperare al precetto dell'Apostolo: – Insisti e vigila tempestivamente e magari intempestivamente. – Risulta bene infatti che la Chiesa romana, attraverso il beato Pietro principe degli Apostoli, il quale meritò di ricevere il primato ecclesiastico dalle labbra del Signore, è stata costituita centro e capo di tutte le Chiese».

Nicola rispondendo poi direttamente alle allegazioni del patriarca bizantino dimostrava come gli esempi allegati non servissero allo scopo, e come quindi fosse ingiustificata e irrecevibile la pretesa di Fozio di essere riconosciuto come legittimo patriarca. Contemporaneamente, notificava solennemente a tutti i vescovi orientali che Roma condannava le decisioni del sinodo bizantino di un anno prima.

Ricevuti poi ulteriori ragguagli direttamente da Ignazio, Nicola radunava nell'863 un sinodo a Roma, deponendo i suoi fedifraghi legati e scomunicando formalmente Fozio e il suo illegittimo consacratore.

La lotta era apertamente dichiarata. Sobillato da Fozio, lo stesso imperatore Michele III scriveva una lettera al Pontefice, cui questi rispondeva con parole elevatissime: «Se tu osi levare la tua minaccia contro i privilegi intangibili della Chiesa romana, bada bene che la minaccia non si ritorca su te. Ricordati che è ben pericoloso e rischioso e duro per te recalcitrare contro il pungolo. Che se tu non darai ascolto alle nostre parole, non rimane per noi che considerarti come il nostro Signor Gesù Cristo ci ha prescritto di ritenere coloro che tengono a spregio la Chiesa di Dio. Sia ben chiaro che i privilegi della Chiesa romana, sanzionati dalla parola del Cristo, nella persona del beato Pietro, privilegi tradizionalmente conservati dalla nostra sede, costantemente rispettati dai sacri ecumenici Concili corroborati, non possono essere né sminuiti né alterati e che nulla di umano può sovvertire quel che Dio ha statuito».

Frattanto a Costantinopoli maturavano avvenimenti politici di vasta entità che dovevano immediatamente ripercuotersi nei rapporti stessi fra le due capitali rivali.

La dinastia degli Isaurici, con quella sua politica iconoclastica che era in fondo un tributo piú o meno consapevole pagato alle tendenze spirituali delle confinanti popolazioni islamiche, era arrivata alla sua decrepita inanizione. La stessa figura repellente di Michele III, lasciato tutto in balìa di Bardas, era il simbolo e il sintomo di questa oramai precaria e peritura decrepitudine.

L'Impero doveva cambiare assolutamente tattica e direttive, se voleva ritrovare il suo sangue e la sua vitalità. Conveniva veramente tendere cosí all'infinito le asprezze e le rivalità col mondo occidentale, per soggiacere ad una politica accomodante e servile col mondo islamico propinquo?

Un cambiamento di uomini avrebbe immancabilmente rappresentato un radicale cambiamento di indirizzi e di programmi.

Un tentativo di riscossa da parte di Michele III per affrancarsi dalla opprimente tutela di Bardas, tentativo che sboccò nell'uccisione di quest'ultimo, segnò il principio della metamorfosi integrale dello Stato.

Aveva allora raggiunto un'altissima posizione a corte un macedone, di stirpe armena probabilmente, che, venuto dalla sua terra di origine a cercar fortuna a Costantinopoli, si era inizialmente imposto per la sua forza erculea e la sua destrezza nel maneggio dei cavalli. Michele III lo aveva chiamato presso di sé e lo aveva, soggiogato dalla sua imponente forza, innalzato alla dignità di coimperatore. Doveva esserne malamente ricompensato. Quando Basilio, tale era il nome dell'audace avventuriero, ebbe ragione di pensare che Michele cominciasse ad averlo in sospetto come aveva avuto in sospetto il precedente consigliere aulico, Bardas, lo fece assassinare e ne prese il posto.

Originata cosí da un regicidio, la dinastia che cominciava con Basilio I e che è nota appunto col nome di dinastia dei Macedoni, doveva segnare un'epoca di brillantissima gloria militare nell'evoluzione di Bisanzio.

Per centocinquant'anni, dall'867, anno della proclamazione imperiale di Basilio, al 1025, l'Impero bizantino conobbe un incomparabile splendore.

Ebbe la fortuna di avere alla propria guida politica una successione di sovrani che quasi tutti furono uomini notevolissimi.

Basilio I, fondatore della dinastia, Romano Lecapene, Niceforo Foca, Giovanni Tzimisce, usurpatori gloriosi che governarono sotto il nome di sovrani legittimi, infine Basilio II che occupò il trono per mezzo secolo, non hanno nulla davvero di quel che la fantasia popolare suole raffigurarsi quando si parla, con disdegno e con sarcasmo, di governi bizantini.

Furono invece anime energiche e dure, prive spesso di qualsiasi scrupolo e insensibili a qualsiasi pietà, volontà autoritarie e forti, molto piú preoccupate di farsi temere che di farsi amare, ma furono in pari tempo, anzi proprio per questo, uomini di Stato eminenti, appassionati per la grandezza dell'Impero, e illustri condottieri che seppero e vollero trascorrere la loro vita negli accampamenti in mezzo alle loro soldatesche, nelle quali scorgevano e amavano la sorgente prima e inattaccabile della potenza e del prestigio monarchici.

Furono amministratori abili, di una energia tenace e inflessibile, che nulla faceva esitare quando si trattava di assicurare il bene pubblico.

Non ebbero il gusto delle spese inutili, unicamente preoccupati com'erano di aumentare e di impinguare la ricchezza nazionale. Il fasto splendente della corte, la pompa delle cerimonie di palazzo, erano da essi ricercati soltanto nella misura in cui lo esigeva il fascino imperiale.

Ebbri di gloria, colmi di ambizione, questi sovrani vollero fare dell'Impero bizantino la grande potenza del mondo orientale, personificazione solenne dell'ellenismo e in pari tempo dell'ortodossia.

Mercè lo sforzo magnifico delle loro armi, la duttile abilità della loro diplomazia, il fiero vigore del loro governo, essi realizzarono infatti il loro sogno, facendo del loro periodo una epoca genuina di rinascita, una delle ore piú gloriose della lunga storia di Bisanzio.

Programma vasto il loro, che non poteva non sortire ripercussioni cospicue nei rapporti internazionali e nelle direttive religiose.

Nel momento in cui Basilio I saliva, attraverso un misfatto politico, al trono, la situazione della monarchia era ancora straordinariamente difficile. Appariva ben chiaro che la struttura stessa dello Stato doveva essere ricostituita.

Il rude contadino macedone che il delitto aveva innalzato al trono, possedeva tutte le qualità necessarie per soddisfare cosí formidabile còmpito. Era intelligente, ugualmente desideroso di ristabilire l'ordine nell'interno della monarchia e di restaurarne il prestigio all'estero.

Fu un sagace amministratore e un eccellente soldato. Durante i venti anni del suo regno egli seppe riporre su basi solide gli affari dell'Impero e in pari tempo assicurare la fortuna della propria casa.

Se fino allora l'Impero bizantino aveva cercato di mantenere rapporti di buon vicinato con le popolazioni islamiche confinanti, non disdegnando misure atte a solleticarne l'amor proprio e l'acquiescenza, anche se per far ciò era necessario vedere intorbidarsi i rapporti con l'Occidente ecclesiastico romano, ora, con gli imperatori macedoni, la politica doveva essere rovesciata.

Quale mai doveva essere il principale scopo della politica estera bizantina? Il miraggio dell'unità mediterranea splendeva sempre dinanzi agli occhi degli eredi, sia occidentali come orientali, di Roma. Ma questa unità mediterranea, rotta dall'invasione islamica, non avrebbe potuto essere ricostituita che a prezzo di parziali intese e di progressive rifusioni.

Mentre l'Europa occidentale si organizzava in maniera unitaria attraverso le progressive fortune dei Franchi, favoriti da Roma, Bisanzio quale via avrebbe dovuto prescegliere? Avrebbe cercato anch'essa di costituire una certa unità con le popolazioni slave sopravvenienti, tenendo a freno il prurito di conquista islamico, in vista di piú vaste fusioni future?

La politica isaurica doveva fatalmente cedere il posto ad una politica piú energica di fronte agli Arabi e ad una politica di piú intimo avvicinamento agli Slavi del Nord.

I Macedoni attuarono questo programma.

Fin dall'826 gli Arabi avevano conquistato Creta, divenendo essa cosí il flagello dei mari bizantini. Candace, la capitale dell'isola, costituiva ormai la base marittima della pirateria islamica. Da là, come da Tarso o da Tripoli di Siria, i corsari arabi devastavano tutto il mare Egeo.

Basilio I si dié a tutt'uomo a riorganizzare la flotta. In pari tempo riprendeva felicemente l'offensiva in Asia Minore. Fin dai primi anni del suo regno egli riusciva a riportare fino all'Eufrate i confini dell'Impero, riconquistando Samosata e conducendo fino in fondo in Cappadocia e in Cilicia campagne vittoriose.

Di pari passo con la sua forte politica militare Basilio mandava innanzi la sua rinnovatrice diplomazia religiosa. La quale però seguiva con dei contraccolpi, che sono una prova impressionante dei rapporti fra vita politica e vita religiosa, l'andamento delle vicende militari dell'Impero bizantino, avviato, attraverso una campagna indefessa contro l'invadenza araba, a ricostituire in qualche modo l'unità mediterranea e a determinare un nuovo incontro dell'Impero d'Oriente e dell' Impero d'Occidente, attraverso quella sua naturale via di comunicazione che è il Mezzogiorno d'Italia: quel Mezzogiorno d'Italia che non aveva mai cessato di essere nel medesimo tempo pomo di discordia e termine d'incontro di Roma e di Bisanzio.

Battuti in Anatolia e in Siria, gli Arabi si rifacevano nel Mediterraneo centrale, impadronendosi dell'isola di Malta, e spingendosi sulle coste sicule. Nell'878 essi conquistavano d'assalto Siracusa dopo un assedio di nove mesi. Un testimone oculare, il monaco Teodosio, ci ha lasciato di questo assedio memorando una descrizione raccapricciante. Egli racconta che durante l'assedio la popolazione fu ridotta all'estremo e che scene di una disperazione inaudita accompagnarono le estreme sofferenze della città.

In compenso le truppe di Basilio, condotte dal loro generale Niceforo Foca, oecupavano Taranto, risalendo il versante Adriatico delle regioni meridionali della penisola.

Usurpato appena il trono Basilio faceva ritornare immediatamente a Costantinopoli Ignazio, per reintegrarlo nella sua dignità patriarcale.

Fozio era senz'altro allontanato dalla capitale. Intento a riguadagnare la simpatia e la solidarietà di Roma, Basilio inviava al Pontefice legati che annunciassero il ritorno a rapporti di perfetta cordialità e di devota intesa.

Nicola I era morto proprio in quel torno di tempo e un altro Pontefice romano, Adriano II, ne aveva preso il posto.

Da quasi un secolo la sede papale era stata ininterrottamente occupata da ecclesiastici usciti dagli strati piú genuini della Curia e della cittadinanza romane.

Il Pontefice ricevette con i dovuti onori, nel momento della conciliazione, gli ambasciatori di Basilio.

Sarebbe stato mai possibile instaurare rapporti di cooperazione e di solidarietà fra la Bisanzio rivale di Roma e l'Impero occidentale che il Papato aveva consacrato per farsene usbergo e baluardo?

Un sinodo fu adunato nella chiesa di Santa Maria Maggiore e da esso il conciliabolo che Fozio aveva convocato per farsi dare un'investitura ufficiale fu paragonato al latrocinio di Efeso. E furono spediti a Bisanzio legati i quali avrebbero dovuto rappresentare la sede romana a quel Concilio ecumenico che Basilio aveva mostrato il proposito di voler convocare, per ridonare alla lacerata Chiesa bizantina unità e concordia.

I legati papali furono Donato vescovo d' Ostia, Stefano vescovo di Nepi, e il diacono Marino. Furono ricevuti a Costantinopoli con i piú grandi onori e in Santa Sofia si tenne il preannunciato Concilio, quarto costantinopolitano, ottavo ecumenico per universale riconoscimento (ottobre 869).

Nessuna questione teologale era dinanzi all'esame conciliare. Si trattava di sanzionare puramente e semplicemente una situazione disciplinare che aveva già ricevuto la sua aperta risoluzione mercè i decreti di Nicola e di Adriano: si trattava cioè di ribadire la condanna di Fozio.

I legati di Roma pertanto, prima di qualsiasi altro procedimento conciliare, chiesero che si leggesse e si approvasse una formula di unione fra le due Chiese, occidentale e orientale, che i legati avevano portato da Roma e che arieggiava da presso quella mandata già da Papa Ormisda a Bisanzio nel 519.

Ciascun vescovo dovette sottoscriverla col proprio nome. Alla formula seguiva l'impegno di bollare di anatema Fozio e il suo conciliabolo, di riconoscere le decisioni dei due sinodi romani tenuti sotto Nicola e sotto Adriano, di mantenersi saldi nella comunione con Ignazio, di obbedire indiscriminatamente alla sede vescovile romana, nella quale, si diceva, «risiede la vera ed integra salvezza della religione cristiana».

Il sinodo si chiuse con la condanna confermata di Fozio, del consacratore e dei suoi complici e con quella delle opere del patriarca condannato e deposto.

Innegabilmente l'umiliazione inferta da Roma alla sede che da secoli ormai le insidiava e le invidiava il primato, fu bruciante. Bisanzio non l'avrebbe tollerata a lungo.

D'altro canto le radici profonde della lotta rimanevano. A farle prorompere di nuovo sarebbero bastate le rivalità inestinguibili di razza e di tradizione fra romanità e bizantinismo; sarebbero bastate le persistenti gelosie politiche fra Impero bizantino e Impero franco nonostante i fuggevoli e precari contatti nella comune lotta contro la invadenza islamica; sarebbero bastate soprattutto le naturali ostilità fra potestà pontificia e potestà ecclesiastica bizantina dinanzi all'indirizzo da imprimere a quella iniziazione cristiana, verso cui si avvicinavano le popolazioni del Sud-Est europeo.

Tre giorni soli dopo la chiusura del Concilio, Basilio convocava a corte i legati pontifici, i piú eminenti rappresentanti dell'episcopato orientale, il patriarca Ignazio, l'ambasciatore del popolo bulgaro, di recente convertito al cristianesimo.

L'incontro, che avrebbe dovuto dare il suggello all'avvenuta riconciliazione fra Roma e Bisanzio, segnò invece, immediatamente, la ripresa dei contrasti.

Sembra che, ingannando la buona fede degli emissari papali, Basilio desse a credere al pubblico bizantinoche questi legati romani avevano riconosciuto il dovere, per il popolo bulgaro testè convertito, di sottostare ecclesiasticamente a Bisanzio anziché a Roma.

Dall'esilio Fozio poteva ricominciare, sulla base di questo inganno, a ordire la sua trama, mirante alla riconquista del seggio patriarcale, sempre in vista di una affermazione giurisdizionale della sede patriarcale stessa sulle neo-convertite popolazioni slaviche.

È a questo momento che l'insidia di Bisanzio a Roma, complici le complesse situazioni politico-etniche nella media Europa, assume l'andatura di un palpitantissimo dramma, e di rimbalzo la storia del Pontificato entra in una fase di peripezie che toccano il vertice del romanzesco e del macabro.

Occorre seguire queste peripezie istante per istante, per comprendere come la storia pontificale del nono secolo assuma un rilievo senza pari nell'organizzazione del mondo occidentale e piú genericamente del mondo europeo mediterraneo.

Adriano II era morto nel dicembre dell'872 dopo un breve Pontificato.

Era designato a succedergli un'altra eminente figura del clero romano: Giovanni VIII. Da circa un ventennio questi esercitava in Roma le alte funzioni di arcidiacono. Si presentava come una personalità espertissima negli affari, di ricche riserve d'animo, di attività desta e pronta, pari alle oscure e complesse esigenze dell'ora.

I problemi che si presentarono subito al suo governo pontificale erano della piú insidiosa difficoltà. L'Impero carolingico era nelle mani di Ludovico II. Da tre quarti di secolo l'Impero, consacrato da Leone III, aveva avuto agio di mostrare le sue capacità benefiche come le malefiche: i suoi vantaggi come i suoi svantaggi. Continuare nella medesima politica di solidarietà e di cooperazione avrebbe potuto avere l'aria di essere il miglior partito possibile, se i rovesciamenti politici di Bisanzio, l'iniziata politica antislamica dell'Impero d'Oriente, la salda linea seguita dalla nuova dinastia macedone, non avessero suggerito larga materia di riflessione e di meditazione alla Curia romana che non poteva prescindere dalla minaccia islamica giunta a lambire e a gravare minacciosamente sul Mezzogiorno italico.

Si aggiunga, sull'orizzonte dell'Oriente europeo, la comparsa sempre piú imponente di quelle nuove popolazioni slaviche che si affacciavano ai margini dell'Europa chiedendo una iniziazione e un riconoscimento.

Fin dall'864 i Bulgari di Re Boris si erano orientati verso Bisanzio. Indipendentemente dal pericolo insito nella loro inclinazione verso l'Impero d'Oriente, l'alleanza religiosa della comunità cristiana bulgara col patriarcato bizantino non faceva sorgere un principio di divisione fra i Bulgari e gli altri Slavi meridionali, tutti allora in procinto di unirsi invece al Pontificato romano? Un Papa accorto e vigile non avrebbe dovuto tenere il debito conto di questa delicatissima situazione?

Contatti fra Boris e la Curia romana non erano in verità mancati fin dall'epoca del Pontificato di Nicola. Nell'864 questi aveva mandato a Re Boris una missione con a capo due vescovi, Formoso di Porto e Paolo di Populonia.

Questi vescovi non erano andati col còmpito di prendere le redini della giovane comunità bulgara. Si direbbe che Boris cercasse di trar vantaggio da una possibile intesa con Roma nell'atto stesso in cui chiedeva istruttori ed educatori a Bisanzio. D'altro canto Formoso, chissà in che modo lusingato dall'idea di erigersi a condottiero delle nuove comunità cristiane slave, si mostrò incline ad accettare, contro il divieto dei canoni che condannavano un trasferimento di vescovi da una sede ad un'altra, di rimanere presso Re Boris.

La rivoluzione di palazzo a Bisanzio dell'867 aveva scompaginato tutte queste trame. La nuova politica di Basilio attirerà senz'altro ed incondizionatamente l'adesione di Boris.

Che cosa avrebbe fatto ormai Giovanni VIII quando nel dicembre del1'872 fu innalzato al soglio papale?

Avrebbe cercato di trattenere i Bulgari nella sudditanza romana o li avrebbe abbandonati senza contrasto alla giurisdizione bizantina? E d'altro canto quale atteggiamento avrebbe preso di fronte al forte governo di Basilio che richiamava le vecchie tradizioni dell'Impero per schierarle contro la petulante pressione islamica?

I primi atti del nuovo Pontefice furono energici e imperiosi. Cercò cosí di richiamare ad una diretta sudditanza Re Boris. Al patriarca riabilitato Ignazio, che Basilio aveva richiamato sul seggio patriarcale e che esercitava le sue pressioni sul medesimo re bulgaro, chiese di venire a Roma per dare spiegazioni. A Formoso, che era rientrato nella sua diocesi di Porto, dava ordine preciso di non pensare piú alla Bulgaria e poiché invece Formoso sembra non si rassegnasse alla sua modesta giurisdizione e seguisse ancora con animo nostalgico le sorti della comunità bulgara, Giovanni VIII lo escludeva dalla comunione ecclesiastica nell'876 con tutto il suo gruppo.

Giovanni VIII misurava tutta la complessità del problema politico-religioso nell'Oriente europeo e avvertiva sensibilmente la necessità di procedere con cautela attendendo il momento delle decisioni risolutive.

Come rassegnarsi a vedere la Bulgaria sottratta per sempre alla giurisdizione romana, ma d'altra parte come evitare rotture insanabili e violente con Bisanzio?

Dopo avere lungamente esitato, l'energico Pontefice si decideva ad un grave colpo. Nell'878 due suoi legati, Eugenio di Ostia e Paolo di Ancona, partivano per Costantinopoli con l'ordine formale di procedere alla deposizione di Ignazio qualora si fosse rifiutato di richiamare dalla Bulgaria il clero greco che vi aveva inviato.

Quando i legati giunsero a Costantinopoli, la situazione colà era completamente cambiata. Ignazio era morto il 23 ottobre dell'877 e Fozio, riconciliato con l'imperatore, consapevole anch'egli della necessità di non rompere bruscamente i ponti con Roma, aveva ripreso il seggio patriarcale.

Da lungo tempo Giovanni doveva essere rimasto colpito dal fatto che, nei riguardi della Bulgaria, Fozio si era rivelato rispettoso dei diritti pontificali molto piú di Ignazio. Ora che era stato reintegrato nella sua carica patriarcale, Fozio, in armonia con tutto il nuovo orientamento della politica imperiale, aveva sentito il bisogno di non irritare vieppiú le animosità romane e si era astenuto da qualsiasi nuova ordinazione in Bulgaria.

Giovanni VIII non poteva non tener conto di questo dato di fatto. E poiché ora l'imperatore si era riconciliato col già scomunicato patriarca, Giovanni VIII, gravato d'altra parte da tante e cosí opprimenti preoccupazioni per la situazione politica del mondo occidentale, non poteva non sentirsi attratto verso atteggiamenti piú condiscendenti al cospetto della sede bizantina e del suo occupante.

Anno tragico per lui l'879! Oppresso dal petulante vicino di Spoleto, gravato dalla minaccia perpetua di una incursione saracena, sfiduciato nei Carolingi dei quali nessuno osava raccogliere lo scettro imperiale caduto dalle mani di Carlo il Calvo, Giovanni VIII non aveva dinanzi a sé altra via che quella di appoggiarsi su Costantinopoli. Mentre il giovane Impero carolingico sembrava estinguersi di una morte immatura, il vecchio Impero d'Oriente non sembrava riacquistare con la nuova dinastia macedone forza e vigore?

Basilio prometteva al Pontefice l'invio di una flotta bizantina nelle acque romane quasi a compenso per il riconoscimento della reintegrazione foziana.

D'altro canto Bisanzio sembrava molto piú cedevole sul terreno della questione bulgara.

Probabilmente con una lucidezza che non può essergli attribuita che a merito, Giovanni VIII presentiva, inesorabile ed inevitabile, il momento in cui Bisanzio si sarebbe del tutto staccata dall'unità romana. Non era il caso di abbandonarla al suo destino, sia pure riconoscendo una figura ambigua come quella di Fozio, pur di salvare la giovane cristianità slava e affrancarla dalle sue pretese?

Se Giovanni VIII si è deciso ad assolvere Fozio l'intruso, non è stato davvero per debolezza come ha favo­leggiato la leggenda, trasformando perfino il sesso del Pontefice e facendo del Papa una papessa (la leggenda della papessa Giovanna è nata precisamente sulla sua bistrattata figura). A lui dovette apparire piuttosto che l'avvenire religioso di tutto un popolo nel bacino danubiano meritasse bene un compromesso di questo genere, circondato come fu da tutte le riserve e da tutte le restrizioni desiderabili.

Ci si domanda piuttosto se in questo modo, accettando e avallando la reintegrazione del patriarca già scomunicato in vista della salvezza religiosa e disciplinare del popolo bulgaro, Giovanni VIII non abbia in qualche modo precipitato lo scisma anziché scongiurarlo o ritardarlo.

Già nel secolo XIII Clemente IV, in un solenne documento papale, additava come unica origine dello scisma greco la reintegrazione patriarcale di Fozio.

Ed oggi molti storici sono proclivi ad attribuire a Giovanni VIII un eccesso di credulità, di buona fede e di condiscendenza.

Si tratta di un verdetto superficiale e affrettato.

Innanzi tutto non si deve dimenticare che giudicare Fozio doveva essere particolarmente arduo se in Oriente stesso e a Bisanzio i pareri su di lui e i sentimenti pubblici erano i piú contrastanti.

Fozio non era un volgare ambizioso e non era uno spirito privo di scrupoli, avido unicamente di dominio. È stato piuttosto un uomo dalle insigni capacità culturali e intellettuali, che ha sentito il decoro della sede patriarcale nel nuovo programma politico della dinastia salita al potere.

Avendo di mira unicamente l'autorità del magistero romano su quelle nuove popolazioni cristiane che si affacciavano sulle rive del Danubio, Giovanni VIII ha ritenuto che, riconoscendolo come legittimo patriarca, avrebbe potuto avere Fozio piú docile nella rinuncia alla giurisdizione sui Bulgari.

Non per questo rinunciò ad avere in mano documenti sufficienti della resipiscenza foziana. Gli chiese una confessione pubblica delle sue colpe passate. Giudicò insufficiente la vaga professione di umiltà pronunciata da Fozio nel sinodo dell'879. Di volta in volta accentua e fa piú esigenti i suoi reclami.

I legati papali, che avevano presenziato quel sinodo e che avevano quindi in qualche modo corroborato la reintegrazione foziana, erano oggetto di censura per non avere seguìto rigidamente le istruzioni ricevute e un nuovo legato, il vescovo Marino, fu inviato col còmpito di indurre il patriarca a soddisfazioni piú esplicite e a dichiarazioni piú esatte sulla formula circa la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio.

Non chiese di piú. L'opera di pacificazione religiosa meritava bene degli accomodamenti. Fozio dal canto suo espungeva dalle liste episcopali del patriarcato bizantino la giurisdizione bulgara e finché visse Giovanni VIII si mantenne docile e tranquillo.

Perché non si continuò in questa politica? Misteri della storia.

Quando Marino e Formoso, successi a Giovanni VIII, rinnovarono i loro anatemi, Fozio riprendeva la sua polemica contro gli occidentali e il dissenso si inacerbiva pencolando verso la irrimediabile catastrofe.

Bisanzio forse del resto aveva già esercitato troppo a fondo la sua azione avvelenatrice nelle file della giovane comunità bulgara.

Giovanni VIII doveva averne il vago presentimento. Sarebbe bastato togliere al patriarcato bizantino, per trasferirlo a Roma, il diritto di investire e confermare il capo della gerarchia ecclesiastica, per imprimere sull'esperienza cristiana del popolo neo-battezzato il segno romano anziché il segno costantinopolitano?

In fondo, attraverso secoli di vita spirituale molto piú separata in profondità di quanto lo lasciassero credere i rapporti ufficiali, il diverso orientamento iniziale sul terreno religioso di Roma e Bisanzio aveva prodotto largamente i suoi frutti.

La Chiesa, posta a rimorchio dello Stato, a Bisanzio era divenuta sempre piú un docile e passivo strumento di governo. Assurta a mansioni politiche lungo un paziente tirocinio di educazione spirituale, la Chiesa di Roma era giunta con la sua creazione dell'Impero a realizzare in qualche modo la separazione evangelica dei valori religiosi da quelli politici. La Bulgaria nasceva al cristianesimo sotto l'insegna bizantina. E ne aveva assimilato la metodica politica e i principi ideali.

Prima fra tutte le nazioni slave, la Bulgaria aveva cosí contratto quel che si può benissimo definire il funzionale e organico male bizantino, la passione cioè per la totalitaria autocrazia politica sotto le infule religiose.

Come piú tardi i Russi, allevati anch'essi alla scuola di Bisanzio, i sovrani bulgari non riescono a concepire un'organizzazione religiosa nazionale senza l'indipendenza da qualsiasi giurisdizione straniera e la sudditanza dell'amministrazione carismatica al potere assoluto del sovrano, che deriva direttamente da Dio la sua investitura e la sua missione.

La storia pertanto del primo Impero bulgaro fino alla sua caduta nel 1019 appare effettivamente come il tentativo di realizzare questa concezione pregiudiziale.

Boris tratta fino alla fine la sua Chiesa da autocrate incontrollabile. Suo figlio Simeone fu riconosciuto ufficialmente come sovrano di pari dignità dalla corte bizantina.

Frattanto un'altra grossa questione etnico-religiosa maturava nel Sud-Est europeo. I Moravi, chiusi nella valle della Morava, sottoposti al predominio germanico, cominciavano anch'essi ad aspirare ad una loro autonomia.

Quando una crisi di palazzo, la ribellione cioè di Rastiz a suo zio il re Moimir, scoprí piú apertamente le inframmettenze germaniche nel regime interno del paese, il problema di un affrancamento religioso oltre che politico si presentò dinanzi alla coscienza della comunità.

Rastiz aveva preceduto il suo popolo nella via del cristianesimo. Se il popolo avesse dovuto seguirlo, donde avrebbe preso la sua ispirazione e le sue direttive? Nell'863, dopo diciassette anni di regno, Rastiz avvertí che per la costituzione unitaria del paese occorreva una professione religiosa, aperta e solidale.

Si sarebbe rivolto, per una gerarchia ufficiale, ai vescovi germanici, a Roma, o a Bisanzio? Rastiz preferí rivolgersi a Bisanzio. Si inizia allora un sottile romanzo politico-religioso il cui epilogo avrebbe avuto conseguenze incalcolabili nello sviluppo della Cristianità europea orientale.

Viveva proprio in quel torno di tempo a Bisanzio presso la chiesa degli Apostoli un giovane prete che il suo nome originario di Costantino aveva cambiato in quello di Cirillo il giorno in cui, sentendosi prossimo a morire, aveva indossato la divisa monastica.

Era nato a Tessalonica nell'827 e dalla sua città natale aveva preso il senso delle avventure ardite e della ecumenicità spirituale. Fu egli il prescelto a compiere la missione cristiana fra i Moravi insieme con suo fratello Metodio.

Il loro spirito d'iniziativa li portò ad innovazioni liturgico-linguistiche di immensa portata.

Non esisteva fino allora alcun sistema di alfabeto capace di esprimere i suoni peculiari alle lingue slave. Mancava pertanto ai popoli slavi l'indispensabile strumento di ogni civiltà, l'arte cioè di ritenere e di diffondere per mezzo dello scritto il complesso di idee e di sentimenti che ogni generazione porta in se stessa e che, mancando il mezzo della trasmissione scritta, è distrutto dal tempo senza alcun profitto delle generazioni future.

Cirillo e Metodio crearono un sistema praticissimo di scrittura. Installatisi fra i Moravi, i due fratelli bizantini scrissero per la prima volta in caratteri slavi il prologo del Vangelo giovanneo. Erano così balbettate le prime sillabe di una lingua sacra attraverso cui per secoli e secoli avrebbero pregato e si sarebbero edificati milioni di uomini.

I missionari venuti da Bisanzio raccolsero larghi successi spirituali sul terreno del loro nuovo apostolato. Abituati a sentir parlare tedesco, questi Moravi furono felici di ascoltare nella loro lingua fraterna i documenti della rivelazione che era loro apportata.

Ed ecco profilarsi il problema formidabile. Cirillo era prete: Metodio non aveva neppure il sacerdozio. Da quale parte avrebbero attinto la consacrazione vescovile?

Non sappiamo con precisione se i due fratelli pensassero prima a Roma o a Bisanzio. Indubitabilmente non pensarono alla Germania.

Uscendo dalla Moravia la via piú naturale li portò a Venezia. Ma di qui per dove si sarebbero indirizzati? Venezia era cosí sulla via di Roma come su quella di Bisanzio.

Ma lí erano raggiunti da un invito di Niccolò I a recarsi presso di lui. Senonché il Papa che li aveva invitati morí in quel frattempo e i due fratelli attesero a decidersi.

L'esperienza di Venezia doveva averli fatti dubbiosi. Erano molti in quei paraggi coloro che credevano il Signore non potesse lodarsi che in tre lingue, le tre lingue della croce, il latino, il greco, l'ebraico. Roma si sarebbe attenuta a questa pregiudiziale? Quasi timorosi, i due fratelli avevan portato con loro dal Chersoneso, viatico da offrire a Roma, le reliquie leggendarie del vecchio vescovo di Roma Clemente.

A Roma il successore di Niccolò I, Adriano II, fece ottima accoglienza ai due missionari moravi e i libri sacri volti e fissati nella lingua di cui essi avevano inventato i caratteri furono dal Pontefice depositati solennemente sull'altare di Santa Maria ad Praesepe. Dopo di che Adriano ordinava prete Metodio. Avrebbe anche consacrato vescovo Cirillo se questi non fosse morto nel febbraio dell'869.

Ma ormai la via era ugualmente aperta. Roma riconosceva l'opportunità di ricostruire una diocesi morava, corrispondente all'antica Pannonia sottratta agli episcopati di Passau e di Salisburgo, direttamente dipendente da Roma.

Metodio poteva sul principio dell'870 riprendere vittoriosamente la via della Moravia. Ma vi trovò una situazione sconvolta. Rastiz, come fedifrago, era stato da abili sobillatori germanici chiuso in prigione e Svatopluk, suo nipote, era stato insediato al suo posto.

Metodio stesso fu imprigionato e rimase in prigione fino all'873.

La lotta era aperta fra la tendenza romanizzante e la tendenza germanizzante.

Evaso di prigione nell'873 Metodio corse a Roma e s'incontrò con Giovanni VIII, successore di Adriano.

Questi non nutriva sulla opportunità di una liturgia slavonica le medesime idee del predecessore. A suo giudizio non era conveniente celebrare i misteri divini in altre lingue che non fossero il latino ed il greco. Probabilmente scorgeva un pericolo grave per il magistero romano nell'uso di lingue ignote a Roma.

In un primo momento pertanto ritenne di dover proscrivere l'uso della liturgia slava, ma poi, a contatto con Metodio, vinto dalle doti del bizantino, proclamava e riconosceva solennemente la ortodossia del suo apostolato fra i Moravi, non solo, ma, scrivendo direttamente al re Svatopluk, autorizzava senz'altro la lettura biblica nella lingua slava e la spiegazione in slavo della liturgia.

Ma contemporaneamente a queste ampie assicurazioni date a Metodio e trasmesse ufficialmente al re Svatopluk, Giovanni VIII, quasi in uno sforzo di armonizzazione conciliatrice, dava a Metodio come suffraganeo un prete tedesco, Vichinge.

Quanto diverso non sarebbe stato l'avvenire delle popolazioni slave sul Danubio se la politica di Adriano II e poi quella piú accomodante di Giovanni VIII avessero avuto inalterabile prosecuzione attraverso i Pontificati che seguirono?

Può darsi che una concorde comunanza di lingua nella esplicazione della vita religiosa fra tutti i popoli slavi avrebbe tutelato e garantito la loro unità etnica di fronte agli assalti tedeschi e magiari.

Purtroppo meno di sei anni piú tardi Stefano V prendeva una decisione del tutto contraria a quella di Giovanni VIII, proscrivendo la liturgia slava ed imponendo un latinismo rigoroso.

Ma dove l'avventura raggiunge il piú complicato aspetto romanzesco è nel fatto che i documenti con i quali Stefano V impone la sua volontà affermano in maniera sorprendente che, proscrivendo la lingua slava dalla liturgia, Stefano V non fa che uniformarsi alle decisioni di Giovanni VIII.

Come mai Papa Stefano è caduto in cosí grave abbaglio? Eppure non era uno straniero: romano di origine, del quartiere aristocratico della via Lata, amico di Zaccaria di Anagni, bibliotecario della Santa Sede, Stefano era bene in situazione da poter conoscere tutti i particolari della controversia.

V'è di piu. Il confronto dei testi dimostra in maniera incontrovertibile che nel redigere la sua lettera di proscrizione della liturgia slava Stefano V si è avvalso proprio della stessa lettera con la quale Giovanni VIII si era dichiarato in suo favore.

Non si potrebbe immaginare problema storico piú strano e piú apparentemente insolubile di questo. Le decisioni di Stefano V sarebbero dunque fondate su una menzogna e su una falsificazione? Eppure è proprio cosí.

Sulla base dei testi e delle vicende note del momento, i fatti possono essere logicamente e invincibilmente ricostruiti.

Nel giugno dell'880 Metodio si congedava da Giovanni VIII dopo aver ricevuto l'approvazione della sua opera. Portava con sé la lettera di approvazione. Era diretta a Svatopluk e avrebbe dovuto essere pubblicamente letta e proclamata dinanzi al popolo.

Metodio dovette fare lunghi giri per giungere a destinazione, evitando i territori della Carinzia dove avrebbe corso rischio di ricadere nelle mani dei Tedeschi.

Nel medesimo tempo il vescovo, che incautamente Giovanni VIII gli aveva messo al fianco, non aveva questi timori e poteva passare tranquillamente in territorio germanico. Il viaggio ne era sensibilmente abbreviato.

Vichinge dal canto suo è il falsificatore della lettera affidata da Giovanni VIII a Metodio. Nessuno meglio di Vichinge comprendeva che il trionfo dello slavismo rovinava l'influenza germanica nell'Oriente danubiano.

Già da allora Tedeschi e Slavi erano di fronte gli uni agli altri e la vittoria della liturgia slava avrebbe rappresentato un clamoroso e forse definitivo scacco per l'influenza germanica nell'Europa orientale. Era il momento di manovrare per evitare un indirizzo religioso liturgico che avrebbe compromesso per sempre l'avvenire germanico.

Le prudenti cautele di Giovanni VIII sboccavano in un inganno storico pieno di conseguenze. Fiducioso in Metodio, Giovanni VIII si era trovato nella necessità di evitare ogni apparente favore ai Bizantini. Può darsi che la lettera da lui affidata a Metodio fosse ignorata da molti della Curia. Vichinge riuscí a ogni modo ad averne il testo e lungo la via del ritorno poté abilmente compiere la falsificazione.

Svatopluk si trovò pertanto due documenti dissimili. L'uno, la lettera portata da Metodio, di approvazione della liturgia slavonica, l'altra portata da Vichinge, di piena e recisa disapprovazione. A chi egli doveva tener fede?

Roma fu di nuovo interpellata in termini di disperato accoramento da Metodio. E Giovanni VIII immediatamente garanti l'autenticità della lettera portata da lui a preferenza dell'altra. E Svatopluk seppe a quale decisione attenersi.

Ma, stranissimo fatto storico, Vichinge, sconfitto in Moravia, riportava la sua rivincita a Roma.

A Roma il contrasto fra bizantini e germanizzanti si era andato aggravando negli ultimi anni.

Nel febbraio dell'881, in occasione delle solennità svoltesi per la incoronazione di Carlo il Grosso, Giovanni VIII aveva dovuto sconfessare apertamente tutta la sua politica di condiscendenza a Bisanzio e al suo patriarca.

Nella Basilica di San Pietro, sull'alto dell'ambone, col Vangelo in mano, dinanzi a tutta la corte imperiale, egli aveva dovuto giurare che riconciliandosi con Fozio non aveva voluto offendere e sconfessare l'operato dei suoi predecessori. I fuorusciti dell'876, Formoso e gli altri, erano stati tutti reintegrati per volontà imperiale.

Proprio in quel torno di tempo era giunta la notizia della falsificazione operata da Vichinge della sua lettera a Svatopluk. Pure rispondendo in modo da eliminare ogni equivoco alla corte morava, dovette mantenere una linea prudenziale.

Ma ormai poco rimaneva al suo Pontificato. A un anno e mezzo di distanza Giovanni VIII moriva, forse assassinato.

La sede romana cambiava nettamente politica. Marino I, Adriano III, e soprattutto Stefano V, rompevano definitivamente con Fozio.

Qualcuno dei formosiani nell'archivio del Laterano trafugava le lettere di Giovanni VIII che andavano dall'876 alla fine del Pontificato. Le lettere superstiti erano quelle che nella prima fase dei suoi rapporti con gli apostoli della Moravia testimoniavano l'ostilità di Giovanni a liturgie che non fossero greche o latine.

Era il momento buono per Vichinge. Ed egli veniva a Roma con la sua falsa lettera che fu accettata per buona. Questa servi a Stefano V, che la ritenne autentica per la sua condanna dello slavismo.

Questo falso perpetrato da un vescovo germanico fu decisivo per le sorti della razza slava.

Per secoli Roma non si allontanò piú da questa linea di condotta. Soltanto nel secolo XIII, quando il registro di Giovanni VIII fu conosciuto nella copia di Montecassino, l'atteggiamento di Roma di fronte alle liturgie slavoniche si fece piú temperato.

Ma ormai da secoli il male era compiuto. Dall'epoca del Pontificato di Stefano i discepoli di Metodio furono tutti eliminati dagli Stati di Svatopluk e al cadere del secolo IX la Moravia era preda degli Ungari sotto i quali doveva rimanere per lungo corso di secoli.

La politica dei successori di Giovanni VIII portava alla consumazione definitiva la scissione di Bisanzio da Roma.

Basilio, dietro ispirazione di Fozio, rigettava come invalida l'elezione di Marino essendo egli passato dall'episcopato di Cori a quello di Roma.

Essendo egli rimasto Papa soltanto due anni, Bisanzio non ebbe modo di sanare il dissenso che andava sempre piú facendosi aspro e violento.

Al successore di Marino, Adriano III, Basilio dirigeva una lettera in cui la memoria del predecessore era volgarmente insolentita, ma poiché anche Adriano III scompariva subitamente dalla scena del mondo toccava al successore, Stefano V, rintuzzare le impertinenze imperiali.

E Fozio allora ne riprendeva occasione per ingaggiare di nuovo la sua polemica contro l'Occidente nella sua grande opera sulla Mistagogia dello Spirito Santo.

La morte di Basilio nell'agosto dell'886 e la successione del figlio Leone, chiamato piú tardi il Filosofo, portavano ad un nuovo rivolgimento di parti.

Il nuovo sovrano confinava Fozio in un monastero suburbano dove la sua vita si spense oscuramente nell'891.

Leone designava a succedergli il fratello Stefano, cercandone da Roma il riconoscimento.

Nel medesimo tempo Leone si sforzava di far dimenticare da Roma la precedente politica favorevole a Fozio da parte della corte bizantina.

Le difficoltà delle comunicazioni fra Oriente e Occidente ritardarono però la momentanea riconciliazione che si effettuò soltanto per opera di Papa Formoso nell'892.

Tregua d'armi piú che pace: tregua che si trascinerà ancora per circa due secoli nascondendo in permanenza ragioni insanabili di conflitto e di incomprensione.

Nel groviglio sempre piú arruffato della politica europea, presa fra le lotte etniche, politiche e dinastiche originate dalla costituzione stessa dell' Impero occidentale che pure aveva voluto servire nelle intenzioni di Leone III all'unificazione del continente europeo, e le lotte in cui l'Impero bizantino era impegnato fra Slavi e Musulmani, il fattore religioso ed ecclesiastico riesce sempre piú difficilmente a mantenere il suo prestigio e la sua incolume vigoria.

Nulla l'avrebbe potuto meglio dimostrare della sorte disgraziata di quel Papa Formoso che dopo aver subìto l'ostracismo di Giovanni VIII a causa dei suoi atteggiamenti filobulgari e quindi anti-bizantini, era stato portato dalle circostanze a riconciliare la Chiesa romana con Fozio.

Un giorno il suo cadavere sarebbe stato dissotterrato dal sepolcro, collocato in San Pietro sulla sedia papale, sottoposto barbaramente a giudizio, oscenamente mutilato e gettato poi nelle acque del Tevere, per rappresaglia della casa spoletana, eliminata da lui dal giuoco delle forze che aspiravano alla corona imperiale. Quel Papato che, creando l'Impero d'Occidente, aveva creduto di potere in tal modo salvaguardare nel medesimo tempo i valori religiosi e i valori politici della nuova costituzione unitaria europea, precipitava cosí ignominiosamente nel baratro di quelle efferate violenze che accompagnano sempre le smodate ambizioni politiche e le rivalità dei partiti.

Cosí paradossalmente difficile è praticare nel mondo l'economia associata, insegnata dalla morale del Vangelo.

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