V LA NASCITA CAROLINGICA

Storici delle istituzioni politiche e dei movimenti culturali sogliono parlare di «rinascita» quando trattano dell'età inaugurata dalla incoronazione imperiale di Carlo Magno.

Ma si tratta di una designazione unilaterale ed arbitraria.

Quando ci si pone da un punto di vista globale e totalitario dello sviluppo storico e sociale del messaggio cristiano nella storia; quando ci si sforza di collocare l'età carolingica nel piano di sviluppo, logico e dialetticamente privo di qualsiasi soluzione di continuità, della rivelazione evangelica nella vita associata mediterranea; si intuisce di primo acchito che non è il caso di parlare di «rinascita», bensí solo e propriamente di «nascita».

Il ripristino di vecchie designazioni cadute in disuso; la resurrezione di istituti che solo all'apparenza appaiono reincarnazioni di istituti scomparsi; non sono dati sufficienti per parlare di improvvise reviviscenze di fatti e di fattori, superati dal processo collettivo dello spirito umano.

Se la novità introdotta nel mondo occidentale dal gesto consacratore di Leone III appare come una improvvisa resurrezione dell'Impero scomparso nel V secolo, e se il fervore culturale che si determina all'epoca di Carlo Magno e dei suoi successori sembra evocare dal sepolcro forme spente di cultura classica, in realtà la costituzione dell'Impero carolingico è una creazione originale cristiana, che va collocata nel piano ascensionale della Chiesa, chiamata ad assolvere mansioni di direttiva politica e di pedagogia intellettuale.

E non è senza profondo significato che il vescovado occidentale si assuma la responsabilità, di vastissima portata, di consacrare nuovo imperatore un sovrano d'Occidente, nel momento stesso in cui il cesaropapismo di Bisanzio ha mostrato, durante la controversia iconoclastica, di arrogarsi poteri spirituali che manomettono l'autonomia del fatto religioso e la piena libertà della vita ecclesiastica.

Oramai, nella piena maturità dei tempi, dopo che la irruzione islamica ha dilacerato l'unità romana del mondo mediterraneo, la duplice orientazione della comunità cristiana in Oriente e in Occidente ha modo di esplicarsi in tutte le sue possibilità e in tutte le sue vaste ripercussioni.

Mentre in Oriente il potere episcopale è sempre piú rigidamente asservito al libito governativo, Roma, libera nelle sue mosse, praticamente isolata da Bisanzio, cerca in Occidente quella cooperazione politica che se umanamente offrirà tutti i rischi delle cupidigie terrene, spiritualmente consentirà alla Chiesa una funzione pubblica di cui altrimenti non sarebbe stata capace.

L'incoronazione imperiale di Carlo Magno è senza dubbio l'avvenimento capitale e centrale del Medioevo. È anzi uno di quei rarissimi avvenimenti di cui, considerati in sé, si può dire che se non fossero accaduti, la storia del mondo sarebbe stata profondamente diversa.

Ma è vano e stolto immaginare che un passo di quell'importanza sia il risultato del proposito deliberato di un Papa o dell'accorgimento singolo di un sovrano.

Esso è piuttosto uno di quei fatti tipici di cui si può segnalare, passo per passo, la maturazione lenta e la preparazione sotterranea, di cui poi l'accadimento esteriore non è che l'epilogo tempestivo e il risultato appariscente.

Noi già abbiamo detto al principio di questa sistematica esposizione del ciclo di sviluppo del fatto cristiano nella storia che, trasportato sul terreno sociale e politico, l'annuncio cristiano, l'annuncio della rinascita gloriosa dei credenti nel Regno di Dio, che è trasfigurazione di valori e di cose, aveva determinato come conseguenza immediata una separazione netta e assoluta tra elementi politici ed elementi religiosi, operanti nel quadro della vita associata degli uomini.

L'inciso evangelico, «restituite a Cesare quel che è di Cesare ma a Dio quel che è di Dio», divenuto consegna di una società in evoluzione, la società mistica della Chiesa, aveva assunto una portata e una significazione variabili, in funzione delle circostanze peculiari in cui la società uscita dal Vangelo veniva a trovarsi e ad operare.

Per la Cristianità pre-costantiniana si era trattato, esclusivamente, di rivendicare l'autonomia della coscienza religiosa, al cospetto delle pressioni e delle ingerenze dello Stato totalitario romano.

Tertulliano, Ippolito Romano, Cipriano erano stati i veri indicatori intransigenti dell'assoluta incompatibilità tra valori religioso-cristiani e valori politico-statali, dal momento che questi ultimi erano conglobati in quell'Impero romano che non ammetteva e non consentiva evasioni e sconfinamenti dall'àmbito ecumenico dei suoi poteri e della sua giurisdizione.

Col passaggio di Costantino e dell'Impero ad una formale professione cristiana, il cristianesimo si era trovato in un serio imbarazzo ed immediatamente l'apologia e la teologia della comunità cristiana ufficiale si erano palarizzate su due direttive divergenti.

Già prima di Costantino, apologisti cristiani avevano cercato di mostrare una certa convergenza ideale fra la universalità progressiva dell'Impero di Roma e le finalità cattoliche del messaggio evangelico.

Dopo la conversione di Costantino scrittori orientali come Eusebio di Cesarea non avevano esitato ad imbarcarsi entusiasticamente verso le nuove prospettive dischiuse dal favore imperiale e a proclamare che oramai il Regno di Dio si era effettuato in qualche modo con la cristianizzazione ufficiale e propizia della corte imperiale.

In Occidente le resistenze all'accaparramento e all'asservimento cortigianeschi furono decise ed eroiche, specialmente quando, con il favore concesso alla professione ariana, cosí largamente fruttifera nel mondo del proselitismo barbarico, l'Impero mostrava di voler fare sua per sempre una concezione del messaggio cristiano che, sopprimendone gli elementi misterici, svuotava l'organismo ecclesiastico di qualsiasi autonoma funzione e di qualsiasi inconfondibile essenza.

Costantino si era proclamato vescovo per gli affari esteriori. Fu una pretesa che i sovrani di Bisanzio continuarono a fare costantemente propria, dando una portata sempre maggiore a quella zona di «affari esteriori» a cui essi avrebbero preteso di limitare i loro diritti statali.

Già agli inizi del quarto secolo e durante il suo corso, Osio di Cordova, Lucifero di Cagliari, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano, avevano rivendicato la libertà inviolabile e i diritti sacrosanti della Chiesa, sul terreno delle formulazioni dogmatiche e su quello dell'amministrazione carismatica.

Ma il problema che questi grandi scrittori occidentali avevano tenacemente risolto in nome dei diritti della coscienza cristiana si era venuto facendo, adagio adagio, piú urgente e piú complesso, di pari passo con la ingerenza sempre maggiore dei sovrani bizantini nella sfera della vita sacramentale e liturgica della comunità credente.

Per quanto ormai staccata da Roma, la corte bizantina faceva sentire su tutto l'Occidente cristiano gravosa e pesante la sua mano.

Non bisogna mai dimenticare che l'Impero romano continuava ad apparire, per tutti, Impero unico ed indivisibile. Anche diviso tra amministrazione occidentale ed amministrazione orientale, l'Impero era unico e i due imperatori apparivano come amministratori solidali del medesimo unico Stato.

Ma adagio adagio simile concezione appariva sempre piú come un'illusione giuridica. A mezzo il secolo ottavo il mondo orientale o bizantino-greco-slavo e il mondo occidentale-romano-germanico non rappresentavano per lingua, per composizione etnica, per interessi spirituali due mondi differenti e distinti?

Con la sua azione energica, con la sua politica lungimirante, con la sua forte coscienza spirituale, il Pontificato romano aveva potentemente contribuito alla delineazione delle rispettive posizioni. Fin dal tramonto del secolo quinto, quando Zenone aveva emanato quel suo editto d'unione che avrebbe voluto riconciliare ortodossi e monofisiti, i Papi di Roma, Felice III, Gelasio I, Simmaco, Ormisda, avevano rivendicato, di contro all'imperatore che ostentava animo di sacerdote e di principe, l'esclusiva potestà spirituale dell'episcopato e la suprema dignità magistrale del Pontificato romano. Gelasio specialmente aveva formulato in piena regola la teoria della distinzione dei due poteri, in una lettera incorporata piú tardi nel corpo giuridico della Chiesa occidentale.

Già nel 484, a due anni di distanza dalla promulgazione dell'Enotico, Felice III aveva richiamato l'imperatore Zenone al dovere tassativo di rispettare e di far rispettare i privilegi della Chiesa, la quale si deve reggere secondo le leggi proprie.

Ad un decennio di distanza Papa Gelasio ribadiva i medesimi concetti, proclamando senz'altro che qualora un reggitore cristiano presuma per la sua qualità di poter dettare sentenze in materia religiosa, non farà altro che meritarsi la qualifica di persecutore.

E nella famosa lettera all'imperatore Anastasio, la duodecima della raccolta delle sue lettere, Gelasio aveva definito che la vita umana associata è guidata da due poteri, quello sacerdotale e quello regio. Superiore il potere sacerdotale perché i ministri di Dio e dell'altare hanno al cospetto del Cristo giudice la responsabilità anche della condotta dei sovrani.

Gelasio trae la giustificazione della sua dottrina politica da una vera e propria filosofia della storia: se prima dell'avvento del Cristo vi furono figure che assommarono in sé la potestà sacerdotale e quella regale, come il santo re Melchisedecco, la loro apparizione nella storia non aveva che valore di simbolo. Se gli imperatori pagani hanno accampato la titolatura di pontefici massimi, questo è stato soltanto in virtú di una blasfema parodia voluta da Satana. Con la comparsa del Cristo nella storia, di quel Cristo che è vero re e sacerdote, gli imperatori dovevano necessariamente ripudiare qualsiasi insegna pontificale, come i Pontefici dovevano spogliarsi di qualsiasi qualifica regia.

Gelasio proclama in tutte le sue lettere che Cristo ha separato i due uffici, sicché una qualsiasi loro rimescolatura non potrà essere che nuovamente una blasfema caricatura satanica.

Papa Simmaco porterà piú innanzi il confronto gelasiano, distinguendo ancor piú nettamente fra l'honor imperatoris e l'honor pontificis.

Che il pensiero di Gelasio e di Simmaco non fosse espressione personale di una dottrina romana, fosse bensí la formulazione ufficiale di un pensiero comune a tutta la Cristianità occidentale, appare dalle opere degli scrittori africani del tempo.

Secondo Fulgenzio di Ruspe il vescovo e l'imperatore rappresentano le due autorità massime, e ciascuna di esse ha il suo ambito, oltre ai limiti del quale non può spingersi.

Naturalmente non mancano vescovi cortigiani che, come Eusebio di Cesarea in Oriente, anche in Occidente abbondano nei complimenti adulatori per il potere regio. Basta ricordare Ennodio di Pavia e il suo panegirico a Teodorico.

Come non mancano del resto in Oriente scrittori che si ribellano alla concezione aulica della tradizione eusebiana. Basta ricordare Massimo il Confessore.

Ma la linea politica della Chiesa appare chiara e coerente.

Quando pertanto nella prima metà del secolo ottavo la persecuzione iconoclastica ruppe definitivamente i collegamenti ideali fra Oriente ed Occidente, fra Roma e Bisanzio, la visione politica, pazientemente elaboratasi nel grembo della Cristianità occidentale, prese automaticamente forma concreta e incarnazione personale.

Questa concezione della duplicità dei poteri, cosí nettamente venutasi formulando nella tradizione della Curia romana, induceva ormai logicamente e fatalmente l'episcopato romano a ricercare in Occidente, in quell'Occidente che fin dall'epoca dell'imperatore Costanzo si era cosí fieramente levato in difesa dell'ortodossia di fronte all'insidia dell'Oriente ariano, il rappresentante degno di quella potestà regale che la Chiesa di Roma avrebbe contemporaneamente innalzato ed abbassato, per farlo sovrano degli interessi terreni e nel medesimo tempo strumento dei suoi interessi spirituali.

Situazione delicatissima di equilibrio instabile, ma sulla quale appunto per questo, in virtú di quella legge delle realizzazioni attraverso le antitesi che è il fondamento di tutta la dialettica pedagogica e fattiva del cristianesimo nel mondo, Roma avrebbe innalzato lembo a lembo la sua originale creazione politica e sociale.

Dove rivolgersi, se non ai Franchi? La Gallia cristiana era stata la grande conquista di Cesare, ma era stata anche la grande conquista di Cristo.

Quando a mezzo il secolo quarto l'Oriente di Costanzo aveva creduto di poter soggiogare, non solamente in politica, ma anche in religione, l'Occidente, la Gallia cristiana di Ilario di Poitiers aveva resistito come un sol uomo all'insidia contaminante.

La calata dei Franchi nella Gallia romanizzata e cristianizzata aveva determinato una progressiva assimilazione che doveva culminare nel battesimo ortodosso di Clodoveo.

Fu il primo dei capi tribú che seppe riunire i Franchi. Con lui si iniziava la dinastia dei Merovingi.

Se la sua vita e il suo governo furono maculati da delitti innominabili e da dissolutezze nefande, il suo battesimo lo redense, al cospetto degli scrittori ecclesiastici, da tutte le sue malefatte.

Si direbbe che questi scrittori presentissero il destino del popolo da lui capeggiato.

Gregorio di Tours, che scrive all'indomani dell'opera di Clodoveo, nel narrare i continui delitti del re ripete invariabilmente che ogni giorno Iddio faceva cadere un nuovo nemico di Clodoveo ingrandendone il regno perché egli «camminava diritto nelle vie del Signore e faceva ciò che al Signore era grato». Altrove egli lo chiama addirittura un novello Costantino.

E cosí altri scrittori piú o meno vicini parlano in modo da far chiaramente capire che in questo nuovo Costantino essi già prevedono Carlo Magno. Ed è veramente mirabile la persistente continuità con cui i Papi non cessano di seguire l'opera dei Franchi, imponendo ad essi la missione desiderata e preveduta dalla Chiesa.

Cosí l'imperatore Anastasio, anch'egli, dal canto suo, apprestando remotamente alla albeggiante potenza franca in Occidente gli elementi del suo riscatto e della sua futura imperiale affermazione, conferiva a Clodoveo le insegne di patrizio e di console che egli assumeva a Tours, dove i vescovi lo salutavano uomo di Dio, nuovo Costantino.

Fin da allora la sua capitale era fissata a Parigi.

Alla morte di Clodoveo il regno franco subí lacerazioni e discordie logoranti.

I quattro regni di Austrasia, Neustria, Aquitania, Burgundia, sorti e risorti dopo la morte di Clodoveo, si riducevano nel secolo settimo ai soli due primi, l'Austrasia e la Neustria.

Nella Neustria, formata dalla Gallia occidentale e meridionale, erano i Salici. In mezzo ad essi gli elementi romani avevano un netto e riconoscibile predominio. Nell'Austrasia invece erano i gruppi dei Ripuari e in grembo ad essi avevano la prevalenza gli elementi germanici, favoriti naturalmente dai contatti e dalle continue relazioni con la piú vicina patria antica.

Fra i due regni è viva la concorrenza che si esplica in particolare fra i due palazzi, dove primo ufficiale era il maestro o maggiordomo, le cui mansioni, dapprima unicamente amministrative, divennero sempre piú vaste attraverso la gestione delle finanze, fino senz'altro alla direzione suprema di tutto il governo.

Le ragioni del prevalere dell'una o dell'altra casa regale vanno ricercate in tutto l'andamento della civiltà mediterranea, a partire specialmente dalla irruzione islamica.

Il prevalere dei maggiordomi sulla stessa autorità regale ha fatto apparire i decadenti re merovingi sovrani deboli e spregevoli, incapaci di qualsiasi energico sforzo di volontà e di qualsiasi gesto autoritario. La tradizione li ha bollati col titolo di re fannulloni, destinati prima o poi a cedere il posto ai loro tutori e ai loro consiglieri, divenuti irresistibilmente loro fortunati rivali.

È una visione semplicistica, superficiale ed ingiusta della vera situazione e del genuino corso dei fatti.

Che ai Franchi dovesse spettare un destino eminente nello sviluppo della costituzione europea, mano mano che si andavano sgretolando i vincoli della vecchia Romània e che il centro di gravità di tutta la politica europea andava spostandosi verso il Nord, era cosa che si sarebbe potuta intuire dal momento stesso in cui i Franchi, venuti a contatto con le popolazioni gallo-romane, ne avevano assorbito l'infrangibile senso della solidarietà con Roma, e verso Roma avevano rivolto le loro aspettative e le loro speranze.

Le guerre fortunate che essi poi sostennero ad Occidente come ad Oriente li fecero ancor piú arbitri delle sorti continentali europee.

Ma quel che portò ad efficienza incontrastabile il regno d'Austrasia e i suoi maggiordomi fu lo stesso scompaginarsi della Romània di fronte all'espansione musulmana e il conseguente indebolimento del regno della Neustria.

Il regno franco sotto i Merovingi era costantemente apparso come una potenza dominata da una politica internazionale chiara e rettilinea: installarsi solidamente nel Mediterraneo.

Dal loro primo stanziamento in Gallia, i Merovingi avevano, si direbbe d'istinto, cercato di raggiungere la Provenza. Teodorico li aveva allontanati da colà. E allora essi erano stati tratti a pencolare verso la Spagna, ingaggiando la lotta contro i Visigoti.

L'arrivo dei Longobardi in Italia aveva rappresentato un formidabile ostacolo alla loro tendenza a calare verso il Mediterraneo, attraverso la penisola.

Una progressiva debolezza finanziaria corrode la potenza merovingica. Durante il corso del settimo secolo il tesoro di corte viene sensibilmente assottigliandosi.

Non ci sono piú i bottini delle guerre esterne: non ci sono piú neppure i sussidi bizantini. Il re non è un proprietario di terre che viva unicamente del loro reddito. Senza dubbio Gregorio di Tours ci è testimone che esistono copiose terre e villae costituenti il fisco sovrano. Il re ne dona in quantità, ne dilapida prodigalmente a profitto di amici e di chiese. Ma è evidente che il principale cespite degli introiti regali è l'imposta.

Però questa imposta, che come eredità di Roma non è stata mai abolita, sembra dare un reddito sempre piú basso. La verità è che l'imposta indiretta, vale a dire il pedaggio, è diminuita enormemente in rapporto alla diminuzione generale del commercio. Il quale rallentamento commerciale appare come la conseguenza di una crescente anemia del traffico marittimo, paralizzato dalla espansione dell'Islam sulle coste del Mediterraneo.

Questa decadenza del traffico doveva soprattutto colpire la Neustria, dove si trovavano le città commerciali. Per questa ragione la Neustria, la quale era stata la base della potenza regale, era fatalmente condannata a cedere adagio adagio di fronte all'Austrasia, dove la vita economica era disciplinata in molto minore misura dalla economia monetaria.

La decadenza del commercio toccò molto meno le regioni del Nord, essenzialmente agricole. Sicché si capisce come, dopo la rovina della economia urbana e commerciale, il movimento di restaurazione dovesse venire di là.

La decadenza del commercio, concentrando tutta la vita verso la terra, doveva d'altro canto dare all'aristocrazia una potenza che nessun'altra forza avrebbe potuto ostacolare.

L'Austrasia, che non aveva sentito le conseguenze della sparizione del commercio dalle città, dove l'amministrazione regia era meno sviluppata e dove la società gravitava tutta intiera intorno ai grandi dominî, doveva acquistare automaticamente una preponderanza sempre piú sensibile.

Alla testa della sua aristocrazia appare la famiglia dei Pipini, famiglia di grandi proprietari del Belgio che ha ad Héristal, sulla Mosa, la residenza favorita, nominata, a partire dal 752, come un palatium.

Bisogna tener conto di queste circostanze preliminari per comprendere lo sviluppo della politica cosí continentale come papale che porterà all'incoronazione dell'800.

Fin dalla morte di Clodoveo II, nel 656, i maestri di palazzo erano divenuti nell'Austrasia cosí potenti che già tradivano le loro tendenze a costituire un ducato separato ed autonomo. Ma i legami sempre stretti ancora tra Salici e Ripuari e dall'altro canto l'unità territoriale del paese, spingevano invece inevitabilmente alla formazione di un solo regno, con la prevalenza dei Ripuari.

Alla morte di Pipino il 16 dicembre 714, Carlo Martello vinceva le rivalità familiari e si accingeva, con la sua chiaroveggenza, a costituire stabilmente le fortune della propria dinastia. Con una serie di guerre vittoriose contro Sassoni, Frisi, Bavari, Alamanni, poneva termine all'invasione germanica.

Nel 732 vinceva a Poitiers i musulmani d'Africa, avanzanti dalla Spagna attraverso i Pirenei, con quella memorabile rotta che doveva restare avvolta in un alone di leggenda nelle canzoni di gesta.

Cinque anni dopo occupava la Provenza, riuscendo cosí a costituirsi signore di tutta la Francia, che tenne, inviolabile, fino alla sua morte, nel 741.

A lui succedevano i figli Carlomanno e Pipino. Si sarebbe potuto aspettare una delle consuete sanguinose contese fra i due fratelli, se Carlomanno, dopo le stragi da lui compiute nella guerra contro gli Alamanni nel 746, non avesse sentito il bisogno di andare a ritirarsi, stanco del mondo, nell'alta solitudine del Soratte.

Pipino rimaneva dunque solo. Erede non solo dei territori, ma anche dell'accorta saggezza del padre, sentí il bisogno di chiedere alla Roma dei Papi, che non era piú la Roma degli imperatori, un riconoscimento ed una consacrazione ufficiali, che venissero a legittimare di fronte al mondo la sua posizione regale rispetto all'erede dei Merovingi, Childerico.

Mandò pertanto una sua ambasciata al Papa Zaccaria, chiedendo se non convenisse a lui anziché a Childerico, che non esercitava di fatto alcuna autorità regale, il titolo di re. Il Papa compí allora un gesto di una importanza storica incalcolabile: si ingerí direttamente e personalmente nelle cose politiche, atteggiandosi a distributore di regni e a sanzionatore di vincoli di sudditanza, fra le comunità statali e il rispettivo sovrano.

La sua parola ebbe l'aria di volere semplicemente sanzionare uno stato di fatto. E poiché nell'Impero romano il principio ereditario di successione al trono non era stato mai apertamente e giuridicamente sanzionato, mentre tra i barbari l'elezione dei rispettivi re era pratica comune, il Papa sentenziò che, ove il bene del paese lo avesse suggerito, era ben conveniente che assumesse il titolo regale colui che di fatto la potestà regale esercitava.

Ed ecco il grande colpo di Stato. Nel novembre del 751, in un'assemblea di Grandi radunati a Soissons, Pipino era solennemente innalzato al trono e proclamato re «per consiglio e consenso di tutti i Franchi, con l'assenso della Santa Sede, per elezione della Francia intera, con la consacrazione dei vescovi e l'obbedienza dei Grandi».

L'elezione fu compiuta e secondo il costume germanico e a norma di un'originale pratica cristiana.

In nome del Papa, alla testa dei vescovi, Bonifazio, originariamente Vinifrido, missionario anglosassone che aveva già largamente propagato il nome cristiano fra le tribú germaniche, in mezzo alle quali egli organizzò la gerarchia cattolica, ponendola in relazione con quella di Francia, sottoponendole entrambe alla assoluta autorità del Papa, consacrava Pipino, al modo biblico di Samuele consacrante Saul.

Possiamo facilmente congetturare le ripercussioni vastissime di questo gesto consacratorio, di questo intervento papale nella politica continentale europea, di questa mano tesa dal vescovo di Roma agli usurpatori eredi di Pipino, cosí nelle sfere politiche longobardiche come nella corte imperiale di Bisanzio.

Il Papato sentí la necessità non solamente di destreggiarsi tra questi poteri in contesa per attenuare le impressioni del suo audace gesto politico, ma anche di escogitare un mezzo qualsiasi per legittimare una volta per sempre tutte quelle ambizioni territoriali che la sua preminente posizione morale e spirituale veniva automaticamente a suggerirgli, come frutto inopinato ma indeclinabile del rivolgimento profondo, politico, economico, sociale, che si era venuto determinando nel mondo mediterraneo.

Il Fustel de Coulanges scrisse già ai suoi tempi: «Se si considerino i 150 anni che seguono la morte di Clodoveo, si riconoscerà che gli uomini differiscono poco da quello che erano verso l'ultimo secolo dell'Impero. Trasportiamoci invece ai secoli ottavo e nono e si vedrà che sotto un'apparenza, forse, piú romana, la società è assolutamente differente da quella che era sotto il governo di Roma».

È questa elementarissima ed intuitiva constatazione che vieta di parlare di rinascita carolingica.

Qui noi assistiamo alla nascita pura e semplice di una nuova temperie storica, di una nuova configurazione, non soltanto politica e istituzionale, bensí anche economica, morale, giuridica.

Il cristianesimo occidentale è emerso adagio adagio dai lunghi secoli della sua maturazione religiosa e si sente oramai imporre dalle circostanze esterne un còmpito inalienabile: quello di tenere a battesimo nuovissimi rapporti fra società religiosa e società politica.

Mentre a Bisanzio la Cristianità, logorata dai lunghi dissensi che sono etnici prima che teologici, si abbandona senza resistenze alla manomissione completa dei poteri politici, la Chiesa romana, forte del suo autonomo magistero e della sua libera vita carismatica, in un mondo nel quale l'idea imperiale orientale non ha piú alcun valido e concreto potere, suscita, dal fascio delle forze barbariche, quella che meglio pare atta ad assolvere la sua funzione di cooperatrice, e la solleva per farsene strumento nella sua opera che, essendo spirituale, non manca però di avere infinite e capillari rifrazioni materiali e sociali.

E come la Chiesa d'Oriente escogita i suoi sistemi teologali quasi per farsene baluardo del suo potere, la Chiesa occidentale escogita atti giuridici fallaci e surrettizi, per giustificare, al cospetto del mondo e della storia, le pretese di dominio temporale che vengono formandosi e vengono fermentando all'ombra della originalissima nuova situazione europea.

È in questa temperie morale e storica che noi possiamo individuare le circostanze che debbono aver preparato nel mondo della Curia romana la compilazione fraudolenta di quel documento noto col nome di «Donazione Costantiniana», destinato a esercitare nel Medioevo una cosí profonda azione da determinare il modo comune di giudicare la validità e l'origine del potere temporale dei Papi.

La separazione dell'Occidente dall'Oriente in séguito all'occupazione islamica del Mediterraneo; la necessità per il Papato di trovare in un possesso territoriale la garanzia della sua libertà, di quella libertà religiosa che Roma vedeva cosí apertamente e funestamente manomessa a Bisanzio; l'opportunità di crearsi nella dinastia dei Pipini e dei Carolingi in territorio di Francia un usbergo tanto piú valido quanto piú lontano, nell'atto stesso con cui questa dinastia incipiente si rivolgeva a Roma per attenerne appoggio e consacrazione; tutte queste circostanze devono avere potentemente influito a far sì che qualcuno in Curia si desse a credere, quasi in virtú di una fantasmagorica autosuggestione, che Costantino, che aveva donato alla Chiesa di Roma la Domus Lateranorum, non poteva avere trasportato la capitale a Bisanzio senza avere in pari tempo elargito al Papato dell'età della vittoria ad Saxa Rubra un appannaggio conveniente. Il Constitutum Costantini è il frutto di questa autosuggestione.

Come tutti i documenti di artefatta compilazione anche il testo del Constitutum che noi possediamo in una duplice versione, latina l'una, greca l'altra, tradisce successive stratificazioni leggendarie ed apologetiche, mal giustapposte dal compilatore intenzionale.

Si ritrova innanzi tutto nel documento la leggenda del Papa Silvestro che avrebbe esercitato presso Costantino un'azione cosí provvidenzialmente salutifera.

A questa prima parte tra agiografica e confessionale fa séguito quella che è specificamente definita donatio. In questa seconda parte noi possiamo riconoscere elementi di una vera e propria teoria politica. Costantino vi dichiara di voler concedere al Papa una potestà terrena piú ampia di quella che non possegga lo stesso imperatore. La ragione addotta a giustificazione di simile enunciato si riduce al fatto che il Pontefice fa le veci di colui che Cristo ha eletto suo vicario in terra, vale a dire di San Pietro.

È da tener presente che il documento parla sempre del Papa come vicario del Principe degli Apostoli, non già come vicario di Cristo.

La sovranità temporale attribuita cosí a Papa Silvestro dal documento non è ancora una piena sovranità sul mondo cristiano. È semplicemente un calco del potere imperiale che seguita a sussistere in completa indipendenza.

Si direbbe che i manipolatori del documento abbiano pure sentito e abbiano quindi constatato la costituzione, di fronte all'Impero orientale bizantino, di un Impero occidentale o papale.

Il Constitutum si diffonde nel descrivere l'organizzazione gerarchica e lo spiegamento di dignità dell'uno e dell'altro Impero.

In entrambi, le insegne del potere e gli uffici si corrispondono con una perfetta simmetria: al Papa è concesso il diritto di portare la corona d'oro, il phrygium, lo scettro e le vesti imperiali, mentre ai suoi chierici sono conferiti l'onore e i privilegi connessi con le cariche del Senato e della milizia.

Il documento parla della corona aurea concessa a Silvestro, specificando però che il Pontefice non ha permesso che gli fosse posta sul capo, per rispetto alla corona chiericale, mentre invece ha accettato di coprirsi con il frigio, il cui candore designa la resurrezione del Salvatore.

Papa Adriano I, nella sua corrispondenza con Carlo Magno, è il primo Pontefice che fa esplicito e solenne e ufficiale rimando al documento pseudo-costantiniano, come titolo giuridico e legale ineccepibile delle rivendicazioni temporali del Papato. Egli parla esplicitamente «della gran donazione fatta da Costantino a Silvestro, in base al presupposto che non era giusto che l'imperatore terreno esercitasse la propria potestà, là dove l'Imperatore celeste aveva costituito il suo principato sacerdotale».

Ma quando Papa Adriano si riporta cosí alla pseudoDonazione Costantiniana, sono le vicende politiche italiane che già hanno posto, nella giurisdizione del Pontefice, quei territori sui quali egli invoca, attraverso la finzione costantiniana, l'investitura sovrana di Carlo. Tanto vero che quando Carlo accoglie presso di sé alcuni abitanti della Pentapoli, i quali erano andati a lui senza averne ricevuto il permesso dal Pontefice, questi protesta. «Come i Franchi – egli scrive – non vengono a Roma senza licenza del re, cosí costoro non avrebbero dovuto andare in Francia senza licenza del Papa. E come questi rispetta il patriziato del re, cosí il re dovrebbe rispettare quello di San Pietro».

Adriano si rifiuta di ammettere come lecito che Carlo si ingerisca negli affari di Ravenna, perché l'Esarcato e la Pentapoli appartengono oramai a San Pietro.

Un complesso di circostanze veramente sorprendente fa precipitare cosí nel corso della seconda metà del secolo ottavo gli avvenimenti, che da lunga pezza avevano fatto innalzare sempre piú in Occidente la potestà spirituale e politica del vescovato romano.

Destreggiandosi tra Costantinopoli e Pavia, Stefano II aveva tenuto a bada nel suo quinquennio di Pontificato, fra il 752 e il 757, l'insidia longobardica che, da Ravenna occupata, mirava su Roma.

E quando la situazione parve disperata, Stefano II rivolse la bussola della sua linea politica verso Pipino, annunciandogli una sua visita, e col pretesto di chiedere soccorso contro i possibili repentagli che al suo viaggio avrebbe potuto apprestare l'ira di Astolfo, il Papa chiese apertamente soccorso al sovrano franco che dai Papi aveva ricevuto la sua consacrazione.

Pipino accortamente intuisce il vantaggio di una piú stretta collaborazione con il Pontefice. E una solenne ambasceria franca venne ad assicurare Stefano II che la incolumità del suo itinerario sarebbe stata gelosamente salvaguardata.

E il Papa si pose in cammino. Con finissima diplomazia però il Pontefice passa da Pavia e cerca di farsi restituire da Astolfo le terre da lui occupate, che toccavano al Sud di Roma il castello di Ceccano, facente parte del ducato romano. Poiché Astolfo rifiuta qualsiasi concessione, il Papa continua il viaggio e traversa le Alpi.

Era il dicembre del 753. Nei pressi di Ponthion il Papa si incontrava col primogenito del re Pipino, Carlo, il futuro imperatore. Il 6 gennaio 754 il re stesso si faceva incontro al Pontefice, accompagnandolo per un buon tratto e profondendosi in manifestazioni di ossequio.

Fin dal primo colloquio diplomatico fra loro, il re si impegna a far restituire l'Esarcato e gli altri luoghi che vanno di diritto a Roma, non all'Impero, di cui non si parla piú ormai, ma a San Pietro, alla repubblica dei Romani, alla santa Chiesa di Dio.

Ed ecco qui il trapasso già effettuato. Pipino, che non avrebbe avuto nessun interesse a intraprendere qualsiasi guerra in favore di una restituzione territoriale in Occidente nell'interesse dell'Impero d'Oriente, si dichiara ben disposto a rivendicare terre da conferire alla Chiesa e al suo capo.

Gli stessi Longobardi, dal canto loro, possono essere stati soddisfatti che terre rivendicabili dall'Impero d'Oriente o conquistabili dai Franchi, figurassero sotto l'investitura giuridica dei Papi, con i quali, dovevano pensare, sarebbe stato sempre straordinariamente facile fare i conti.

Stefano II seppe abilmente destreggiarsi fra queste disparità convergenti. Che cosa si poteva sognare di piú conveniente in questo momento che immaginare una investitura sovrana, risalente all'epoca di Costantino? Stefano II, a buon conto, approfittava della sua permanenza in Francia per consacrare ed incoronare personalmente Pipino e la sua consorte Bertrada, insieme con i suoi due figli Carlo e Carlomanno. La dinastia dei Carolingi era costituita.

Ma Pipino dovette avere ben chiara la sensazione che Astolfo non avrebbe mai acconsentito alle decisioni adottatate a suo danno nel convegno di Ponthion. Calò quindi in Italia con un esercito, accompagnato dal Papa.

Scese fino a Pavia. Astolfo assediato dovette venire a patti. Patti effimeri e pace transitoria. Pipino aveva appena rivarcato le Alpi, che Astolfo era di nuovo in campagna contro il ducato romano.

A distanza di meno che due anni Pipino doveva di nuovo scendere in Italia. Vincitore nuovamente di Astolfo, imponeva patti piú duri. Oltre una forte contribuzione di guerra ed un annuo tributo, il re longobardo dovette cedere un maggior numero di città e dare nuovi ostaggi. Nel novero di queste città furono comprese Comacchio, Ravenna, tutto il paese fra l'Appennino ed il mare, da Forlí e Senigallia. Ne furono escluse la Marca di Ancona, Faenza, Bologna, Imola, Ferrara. Si trattava in sostanza dell'Esarcato e della Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona), con le riduzioni però apportate in tale territorio dalle conquiste longobardiche anteriori ad Astolfo.

Astolfo moriva pochi mesi dopo la pace gravosa e Stefano II lo seguiva nel sepolcro a poca distanza di tempo.

La costituzione dello Stato Papale doveva approfittare anche di questo trapasso di poteri.

La donazione implicita nella pace imposta dal re franco al re longobardo costituiva senz'altro il capo della Chiesa sovrano temporale. Padrone dell'Esarcato e della Pentapoli era naturale che egli aspirasse ormai anche al dominio effettivo del ducato romano. Non si trova piú a Roma un duca. Evidentemente il Papa ne fa le veci, non senza la resistenza della nobiltà laica e dell'esercito, rintuzzata fierissimamente dalla nobiltà ecclesiastica.

Il successore di Stefano, Paolo I, continuando sempre piú apertamente la politica di Stefano, reputa opportuno rinnovare l'invocazione di appoggio al re Pipino, contro le sempre minacciose velleità longobardiche, rappresentate ora energicamente dal successore di Astolfo, Desiderio.

Il decennale Pontificato di Paolo I fu agitato dalle turbolenze dei Longobardi di Nepi e di Spoleto. Alla sua morte, queste turbolenze riescono a varcare le mura stesse di Roma e a far sentire il peso della forza armata sull'elezione pontificia.

Due Papi improvvisati, Costantino e Filippo, rappresentanti del partito longobardo, hanno per breve ora la possibilità di rivestire le insegne pontificie. Violente, barbariche sollevazioni di popolo fanno loro oscenamente espiare l'audace ambizione.

Stefano III, già amico fedele di Paolo I, stenta a dominare le discordie cittadine, su cui si ripercuote la rivalità dei due figli di Pipino.

Questa rivalità parve non potesse avere altra risoluzione che quella determinata dal matrimonio di Carlo con Desiderata, figlia di Desiderio.

Quanto ormai quello sforzo del Papato per costituirsi sovrano appoggiato su possessi territoriali, potesse indurre il supremo magistero ecclesiastico a perdere di vista gli interessi spirituali del Vangelo per la garanzia dei propri interessi materiali, si vide ben chiaro in quella occasione.

Quella conciliazione di Franchi e Longobardi, che avrebbe dovuto sorridere al suo animo di pastore universale dei fedeli, è invece definita da Stefano III come «una diabolica unione fra la nobilissima gente dei Franchi e la iniquissima dei Longobardi».

In realtà, quella combinazione matrimoniale aveva voluto mascherare incompatibilità etniche e morali inconciliabili.

Carlo ripudiava ben presto la propria moglie Desiderata, scavando ancor piú profondo l'abisso fra i due popoli.

La situazione si semplificava, anche se poteva apparire piú ardua e minacciosa.

Quando, alla morte di Stefano III, Adriano I nel 772 era innalzato al Pontificato, la sua anima fieramente religiosa trovava tutte le circostanze propizie per lo spiegamento di quella autorità pontificale che si era ormai avvolta in un cosí vasto alone di luce e di energia.

Era il momento delle grandi decisioni.

Si potrebbe dire che fino allora i rapporti del Pontificato col regno franco avessero avuto carattere di approcci e di premesse. L'ora della esplicita e solenne conclusione si avvicinava.

Adriano cominciava con l'intensificare i suoi appelli a Carlo.

Come sempre, quando una diuturna e inafferrabile maturazione storica si va avviando al suo epilogo, il corso dei fatti si fa ora piú accelerato, piú preciso.

Fra la pressione dei Longobardi vicini e la tutela che, si può prevedere, sarà anch'essa accaparratrice e premente del regno franco, ma sarà sempre lontana; mentre l'Impero d'Oriente si fa sempre piú remoto, nelle nebbie caliginose della sua politica statolatra; e per tutta l'Italia la larga corrente migratoria degli asceti greci fuggiti alla persecuzione iconoclastica (le fonti parlano di diecine di migliaia di profughi), diffonde i suoi lai e le sue iraconde recriminazioni, il Papato si avvia sempre piú decisamente con Carlo ad una intesa di cui probabilmente non riesce neppure ad antivedere al momento l'efficienza e le conseguenze.

Fra il 772 e il 773, mentre Desiderio, di nuovo occupato l'Esarcato ed entrato nella Pentapoli, si avvia verso il territorio romano, Adriano sollecita ancora una volta l'aiuto franco e nuovamente Carlo scende in Italia. Dopo aver vinto i Longobardi reputa giunto il momento di scendere fino a Roma a celebrarvi la Pasqua del 2 aprile 774.

A trenta miglia di distanza dalla città, presso il lago di Bracciano, il re incontra i primi dignitari mandatigli incontro da Adriano. Avvicinatosi alle porte dell'Urbe è accolto dalla milizia e da tutta una moltitudine, che fa a lui le medesime acclamazioni use a farsi all'Esarca. Il re si avvia poi verso San Pietro, dove è atteso dal Papa circondato da tutto il suo clero.

Il 6 aprile, quarto dí della settimana pasquale, Adriano e Carlo riconfermavano solennemente la donazione fatta da Pipino. Questa volta veramente la pseudo-donazione costantiniana produceva tutti i suoi effetti. In questa donazione si diceva esplicitamente che Costantino cedeva «la città di Roma e tutti i luoghi, le provincie e città d'Italia al beatissimo Papa Silvestro e ai suoi successori».

Era dunque aspirazione del Papato prendere senz'altro in Italia il posto che l'Impero di Bisanzio era stato ormai tratto da tante cosí complesse vicende ad abbandonare.

Ma è difficile pensare che potesse entrare nello spirito di Carlo un riconoscimento cosí vasto della potenza territoriale papale. Certo doveva contare piuttosto sulla formazione di un regno longobardo nella Lombardia e nella Liguria, cedendo al Papa, oltre il ducato di Roma, l'Esarcato e la Pentapoli.

Per ora, nella convenzione del 774, i confini delle terre concesse al Papa furono indicati in un modo assai indeterminato.

Se le aspirazioni del Papato avevano assunto proporzioni cospicue, Carlo aveva una magnifica occasione di imporre le piú vaste riserve alle sue concessioni nel fatto stesso che tanta parte di quei territori agognati dalla Curia doveva essere ancora conquistata dalle armi. In questa vaga indeterminazione di concessioni e di privilegi, Carlo riprendeva la via delle Alpi.

Egli contava allora appena 32 anni. Aveva da ogni parte assicurato il suo vasto regno, aveva ampliato largamente le conquiste che egli andava ora spingendo su quel territorio sassone, dove la violenza delle sue armi credeva di poter trovare consacrazione e riscatto in una imposta conversione dei vinti che non avrebbero mai piú dimenticato nei secoli l'imposizione della fede cristiana.

Il cristianesimo che i Sassoni venivano cosí a ricevere per la prepotenza delle armi franche, non era davvero il cristianesimo delle origini, non era davvero il cristianesimo che i missionari di Roma, Bonifacio e Villibrodo, avevano portato fra i Frisi, non era il cristianesimo che i missionari di Gregorio Magno avevano portato oltre Manica.

La razza germanica d'oltre Reno, alla luce di questi fatti, può dirsi che abbia mai conosciuto il genuino messaggio cristiano primitivo?

Non è da pensare che frattanto la nuova situazione creata da questi progressivi approcci tra il Papato e il regno franco, per la instaurazione di una configurazione politica continentale avulsa completamente da qualsiasi attacco con l'Oriente e incompatibilmente avversa all'elemento longobardico, potesse andare esente da recriminazioni e avversioni tenaci.

A Ravenna, sede dell'Esarcato, gli arcivescovi pretendono, con lo scadere del dominio bizantino, di guadagnare la medesima posizione che i vescovi di Roma venivano accampando nella loro sede.

Di fronte a questo dualismo le città della Pentapoli si mostravano esitanti e perplesse. Adriano doveva di nuovo chiamare in soccorso l'intervento di Carlo. Il quale di nuovo nel 780 scendeva a Pavia per cercare di rassodare questa volta non militarmente, ma legalmente, le convenzioni precedentemente pattuite col Pontefice.

Con una serie di capitolari pubblicati in quel torno di tempo Carlo cerca di dare assetto definitivo al governo della penisola. A prescindere da alcune costituzioni già emanate in Francia, questi capitolari, in linea generale, non mirano che a consolidare il potere ecclesiastico. Assicura cosí alla Chiesa la riscossione delle decime; ne aumenta le rendite. Ne regola e ne disciplina il gettito dei censi; cerca di sistemare l'amministrazione della giustizia attraverso l'autorità comitale. Preceduto da questa serie di provvidenze legislative accortamente elargite al Papa allo scopo di averne in cambio tutti i desiderati carismi per il suo ampliantesi potere regio, Carlo scende a Roma dove trascorre la Pasqua del 781.

Adriano sente sempre piú lucidamente che questo è il momento propizio per allargare i confini del proprio dominio e rafforzare per l'avvenire le assise del proprio governo.

In questa singolarissima temperie storica nella quale la spiritualità e l'extra-temporalità dell'autorità religiosa cristiana hanno dinanzi cosí libera via per la organizzazione del mondo circostante, è perfettamente comprensibile ed umano che i rappresentanti del potere vescovile di Roma cerchino di arrotondare territorialmente i loro possessi e di avvolgere la virtú dei carismi in un grande alone di potenza terrena.

L'insidia longobardica, rappresentata ora da Arichi di Benevento, induce Carlo a scendere di nuovo in Italia e a trascorrervi la Pasqua del 787.

Quando nel Natale del 795 Adriano I moriva, il Papato poteva riconoscere di aver compiuto una strada notevolissima nella costituzione della nuova economia politico-religiosa del continente europeo.

Il suo successore Leone III doveva portarne a definitiva sanzione ufficiale l'opera e gli ideali. Il primo suo atto fu di annunziare a Carlo la morte del predecessore e la propria elevazione al soglio pontificio, trasmettendogli in pari tempo le chiavi auree di San Pietro e la bandiera della città, come a Patrizio, di cui egli, Pontefice, riconosceva, senza esitazione, la superiore autorità politica. In pari tempo incaricava i suoi messi di invitare il re a scendere di nuovo a Roma per ricevere il giuramento di fedeltà del popolo romano.

Il mosaico che egli ordinò perché fosse posto nel Triclinio del Laterano e che, scomparso all'epoca della sistemazione del piazzale Lateranense sotto il Pontificato di Sisto V, si vede oggi riprodotto, sulla base di un vecchio disegno, nella piazza attuale di Porta San Giovanni, sul muro esterno della Scala Santa, ci mostra quale fosse il concetto che egli coltivava della nuova situazione europea. Diviso in tre compartimenti, offre in quello di mezzo la figura maestosa di Cristo circondato dagli Apostoli che manda per il mondo ad annunciare il Vangelo. Una mano sua è stesa in atto di benedire, l'altra tiene un libro su cui è scritto Pax Vobis. Nel compartimento di destra si scorge nuovamente il Cristo seduto fra Papa Silvestro e l'imperatore Costantino, inginocchiati, in proporzioni molto piú modeste, ai suoi lati. Nel compartimento di sinistra infine San Pietro, con le chiavi sulle ginocchia, ha ai due lati, anch'essi inginocchiati in esigue proporzioni, Leone III e Carlo. San Pietro dà al Papa una stola, al re la bandiera. E sotto si ha la leggenda: «Beate Petre, donas vitam Leoni PP. et victoriam Carulo Regi donas».

Carlo si affrettava a mandare in cambio i suoi messi con parole che erano nel medesimo tempo di ossequio e di monito.

Avvertiva il sovrano franco che ancora qualcosa mancava alla solida costituzione della penisola e che ancora qualcosa mancava perché il Papato potesse essere nel medesimo tempo garante dei poteri conferiti al sovrano e degno nel medesimo tempo delle elargizioni ricevute. La sommossa romana dell'aprile 799, che mise a repentaglio la vita stessa del Pontefice, dovette ad ogni modo far presente a Carlo la necessità di un nuovo intervento e di una definitiva organizzazione politica e religiosa del mondo occidentale europeo.

Accampando l'impossibilità di muoversi, date le continue difficoltà delle campagne contro i Sassoni, pensò bene però di invitare a Paderbona il Papa prima di decidersi ad una nuova calata in Italia.

Leone dovette pertanto compiere il suo viaggio, che si svolse del resto in mezzo ad accoglienze di ossequio e di devozione.

Il fedele consigliere di Carlo scriveva frattanto al suo sovrano: «Fino ad oggi vi erano stati al mondo tre insigni potestà: quella del vicario di San Pietro, che oggi noi vediamo sacrilegamente maltrattato e ingiuriato dal suo gregge romano; quella dell'imperatore laico dominatore della nuova Roma il quale, in maniera altrettanto barbarica, venne sbalzato giú dal suo trono su cui fu innalzata una donna (Irene di Costantinopoli); e finalmente la regia dignità che Gesù Cristo ha a te affidato, per reggere l'universo popolo cristiano. Questa tua dignità regia sovrasta le altre in sapienza, in potenza. In te pertanto è riposta la salute della Cristianità. Devi quindi prima pensare a portare rimedio al capo che è a Roma, per pensare poi a guarire i piedi (i Sassoni e gli altri nemici), i mali dei quali sono sempre meno pericolosi».

Il consiglio di Alcuino, già probabilmente concertato in anticipo col sovrano, doveva essere decisivo. Carlo scendeva dunque in Italia dopo aver fatto partire Leone III accompagnato dagli arcivescovi di Colonia e di Salisburgo, da cinque vescovi subalterni e da tre conti.

Veniva alla testa di un grande esercito, in compagnia di suo figlio Pipino. Nei primi di novembre era incontrato a Mentana da Leone circondato dai suoi militi, dal suo clero, da una rappresentanza del popolo romano.

Il 1° di dicembre si svolgeva in San Pietro una scena solenne. Rivestito di toga e di clamide, con a fianco il Papa e dinanzi i suoi accusatori, Carlo si atteggiava a giudice e proclamava di essere venuto appositamente come patrizio e difensore della Chiesa per ristabilire l'ordine sconquassato e purificare la dignità papale dalle accuse che le erano state mosse. Di tali accuse ignoriamo la natura. Sta di fatto che il verdetto regale dovette apparire come una sentenza inappellabile.

Dopo di che fu la volta del Pontefice, chiamato a rendere la pariglia. Il 23 dicembre, in mezzo ad una infinita adunata di popolo e di dignitari, il Pontefice Leone III, asceso sull'ambone, la mano tesa sugli Evangeli, con chiara voce affermava la propria innocenza e due giorni dopo, mentre Carlo assisteva alla messa celebrata dal Papa in persona in San Pietro, Leone III, levatosi improvvisamente a messa conchiusa, poneva sul capo di Carlo la corona imperiale, mentre il popolo acclamava festosamente: «Carolo, piissimo, augusto, a Deo coronato, magno, pacifico imperatori vita et victoria».

La leggenda ha larghissimamente fantasticato su questo evento. Fu gesto improvviso del Pontefice, fu l'epilogo di accordi preventivi, segretamente passati fra Leone e Carlo? Impossibile rispondere.

Val molto meglio cercare di comprendere la portata dell'evento, grosso di conseguenze, dal punto di vista dello sviluppo dei principi cristiani intorno all'economia dei poteri nel mondo della vita associata umana, e dal punto di vista del complesso sviluppo degli elementi che dominavano al tramonto del secolo ottavo e agli inizi del nono l'unitaria civiltà del Mediterraneo.

Il giorno in cui Leone III aveva mandato a Carlo la bandiera della città di Roma, introducendo in pari tempo l'uso nuovo di inserire nella datazione delle Bolle gli anni di Carlo a quo coepit Italia, è evidente che Carlo era divenuto qualcosa di piú che un patricius Romanorum. Egli ormai è il vero protettore della Cristianità, è il vero arbitro della situazione occidentale.

L'Impero si è isolato nel suo mondo bizantino e la presenza dei musulmani nel Mediterraneo ha spezzato senza pietà i vecchi collegamenti fra Mediterraneo orientale e Mediterraneo occidentale.

L'Impero di Carlo Magno pertanto rappresenta il punto logico di sbocco e l'epilogo conseguente della rottura a cui era andato incontro l'equilibrio europeo sotto la pressione islamica. Se esso poté realizzarsi, se ne deve ricercare la ragione nel fatto che da una parte la separazione fra Oriente ed Occidente aveva circoscritto l'autorità del Pontefice all'Europa occidentale e che dall'altra parte la conquista della Spagna e dell'Africa per opera dell'Islam aveva fatto del re di Francia il padrone dell'Occidente cristiano.

La storia della civiltà aveva preso, in séguito alla irruzione islamica, una nuova direzione. Il centro di questa nuova vita europea continentale è nel Nord. Ora veramente, emergendo da questa originalissima e rivoluzionaria situazione del mondo mediterraneo, il cristianesimo è in grado di applicare in forma propria e inconfondibile i suoi capitali principî sulla separazione di poteri fra religione e politica e sulla autonomia delle rispettive sfere d'azione. Naturalmente simile autonomia teoretica è sottoposta quotidianamente al cimento duro e variabile della realtà. Tutto il travaglio del Medioevo sarà d'ora in poi quello di assestare progressivamente le sfere d'azione dell'un potere e dell'altro, e tutta la storia del Medioevo sarà nel drammatico incontro di due autorità che han cercato di federarsi nella maniera piú armonica per la creazione di una civiltà di stampo originalissimo.

Non è detto che la linea divisoria fra i due poteri apparisse chiara al Papa o al sovrano, nell'atto della loro scambievole intesa. La natura composita dell'uomo impedisce automaticamente sempre una delimitazione concretamente raffigurabile del trascendente e dell'empirico, dello spirituale e del temporale, del transitorio e dell'eterno. Ma il cristianesimo è appunto la piú drammatica delle religioni storiche, perché non lascia adito alla quiete di un definitivo equilibrio stabile, ma è al contrario uno stimolo permanente a superare delle posizioni che tendono a cristallizzarsi nel frutto materiale delle loro conquiste.

Se il Papato è istintivamente tratto a profittare delle circostanze eccezionalmente propizie per impinguare i suoi redditi e arrotondare i suoi domini territoriali, non è detto che l'Impero di nuova creazione non fosse anch'esso sospinto, dalla propria altera e avida cupidigia, ad intromettersi nel dominio dell'amministrazione ecclesiastica, e a giudicare dal proprio punto di vista la condotta della Chiesa e la stessa disciplina carismatica.

Se Bisanzio era gelosa della crescente autonomia politica dell'Occidente cristiano, il regno franco si era già manifestato geloso di qualsiasi approccio fra Roma e la rivale del Bosforo. Non è detto che i Papi non abbiano saputo astutamente avvantaggiarsi di questa singolarissima condizione di cose.

Quando il Concilio di Nicea del 787, con la perentoria condanna della iconoclastia, segnò una momentanea riconciliazione fra la vecchia e la nuova Roma, Carlo si rifiutò di accogliere le definizioni conciliari. Una serie di trattati, compilati per suo volere dai suoi cortigiani, i cosiddetti libri carolini, impugnò le deliberazioni di Nicea. Una speciale ambasceria fu spiccata a Roma per presentare al Papa un elenco di non meno di 85 rimostranze e, quasi tutto ciò non bastasse, un sinodo di vescovi occidentali da lui radunato nel 794 a Francoforte condannava esplicitamente anche esso le dottrine patrocinanti il culto delle immagini.

Quando Adriano morí, il medesimo Carlo scriveva a Leone III una lettera in cui si presume di stabilire la netta linea divisoria tra il potere civile e quello religioso.

«È nostro còmpito», vi diceva Carlo, «difendere, col soccorso di Dio, la santa Chiesa di Cristo dalle impugnazioni dei pagani, dalle devastazioni degli infedeli, per tutto ciò che riguarda la sua vita esterna. È nostro còmpito, nell'ambito suo, garantirle l'integrità della fede. A Voi, padre Santissimo, spetta soccorrere la nostra milizia con l'innalzare, a simiglianza di Mosè, le mani a Dio, affinché, mercè la Vostra intercessione, Dio essendo guida ed elargitore, il popolo cristiano abbia sempre vittoria, sopra i nemici del Santo Nome».

Le pretese laiche andavano evidentemente un po' al di là di quelli che sarebbero stati i limiti concessi dall'autorità sacerdotale.

Il re si arrogava il diritto di difendere la Chiesa dai nemici esterni; di estirpare le eresie; di sorvegliare i costumi ecclesiastici; di partecipare alle elezioni vescovili e a quelle papali; di convocare i Concilî e di partecipare ai loro lavori; di eseguirne le decisioni.

Di quanti mai inconvenienti non sarebbero state causa nello sviluppo della disciplina ecclesiastica queste pretese civili!

Ma si direbbe che la vita religiosa e cristiana medioevale avesse, per questi inconvenienti, la sanazione e la cura infallibili nella stessa profondità del sentimento religioso e nel soccorso permanente dell'ascetismo organizzato. Al quale del resto l'autorità civile stessa sentiva prepotentemente il bisogno di fare ricorso, nella educazione spirituale della massa e nella creazione di quella cultura spirituale, senza cui le istituzioni politiche sono effimere e lacunose.

Bisogna rendersi conto esattamente del significato e della portata che la designazione di Carlo come imperatore aveva per il mondo occidentale al tramonto dell'ottavo secolo, per comprendere le ragioni ideali e pratiche che ispirano tutta la sua successiva condotta.

Corrono in proposito le idee piú disparate. V'è chi assevera che il titolo non gli conferiva alcun nuovo diritto, rimanendo egli come prima «re dei Franchi e dei Longobardi e patrizio romano». Secondo costoro, assumendo la corona imperiale, Carlo Magno non faceva che assumere un nuovo titolo.

Secondo altri, invece, la incoronazione di Carlo dava nuova vita all'Impero d'Occidente, costituitosi in una completa ed autonoma indipendenza al cospetto dell'Impero d'Oriente o bizantino. Si sarebbe ricostituita cosí la diarchia dell'epoca di Teodosio.

Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di giudizi e di valutazioni posteriori. Al tramonto dell'ottavo secolo nessuno sarebbe stato indotto a pensare che si trattasse di una semplice titolazione e molto meno della costituzione di un Impero occidentale separato.

Né Carlo Magno né Leone III si sognarono di creare un Impero d'Occidente, che facesse da contrappeso all'Impero d'Oriente. Roma era stata sempre troppo consapevole del suo indiviso potere e del suo insurrogabile magistero politico e spirituale. Se Bisanzio veniva meno ai doveri delle sue origini e alle mansioni della sua primitiva costituzione, Roma riprendeva in pieno la totalità dei suoi diritti e la universalità delle sue significazioni morali.

Quel che c'era di nuovo era soltanto che Roma, abbandonata da Costantino e d'altro canto tutta piena delle sue funzioni di disciplinatrice del mondo cristiano, sentiva di avere in sé il diritto di designare chi succedesse e prendesse il posto del degenere sovrano d'Oriente.

Roma ritoglieva a Costantinopoli il diritto di eleggere l'imperatore. Non è da pensare che l'Occidente del secolo ottavo spirante potesse concepire l'esistenza simultanea di due Imperi. In virtú della sua stessa essenza, l'Impero romano non era forse un Impero unitario?

Piú che mai, ora che tutto il mondo cristiano aveva fatto caposaldo della sua fede e della sua visione del mondo l'idea del Dio unico, appariva chiaro che l'Impero, espressione della autorità divina sulla terra, non poteva essere che unico.

In questa associazione inscindibile dell'idea unitaria romana e dell'idea unitaria cristiana è la sostruzione e il presupposto della nuova costituzione politica, uscente dalla incoronazione natalizia di Carlo Magno, per opera del Pontefice Leone III.

Appare quindi ancora piú chiara l'improprietà che c'è nel designare il regime inaugurato con la coronazione imperiale di Carlo Magno come una reviviscenza di forme politiche morte e di istituzioni sociali perite col perire dell'Impero romano.

Il solo fatto che l'Impero carolingico è un impero continentale, mentre l'Impero romano è essenzialmente un impero mediterraneo, dovrebbe fare molto esitanti prima di ristabilire un qualsiasi parallelismo e una qualsiasi effettiva continuazione fra l'organismo politico uscito dal secolare travaglio della storia romana e la nuova configurazione politica uscita dall'incontro di Carolingi e di Curia al tramonto del secolo ottavo.

Si aggiunga che è un attribuire al cristianesimo una ben scarsa capacità di creazione e di formazione, immaginare che il gesto di Leone III nel Natale dell'800 fosse potuto equivalere nudamente e semplicemente ad una evocazione artificiosa di un'organizzazione politica che i rivolgimenti etnici e le trasformazioni morali effettuatesi fra il quinto e l'ottavo secolo, avevano completamente smantellato e sepolto.

La semplice considerazione dei singolari rapporti che si vengono ad instaurare fra imperatore e Pontefice nella nuova sistemazione europea; il semplice dato di fatto che mancano alla nuova configurazione politica le idee cardinali della struttura imperiale romana, l'idea cioè dello Stato accentratore e totalitario e l'idea della proprietà assoluta ed incomunicabile, dovrebbero render ben chiaro che l'Impero di Carlo Magno rappresenta nella storia della civiltà mediterranea un fatto nuovo ed inconguagliabile. Esso rappresenta lo sbocco logico, ma compiutamente originale, della collaborazione nuova che si è venuta instaurando fra i poteri religiosi ed i poteri politici, a norma di quell'originale visuale cristiana per cui nella vita dell'uomo sussiste il duplice dovere di «rendere a Cesare quel che Cesare mette in circolazione (l'insieme cioè dei valori politici, economici, sociali, in cui è tutta l'esperienza dei rapporti esteriori fra gli uomini) ma di rendere a Dio quel che è dominio esclusivo ed inviolabile Suo, l'anima umana, le sue facoltà, i suoi ideali, la sua vocazione, il suo destino».

Con l'occhio fisso a questa singolarissima e inconfondibile originalità della creazione cristiana che è, nell'ambito della politica medioevale, l'Impero carolingico, si può e si deve riguardare alle mansioni svolte da questo Impero sul terreno della elaborazione della cultura e della disciplina ecclesiastica.

Non è senza profondo significato che gli strumenti piú efficaci dell'azione spirituale dell'Impero carolingico siano i monaci. Non per nulla è durante i primi decenni dell'Impero consacrato da Leone III che Benedetto di Aniano realizzerà la fusione unitaria delle consuetudini monastiche benedettine e darà alla veneranda tradizione di San Benedetto una ripresa di vitalità proporzionata ai nuovi còmpiti e al nuovo proselitismo.

Si può dire senza esagerazione che con Benedetto di Aniano, consigliere di Ludovico il Pio, un nuovo spirito entra nel monachismo franco e nel monachismo germanico.

La Regola benedettina era nata da un lungo travaglio spirituale, non soltanto di San Benedetto, ma di tutta la Cristianità occidentale. In un'epoca di vasta e rovinosa disgregazione, il monachismo era nato, dopo la parentesi anacoretica di Subiaco, come un tentativo fortunato di creare cellule autarchiche di vita spirituale ed economica. Il cenobio benedettino non è una specie di curtis feudale, prima del feudalismo, improntata però dal crisma della vocazione ascetica e contemplativa?

Ora che con le prime riforme carolingiche era chiamato ad esercitare una vastissima azione nel mondo della cultura e dell'organizzazione agraria, il monachismo, attenendosi strettamente a quel fondamentale, anche se non avvertito, canone cristiano, che fa dei progressi civili il risultato impreveduto di idealità extra-mondane, sentiva il bisogno di affermarsi intransigentemente nella zona pura e idealistica della preghiera e della meditazione.

Già di buon'ora Carlo Magno, nei capitolari del 787 e del 789, contempla la erezione di scuole nelle chiese cattedrali e nei cenobi. Da uomo politico consumato ed accorto Carlo Magno non si preoccupa gran che dell'aspetto ascetico della vita monastica. Egli ha di mira soltanto il vantaggio che la vita della comunità può ricavare da quei focolari di intensa spiritualità che sono i cenobi. Ciò non pertanto egli non manca di insistere sulla necessità della perfetta e scrupolosa osservanza della Regola. Quasi che, nell'atto stesso in cui egli spreme dall'ascetismo organizzato tutto quello che esso può dare di piú nutriente e di piú vitale alla comunità, egli avverta che questo apporto è condizionato e reso efficiente soltanto dal rispetto piú geloso dei doveri della clausura e dalla fedeltà piú guardinga all'ideale dell'esilio dal mondo.

Sicché, quando Benedetto di Aniano si accingerà a ripristinare la clausura in tutta la sua interezza, insistendo perché il monaco viva nella piú completa separazione dal mondo, unicamente consacrato alla preghiera e al lavoro, egli non farà altro, per quello strano paradosso che ha accompagnato e ha contrassegnato nei suoi secoli migliori l'azione pubblica del cristianesimo, che fare del monachismo l'organo e lo strumento per eccellenza delle grandi creazioni artistiche e culturali.

Noi abbiamo qui una riprova del carattere peculiare delle istituzioni pubbliche nate con l'avvento e con l'elevazione di Carlo alla dignità imperiale, in virtú del gesto evocatore di un Pontefice lungimirante.

È con l'avvento dell'Impero carolingico che la cultura cristiana subisce la prima sua disciplina scolastica e la sua prima elaborazione, in vista della nuova sintesi che uscirà, a qualche secolo di distanza, dall'intima elaborazione dei nuovi fattori, cosí politici come religiosi.

Schola e scholaris sono termini che nella lingua latina del Medioevo hanno trovato il loro senso determinato nel quadro delle istituzioni culturali sorte sotto l'egida della nascita carolingica. Schola, trascrizione del vocabolo greco scholè che vale «tempo di libertà e di riposo e ozio», era venuta nell'uso del mondo romano nell'epoca repubblicana, al momento della piú propinqua azione dell'ellenismo, a designare gli alti studi letterari, di grammatica cioè e di retorica. E il vocabolo primitivo latino designante la scuola e i suoi esercizi, ludus, finí con l'essere applicato solamente all'insegnamento elementare.

E come il vocabolo chiesa dall'aver indicato inizialmente la riunione dei fedeli, era passato ad indicare il luogo dove l'adunanza dei fedeli si teneva, cosí il vocabolo schola, dal designare le alte ricerche intellettuali, era passato ad indicare i luoghi in cui ci si riuniva per conversare e per discutere.

All'epoca costantiniana la denominazione di scholae veniva data a gruppi di militari o di funzionari piú o meno militarizzati e di dignitari della corte imperiale. Segno questo non discutibile del carattere militaresco dell'Impero, nelle sue estreme fasi di sviluppo. Ancora in piena epoca merovingica, schola indica un corpo di ufficiali regi o un gruppo di funzionari amministrativi, sotto l'autorità di un major domus. Per una trasposizione comprensibile, schola, e ce ne è testimone Gregorio di Tours, designa nel medesimo tempo l'insieme del personale addetto alla casa vescovile. Nulla qui ancora del significato culturale e didattico del termine. Questa significazione permane ancora alla corte di Carlo Magno.

Ma ormai la trasformazione si viene effettuando. È in virtú dell'apporto cristiano e della funzione prammatica della cultura religiosa in un mondo pubblico, nel quale l'esperienza del Vangelo è uno dei fattori dominanti, che il termine schola cessa di essere esclusivo dominio della terminologia burocratica e militare, per indicare gli aggruppamenti nei quali si effettuano la formazione intellettuale e il tirocinio didattico.

Il vocabolo scholaris dal canto suo subisce anch'esso

una evoluzione e una specificazione che sono piene di significato.

Scholaris infatti designa inizialmente colui che è deputato o che si prepara ad uno dei servizi amministrativi, civili o militari, della corte del re o dell'imperatore.

Da questo significato passa all'altro, secondo cui designa quegli che riceve un insegnamento ed è sottoposto ad una disciplina intellettuale, vale a dire un discipulus, uno scolaro.

Le cronache dell'undecimo secolo adopreranno il vocabolo scholasticus per additare il maestro piú eminente di una scuola. Ma un po' di ambiguità rimane tuttora. Nell'antichità infatti era stato designato con l'appellativo di scholasticus l'uomo colto e piú precisamente colui che, grazie ai suoi studi di retorica, sapeva adoperare una parola distinta ed elegante.

La bassa latinità conserva questo significato. Salviano giustappone il vocabolo scholasticus a quello di disertus. San Girolamo ricordava ai suoi tempi come lo scrittore Serapione avesse ricevuto il soprannome di Scholasticus «ob elegantiam ingenii». Tale uso si conserva fino all'epoca di Carlo Magno nella lingua del suo ministro della pubblica istruzione Alcuino.

Ma è proprio allora che noi vediamo sdoppiarsi la significazione del vocabolo per assumere quella esprimente una dignità ecclesiastica, collegata alle funzioni didattiche.

Nei Capitoli delle cattedrali il canonico incaricato dell'insegnamento sarà per definizione lo scholasticus, che avrà il suo posto, subito dopo il praepositus e il decanus.

Piú chiara ed eloquente testimonianza non si potrebbe desiderare dell'eminente funzione pedagogica ed istruttiva che il ministero ecclesiastico viene ad assumere, nel momento in cui, per volontà e potere della Curia romana, la società europea continentale si accinge ad assidersi su una sistemazione reciproca dei poteri politici e religiosi, in cui lo spirito cristiano ha trovato la sua piú ardita e complessa attuazione. In questa armonica organizzazione dei suoi poteri e delle sue capacità sociali, la Cristianità del secolo nono incipiente ha copia piú che abbondante di materiali da mettere in valore e da tradurre in termini di discipline concettuali.

La dialettica di sviluppo della comunità cristiana nella storia è costituita infatti precisamente dal trapasso delle sue idee primordiali e delle sue idealità spirituali nella zona di quelle trascrizioni dottrinarie e concettuali che rappresentano lo sforzo di assestamento e di solidificazione, compiuto da una collettività che ha bisogno di norme costituite, anziché di aspirazioni fluttuanti, nell'atto stesso in cui diviene piú vasta di proporzioni e piú esigente di disciplina.

Per averne una prova di una eloquenza impareggiabile, basta rilevare la trasformazione dei vecchi concetti, che avevano presieduto allo sviluppo della Cristianità nei primi secoli della sua storia, quale appare negli scrittori piú eminenti dell'età carolingica e specialmente in quello che alla corte di Carlo Magno ha assolto, è stato detto felicemente, le funzioni di ministro della pubblica istruzione. I principî infatti che regolano il nuovo insegnamento noi possiamo e dobbiamo domandarli a colui che, prima di risollevare la cultura letteraria in Gallia, fu l'allievo piú brillante e poi il disciplinatore delle scuole anglosassoni, Alcuino.

Alcuino è infatti l'erede genuino di quelle scuole monastiche d'oltre Manica, presso le quali la cultura classica non aveva suscitato quelle animosità e quelle idiosincrasie che erano perfettamente comprensibili e naturali negli ambienti continentali, piú largamente esperti delle reminiscenze pagane.

Nella pedagogia e nella didattica di Alcuino, come è perfettamente naturale in un maestro di una civiltà cristiana positiva in formazione, noi vediamo cosí attenuarsi di già quella visione soprannaturalistica della vita che era stata il contrassegno del cristianesimo progrediente.

Uno dei suoi principî è che l'uomo non s'innalza fino alla scienza in virtú del solo soccorso di Dio e mercè la sola forza della preghiera. Noi troviamo ripetutamente ribadito nelle opere di Alcuino il concetto che se Dio dona la sapienza e la scienza, tale dono non basta di per sé alla piena ed esauriente vita dello spirito. «La pietra – egli dice – racchiude naturalmente e potenzialmente in sé la scintilla che sprizza sotto i colpi ripetuti. Cosí la luce della scienza è naturale allo spirito umano. Ma se lo sforzo assiduo del maestro e l'esercizio vigile della cultura non la fanno sprizzare, rimane nascosta».

La necessità dello studio deriva, a norma delle enunciazioni di Alcuino, dalla nozione stessa della sapienza, di quella sapienza che è lo scopo ultimo e altissimo dell'attività umana.

Proprio perché in Alcuino maturano, verso una laboriosa e organica trascrizione pedagogica, atta alla disciplina di una comunità saldamente organizzata, i vecchi valori della rivelazione cristiana, vocaboli come quello di sapientia assumono, nel maestro della corte carolingica, valori singolarmente complicati. Che cosa è esattamente la sapienza per Alcuino? È virtú spirituale, è perizia tecnica nella conoscenza della Scrittura, è cultura contrapposta alla incultura? È tutto questo e qualche altra cosa ancora. Per Alcuino, la qualità della sapienza esprime lo stato morale e intellettuale a cui l'uomo, il cristiano, è condotto in pari tempo dall'ardore della fede, dal sentimento dei suoi doveri religiosi, dalla pratica delle virtú, dalla meditazione illuminata della Scrittura, accompagnata dall'esercizio delle facoltà intellettuali, in cui si realizza la scienza. Perché anche la scienza, che rappresenta un aspetto della sapienza, deve contribuire prevalentemente alla discoperta del pensiero di Dio e al rinvenimento e alla decifrazione dei suoi alti consigli.

Vediamo cosí brillare per la prima volta nell'orizzonte della ufficiale dottrina cristiana la figura ancora evanescente ma luminosa della filosofia.

Alcuino la definisce con i termini di Cassiodoro. Ma mentre nel solitario di Squillace del sesto secolo la visione della filosofia rappresentava ancora un elemento secondario nel quadro globale di quel tirocinio dello spirito di cui il monachismo andava ad effettuare il còmpito nella solitudine, in Alcuino la filosofia già assume quei còmpiti predominanti, che poi assumeranno, nelle piú tarde elaborazioni scolastiche cristiane, un peso si potrebbe dire esclusivo.

«La filosofia è la istitutrice di tutte le virtú; essa sola, tra tutte le ricchezze di quaggiú, non abbandona mai nella infelicità colui che la sostiene. La filosofia è la ricerca delle nature, la scienza delle cose umane e divine nella misura in cui è consentito all'uomo di valutarie. La filosofia è pure l'onestà della vita, lo zelo nel ben vivere, la meditazione della morte, il disprezzo del secolo: quel che conviene di piú ai cristiani che, calcando sotto i piedi le ambizioni del secolo, vivono nella imitazione metodica della patria futura, è la filosofia».

Come siamo lontani ancora da quella distribuzione gerarchica di filosofia e teologia che noi troveremo nell'epoca aurea della Scolastica e come siamo piú lontani dalla riduzione della filosofia al problema circoscritto della conoscenza!

In questo processo di enucleazione, di cui noi cogliamo progressivamente gli stadi e i momenti, di una filosofia disciplinatrice di su la incandescente tradizione dei principî soprannaturali della pedagogia cristiana, che Agostino aveva disciplinato, con spirito di profeta, Alcuino segna una data capitale, perché epoca peculiarissima è quella in cui egli vive.

È l'epoca in cui la separazione dei poteri politici e religiosi, in che è tutta la metodica del cristianesimo nella storia, si realizza per la prima volta in una forma concreta e in una configurazione pratica.

La Chiesa e l'Impero sono due istituti universali l'uno di fronte all'altro nella consapevolezza indistinta di un grande còmpito storico da assolvere.

E poiché le culture sono sempre gli strumenti della disciplina associata, la cultura carolingica risente di questo indistinto amalgama di valori intellettuali e di valori mistici che si innestano e si inseriscono gli uni sugli altri, con tutto il retaggio della precedente mistica cristiana e con tutto il presentimento delle sue trasformazioni in termini di astrazione concettuale e di riflessione filosofica.

Bastano i dati di Alcuino, come quelli dei contemporanei Rabano Mauro, Agobardo, Fredegisio, Incmaro, per farci avvertire e constatare come i problemi che dominano la cultura del tempo sono quelli posti irresistibilmente e logicamente dal programma latente di trascrivere in termini di concettualità sistematica l'esperienza fluida e viva del messaggio cristiano.

Si era effettivamente ad una svolta nello sviluppo delle capacità socialmente normative della tradizione cristiana.

Nato come messaggio di palingenesi individuale e interiore in vista di un evento catastrofico, che per virtú divina doveva reintegrare il mondo del peccato e della ingiustizia in un mondo di pace, di equità e di amore universale, il cristianesimo aveva prodigiosamente dissociato i valori della politica da quelli della vita morale, religiosamente intesa e praticata. Per secoli aveva lavorato a quest'opera di dissociazione. La conversione di Costantino, spostando le visuali iniziali della propaganda cristiana, aveva determinato reazioni e resistenze di cui l'organizzazione ascetica era la piú eminente e la piú efficiente.

Il monachesimo aveva rappresentato una meravigliosa arma di conquista e di assestamento, per il cristianesimo passato dalla età della dissociazione a quella della ricostruzione.

Ora, con la consacrazione di un imperatore occidentale, la Chiesa di Roma veniva ad assidere le fondamenta dell'edificio cristiano su un rapporto di poteri, che rispecchiava in qualche modo l'equilibrio instabile sognato e predicato dal cristianesimo fra mondo empirico e mondo trascendente, fra relativo ed assoluto, fra temporaneo ed eterno, fra precario e necessario.

Si comprende come in una temperie nuova di questa natura cosí originale e cosí inconguagliabile con tutti gli stadi di sviluppo della millenaria civiltà mediterranea, il patrimonio concettuale e spirituale della Cristianità organizzata dovesse essere sottoposto ad un processo di revisione che, mentre cercava di ricavare dalle posizioni dogmatiche del cristianesimo la piú vasta capacità normativa per il complesso dei rapporti sociali, si sforzasse in pari tempo di prevenire quelle possibili sostanziali deviazioni, a cui il messaggio cristiano poteva andare incontro in una configurazione storica che faceva correre il rischio alla eredità del Vangelo di perdere il senso della precarietà di fronte all'unico valore assoluto, che è il Regno di Dio.

Basta considerare la qualità dei problemi religiosi che sono posti sul tappeto dalle esigenze culturali dell'età carolingica, per scoprirne le ragioni intime e la dialettica soggiacente.

Ecco ad esempio come un allievo di Alcuino, Fredegisio, anglosassone, cancelliere di Ludovico il Pio, venuto con Alcuino alla corte di Carlo Magno e iniziato alla scuola della corte, successore di Alcuino nella direzione della scuola di Tours, sente il bisogno istintivo di scrivere un trattato intitolato: «Del nulla e delle tenebre – De nihilo et tenebris».

Una costituzione sociale e politica armonistica come quella creata da Leone III e impostasi al mondo occidentale europeo dopo che la irruzione islamica ha devastato e lacerato la vecchia unità della Romània, può fare obliterare che alle basi della rivelazione cristiana c'è un acutissimo senso del realistico dramma svolgentesi permanentemente nel mondo fra il bene e il male. Pur nel tono puramente didattico e speculativo del suo trattato, Fredegisio tradisce la preoccupazione istintiva di premunire la trasmissione del pensiero cristiano da una rischiosa e funesta negligenza degli atteggiamenti dualistici che il cristianesimo si porta inviolabilmente con sé.

Ed ecco come, con una gnoseologia straordinariamente, quasi diremmo grossolanamente, realistica, Fredegisio consacra il suo trattato a dimostrare che il nulla e le tenebre sono delle vere e genuine realtà, perché ogni parola del nostro idioma, ogni fantasma della nostra mente, ogni atteggiamento delle nostre capacità apprensive, corrispondono ad esseri reali ed esteriori.

Pur nel suo contenuto astratto e nella sua andatura razionale, il trattato di Fredegisio ci è testimone della intima ed inseparabile interferenza in cui attività speculativa e bisogni religiosi vivono nell'anima dei contemporanei di Carlo Magno. Questo senso realistico e questo profondo collegamento fra religiosità e pensiero sono cosí dominanti nell'insegnamento dei maestri carolingi da far pensare a un lettore superficiale e disattento che alla produzione teologale di quest'epoca manchi completamente il senso del mistero.

E invece è vero precisamente il contrario. Quel che i teologi dell'età scolastica chiameranno il valore analogico delle formule dogmatiche, manca completamente alla scuola di Alcuino. Le formule hanno per essi qualcosa di cosí concreto e aderente alla realtà anche trascendentale, che credono di ragionare astrattamente e logicamente, quando invece non fanno che muoversi nell'atmosfera del mistero religioso.

Fredegisio non ha neppure lontanamente l'idea che, esercitandosi nella dialettica, egli possa non servire alla religione.

Ed è perciò che in questo meraviglioso nono secolo della civiltà mediterranea non ci sono eretici che non siano appassionatamente cristiani, perché in tutte le controversie teologali non prevale che un'unica preoccupazione: quella di conoscere e dominare la genuina dottrina cristiana e di scandagliarne le riposte e insospettate capacità disciplinatrici, normative ed edificative.

Lo vediamo molto bene nelle controversie classiche di questa età, l'adozionistica e la predestinazionistica: due controversie, queste, eccezionalmente significative, perché preludono a quelle controversie teologico-ecclesiastiche che caratterizzeranno gli albori della Scolastica e gli albori della Riforma: polemiche intorno al dogma trinitario e al mistero della grazia operante.

Le origini del mistero trinitario erano state, noi l'abbiamo visto ampiamente, di natura essenzialmente pragmatistica. Il dogma trinitario era uscito da formule liturgiche, divenute formule espressive e riassuntive di una vasta filosofia della storia.

Mano mano che gli elementi escatologici del messaggio cristiano si erano venuti ottundendo, il dogma trinitario, da visione pragmatica dei destini storici dell'umanità, si era venuto atteggiando a dogma risolvente l'incognita della vita intima di Dio e dei suoi rapporti creativi col mondo.

Ora che una solida e stabile organizzazione sociale era risultata dal commercio della tradizione cristiana coi valori empirici della vita associata, il mistero trinitario subiva di nuovo un istintivo processo di rielaborazione e di reinterpretazione.

Un gruppo di dignitari ecclesiastici spagnoli si pose a predicare che Gesù Cristo, in quanto uomo, è soltanto Figlio adottivo di Dio, mentre è Figlio naturale di Dio solamente come Verbo.

Il principale rappresentante di questa dottrina appare essere stato il vecchio Elipando arcivescovo di Toledo, insorgente verso il 782 contro il vescovo Migezio che, a quanto è lecito arguire dai rimbrotti che gli muovono i suoi avversari, avrebbe professato una dottrina trinitaria pragmatisticamente fusa con una visione della storia, precisamente al modo, per quanto esagerato e ormai anacronistico, dei teologi trinitari del terzo secolo nascente, Tertulliano e Ippolito Romano.

Migezio infatti avrebbe identificato nella Trinità il Padre con David in cui si sarebbe incarnato, il Figlio con l'Uomo Gesù, e il Santo Spirito con l'Apostolo Paolo, sua vera ed empirica incarnazione.

Per reazione naturale Elipando insiste dal canto suo sulla distinzione nel Cristo di due elementi, l'uno divino e l'altro umano, finendo col pencolare verso una distinzione di due filiazioni divine nel Verbo incarnato, l'una filiazione naturale da assegnarsi al Verbo eterno, l'altra filiazione adottiva nell'Uomo Gesù.

Sicché Elipando e i suoi seguaci, come Felice d'Urgel, ammettevano espressamente la divinità e l'eternità del Verbo, la sua incarnazione e la sua unione ipostatica con la natura umana. Riconoscevano che il Verbo forma una persona sola con l'umanità che esso ha assunto, fin dal primo istante del concepimento. Evitavano cosí il nestorianesimo. Ma in certo qual modo vi ricadevano perché facendo della filiazione un attributo della natura e non già della persona, finivano col distinguere nel Cristo un duplice rapporto di figliolanza al cospetto di Dio, al cospetto del Padre: figliolanza naturale come Verbo, figliolanza adottiva come uomo.

Se la concezione di Migezio conservava ancora, in Pieno secolo ottavo, l'ispirazione mistico-storica che aveva suggerito ed alimentato le prime concezioni trinitarie della patristica cristiana, l'adozionismo di Elipando e di Felice rappresentava un esagerato sforzo di razionalizzare il dogma trinitario, sforzo che la cultura carolingica non poteva non condannare, dato che alla costituzione della nuova società cristiana, sorta e basata sull'equilibrio instabile dei due poteri, erano altrettanto necessarie la disciplina dialettica e l'esperienza mistica. Il trionfo della razionalità teologale sarebbe stato retaggio piú tardo della cultura ecclesiastica nel Medioevo.

Altro problema religioso che agita la cultura carolingica, e anche qui si comprendono perfettamente le ragioni delle controversie in argomento, è il problema eucaristico.

L'Eucaristia era nata come consacrazione del pasto associato, dell'agape, consumata dai membri della comunità costituenti il corpo mistico del Signore. Questo elemento mistico della celebrazione eucaristica era tuttora vivo e ispirante all'epoca di Sant'Agostino. In uno dei suoi sermoni eucaristici egli aveva detto espressamente rivolgendosi ai fedeli: «Voi consumate quello che siete». Perché non c'è presenza del Signore nel pasto eucaristico, a norma del solenne riconoscimento paolina, se non c'è composta fraternità fra i fedeli che vi partecipano. Essi soli sono il Cristo mistico ed eucaristico.

Ma ora, all'epoca carolingica, la Chiesa ha stilizzato i suoi riti, come ha disciplinato il suo pensiero. Il mistico senso corporativo che aveva retto e avvivato il Sacramento del pasto associato nel Signore, si era affievolito, travasatosi in una pratica rituale esteriore, segno di un'adesione giuridico-empirica alla Chiesa burocratica.

E allora doveva nascere naturalmente il quesito: che cosa è esattamente il Sacramento eucaristico e in qual modo Cristo vi è presente?

Nell'831 Pascasio Radberto, abbate di Corbie, scriveva un De Sacramento Corporis et Sanguinis Domini Nostri Jesu Christi, sostenendo, senza i termini di transustanziazione e affini che solo piú tardi entreranno nel linguaggio teologico, la presenza reale e fisica del Cristo sotto le specie eucaristiche. In frasi esplicite egli asseriva che la carne di Cristo eucaristicamente presente era la medesima nata da Maria, trafitta sulla croce, risorta dal sepolcro. È su quest'ultimo inciso soprattutto che si svolge la polemica ingaggiata contro Pascasio da Rabano Mauro, da Ratranno e da Raterio di Verona. Secondo costoro il modus existendi non è il medesimo per il Cristo reale storico che per il Cristo eucaristico. Sulla terra il modus existendi di Cristo fu un modus connaturalis, nell'Eucaristia è un modus sacramentalis. Evidentemente nella terminologia degli avversari di Pascasio il sacramentalis implica una foggia di esistenza mistica e simbolica che conserva piú fedelmente la ispirazione del cristianesimo antico.

Noi scorgiamo in queste polemiche teologali dell'età carolingica quel lampeggiare del razionalismo pelagiano che verrà da ora in poi mano mano sempre piú insinuandosi nella speculazione e nella disciplina dell'universale magistero ecclesiastico. Non si fa mai dell'esperienza religiosa uno strumento di disciplina collettiva, senza che la dialettica e la sistemazione razionalistica dell'ideale entrino come coefficienti e strumenti indispensabili.

Lo vediamo ancor meglio nello sviluppo di un'altra polemica religiosa del tempo, la polemica predestinazionistica, che potremmo definire preannuncio medioevale della insurrezione luterana del secolo XVI.

Nei primi decenni del secolo nono viveva nel monastero di Fulda un nobile sassone, figlio del conte Bernone. Era stato offerto fin dai suoi piú teneri anni alla tutela e all'educazione dei monaci, e, come era naturale, dato il suo tirocinio e data la sua formazione, egli era stato poi introdotto nella piena vita monastica. Ma un giorno, il suo bisogno di libertà e di autonomia lo indusse a chiedere l'esodo da una vita monastica che gli si rivelava impari e inadatta alle sue aspirazioni e alla sua coscienza.

L'abbate Rabano Mauro si oppose allora alla volontà espressa dal suo monaco. Unica cosa che egli poté ottenere fu quella di trasferirsi in un'altra Badia. E il monaco, che si chiamava Godescalco, prescelse la Badia di Orbais nella diocesi di Soissons. Qui egli, trovandosi in un centro eminentemente di cultura letteraria e patristica, ebbe modo di dedicarsi ad intensi studi nel campo delle dottrine teologiche.

Sant'Agostino fu allora il suo maestro indiscusso. E alle fonti agostiniane Godescalco apprese la dottrina della duplice destinazione, la dottrina di quell'augusto e terrificante mistero dell'infallibile decreto di Dio, che vota l'uno alla salvezza, l'altro alla perdizione.

L'ambiente e il momento storico non erano tali da consentire alla polemica che fu ingenerata dalla propaganda di Godescalco larghe ripercussioni pubbliche.

Combattuto aspramente ed apertamente dall'abbate Rabano Mauro, Godescalco fu condannato in successivi sinodi e costretto ad essere chiuso per sempre in una Abbazia presso Reims.

Ma è strano osservare che già in questo momento la trasformazione della società cristiana, la immissione aperta e illimitata del magistero cristiano ed ecclesiastico sul terreno della costituzione sociale, porta automaticamente la teologia ufficiale a deflettere dall'insegnamento agostiniano, verso una visione ed una raffigurazione della grazia e del destino umano che già si delinea permeato di ispirazioni pelagianistiche.

Ma se l'ambiente storico del nono secolo nascente non è propizio a quelle vaste ripercussioni di tali discussioni carismatiche, ripercussioni che sette secoli piú tardi determineranno la scissione del mondo cristiano europeo, ci sono già problemi e innovazioni nel dominio della liturgia occidentale che, pure avendo tanto minore portata dottrinale e pratica, determinano però ripercussioni vastissime quasi a mostrare ancora una volta come le polemiche religiose ricevano la loro efficienza pubblica unicamente da complessi specifici di circostanze, in cui si rispecchiano i fattori politici e sociali dei vari momenti storici.

Nel sinodo di Toledo del 589 a professione pubblica e solenne di una fede completa e intransigente nel dogma trinitario contro tutte le possibili deformazioni portate dalla eresia di Ario, superstite nelle regioni occidentali, noi troviamo per la prima volta il simbolo di Costantinopoli del 381 recitato con l'aggiunta della clausola Filioque laddove si parla della processione dello Spirito Santo.

In fondo già nel quinto e nel sesto secolo, sulla traccia della teologia del De Trinitate di Sant'Agostino, la dottrina della processione dello Spirito Santo a Patre et Filio era universalmente ammessa nella Chiesa latina. Non solamente i teologi la riconoscevano e l'ammettevano nei loro scritti, ma essa si era anche tacitamente insinuata in professioni di fede singole come quella del vescovo Pastore di Galizia e nel diffuso simbolo Quicumque vult.

Nel convegno di Toledo del 589 il re Reccaredo lesse una dichiarazione di fede compilata da lui stesso.

Vi aggiunse poi i simboli di Nicea e di Costantinopoli, quest'ultimo con la formula completa: «Credimus et in Spiritum Sanctum dominum et vivificantem, ex Patre et Filio procedentem». Dopo di che i vescovi, passati recentemente all'ortodossia romana; pronunciavano ventitré anatemi, fra cui il terzo esprimeva la medesima dottrina.

Il sinodo poi, su proposta del re, disponeva che da allora in poi il simbolo di Costantinopoli, ad imitazione della Chiesa greca, sarebbe stato recitato nella messa dopo il Pater, con l'aggiunta relativa alla processione dello Spirito Santo.

Un secolo piú tardi la dottrina del Filioque entrava nel formulario ufficiale della Chiesa e della liturgia gallicane. Alla corte di Carlo Magno dovette essere adottata verso il 780. Roma fu riluttante ad assecondare la novità liturgico-confessionale gallico-spagnola. La formula divenne in qualche modo l'insegna dell'opposizione fra la Chiesa latina e la Chiesa greca che, sotto la pressione delle nuove popolazioni slave da guadagnare al messaggio cristiano, andava assumendo proporzioni di sempre maggiore e aspra acutezza.

Quando verso l'808 monaci latini installati a Betlemme si diedero a cantare nella messa il simbolo di Costantinopoli con l'aggiunta del Filioque, furono designati dai greci come eretici e minacciati di espulsione. Essi resistettero protestando a gran voce la loro ortodossia e ne scrissero al Papa Leone III invocando una chiarificazione dottrinale. Leone III rispose riconoscendo la processione dello Spirito Santo a Patre et Filio, ma senza insistere oltre misura sul delicato punto controverso e astenendosi scrupolosamente dal pronunciarsi in maniera troppo recisa.

Investito della questione, Carlo Magno invitava Teodolfo di Orléans a scrivere il suo trattato De Spiritu Sancto e sottopose il quesito al sinodo di Aquisgrana del novembre 809, dove la dottrina del Filioque fu di nuovo solennemente ribadita.

Roma temporeggiò ancora. Avvertiva d'istinto che la polemica sarebbe potuta diventare velenosa tra l'Occidente e l'Oriente su questo terreno.

Già ai suoi tempi, San Massimo il confessore aveva dovuto difendere, al cospetto dei suoi compatrioti, Papa Martino a proposito della processione dello Spirito «dal Figlio» anziché «mediante il Figlio».

L'insistenza con cui San Giovanni Damasceno rigetta la dottrina della processione dello Spirito Santo dal Figlio è lí a testimoniare che perfino uno scrittore cosí commendevole come il dottore di Damasco sentiva il bisogno di protestare contro l'idioma teologico dei latini, ripugnante alla tradizione del mondo orientale.

Comunque, la polemica non sarebbe mai assurta a controversia decisiva fra Roma e Bisanzio, se la tensione fra le due capitali, straordinariamente acuitasi dopo la creazione dell'Impero d'Occidente e mano mano sempre piú aggravatasi attraverso la lotta sostenuta per il predominio sulle nuove popolazioni cristiane slave, non fosse giunta nella seconda metà del secolo nono alla sua fase estrema e al suo epilogo clamoroso.

Segno anche questo della sconfinata significazione del nuovo regime che Roma aveva instaurato nell'Europa occidentale e continentale con la creazione del nuovo Impero cristiano e con la incoronazione di Carlo Magno.

Segno anche questo della nuova storia europea che con questo Impero cominciava.

Quel che era stata la figura leggendaria di Augusto nella unificazione del mondo mediterraneo, fu ora la figura di Carlo Magno nella nuova unificazione cristiana dell'Europa continentale. L'Impero carolingico apparve ed era effettivamente una Romània continentale, di fronte a quell'Impero augusteo che aveva costituito una Romània mediterranea.

Se dal punto di vista territoriale e politico la nascita carolingica non toccava l'ampiezza e il fulgore dell'Impero augusteo, moralmente e spiritualmente rappresentava una creazione originale del cristianesimo, di quel cristianesimo che si era portato in seno, come canoni fondamentali, il postulato che la piú armonica costituzione civile è quella che nasce dalla credenza fattiva nei valori trascendenti del Regno di Dio e il principio assiomatico che tra valori religiosi e valori politici bisognava mantenere quanto piú è possibile appariscente e netto il divario.

Per questo Carlo Magno sarebbe stato l'eroe di tutte le tradizioni e di tutte le posteriori leggende cristiane.

Dall'814 al 1901 non meno di mille poemi, in venti paesi diversi, hanno cantato Carlo Magno. I poeti latini, i trovadori in lingua volgare del secolo XII, e poi i poeti epici fino al trovadore Victor Hugo, da Dante che scrive il Paradiso, all'Ariosto, fino giú al De Bornier, hanno cantato le gesta di Carlo Magno, ricelebrando a lor modo quel che avevano appreso nelle scuole, quel che avevano ascoltato nei comuni conversari di gesta, quel che avevano sperimentato nel loro animo riflettendo all'azione dell'eroe.

Il Carlo Magno di Dante, che è una fiamma luminosa, non rassomiglia in niente al Carlo Magno del XII secolo, che cavalca collerico con la barba candida spiegata sulla corazza. Rassomiglia ancor meno al Carlo Magno dell'Orlando Furioso o al Carlo Magno della Légende des siècles.

Ma sempre e dovunque l'eroe si chiama Carlo, e appare come il grande condottiero a scrittori delle piú varie provenienze, che hanno però visto forgiarsi la loro esperienza religiosa e culturale sulla trafila del catechismo cristiano e delle storie concernenti i loro rispettivi paesi.

Queste ultime storie nazionali, in cui si è in maniera lussureggiante riflessa la facoltà fabulatrice dei paesi continentali europei, assumono la piú complessa varietà. Eccitano la curiosità e la immaginazione dei letterati. È lo stimolo della comune coscienza cristiana che avvince queste disparate forme d'arte, e Carlo Magno rimarrà l'eroe tipico della Cristianità mediterranea, finché il cristianesimo abbia per la nostra civiltà un valore normativa e un significato parallelo.

Con Carlo Magno, consacrato da Leone III, il cristianesimo aveva effettivamente raggiunto uno dei momenti capitali e inconguagliabili della sua pubblica efficienza.

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