XVI GLI ORDINI MENDICANTI

L'incontro di Innocenzo III e di Francesco d'Assisi rappresenta graficamente uno dei momenti piú significativi e piú solenni nella storia della tradizione cristiana.

Il Pontificato, giunto alla espressione massima del suo potere spirituale e in pari tempo della sua efficienza politica, si trova improvvisamente dinanzi una pura e semplice anima di sognatore umbro, che presume di far rifiorire in pieno, all'alba del secolo decimoterzo, la spensierata e lieve idealità del messaggio neo-testamentario. Su questo messaggio si era venuta addensando, attraverso secoli di dura e laboriosa fruttificazione in mezzo agli uomini, una greve eredità di valori extraevangelici, la cui comparsa e la cui utilizzazione non avevano rappresentato affatto qualche cosa di posticcio, di avventizio e di arbitrario, ma che ad ogni modo avevano rappresentato in pratica una contaminazione ed una deviazione.

Come affrancarsi ormai da questo pesante fardello ereditario e come riguadagnare l'agile duttilità della primitiva parola del Cristo? Occorreva un formidabile impeto di reviviscenti e «numinose» idealità evangeliche.

San Francesco non si spiega senza Gioacchino da Fiore.

Il Veggente silano si era serenamente spento il sabato Sitientes del 1202, nella sua prediletta solitudine silana di Pietralata. Dopo aver instancabilmente ramingato dall'uno all'altro cenobio cistercense dell'Italia meridionale, era venuto a comporre la sua anima nel riposo del supremo abbandono, chiedendo quiete e raccoglimento all'eremo, fra le cui pareti si erano piú sottilmente temprate le sue aspettative e le sue speranze. Il grande sogno vagheggiato dalla sua pietà religiosa non si era affievolito nell'anima ardente. Ancora nel suo lettuccio di morte, probabilmente, il suo sguardo febbricitante si dové appuntare con inquieto desiderio sul sorgere imminente della nuova alba messianica, sul crepuscolo dolce della nuova economia dello Spirito.

Egli aveva riconosciuto e individuato come causa della decadenza cristiana il fasto mondano in cui era stato condannato ad avvilupparsi e paludarsi il magistero della Chiesa. Quello stesso Ordine cistercense a cui egli si era aggregato giovanetto e che aveva compiuto in Europa cosí immensa opera di rinnovamento materiale e spirituale insieme, si era venuto corrompendo attraverso l'arricchimento e la pompa mondana, attraverso le missioni antiereticali.

Ed egli aveva inculcato ai suoi confratelli, dal primo all'ultimo giorno del suo apostolato, la semplicità, l'umiltà, l'amore della pace, il ritorno alla schiva nudità del Vangelo e dello Spirito.

«La prima causa dell'universale rovina», egli aveva scritto una volta, «fu un peccato di superbia. Ogni superbo infatti ripecca contro Cristo, fattosi piccolo ed umile. Chi, riconoscendo la squallida povertà del suo sovrano, arrossendo nel mendicare, non offenderà il Cristo, adagiato, infante, su una greppia? Chi vergognandosi di incedere sull'umile cavalcatura di Cristo e andando in cerca dell'arrogante fasto di un focoso destriero, non vilipende il suo re, che volle incedere su di un asino? È ben necessario che sia ripristinata la forma di quella vecchia vita apostolica, nella quale non si andava famelicamente in cerca di terrene eredità, bensí si vendevano i possessi che erano stati ereditati. All'economia del sacerdozio seguirà dunque l'economia del monacato. E il vero monaco una cosa sola riterrà sua: la cetra del suo canto e della sua speranza».

Nel medesimo torno di tempo in cui, nell'eremo alpestre della Sila, Gioacchino chiudeva il ciclo della sua randagia esistenza, un giovane assisiate, cresciuto fra gli agi sotto l'allettante fascino della valle luminosa ed armonica che da Spoleto sale dolcemente verso Perugia, espiava in una prigione di questa città le sue prime illusioni politiche. Era nato circa un ventennio prima da un ricco mercante di panni, ruvido, avido e grossolano, e da una nobildonna, tutta finezza, intuizione e sensibilità. Il nome di Giovanni, che gli era stato imposto al fonte battesimale, era stato cambiato in quello di Francesco dal padre, reduce da uno dei suoi consueti viaggi d'affari nella Francia meridionale. Il contrasto pronunciato che divideva i temperamenti dei suoi genitori sembrava essersi ripercosso nel dissidio fra gli istinti e le aspirazioni della sua gioventú esuberante. Appassionato fino alla frenesia per la vita rumorosa e spensierata delle brigate in cui si univano i suoi coetanei, portava ciononostante negli strati piú oscuri della sua anima inquieta ed inappagata il desiderio di soddisfazioni meno consuete e di gioie meno banali. La stessa ansia sitibonda che traspariva nell'avidità con cui egli aveva addentato, precocemente, appena adolescente, tutti i frutti acerbi del gaudio mondano e dell'ebbrezza sensibile, e che lasciava strascichi cosí uniformi di stupefatte tristezze e di rammarichi amari, faceva intravvedere la possibilità che la divorante volontà di godere giungesse in lui a tal grado di esasperazione, da non poter trovare la sua adeguata esplicazione se non nella rinunzia e nell'assoluta mortificazione. Ché l'ascesi e la continenza sono, nelle anime di eccezione, la trasposizione inconsapevole di una infinita ed inappagabile esigenza d'amore.

I primi contatti di Francesco con la vita pubblica della sua città natale furono ricchi di emozioni e di speranze. Il grande sogno imperiale del Medioevo sembrava aver avuto, in pieno secolo duodecimo, una realizzazione meritevole di essere paragonata a quella foggiata dal genio di Carlo Magno. Federico Barbarossa, nonostante la sua inobliabile disfatta in Italia, grandeggiava nei ricordi alemanni, come il tipo ideale del sovrano della Cristianità. In realtà nessuna epoca, né pur quella di Ottone il Grande, aveva veduto uno sfolgorare piú imponente della potenza imperiale. Temuto dall'alta feudalità, specialmente dopo lo scacco crudele inflitto ad Enrico il Leone, Federico era stato immensamente amato dalla piccola feudalità, da quegli innumerevoli cavalieri che egli tutelava contro i duchi e i conti. Nelle Diete da lui convocate, arieggianti i vecchi Campi di Maggio carolini, essi accorrevano a migliaia.

La sua ambizione effettivamente aveva mirato ad emulare il primo rappresentante del Sacro Romano Impero. Si atteggiava a svolgere una politica mondiale: vagheggiava il dominio dell'universo cristiano. Postulava l'omaggio dei re d'Ungheria, di Polonia, di Danimarca. Si pavoneggiava nel proclamare i re cristiani come suoi subordinati, come reges provinciarum. Si assideva sul trono Imperiale come un Ildebrando temporale. Perfino Enrico II d'Inghilterra sembrava vagamente riconoscere il primato della sua Corona. Quando la sua scomparsa subitanea nella catastrofe della terza Crociata fece sentire improvvisamente all'Europa la mancanza di un reggitore cosí robusto e cosí vigilante, la leggenda si impadroní sollecitamente della sua caratteristica figura. Ancor oggi, a sud-ovest della pianura verdeggiante che circonda la roccia di Salisburgo, là dove la massa gigantesca dell'Untersberg guarda a piombo con aria di minaccia la via che sale verso il lago di Berchtesgaden, i contadini della vallata indicano una caverna nella quale, secondo alcuni, Barbarossa dorme con i suoi cavalieri un sonno pieno di aspettative e di ansie. Secondo altri invece l'imperatore, nelle viscere della sua montagna, siede ad una tavola di pietra e va almanaccando sul modo piú acconcio di riconquistare l'Impero. Egli dondola il capo e strizza gli occhi. La sua barba scende ormai fino a terra. A volte, come trasognato, stende la mano quasi ad afferrare la spada e lo scudo. Ma i corvi volteggiano intorno alla montagna fatata, e l'ora del rivestimento imperiale non è ancora scoccata. Quel giorno, un'èra nuova spunterà per la vecchia Germania.

Uscendo però cosí tragicamente dal mondo, Federico non aveva lasciato solamente la scia fosforescente di una pingue tradizione leggendaria. La sua politica realistica aveva preparato anche in Italia, dove pure era fresco il ricordo della disfatta di Legnano e della umiliazione di Venezia, gli elementi per una nuova espansione della potenza germanica. Architettando il matrimonio del suo primogenito Enrico con Costanza, l'erede riconosciuta del regno normanno di Sicilia, aveva posto le condizioni per il conseguimento di un vecchio miraggio imperiale. L'unione infatti dell'Italia meridionale col Sacro Romano Impero doveva aprire il varco alla realizzazione di quella grande Germania, estesa dal Baltico alla Sicilia, che gli Ottoni avevano altra volta tentato mediante un matrimonio bizantino.

Ma se Enrico VI possedeva tutta la durezza crudele del Barbarossa, mancava irrimediabilmente dell'accompagnamento delle sue qualità cavalleresche. La morte dell'ultimo re normanno nel 1189 lo faceva legittimamente re delle Due Sicilie. Il tesoro siculo fu allora inviato in Germania: centocinquanta muli, si disse, valicarono le Alpi, carichi del pesante fardello. Un anno dopo Enrico VI era coronato imperatore. Le resistenze incontrate al trapasso di dinastia posero allo scoperto le crudezze della sua anima selvaggia. Per imporre il giogo degli Hohenstaufen di Sicilia dovette domare l'una dopo l'altra parecchie insurrezioni: le represse con raffinamenti atroci di supplizi. Per sventare nel 1196 un piú serio complotto, fece arrestare fulmineamente i piú eminenti congiurati e, nella notte, alcuni ne fece segare in due parti, altri, coronati con un diadema di ferro rovente, fece bruciare a fuoco lento. Dopo avere cosí terrorizzato l'Italia meridionale con un regime nefasto, che provocava di rimbalzo, contro la follia del «martellatore», il sogno apocalittico dell'abbate Gioacchino, egli si preparava a tentare la conquista dell'Impero greco, per divenire di fatto il solo dominus mundi, quando nel settembre del 1197, appena trentenne, era colpito dalla morte.

Il sogno egemonico alemanno non svaniva con lui. Mentre la vedova Costanza dedicava il periodo breve di tempo in cui gli sopravvisse ad escogitare gli accorgimenti piú sagaci per conservare la corona sicula al piccolo Federico, di cui la crudeltà paterna aveva reso cosí fragili i diritti ereditari, le unità scompaginate dell'esercito imperiale scorrazzavano per l' Italia, sforzandosi di mantenerla in soggezione, nell'attesa del nuovo imperatore. Corrado di Urslingen, duca di Spoleto, e Marckward di Anweiler, siniscalco imperiale, marchese d'Ancona duca di Ravenna, prolungavano, piuttosto precariamente, la dura occupazione germanica. Ma la loro impresa non era agevole. Essi dovevano contemporaneamente fronteggiare la sorda ostilità pontificia e l'aperta insurrezione dei Comuni. Già, alla prima nuova della morte di Enrico, per tutta l'Umbria le popolazioni e i governi municipali erano scesi repentinamente in campo, manomettendo i demani imperiali, cacciando furiosamente le guarnigioni teutoniche, occupando gli odiati baluardi del dominio straniero. Assisi era stata fra i Comuni piú pronti e piú risoluti nella insurrezione. Anche oggi il diruto muro che circonda il vecchio paese semidormiente nell'atmosfera grave delle sue memorie sulla costa del Subasio, e il castello mozzato che lo riguarda dall'alto, ricordano la sommossa iraconda del popolo. Può darsi che in quei giorni burrascosi, fra coloro che si diedero a furia a scardinare le pietre del minaccioso torrione simboleggiante la rapace dominazione teutonica, si trovasse il giovane diciassettenne, che, fra pochi anni, avrebbe piamente riattate le cadenti pietre di San Damiano.

All'albeggiare del '98 al duca di Spoleto rimanevano, uniche superstiti fedeli, Foligno e Terni, con gli isolati castelli di Cesi e di Gualdo. Tutto impegnato nella lotta della corona imperiale, Filippo di Svevia aveva altro da fare che prestar soccorso ai suoi feudali rappresentanti lontani. Corrado non aveva che un mezzo per salvare i lembi superstiti del suo potere: sottomettersi al Papa, e cercare nella protezione di lui il riconoscimento del suo residuale possesso.

Proprio in quei giorni al nonagenario Celestino III era succeduto un cardinale trentottenne, diuturnarnente addestrato a tutte le sottigliezze diplomatiche della Curia: Innocenzo III. Il Pontificato romano medioevale, come abbiamo visto, aveva toccato con lui l'apogeo della sua autorità mondiale e della sua ingerenza politica. Ancor oggi il ritratto della villa Torlonia a Poli conserva il profilo del rampollo dei castellani di Segni, chiamato all'alba del tredicesimo secolo a spiegare sull'Europa cristiana, in una efficienza mai sino allora raggiunta e mai piú rinnovata, il fascino soggiogatore del magistero e della disciplina cattolici. Il viso tondo e giovanile, i grandi occhi protetti da sopracciglia ben arcuate, il naso dritto, la bocca piccola e regolare, sembrano tradire la nobiltà della sua prosapia, che dal decimo secolo aveva saldamente piantato, nella ridente vallata del Sacco, le basi della sua potestà comitale. I biografi soggiungono che la figura piacevole, la fisionomia aperta e cordiale, la parola fluida, la voce sonora ed armoniosa, conferivano al giovane Pontefice una eccezionale virtu di attrazione. Cardinale di Curia, Lotario aveva esercitato le sue capacità di compilazione e messo a profitto le sue reminiscenze di scuola, redigendo alcuni trattati di ascesi e di mistica che ne avevano accreditato la fama di ecclesiastico pio e morigerato. Ma mentre il futuro banditore ed organizzatore della quarta Crociata si addestrava cosí nel De contemptu mundi e nel De quatuor generibus nuptiarum ad esercitazioni stilistiche, prive di qualsiasi schietto afflato spirituale, il vero restauratore della mistica cristiana temprava la sua intensa pubertà al soffio caldo e inebriante della multicolore bellezza della valle spoletana.

Lotario di Segni era appena asceso al soglio pontificio, che ricevette dal duca di Spoleto allettanti proposte di mutua garanzia. All'ombra di San Pietro il fosco Corrado si lusingava di trovare la tutela solida contro il rancore e contro la sollevazione popolare. Egli si impegnava a versare immantinenti una forte somma di denaro, di pagare un censo annuale, di mantenere a proprie spese un corpo di duecento cavalieri, per la difesa del Patrimonio. Naturalmente avrebbe giurato fedeltà ed omaggio, e a garanzia del suo giuramento, imposto anche a tutti i sudditi del ducato, avrebbe dato in ostaggio i suoi figli. L'offerta era veramente lusinghiera. Innocenza poteva cosí recuperare di colpo, senza appello alla forza, l'Umbria intera, e Corrado si costituiva suo difensore contro i Comuni indocili, che avevano ormai gustato la pericolosa dolcezza della libertà popolare.

Il Pontefice accorto, che portava nell'amministrazione dei domini pontifici tutta la praticità realistica della sua casa feudataria, non parve alieno dal prestare ascolto alle proposizioni del duca. E il sentore si diffuse nella Tuscia che il Pontefice scendesse a patti col nemico nazionale. Si vociferò di doppiezza e di tradimento. Innocenza reputò conveniente rompere i negoziati e giustificarsi in un pubblico documento: «Siamo sospettati nella nostra buona fede: si mormora che noi vogliamo avere nelle nostre mani il castello di Assisi unicamente per consegnarlo al duca di Spoleto. No, non è vero. Nostro unico proposito è quello di recuperare tutto il territorio della Chiesa per l'onore della Chiesa stessa e il vantaggio di tutta Italia».

La pressione della pubblica opinione aveva dunque costretto il Pontefice all'intransigenza. Il duca di Spoleto fu a sua volta obbligato alla capitolazione completa. Nell'aprile del '98 a Narni, al cospetto di due legati pontifici, dei vescovi e dei baroni della regione e di una folla compatta, Corrado di Urslingen dichiarava solennemente di accettare, senza resistenza, tutte le condizioni che al Pontefice piacesse imporgli. E le condizioni furono dure ed implacabili. Ridotto nudo di territorio e di sudditi, Corrado varcò le Alpi, cercando nella sequela immediata dello Svevo il principio di una nuova fortuna. Gregorio cardinale, diacono di Santa Maria in Aquiro, subentrò al duca nel reggimento dell'Umbria, tornata nel possesso del Pontefice. Assisi, dai suoi spalti, rapidamente rafforzati, difese, anche contro il Papa, la sua autonomia comunale. Al cadere del luglio successivo Innocenza percorreva trionfalmente il territorio recuperato. Da Rieti raggiungeva Spoleto: saliva poi a Perugia, ridiscendeva a Todi, riguadagnando Roma, attraverso Amelia e Civitavecchia. Assisi, la ribelle, era lasciata fuori dall'itinerario. Ma quell'itinerario stesso, un dodicennio piú tardi, era percorso, senza fasto, ma con ben altra promessa di trionfo nella spiritualità avvenire, da un esiguo nucleo di menestrelli della Povertà, che non annunciavano grandezza e non elargivano favori, ma bandivano la pace e cantavano, lietamente, al Signore. Eran, tutti, ribelli di Assisi.

Chi potrebbe dire quale subcosciente maturazione verso le nuove idealità e la nuova foggia di vita avevano provocato nel loro spirito gli eventi del 1198? Chi li ispirava e guidava, Francesco, ne aveva risentito, amaro e penoso, il contraccolpo. L'insurrezione delle città umbre contro la dominazione imperiale aveva assunto un carattere tipicamente democratico. Abbattendo le insegne del governo straniero e della tirannide militare, il popolo aveva mirato in pari tempo all'appropriazione dei beni di tutti quei nobilucci locali che, per assicurarsi il possesso delle loro ricchezze, non avevano esitato a trescare col dominatore e a prosternarsi alla sua violenta tirannide. E i nobili spodestati, come suole accadere, non esitarono a mendicare col tradimento il sostegno di chi, conculcando la libertà della loro terra d'origine, offrisse speranza di ricuperare per loro il rimpianto benessere. I nobili spodestati di Assisi, profughi nella città rivale, Perugia, ne aizzarono le velleità di conquista. Fu allora guerra dichiarata fra le due città. Gli assisiati furono battuti a Ponte San Giovanni e fra i pochi benestanti che, avendo fatto causa comune col popolo ed essendo scesi in campo a difesa delle sue conquiste minacciate, furono quel giorno fatti prigionieri, c'era appunto il figlio di Pietro Bernardone. Per piú di un anno chiuso nello squallore del suo carcere con i compagni di cattura, ne rallegrò la tetra solitudine vincula ridens et spernens. La convenzione del novembre 1203, piuttosto onerosa del resto per la classe popolare di Assisi, concedeva la restituzione dei prigionieri. Francesco tornava, con una pungente nuova esperienza nel fondo indistinto dell'anima, alle gaudiose e folleggianti brigate dei suoi coetanei

Un'altra prova l'attendeva. Per lunghe settimane un grave morbo lo tenne stretto ad una immobilità penosa. Di quell'angoscioso periodo e della lenta convalescenza che lo seguí un particolare dovette imprimersi nella fantasia fosforescente del giovane, per accompagnarlo fino agli anni della sua maturità, quando lo avrebbe ricordato ai compagni della sua vita di contemplante: l'impressione cioè profonda e conturbante che destò la campagna primaverile, con tutte le tonalità dei suoi colori caldi e delle sue iridescenze fuggevoli, sui sensi avidi e raffinati del giovane risanato, il primo dí che, poggiato sul bastone, egli uscí da Porta Nuova a riguardare la valle sottostante. L'organismo del convalescente, che va faticosamente integrando le sue energie depauperate, sembra assorbire in brividi di voluttà logorante quanto di tremulo vibra nell'impercettibile respiro della vitalità cosmica.

Ma le incertezze e la stanchezza che il disinganno di Ponte San Giovanni e la diuturna macerazione del male avevano deposto negli strati piú intimi della spiritualità di Francesco non erano ancora pervenute a quella chiara luce della coscienza, dove gli urti e le lezioni della vita quotidiana si trasformano in giudizi di valore e in decisioni concrete.

Alla morte dell'imperatrice Costanza e allo scatenarsi delle rivalità e del disordine che l'avevano seguìta nel regno siculo, Innocenzo III, sovrano in virtú del contratto feudale stipulato da Roberto il Guiscardo nel sinodo di Melfi del 1109, e tutore del piccolo erede Federico in virtú del testamento della scomparsa, si era trovato nella necessità di assolvere un duplice còmpito: tenere a bada i numerosi cavalieri di Enrico VI, disseminati nell'Italia meridionale, possessori di castelli saldamente muniti e comandanti di guarnigioni a tutta prova devote, pronte ad ogni istante a taglieggiare i territori esposti al capriccio delle loro scorribande; e nel medesimo tempo sventare le trame della corte palermitana, la quale, approfittando dell'età minore dell'erede, cercava di volgere a proprio vantaggio, in maniera subdola ed ambigua, le sorti del dilaniato reame. Quando la trama ordita da tutti quelli che a sud di Roma cospiravano ai suoi danni era sembrata farsi piú oscura e piú pericolosa, il Pontefice, calcolatore e scarso di scrupoli, convinto che le proprie forze militari erano impari alla dura bisogna e che, per assicurarsi rapidamente il successo, gli accorrevano truppe piú numerose e condottieri piú esperti, aveva assunto al suo servizio uno straniero, un cavaliere francese: Gualtiero di Brienne.

Una mossa cosí cinica di politica realistica non poteva mancare di destare dovunque impressioni e commenti sfavorevoli. Memore della vecchia divisa romana, Innocenzo credeva di potere piú agevolmente salvaguardare i diritti sovrani della sede pontificia nel regno di Sicilia, nel ducato di Puglia e nel principato di Capua, moltiplicando laggiú le contese e le rivalità. Ma gli spiriti restii a sacrificare i dettami della lealtà e della correttezza all'accorgimento pratico e al successo politico immediato, ebbero qualcosa a ridire sulla strana e audace disinvoltura con cui il capo della Cristianità si lusingava di adempiere il suo dovere di tutore, creando al minorenne l'imbarazzo pesante di un competitore e di un usurpatore armate. Le mormorazioni scandalizzate del popolo furono in Sicilia cosí vaste e cosí pressanti, che Innocenzo dovette, anche questa volta, pubblicamente difendersi: «Innanzi tutto non io ho cercato la venuta di questo barone francese. Egli è venuto per proprio conto a Roma, circondato da un forte nerbo di cavalieri, ad invocare, dalla nostra giustizia, d'entrare in possesso dei territori promessi alla sua famiglia dall'imperatore Enrico. Noi non potevamo respingere la legittima richiesta. E di piú Gualtiero, personaggio nobile e potente, stretto da vincoli di sangue con i conti di Champagne e di Fiandra, che han preso la croce e che non tarderanno a seguirlo, era in anticipo sicuro del loro soccorso. Noi ci siamo domandati che cosa conveniva fare. Negargli qualsiasi ascolto, oltre che equivalere al disconoscimento del suo diritto ben chiaro, poteva significare costituirlo nemico del re e del regno. Concedendogli invece quanto reclamava, noi guadagnavamo automaticamente la sua amicizia e i suoi servigi. Del resto noi non abbiamo mancato di adottare le necessarie precauzioni. Egli ci ha giurato, sulla Croce e sulle reliquie, che nulla ordirà contro il re e il suo regno; che una volta investito della contea di Lecce e del principato di Taranto o di un dominio equipollente, presterà omaggio e fedeltà a Federico, e ci aiuterà nell'esercizio della nostra tutela».

Lotario di Segni era troppo accorto per prestare fede egli stesso ai giuramenti solenni di un capitano di ventura. Se pure un naturale ottimismo, frutto del suo stesso potere, poté creare nel suo spirito qualche generosa illusione, questa dovette rapidamente svanire al cospetto della guerriglia atroce che la presenza degli armati di Gualtiero rese piú aspra e dilagante nel Mezzogiorno d'Italia, e nel cui spiegamento apparve ben presto troppo difficile distinguere le azioni che coinvolgevano unicamente i diritti della tutela pontificia, minacciata dagli sregolati luogotenenti del potere imperiale teutonico, da quelle in cui Gualtiero si impegnava unicamente per il suo sogno fosco di saccheggio e di conquista. Comunque, manovrando all'ombra di un'ambigua e mal circoscritta investitura romana, gli emissari di Gualtiero si facevano forti, ad ogni impallidire e ad ogni pencolare delle fortune del loro condottiero, di raccogliere volontari nelle varie parti d'Italia, dove l'odio contro la tracotanza teutonica poteva essere piú agevolmente e proficuamente stimolato in vantaggio dell'avventuriero francese.

In uno di questi arruolamenti, con gli altri nobili e benestanti assisiati si offrí, con grande pompa di preparativi, il figlio di Bernardone. Riarse improvvisamente nel giovine ventiduenne tutta la bramosia delle avventure guerresche e l'avidità della gloria militare. Ma Francesco che, aizzato ed aiutato dalla cupida ambizione del padre arricchito nella mercatura, si lasciava ancora, per un istante, cullare dal fascino dell'onore che avrebbe potuto guadagnare in campo, non sapeva di portare già in se stesso, fra le pieghe della sua coscienza inquieta e disingannata, un altro ideale di gloria, un altro sogno di grandezza. Il suo viaggio per la spedizione militare non andò oltre Spoleto. La sera stessa della partenza egli tornava, stravolto, ad Assisi, con in cuore un indistinto desiderio di praticare, in altra foggia, l'ideale della dedizione ad una causa di dignità e di bellezza.

Che cosa era mai accaduto di drammatico, di misterioso in lui e intorno a lui, in quella giornata spoletana? Impossibile dirlo con sicurezza. Può darsi che qualcosa abbia mortificato e depresso la sua anima sensibile e il suo amor proprio irritabile, nel primo contatto con i suoi compagni d'arme. Può darsi che, in procinto di iniziare la sua campagna, un nonnulla, nella città del concentramento militare, abbia messo repentinamente allo scoperto la diversa valutazione della realtà politica e della spiritualità religiosa, che le precoci esperienze avevano oscuramente seminato nel suo spirito. È certo storicamente che da quel di cominciò il rapido processo di quella «conversione», che, culminante nella scena del supremo e brusco distacco dall'eredità paterna nella primavera del 1206, doveva apparire piú tardi come la data centrale nella vita prodigiosa del restauratore della idealità evangelica.

Nella sua visione, presago dei futuri eventi, l'abbate Gioacchino, sul declinare della sua esistenza consumata dall'inquietudine e dalla aspettativa, aveva al primo sentore della calata di Gualtiero, rudemente ammonito: «Ci pensino bene i Romani: la potenza francese, alla quale essi hanno fatto appello, potrà un giorno, come l'asta della canna, ferire la mano che vi si appoggia. E se il francese sentirà nelle carni la puntura dello sperone teutonico, ne addebiterà la colpa alla Chiesa che l'ha chiamato». La canna aveva effettivamente punto la mano che vi aveva cercato un sostegno. L'aveva punta materialmente, creando imbarazzi formidabili, nel reame di cui l'astuzia del Guiscardo aveva fatto un pomo di discordia fra la Santa Sede e ogni eventuale pretendente. L'aveva punta spiritualmente, esponendo il supremo governo cristiano alla piú mordente accusa di doppiezza e di egoismo. Può darsi che in uno di quegli improvvisi bagliori che riempiono l'anima di luce e di sgomento, Francesco vedesse a Spoleto la vanità e la immoralità della causa che egli si apprestava, ignaro, a servire, e se ne tornasse precipitosamente a cercare, sulle pendici del suo Subasio, quale potesse essere realmente l'ideale che fosse consentito servire senza scendere mai a transazioni e senza acconciarsi mai ad infingimenti.

La ricerca non fu semplice né spedita. Il figlio del ricco mercante cominciò a staccarsi progressivamente dalle ingorde cure del fondaco paterno, assaporando cosí la squisita voluttà dell'aforisma neo-testamentario, secondo il quale è infinitamente piú dolce il dare che il ricevere. Si diede a ramingare, solitario, nella campagna, addestrandosi al misterioso linguaggio delle creature minuscole o imponenti, esili o maestose, fragili ed effimere o resistenti ed eterne, che popolano la natura disabitata dagli uomini, e che noi, nella nostra egocentrica angustia mentale e nella nostra inguaribile pigrizia psichica, definiamo inanimate o inintelligenti solo perché ci siamo sequestrati dal loro consorzio e ci siamo serrati alla loro ineffabile e suggestiva parola. Si chiuse nella solitudine agreste di San Damiano, a restaurare, con le pietre raccolte o donate nei dintorni, le cadenti mura della cappella. Sfidò impavido le ire del padre, rozzo e grossolano, cosí bruscamente deluso nelle speranze innalzate sull'avvenire cavalleresco del figlio. Prepose, con gesto ricco di geniale originalità, alla paternità fisica ed egoistica di Bernardone e agli oneri e ai diritti convenzionali da essa postulati, la paternità d'elezione e i vincoli liberamente riconosciuti col primo pezzente incontrato per via. E attese, nella preghiera e nella fiducia, la manifestazione suprema, che avrebbe dato al suo rinnovamento di coscienza l'espressione adeguata e il sigillo inconfondibile.

Ed essa venne. La «conversione» di San Francesco non poteva essere l'adesione intellettuale riflessa ad una fede religiosa per l'innanzi disconosciuta. Egli non aveva mai rinnegato il simbolo del suo battesimo, e non si era mai pubblicamente allontanato dalle pratiche devozionali dei suoi conterranei. Le sue esuberanze giovanili non erano nulla di piú grave e di piú indecoroso di tutto quello che ogni Chiesa ufficialmente costituita perdona generosamente alla sua gioventú. Se, reduce da Spoleto, il figlio di Bernardone aveva cosí violentemente rotto le consuetudini della sua esistenza, sfidando il sogghigno dei suoi amici della vigilia e le escandescenze volgari della sua famiglia, non era stato di certo per un arricchimento laborioso delle sue nozioni teologali o per un proposito imperioso di raggiungimento della perfezione attraverso le forme codificate dell'ascesi monastica, di cui pure lassú, sulla vetta del Subasio, il cenobio benedettino gli offriva, se non la pratica reale, senza dubbio la formulazione teorica completa. Francesco si è convertito piuttosto il giorno in cui, di contro a tutto il ciarpame vuoto e pesante delle convenzioni umane, delle menzogne sociali, delle ipocrisie sanzionate, dei gretti interessi materiali, che avvelenano le anime, offuscano i rapporti fraterni, stravolgono e contraffanno le leggi spontanee e primitive della vita associata, ha riguadagnato, di questa vita associata, l'economia spontanea e il tessuto elementare, nel precetto dell'amore e nel dovere del pronto, sorridente sacrificio. Quel giorno, annullando la artefatta inversione di valori che è alle scaturigini e alla base della associazione pubblica ed economica degli uomini, ed invertendola a propria volta, ha ritrovato la genuina gerarchia di valori imposta dalla vita cosmica ad una creatura ragionevole, che sogni di attuare, nella pienezza delle sue energie specifiche, il proprio spirituale destino.

La scena, che in quell'alba di primavera del 1206, svolgendosi alla presenza del popolo chiamato ad assistere sulla piazza di Santa Maria al giudizio del vescovo sul ricorso frapposto da Bernardone contro la discola insubordinazione dilapidatrice del figliuolo ribelle, riempí di stupore gli assisiati, quando Francesco riconsegnò al padre fin l'ultimo suo indumento, stette a simboleggiare l'esodo del «convertito» da tutte le divise dell'umana convenzione, per assumere, nella nudità della natura, la insegna della fraternità semplice che attende, fra gli uomini, l'assistenza amorevole del provvido Padre dei Cieli. Francesco, tornato primitivo pur con tutte le finezze del piú progredito senso umano e sociale, ripristinava cosi, in pieno, la metànoia evangelica.

Molti anni piú tardi, riandando con il pensiero alle espressioni prime del suo rinnovamento religioso e affidandone il ricordo al suo Testamentum, perché esso servisse di monito ai suoi degeneri e tardigradi seguaci, Francesco ne delineava incisivamente il contenuto e la natura, individuandone il momento saliente: «Ecco come al Signore piacque di portar me, Francesco, sulla via della penitenza. Poiché, essendo io tuffato nella colpa, mi ispirava una invincibile e nauseabonda ripugnanza lo spettacolo di un lebbroso. Ebbene: il Signore mi portò in mezzo ai lebbrosi ed usai con loro con sentimenti di misericordia. Quando mi allontanai da loro, constatai che quanto fino a quel momento mi era parso sgradevole, mi si era trasformato in fonte copiosa di dolcezza e di gaudio spirituale e materiale. Allora fui preso da inquietudine e ben presto rinunciai al secolo». Il peccato era cosí designato dal Poverello, al declinare della sua trionfale carriera, come lo stato dell'animo incapace di compatire le ripugnanti abbiezioni dei fratelli. E la conversione era stata tutta per lui nella improvvisa attitudine a scoprire fonti di gioia, là dove la delicata e permalosa suscettibilità delle convenzioni sociali trova motivo di vergogna e di fastidio. Ma simile attitudine a ritrovare l'acchetamento di tutte le discordanti volontà, che l'uomo porta nel grembo della sua composita vita interiore, non può essere acquistata se non ci si spogli, fino all'ultimo velo, delle artificiose imposizioni, delle deformanti valutazioni, delle egoistiche preoccupazioni, di cui si intesse la vita stereotipata e convenzionale degli uomini. Nell'umile costume dei contadini che egli incontrava ogni giorno lungo i sentieri assolati della sua vallata, Francesco, spasimante d'amore per la Madonna della sua nuova gioia e del suo improvviso desiderio, iniziava, al canto del suo irrefrenabile tripudio, una esistenza ricolma di impreveduto. La integrale rinuncia nella povertà e nell'abnegazione gli dischiudeva il dominio del piú accessibile e sconfinato godimento. Una palingenesi cosí appariscente e cosí clamorosa sollevava, nella vita spirituale e religiosa del secolo decimoterzo incipiente, una serie di problemi che investivano da presso cosí le decisioni del «convertito» come gli atteggiamenti eventuali dei rappresentanti della disciplina ecclesiastica al suo cospetto. Francesco, indipendentemente da ogni formulato e confessato proposito, dovette esser tratto a domandarsi se l'ideale di vita che gli era apparso prodigiosamente come la realizzazione perfetta della libertà e della gioia nell'amore e nell'abnegazione, potesse essere attuato nel claustro della sua solitudine o non dovesse automaticamente chiamare dei compartecipi e dei fratelli. D'altro canto, era nell'aria la sensazione diffusa che la contaminazione dei valori trascendenti con quelli perituri, del sacro col profano, della terra col cielo, della luce con le tenebre, della politica con la religione, fosse giunta, intorno, ad uno di quei livelli supremi, nei quali la salvezza non può scaturire che da un rinnegamento integrale di tutti gli idoli universalmente celebrati, e da una reviviscenza prepotente della letizia mistica, che è nella comunione immediata con Dio, con le cose, con gli uomini, al di là di ogni tradizione costituita e di ogni convenzione riconosciuta. Altri, prima di Francesco, avevano tentato di dare espressione concreta al disagio gravoso in cui la ibrida costituzione politico-religiosa della Chiesa, tratta dalla mole stessa dei suoi interessi e dal groviglio delle sue interferenze terrene a tutti gli adattamenti e a tutte le complicità, gettava gli spiriti piú sensibili e le anime piú timorate. Ma il superamento delle barriere concettuali e disciplinari, in cui la tradizione e l'istinto di conservazione cercano di tenere frenato e mortificato lo spirito fermentante della libertà cristiana, non era stato in essi deciso e trionfale. Non aveva cioè raggiunto quella stupenda condizione di assoluta ed olimpica tranquillità, nella quale non appare piú necessario insorgere positivamente contro le forme consuetudinarie della mediocrità spirituale per abbatterle, ma appare invece sufficiente svuotarle di contenuto, nell'atto stesso in cui si accettano o si tollerano. Poiché la regola infallibile per oltrepassare le tradizioni legalistiche e farisaiche, quando esse son divenute piú accerchianti e soffocatrici, consiste nel proclamarle intangibili e nell'ostentare ad esse rispetto, proprio nel momento in cui se n e trafuga il contenuto spirituale e se ne trasferisce piú in alto la virtú edificativa. Il buon senso umbro doveva premunire Francesco dalle sterili ed esteriori impugnazioni antiecclesiastiche di Pietro Valdo, e proprio per questo doveva assicurare al suo messaggio piú profonde ripercussioni e piú vaste risonanze.

Dopo avere restaurato San Damiano, il figlio di Bernardone, ormai ben noto in tutto il contado per le eccentriche manifestazioni del suo improvviso fervore religioso, si accinse a riattare, col medesimo sistema di accatto, la piccola cappella di Santa Maria della Porziuncola, sui margini del bosco della piana sottostante. Fu lí, in una mattina del febbraio del 1208, che il passo evangelico recitato dal celebrante nella messa di San Mattia sembra fargli concepire la prima idea di un proselitismo vivo ed operoso: «Andando per il mondo, predicate, annunciando il Regno dei Cieli è imminente. Curate i malati; infondete nuova vita ai cadaveri; mondate i lebbrosi; cacciate i demoni. Gratuitamente riceveste, gratuitamente date. Non possiederete oro o argento o rame nelle vostre cinture: né porterete bisacce nel vostro cammino, né due tuniche, né sandali, né bastone. Riposate tranquilli: ogni lavoratore trova il suo nutrimento».

La consegna dell'Evangelo è netta e perentoria. Quando si è imparato una volta a toccare nel supremo abbandono alla benevolenza del Padre l'àpice della letizia interiore; quando si è gustata la voluttà di cui è generosa dispensiera la vita, vissuta nella leggera e agile rinuncia al carico di tutte le preoccupazioni e di tutta la sapienza antiveggente del calcolo mondano; non ci si può piú arrestare ad un godimento individualistico e ad una utilizzazione egocentrica del tesoro scoperto. Fiorisce allora spontaneo sulle labbra l'annuncio che avverte della prossima rivelazione della giustizia di Dio, sgorga irrompente dal cuore il bisogno di rintracciare su ogni volto il profilo del fratello, semicancellato e semisepolto dalla logorante contraffazione delle competizioni terrene; pullula il desiderio di associarsi ad altri nella partecipazione concorde alla gioia conquistata, della cui sopravvivenza gli altri sono strumento e condizione.

Francesco non esitò piú ad accogliere compagni coloro che ad Assisi e nei dintorni avevano ricevuto piú sconvolgente l'impressione della sua inaudita rinascita. E quando li ebbe con sé, animati dal medesimo spirito di povertà e di rinuncia, decisi a vivere spensieratamente alla giornata, affidati al loro quotidiano lavoro e alla permanente sorveglianza del Padre, scelse, per la loro vita spiritualmente associata, una schematica disciplina. L'attinse, naturalmente, dal Vangelo: da quegli incisi sconcertanti e sublimi, nei quali Gesù ha concentrato e formulato per i millenni la consegna dell'apostolato del bene, fra gli uomini consunti dalla divorante avidità del guadagno e dalla folle cupidigia della floridezza bestiale: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quanto possiedi, dàllo ai poveri; ti garantisco in cambio un vistoso tesoro in Cielo, e, su, mettiti alla mia sequela... Non prendete nulla per il vostro viaggio: non bastone, non bisaccia, non pane, non denaro, non due tuniche. Entrate nella prima casa in cui v'imbattete e di là riprendete, sorridenti, il vostro cammino! Quando vi càpiti d'essere male ricevuti, allontanandovi di là scuotete dai vostri piedi la polvere che vi si è rappresa: onde sia testimonianza contro di loro». – E i discepoli se ne andarono di villaggio in villaggio, divulgando dovunque il lieto annuncio e guarendo i malati... – «Se qualcuno mi vuol seguire, rinunci audacemente a se stesso, assuma volonterosamente la croce e mi segua. Perché vi dico che chi vuol salvare la propria vita, deve perderla: e chi la perde la ritrova». L'esiguo manipolo su cui l'esempio di Francesco aveva esercitato piú potente efficacia non si sgomentò alla consegna aspra e disarmante. C'è un limite massimo nel programma di devozione all'ideale, toccando il quale par di dover toccare la paralisi e la morte; in realtà è a quel limite che trionfano la gioia e la vita. E vi sono ore storiche nelle quali la stessa complessa e affaticante difficoltà dell'esistenza associata sembra sospingere verso le forme estreme della rinuncia come unico mezzo per una stupenda affermazione di vitalità e di benessere.

Ma la società nominalmente cristiana è sempre vissuta, nel suo secolare sviluppo, di una paradossale legge di contraddizioni vicendevolmente compensatrici. In virtú della quale, mentre essa ha costantemente bisogno dell'esempio vivificante di nuclei per i quali la perfezione evangelica non sia un ideale astratto contemplato e vagheggiato da lungi, bensí un precetto concreto e una norma inderogabile, dall'altra ha bisogno che tali nuclei o non escano dalle proporzioni di minoranze infinitesimali, viventi sui margini della grande collettività esteriormente credente, o non si atteggino a mentori troppo petulanti e a giudici troppo intransigenti degli accomodamenti, delle acquiescenze e delle transazioni ufficiali. Appena Francesco si trovò d'intorno un manipolo di amici, dominati come lui dall'ideale della libera povertà evangelica, impegnati con lui a riprendere, in integro, la foggia di vita del cristianesimo nascente, il problema pratico dei rapporti con le autorità supreme del cattolicesimo si impose per lui. Le testimonianze dei biografi canonici – che fanno a gara per dimostrare Guido degli Onesti, vescovo di Assisi, tutto tenerezza e benevolenza per i giullari del Signore, che cominciavano a disseminare per i domini della sua giurisdizione il messaggio luminoso della predicazione neo-testamentaria: «pace e gioia» – lasciano alquanto dubbiosi. Se i benedettini del Subasio largheggiarono cosí prontamente nel concedere in godimento ai poenitentes de Assisio gli edifici sacri, sparsi nella vallata sottostante, e se i loro rapporti col vescovo appaiono sempre cosí tesi e cosí precari, non è azzardato il pensare che anche il nucleo dei francescani primitivi non incontrò, pieno e cordiale, il gradimento della Curia vescovile. Il movimento valdese contava per caso di stendere le sue propaggini nei vescovati dell'Umbria?

Francesco non esitò un istante. Con una di quelle mosse geniali e ardimentose, che sembrano proprio il retaggio degli spiriti piú lontani dalle anguste cure della sapienza mondana, volle affrontare direttamente il verdetto papale e prese, con pochi compagni, la via di Roma. Se dovessimo credere alle fonti canoniche della biografia del Serafico, non sarebbe stata quella la prima volta che egli discendeva dalle valli della Nera e del Tevere verso la capitale del cattolicesimo. Un quinquennio prima, proprio all'indomani del suo improvviso ritiro dalla spedizione militare di Gualtiero di Brienne, egli vi sarebbe venuto in pellegrinaggio e sui gradini della basilica vaticana, presi a prestito laceri indumenti di mendico, vi avrebbe provato, chiedendo l'elemosina in provenzale, l'acre godimento dell'abbiezione volontaria. Ma i biografi ufficiali amano moltiplicare i contatti del Serafico con la Sede di Pietro, che probabilmente, invece, sono stati quelli indispensabili per il progressivo riconoscimento del grandioso proselitismo e della ardita disciplina dell'Ordine francescano.

Era la primavera del 1209. La politica sottile di Innocenzo III si trovava ad una svolta pericolosa. Un anno prima, di quella stagione, il Papa era uscito dal Laterano per raggiungere la città dei suoi antenati, Anagni. Ne era disceso in giugno e nella valle del Sacco gli era andato incontro Giovanni di Ceccano, con una scorta di cinquanta cavalieri equipaggiati di tutto punto. Dinanzi alla chiesa di Giugliano era stato ricevuto con solenne pompa dal suo antico cappellano Alberto, ora vescovo di Ferentino, e dal coro dei chierici osannanti il responsorio: Tua est potentia. Il cronista di Ceccano racconta: «Il séguito del Papa e dei cardinali ricevette in gran copia vettovaglie e foraggi: pane, vino, maiali, vacche, montoni, capretti, polli, oche, olio, avena. Nel pomeriggio, fino all'ora della cena, Giovanni fece giostrare i suoi soldati alla presenza del signor Papa». L'indomani Innocenzo si trasferiva a Piperno e di là a Fossanova, dove consacrava l'altar maggiore della nuova chiesa che i monaci cistercensi avevano fabbricato nel nuovo stile architettonico propagatosi con la riforma di Citeaux. Ivi ancora i rappresentanti del re di Sicilia, il giovanetto Federico, giunto ora appena all'età della pubertà, proclamavano, al suono delle trombe, conte di Sora il fratello del Pontefice, Riccardo. Dopo di che il Papa continuava il suo viaggio e a San Germano, al di là di Ceprano, dove i monaci di Montecassino erano discesi ad ossequiarlo, teneva l'assemblea generale da cui sarebbe dovuta uscire la pacifica organizzazione dell'Italia meridionale. Innocenzo vi conferiva ai conti di Fondi e di Celano due comandi militari, analoghi a quelli gestiti dai rettori del Patrimonio. Essi avrebbero dovuto costituirsi cooperatori militari del re siculo e tutori dell'ordine pubblico nella regione. Da San Germano il Pontefice risaliva a Sora, trascorreva giornate di placido riposo autunnale fra i monaci di Casamari e vicino al vescovo di Ferentino, e ai primi sentori dell'inverno rientrava soddisfatto al Laterano.

Egli poteva lusingarsi di avere disposto la situazione pubblica in modo da scongiurare la minaccia che gravava allora come un incubo sul dominio pontificale: la fusione cioè della corona imperiale e dell'ex-reame normanno. Le manifestazioni di cordialità scambiate col giovanetto re siculo, nelle cui vene si era operato cosí enigmatico amalgama di sangue teutonico e di sangue celtico-latino, potevano costituire una garanzia per l'imminente esplicazione della politica meridionale. A buon conto, Innocenzo III poteva ormai, piú al sicuro da complicazioni, rimuginare il proposito di coronare imperatore a San Pietro Ottone di Brunswick.

In quel momento di incerta bonaccia il manipolo dei poenitentes di Assisi, con in mano pochi versetti evangelici e una laconica professione di sudditanza alla Sede di Pietro, veniva a chiedergli udienza e sanzione. Un linguacciuto cronista benedettino inglese, Matteo di Parigi, ha raccontato l'incontro con un realismo grafico pieno di sottintesi: «Il Papa si arrestò dapprima a riguardare, in Francesco, il costume deforme, l'aspetto spregevole, la barba prolissa, i capelli incolti, le sopracciglia ruvide. Poi si fece recitare la sua domanda e, trovatala di impossibile attuazione, lo rimandò bruscamente, dicendo: – Senti, fratello, va' a cercare una mandra di porci, con i quali mi sembra tu debba, piú facilmente che con gli uomini, accomunarti. Dimènati bene con loro nel brago e consegna ad essi la Regola che hai compilato. Assolverai cosí il còmpito della tua predicazione. – Udito ciò, Francesco, a testa bassa, se ne uscí, e, trovati dei maiali, si avvoltolò con loro nel fango, finché tutto ne fu inzaccherato. Allora si ripresentò al cospetto della Curia pontificia, e chiese al Papa: – Signor mio, ho adempiuto il tuo comando: ora, ti prego, esaudisci la mia supplica –». Naturalmente il cronista inglese non ha affatto l'aria di avere ricavato da autorevoli fonti i suoi grossolani per quanto pittorici ragguagli. L'accoglienza di Innocenzo agli strani postulanti non deve essere stata di certo cosí dura e sconveniente, quantunque la scena di Francesco che prende alla lettera il monito pontificale e nella semplicità dell'assoluta obbedienza vince le prevenzioni curiali, s'inquadri benissimo nei gesti abituali del Serafico. Probabilmente Giotto si è ispirato molto piú felicemente alla realtà quando, nella basilica superiore di Assisi, ha dipinto sul volto di Innocenzo, che ascolta la richiesta di Francesco, i segni dello stupore incredulo e dell'attenzione sconcertata. I biografi ufficiosi, del resto, pure interessati a dipingere il primo incontro del «Poverello» col fasto romano in maniera da riuscire in pari tempo graditi e favorevoli a Roma, e propizi alle prime sorti dell'Ordine, si limitano a riportare che, dopo un primo istante di diffidenza, il Pontefice rimandò i penitenti con una autorizzazione provvisoria a vivere la loro vita ed annunciare la dottrina morale del cristianesimo, rimandando l'approvazione ufficiale della rudimentale Regola, cosí difforme da quelle da secoli vigenti nella Chiesa, a quando l'esperienza ne avesse dimostrata l'applicabilità in armonia con la disciplina ecclesiastica e le leggi della convivenza sociale. Può supporsi che il Papa di Segni, tutto assorbito dalle incombenze immani della sua politica europea, non riuscisse né pure a valutare convenientemente la grandezza della richiesta sottopostagli dal gruppo esiguo dei poveri di Assisi. Ad ogni modo, quel giorno ch'egli li rimandò con gesto fra stanco ed incredulo, alla loro solitudine spoletana, egli non ebbe davvero coscienza di avere autorizzato il piú superbo tentativo di rinnovamento della prima vita evangelica, che da tredici secoli la società cristiana si fosse permesso.

Francesco non si era ripromesso di piú dalla Curia. Nel suo testamento, dopo esperienze amare e perigliose che non dovettero di certo alterare o correggere i suoi sentimenti primitivi, egli avrebbe un giorno imposto con severità ai suoi seguaci: «Interdico perentoriamente, per obbedienza, a tutti i fratelli, in qualsiasi luogo essi risiedano, di chiedere Bolle alla corte di Roma, sia direttamente, sia indirettamente, col pretesto di favorir chiese, conventi, o di impetrare permessi di predicazione. Non ne chiedano né pure per la loro protezione personale. Se in qualche località non saranno ricevuti, se ne vadano altrove, per far penitenza, con la benedizione di Dio». E nello Speculum Perfectionis è registrato, in quella forma paradossale che cosí spesso nella realtà dello spirito è l'unica che si attagli alla verità, un suo aforisma, secondo il quale il miglior privilegio è quello di non ambirne alcuno. Innocenzo gli permetteva di vivere con gli amici, come la vocazione dell'animo aveva loro suggerito. Ne erano beati.

La primavera della disciplina francescana va proprio circoscritta a quel brevissimo periodo di tempo nel quale, avendo ottenuto da Innocenzo il consenso orale al proposito della piú aderente imitazione evangelica, il piccolo stuolo di minores, reduci da Roma, assaporò lungo la Salaria la dolcezza della vita associata nella gioia e nell'abbandono alla Provvidenza. Dal dí in cui la consegna dell'Evangelo gli era apparsa in tutta la sua portata, attraverso la lettura della liturgia, nella cappella della Porziuncola, Francesco aveva sognato di rinnovare nella sua interezza l'esperienza neo-testamentaria in seno ad un nucleo di fratelli che, traendo i mezzi di sussistenza dal loro occasionale lavoro o dalla elemosina randagia, abbandonandosi alla buona ispirazione della loro quotidiana chiamata, disseminassero intorno a sé, con l'esempio e con la parola, il senso dell'ideale cristiano e la coscienza del dovere unico della scambievole solidarietà nell'amore e nel perdono. Al cospetto del Pontefice non aveva esitato a proclamare che lui e i suoi compagni avevano pure il diritto di assidersi alla mensa del Signore, essi figli legittimi del Signore e dell'idealità evangelica, dal momento che vi avevano diritto di cittadinanza i bastardi, i figli cioè che il Signore aveva avuto dalla transazione curialesca con le potenze terrene. Ora, per la prima volta, egli poteva, con una sufficiente investitura, svolgere in pieno il suo destino. La valle della Nera e la valle spoletana dovettero apparirgli piú ridenti che mai. E nel servizio fraterno, nell'umile lavoro fra tutti i compagni incontrati per via, egli dovette sentire, in tutta la sua raggiante bellezza, la verità che avrebbe un giorno d'inverno affidato piú tardi, sulla via algida di Perugia, al beniamino della sua compagnia, Frate Pecorella: che la perfetta letizia, la charà del Nuovo Testamento, non è nella scienza, non è nel fasto, non è né pure nella santità e nella virtú taumaturgica, è bensí unicamente nella capacità inesauribile di affrontare ogni contumelia ed ogni dileggio, per riversare, con imperturbabilità inalterabile, la piena del proprio sorridente amore sui fratelli.

Sicuri ormai del loro avvenire, Francesco e i suoi amici scelsero come loro domicilio la casupola semidiroccata chiamata Rivotorto, nella piana di Assisi, sul margine del torrente che scende dal Subasio, la quale, già adibita a lebbrosario, era stata abbandonata dai Crocigeri quando avevano costruito il nuovo ospedale di San Salvatore delle Pareti. Il luogo dové sembrare particolarmente acconcio ai reduci dall'approvazione del Pontefice. Rispondeva infatti in pari tempo al loro desiderio di povertà e di solitudine e al loro proposito di trovarsi in prossimità di centri abitati e di luoghi di lavoro, dove fosse consentito trovare l'impiego necessario al loro quotidiano mantenimento e spiegare efficacemente l'opera del cristiano apostolato. Essi eran tutti là quando Ottone IV passò con il suo fastoso corteggio per raggiungere sulla contigua strada che scende da Perugia, Roma, dove l'attendeva l'incoronazione imperiale. Francesco, racconteranno piú tardi le sue memorie biografiche, non se ne diede per inteso, se non per mandare uno dei suoi piú umili compagni ad ammonire il sovrano della caduca fragilità delle cose umane. Può darsi che il particolare del messaggero spirituale e del suo monito costituisca una aggiunta leggendaria. Ma quel che quadra perfettamente col carattere di Francesco e col suo programma è l'indifferenza olimpica dei rifugiati di Rivotorto al cospetto della grandiosità pomposa con la quale l'imperatore teutone si avviava a ricevere, sulla tomba di Pietro, la incoronazione della sua potestà imperiale. Fedele alla prescrizione neo-testamentaria, Francesco sapeva molto bene che ai Cesari della terra il cristiano non ha da dare altro in restituzione che il conio della loro moneta e l'indifferenza della propria anima, che è esclusivamente di Dio.

La popolazione circostante scorgeva questa rara e stupenda insensibilità dei «penitenti» di Rivotorto all'armeggìo fastidioso e logorante di tutte le rivalità e di tutte le ambizioni umane, e sentiva sempre piú intensa l'ammirazione per la loro semplice vita, nutrita di disinteresse, di letizia e di prontezza ad ogni utile servizio. In qualcuno la meraviglia cedeva il posto al desiderio della effettiva sequela. L'esiguo nucleo dei fratelli allargò cosí, rapidamente, le fila della sua conquista.

A due anni di distanza dal primo ritorno da Roma, il gesto invadente e screanzato di un contadino, cercante rifugio alla sua bestia, cacciava i minores dall'umile ospizio di Rivotorto. Francesco allora scelse a nuova sede della comunità, che si andava ampliando intorno a lui, la cappella della Porziuncola, dove prima aveva risuonato ai suoi orecchi il monito evangelico al proselitismo e dove egli si apprestava a costituire il centro della sua pietà e della sua idealità religiosa. Ma una sede non doveva servire, al menestrello di Madonna Povertà e ai suoi amici di canto e di ventura, che come luogo di periodico ritrovo, come centro della loro fraternità, come focolare di rifornimento al loro fervido entusiasmo. Il primitivo ideale di Francesco non fu già quello, come aveva creduto di poter sognare l'ingenua erudizione del Wadding, di disseminare e moltiplicare minuscoli cenobi: fu piuttosto quello di formare un nucleo di fratelli, che, condividendo solidalmente l'ideale dell'assoluto rinnegamento, realizzassero un'esperienza normativa, da cui potessero pullulare, su vasta cerchia, considerevoli ripercussioni religiose. Il suo ideale si andava ora felicemente concretando. Liberi da ogni impaccio di interessi mondani; pronti ad andare dovunque ritrovassero il compenso del loro lavoro e del loro messaggio; sciolti da ogni vincolo di soggezione a consuetudini e a convenzioni; costituiti nella piú agile e serena autonomia spirituale; i minores hanno iniziato la loro propaganda di gioia e di riconciliazione fra i fratelli. I frutti del loro apostolato, che nulla ha di comune con le burocratiche mansioni del clero parrocchiale e con le contaminanti ingerenze pubbliche della gerarchia, si rivelano subito pingui e preziosi.

Innocenzo III aveva autorizzato la loro propaganda morale. Francesco si avvalse immediatamente della romana concessione. E nei giorni del suo ritiro a Rivotorto egli iniziò la sua predicazione. Umile e dimessa, questa non mendicava effetti oratori e non copriva con l'orpello della forma studiata l'assenza di un contenuto profondo e vivo. Sulle labbra del Serafico era la sua anima che si effondeva, celebrando la bontà del Padre, il mistero dell'universale riscatto, la legge del fraterno amore. Chi ascoltava il suo messaggio, sarebbe stato imbarazzato a riferirne le parole e a ricostruirne la trama, ma sentiva che qualcosa ne era rimasto, indelebilmente, negli strati nascosti della propria coscienza e che sarebbe stato impossibile, da allora in poi, disperderne l'eco o cancellarne la impalpabile impressione.

Un giorno, fra gli altri, Francesco era salito a predicare a San Ruffino, la chiesa del suo battesimo. La popolazione d'Assisi sentiva il fascino suggestivo del giovane predicatore, di cui tutti ricordavano le numerose gesta e la strepitosa conversione. Al cospetto dei suoi concittadini, testimoni della sua trascorsa vita mondana, il figlio di Bernardone trovava accenti piú accorati e raggiungeva toni piú patetici. Una squisita comunicazione spirituale si stabiliva cosí fra lui e il suo uditorio, e da essa, di rimbalzo, Francesco ricavava una piú intensa capacità di dare espressione alle sottili virtú della sua commozione religiosa. In mezzo al popolo ascoltante si trovava una nobile giovanetta diciottenne, a nome Chiara. Francesco parlava della gioia che è nella rinuncia, della pace che è nella abnegazione, della felicità che è nell'unione delle eroiche idealità evangeliche.

Nessuno potrà mai dire qual tumulto di emozioni la voce armoniosa di quegli che per anni aveva riempito le vie di Assisi con i canti della sua spensierata perizia trovadorica, suscitasse nell'animo della fanciulla. Ma la storia sa che con quella predica Francesco guadagnò al suo programma la piú eroica seguace, e che quel giorno fu segnato il destino di colei che doveva con piú salda tenacia mantenere fede, fino alla morte, al programma dell'assoluta povertà, esposto, attraverso il successo stesso dell'Ordine, a cosí dure e mortificanti traversie. Pochi mesi piú tardi, nella notte tra la domenica delle Palme e il lunedí santo del 1212, Chiara fuggiva di soppiatto dal castello paterno, per raggiungere alla Porziuncola i fratelli della sua nuova e spirituale famiglia. E là, sui margini del bosco da cui erano circondate allora la minuscola cappella e le capanne che i minores si erano costruite per la loro quiete e la loro contemplazione, li trovò in gruppo che l'attendevano, pronti ad accompagnarla, con i ceri accesi e fra i canti liturgici, all'altare, dove Francesco compí il rito che doveva costituire il suggello del loro amore e della loro reciproca promessa: le recise le chiome. Era la perfetta dedizione dello spirito: e di tutte le dedizioni, ebbe il brivido amaro insieme e ineffabilmente gioioso. Sulle pendici del Subasio, in quel crepuscolo incerto di primavera, i cespugli del biancospino aprivano timidamente le prime corolle al sole. Francesco, che aveva, secondo il consueto, operato sotto l'impulso spontaneo della sua semplicità irriflessa e del suo entusiasmo di primitivo, dovette stentare un poco a trovare alla sua nuova conquista una sede sicura. Ancora una volta i provvidi benedettini del Subasio vennero in suo soccorso, concedendo l'umile rifugio di San Damiano, dove Francesco aveva dato libera effusione alla piena del suo sentimento di convertito, dove aveva cercato un nascondiglio per sottrarsi alle ire furibonde del suo padre irritabile e manesco, dove aveva esercitato la prima sua vocazione di restauratore della casa del Signore, dove infine la voce del Cristo martire aveva piú sonoramente parlato al suo cuore. Ivi Chiara, con le compagne che presto la raggiunsero, doveva rimanere per lunghi decenni ostinatamente avvinta alla volontà del suo maestro e ivi questi, poche settimane prima della sua dipartita, avrebbe sciolto il canto della sua immensa tenerezza per le creature tutte di Dio.

Ma Chiara non fu il solo insigne acquisto di Francesco nei primi anni del suo dimorare alla Porziuncola. Sebbene la memoria leggendaria abbia avvolto di un velo che non è meno fitto perché piú ricco di prodigioso, quel periodo dolce e laborioso delle origini francescane – le gestazioni delle primavere spirituali hanno sempre quella fisionomia di «apocrifa» ineffabilità che si conviene ai procedimenti misteriosi dello spirito – tutto induce a pensare che furono quelli gli anni del piú fruttifero proselitismo e del piú contagioso fervore. La vita mobile e libera dei fratelli; il loro vagare spensierato; la loro ilare adattabilità ad ogni ambiente, ad ogni lavoro, ad ogni bisogno dei confratelli, fu il vento ispirato che portò in giro il polline della bontà francescana. D'ogni parte dovevano affluire al Serafico anime in pena, che, logorate dalla complessa difficoltà della vita, sopraffatte dalla pressione di un mondo tutto contesto di violenze legalizzate e di costrizioni burocratiche, anelavano affannosamente ad una foggia di esistenza, in cui riaffiorassero le violentate energie della libertà naturale e della istintiva gioia. Francesco le accoglieva sorridente. Non laboriosi tirocini erano imposti alla loro chiamata e non a discipline pesanti erano costrette le loro giornate. Affrancatisi una volta per sempre, con gesto brusco e sicuro, dalla pesante servitú di tutti i legami terreni e di tutti gli interessi mondani, essi dovevano, per le aperte strade della terra, portare l'universalità del loro senso fraterno, l'altezza della loro imitazione evangelica. Il sembiante del padre che avevano incontrato alla Porziuncola, e che avrebbero, quando volessero, riveduto colà nei periodici convegni, doveva essere la norma onnipresente della loro condotta, l'immagine esemplare del loro quotidiano operare. Per tutto il resto, schivi di ogni cura per l'indomani, dovevano, come i fiori e gli uccelli, rifugiarsi sicuri nel seno provvidente del Padre dei Cieli.

Non è a credere, veramente, che la propaganda del Serafico si svolgesse sgombra di ostacoli e al sicuro da amarezze, delusioni, ostilità. Anche prima che il rapido divulgarsi del nuovo messaggio cristiano e il sorprendente costituirsi della fraternità dei cc minori», venendosi ad innestare automaticamente sul tronco delle preoccupazioni ecclesiastiche e dei problemi politici del tempo, sollevassero quelle apprensioni e quelle diffidenze che il menestrello del Signore avrebbe disarmato con la sua gioconda bonomia che nascondeva pure un cosí fermo e sagace proposito, non poteva uno sforzo tanto grandioso di rievocazione dell'esperienza evangelica primitiva non destare il ghigno beffardo dei sapienti del mondo, l'ostilità fredda e calcolata del fariseismo imperante, l'indifferenza gelida del mondo materiale ed affaccendato. Francesco sentí piú volte, in fondo al cuore trepidante, la morsa acuta del dubbio, la depressione amara dello scoraggiamento. Una volta, specialmente, gli parve che le idealità da lui vagheggiate crollassero tutt'intorno, che, se pure era riuscito a guadagnare qualche amico affezionato e devoto, qualche anima datasi a lui fino alla consumazione di sé, il mondo riuscisse opacamente refrattario al suo sconfinato desiderio di affratellamento e di pace. Si domandò, sgomento, se non convenisse tralasciare bruscamente ogni forma di apostolato pubblico e darsi, nella solitudine, alla contemplazione di quel supremo Bene, di cui il mondo rappresenta il poema e la gloria.

Ma se i piú intimi seguaci si erano dati alla sequela di Francesco con l'abnegazione ilare e fiduciosa che le eccezionali esperienze della carità evangelica suscitano d'incanto, Francesco sapeva ormai di avere in loro altrettanti elementi integratori della sua intiera spiritualità, altrettanti cooperatori indispensabili della propria gioia, della propria tranquillità, del proprio destino. La vita associata in seno all' esiguo nucleo formatosi sulla sua idealità e sulla sua speranza gli aveva infuso, fin dai giorni della prima vita randagia sulla Salaria, al ritorno da Roma, una piú fine capacità di cogliere, nella natura e negli uomini, il volto santo di Dio. Egli non avrebbe piú potuto ormai prendere alcuna decisione senza interpellare i suoi compagni e senza chiedere il loro consiglio. Il proprio avvenire apparteneva ad essi nella stessa misura che a se stesso. Nell'incertezza e nello smarrimento, chiese pertanto al fratello che si era raccolto in solitudine nel fitto del bosco circondante le Carceri e alla sorella Chiara a San Damiano, che lo illuminassero sulla via che il Signore voleva egli battesse. La risposta fu pronta ed imperiosa: non si curasse della indifferenza degli uomini; il nuovo Vangelo aveva bisogno della sua pubblica testimonianza. Iddio, per vie imprevedibili, l'avrebbe fatto fruttificare nel mondo. Francesco non esitò. Scese, viandante e seminatore, sulla via di Bevagna, e gli uccelli corsero in folla ad ascoltare il suo verbo ispirato: quasi a dimostrare che quando si chiudono le orecchie pigre e fatue degli uomini, sono innumerevoli nell'universo le creature che sanno bere e gustare l'annuncio della pietà e dell'amore.

Francesco ne fu tutto rinfrancato. E di incoraggiamento carismatico egli aveva ormai urgente bisogno. Col moltiplicarsi delle sue conquiste, si accresceva l'onere delle sue responsabilità e dei suoi rischi. La «conversione» di Francesco era stata, sostanzialmente, il brusco ritrarsi da quella perversa contaminazione di valori religiosi e di valori politici che costituisce il permanente pericolo cui è esposta l'economia della vita associata e che all'alba del secolo decimoterzo aveva toccato un eccezionale grado di gravità. Era stato un insigne successo l'aver ottenuto diritto di cittadinanza per il suo ideale di penitente nella società ecclesiastica, vigilata dalla Curia di Papa Innocenzo. Ma la costituzione e la fulminea propagazione della fraternitas de poenitentia, ispirata dal miraggio di una diretta ed elementare riproduzione della vita neotestamentaria, dovevano logicamente por capo ad orientamenti collettivi che non si sarebbero potuti inserire senza originalità di risultati e senza imbarazzo di spostamenti sul movimento generale della politica realistica internazionale del tempo. Questa gravitava allora per intiero intorno al problema del Mediterraneo orientale, il qual problema, da piú di un secolo, aveva assunto la forma concreta del programma crociato.

Attraverso un rapido processo di deformazione e di deviazione, l'idealità che aveva suscitato i clamorosi entusiasmi del sinodo di Clermont del novembre 1095 si era impoverita e materializzata. All'ombra della grande e pura volontà di recuperare al cristianesimo i monumenti che videro la realizzazione storica dell'umano riscatto, avevano, in un secolo, prosperato tutte le basse avidità e i raffinati calcoli della politica europea. Lo stesso Pontificato perseguiva, attraverso la Crociata, un suo disegno realistico: contrapporre, anche in Oriente, alla potestà universale che l'Impero pretendeva di spiegare, la potestà universale della Chiesa. La scomparsa precoce di Enrico VI aveva schiantato di colpo il predominio imperiale in Levante. Innocenzo III, come abbiamo visto, si propose, fin dagli inizi del suo Pontificato, di restaurarvi in pieno il prestigio pontificale e di riassumere, vigorosamente, come i suoi predecessori, la direzione suprema della politica cristiana al cospetto del mondo musulmano. Nelle prime sue encicliche egli si impegnava solennemente a porre tutte le proprie risorse al servizio della Terra Santa, chiamava alla riscossa la Cristianità perché non volesse permettere che gli Stati latini vivessero stentatamente in Oriente alla mercè dei loro nemici, assumeva sotto la sua tutela il regno di Gerusalemme.

Le deviazioni della quarta Crociata, che, partita per risalire dall'Egitto verso la Palestina, metteva capo alla conquista di Costantinopoli, mostrarono a chiare note quali interessi parassitari e grossolanamente egoistici e rapaci avessero ormai attecchito sul suolo della nobile divisa crociata. Costretto a far buon viso a cattivo gioco – non ci si espone impunemente a secondare gli uomini sulle vie delle loro umane cupidigie e i depositari dello spirito non possono mai illudersi di asservire le potenze della carne, condividendone e sanzionandone le terrene imprese – Innocenzo III pensò dapprima di poter far servire il nuovo Impero latino alla realizzazione della Crociata. Dovette presto disingannarsi. Si illuse anche che da esso potesse scaturire la unione delle Chiese. Vana speranza! Allora, considerando come definitivo ed irrevocabile l'insuccesso «cristiano», in ragione diretta del successo «politico», della spedizione del 1204, si accinse a preparare con ardore una nuova Crociata. Ma la situazione politica europea si offriva ai suoi piani molto meno favorevole che ai primi albori del suo Pontificato. In Germania divampava la lotta cruenta tra Guelfi e Ghibellini. Alla Dieta di Nordhausen, nel 1207, Filippo di Svevia non aveva potuto promettere altro al patriarca di Gerusalemme e al gran maestro degli Ordini militari che un sussidio in denaro. In Francia, il Papa stesso aveva bandito la Crociata contro gli Albigesi concedendo a chi si arruolasse il medesimo perdono elargito ai salpanti per l'Oriente. La rivalità fra Filippo Augusto e Giovanni Senzaterra assorbiva in pieno le forze dei due sovrani. Dovunque era Crociata: e dovunque il grande perdono sanzionava il reciproco massacro. In Spagna, costituiva un assicurarsi il perdono di tutte le penalità della colpa entrare in guerra contro gli Almohadi. In Francia, il grande condono era garantito ai combattenti contro gli Albigesi. In Inghilterra, eran Crociati gli impugnatori e gli insorti contro Giovanni Senzaterra. In Prussia, la Crociata era proclamata contro i pagani: a Costantinopoli contro i Greci. Alla fede di Dio, dove mai trovar le forze da lanciare al ricupero della Terra Santa? E, piú genericamente, dove mai scoprir cristiani, che si fossero sovvenuti del precetto neotestamentario: «col bene occorre vincere il male», e della minaccia immancabile: «chi pon mano alla spada, di spada morirà»?

Mentre in nome di presunte idealità religiose si perpetravano cosí i piú crudeli misfatti della politica realistica; mentre, in vista della liberazione dei luoghi che avevano visto la pacifica apparizione del Signore della pace e dell'amore, si chiamavano gli uomini al piú crudele repentaglio; mentre, col pretesto di una vigilanza ortodossa che copriva col sacro le ingorde rapacità dello sfruttamento sociale, si era ridotta l'Europa ad un carnaio; una vera professione evangelica non poteva consentire altro, proprio come alle origini, pur dinanzi al beffardo sogghigno del mondo, che il còmpito del proselitismo inerme e della propaganda pacifica. Ecco l'ideale ardimentoso cui Francesco mirò, partecipando alla Crociata. Il suo programma si rivelava cosí antitetico a quello dell'Ordine coetaneo, che nasceva intimamente legato ad una campagna militare, cui l' ortodossia serviva solo di tempestivo spunto e di comodo riparo.

Se la prima costituzione dell'ordo de poenitentia dei minores de Assisio aveva implicato un rovesciamento completo dei criteri con i quali l'ufficialità ecclesiastica credeva di tutelare gli interessi del cristianesimo, salvaguardando invece, nella politica interna, i suoi interessi terreni, l'opera pubblica della fraternitas prometteva di riuscire non meno rivoluzionaria. Partecipando alla Crociata, col proposito ben definito di non cooperare ad imprese militari e di non avvalorare affatto con accampate giustificazioni religiose le opere demoniache della violenza e della sopraffazione, bensi di spiegare azione di pura e inerme predicazione evangelica, della quale il risultato piú probabile che ci si potesse ripromettere era il martirio, Francesco e i suoi compagni sovvertivano tacitamente la concezione ufficiale e corrente della Crociata stessa. Essi elevavano un rimprovero ed un ammonimento contro quanti, invece di guadagnare con la bontà e con l'esempio infedeli a Cristo, credevano di poter cristianamente organizzare spedizioni belliche per occupare territori, abbattere città munite, disperdere eserciti, trucidare nemici. La sorridente umiltà del Serafico spezzò qualsiasi reazione al suo audace e incontenibile ardimento: ma contro di questo non dovettero essere poche e fiacche le opposizioni in Curia.

L'11 novembre 1215, festa di San Martino, come abbiamo già raccontato, Innocenzo III inaugurava nella basilica lateranense il duodecimo Concilio ecumenico. Dall'alto del suo trono, dominando la folta assemblea, dopo aver intonato a voce spiegata il Veni creator, pronunciava un sermone, a motto del quale sceglieva le parole del Cristo: «Mi son logorato nel desiderio di consumar con voi questo banchetto pasquale, prima della mia passione». Riccardo di San Germano ci ha conservato per intiero il tenore dell'omelia. Il Pontefice vi insiste reiteratamente sul duplice scopo del Concilio: la riforma della Chiesa universale e la liberazione dei Luoghi Santi. La Crociata è il tema che gli sta piú a cuore.

Il Concilio si preoccupò fra l'altro di vietare la costituzione di nuovi Ordini religiosi, che creassero nuovi tipi di Regole monastiche. Sicché le sue decisioni sembrò dovessero investire molto da presso l'opera e gli ideali di Francesco d'Assisi. Ma questi non sembrò darsene eccessivamente per inteso. Le forti vocazioni cristiane, anche se animate dalla piú solida volontà di non turbare con audacie intempestive la quiete e l'uniformità della disciplina associata, non si lasciano, nel loro cammino fatale, frastornare od arrestare dai provvedimenti della sapienza umana. La resistenza passiva è la legge della loro chiaroveggente pertinacia e del loro sicuro successo.

Che però l'intimo e irriducibile contrasto fra la concezione «curialesca» e quella «francescana» della Crociata si fosse fatto piú aperto e piú appariscente risulta dalle parole, altrimenti enigmatiche e incomprensibili, con cui il cardinale Ugolino, nel 1217, tratteneva a Firenze Francesco, in procinto di traversare i monti. Egli avrebbe voluto andare a predicare la pace e il perdono in Francia, dove la Crociata contro gli Albigesi era rapidamente degenerata in una barbara repressione e in una iniqua usurpazione. «Fratello mio», gli disse amorevolmente il cardinale sagace, che aveva intuìto quale mirabile apporto l'ideale francescano avrebbe elargito alla Chiesa, «non voglio che tu vada oltre monte. Vi sono, bada, molti prelati i quali ne trarrebbero facile e impressionante pretesto per gettare il discredito sulla tua religione (è il vocabolo che designa costantemente la fraternità spirituale costituita dal Santo) in seno alla Curia romana, mentre io e gli altri cardinali che ti vogliamo bene riusciremo molto più facilmente a proteggerti, se tu non uscirai dalla tua provincia». Che cosa mai avrebbero potuto dire in Curia contro Francesco i prelati ostili alla sua predicazione, se non che egli andava oltre monte a turbare col suo pacifismo cristiano la spietata e cruenta campagna antiereticale in Linguadoca?

Nel 1217 il Serafico obbediva alla prudente esortazione dell'accorto ed equilibrato cardinale. Ma nel 1219, perché non si mormorasse che la sua opposizione alle spedizioni militari nasceva da pusillanimità, egli era a Damiata. Fedele alla sua maniera evangelica di concepire il servizio della Croce fra gli infedeli, non si trovava là ad aizzare con i simboli della fede gli istinti sanguinari dei combattenti, come gli ecclesiastici che circondavano il legato papale. Egli non aveva che uno scopo da raggiungere: quello di presentarsi al cospetto del Sultano, per cercare di guadagnarlo unicamente con il proprio coraggio e lo spiegamento raggiante della propria fede. Ma prima di affrontare da solo la folle e mirabile impresa, Francesco aveva già dato a divedere il suo paradossale modo di concepire la Crociata, quando, secondo un particolare occasionalmente ricordato e nettamente riconoscibile pur attraverso il rifacimento leggendario della seconda vita che il Celanese ricavò dalle reminiscenze dei soci, volle sconsigliare energicamente i Crociati dal prendere le armi, riservando evidentemente solo alla parola e all'esempio il còmpito della conversione degli infedeli. Tommaso descrive Francesco aspramente combattuto fra il pungolo inquieto della sua coscienza, che lo stimola a chiamare i Crociati ad una comprensione esatta della natura del dovere cristiano, e il timore di essere considerato irrimediabilmente qual pazzo. Il fratello che lo accompagna lo rassicura in una maniera ben strana: «Non ti curare dei vani giudizi degli uomini. Qualunque cosa tu faccia, non sarà da oggi che essi cominceranno a prenderti per alienato e per stolto».

Se tutto ciò è vero, se esiste realmente questo sottile ed irriducibile contrasto, piú pratico che teorizzato, fra la maniera in cui Francesco si raffigura il nucleo evangelico della Crociata e i piani della Curia, si comprendono e si spiegano adeguatamente parecchi fra i tratti essenziali dell'azione religiosa del Serafico, come anche parecchie delle sue mosse e delle sue manifestazioni devozionali, che appaiono a primo aspetto eccentriche e inconsuete. La tanto discussa indulgenza della Porziuncola, che fonti tardive ed inquinate vorrebbero far risalire al 1216, all'indomani cioè della morte di Innocenzo III, e la cui origine è avvolta in una oscurità cosí opaca e cosí imbarazzante, potrebbe essere un'arditissima contrapposizione francescana alla indulgenza crociata. Quel perdono insigne, garantito ai visitatori della piccola cappella nella piana di Assisi, che anticipa di ottantacinque anni il giubileo concesso da Bonifacio VIII ai visitatori delle basiliche romane, avrebbe potuto rappresentare, nella iniziale volontà di San Francesco, il concetto che non un viaggio transmarino per ambigui scopi politici e guerreschi merita la grazia del Signore, bensí la disposizione dello spirito a trovare nel primo tempio di Dio, e nella prima fraternità religiosa, la cancellazione della colpa e la purificazione per l'avvenire. Sta di fatto che da tutti i ragguagli accumulati piú tardi dalla corrente degli Spirituali per accentuare credito sul perdono della Porziuncola in contrapposizione ai privilegi elargiti da Roma alla grande basilica innalzata da Elia nella vecchia valle dell'Inferno, con il riferimento centrale ad una presunta concessione rilasciata in grande segretezza da Onorio III, non si riesce a cogliere alcuna sicura documentazione e non si afferra in alcun modo la verosimiglianza.

Piú genericamente ancora, l'intensa e accorata venerazione francescana per le scene piú umili e piú eloquenti della vita umana e della passione del Cristo, dal presepio di Greccio al Golgota della Verna, potrebbe aver costituito un grandioso tentativo mistico, diretto a purificare e a surrogare, nell'ambito della pietà cristiana universa, quella gara tutta materiale, artificiosa ed esteriore nel riscattare i luoghi del martirio del Cristo, che sospingeva in Levante a cosí inutili stragi. Da questo angolo visuale si comprenderebbe molto bene come nel 1217, inaugurandosi le grandi missioni francescane, che costituiscono il vero superamento evangelico del proselitismo armato, la missione d'Oriente, che era senza dubbio la piú ardua e la piú delicata, dato il divario incolmabile fra l'ideale di Francesco e quello della Curia, fosse affidata all'abile e sagace diplomazia di frate Elia, l'ex-maestro che aveva intuìto a pieno ciò che avrebbe potuto rappresentare lo spirito del Serafico, innestato su un piano di concrete e progressive realizzazioni. Sta di fatto ad ogni modo che, attuandosi anche qui questa legge della conquista attraverso le antitesi, in cui è tutta la economia dell'azione portentosa svolta dall'esperienza cristiana nella storia, la maniera «paradossale» con cui San Francesco innestò la sua visione della pace evangelica e della solidarietà interconfessionale sul programma realistico della Crociata, sortí conseguenze imponenti, anche di pura indole politica e disciplinare. È proprio dall'epoca dei primi tentativi di evangelizzazione pacifica concepiti da Francesco che ha inizio l'opera delle grandi missioni cattoliche. Ed anche oggi, la custodia francescana di Terra Santa sta a testimoniare a suo modo il rivolgimento che la «follia» del menestrello umbro determinò nel grandioso sogno medioevale della conquista cristiana in Levante.

Ma le insignì innovazioni della libera spiritualità cristiana nel mondo delle tradizioni e delle discipline costituite non possono acclimatarsi senza provocare l'ostilità del misoneismo farisaico, di cui vive la massa di tutte le istituzioni sociali. Molti, in Curia, dovevano avere terribilmente a fastidio questa fraternità costituitasi intorno a Francesco, che non aveva sedi fisse e ordinamenti ben chiari, che girovagava liberamente per i Comuni e per le campagne d'Italia, praticando e bandendo il Vangelo in una maniera, che lasciava praticamente in non cale la gerarchia, i suoi poteri e le sue consuetudini. Pur professando esteriormente il piú devoto ossequio alle potestà sacerdotali, i minores sembravano voler nella Chiesa far parte per se stessi, unicamente preoccupati di rispecchiare quelle leggi dell'assoluta rinuncia, che la tradizione del cristianesimo postcostantiniano ha relegato nel novero dei non necessari consigli. La predicazione minoritica, tutta soffusa di una intensa consapevolezza della legge dell'amore universale che è alle radici della rivelazione neo-testamentaria, doveva apparire a molti come un tentativo raffinato di neutralizzare quell'opera positiva della gerarchia curialesca che dovunque aveva affidato alle armi la sorte della minacciata ortodossia e del pericolante potere romano.

Ma in concreto non sembrava impresa agevole escogitare i mezzi acconci per spegnere nella nascente organizzazione francescana i serpeggianti focolai di indisciplina e per ridurne ad armonia con le direttive ufficiali il piano di lavoro e l'opera di propaganda. Come aver l'aria di sollevare dei dubbi sulla correttezza dottrinale e sulla bontà fattiva di chi, prendendo in mano le consegne piú ardue del Vangelo, ne faceva norma inderogabile della propria quotidiana esistenza? I piú benevoli patrocinatori di Francesco dovettero pensare che un unico mezzo esisteva per disarmare le apprensioni e le opposizioni della Curia: uniformare l'Ordine nascente ai tipi tradizionali delle regole ascetiche cristiane. Ma la bisogna offriva delle spinose difficoltà. Come scoprire qualcosa di comune tra associazioni monastiche nate dal proposito del risoluto abbandono del mondo e vissute mediante l'accumulazione crescente di terrene ricchezze, e una libera comunità di entusiasti e di sognatori, che prendeva alla lettera il precetto evangelico dell'apostolato randagio e del disinteresse assoluto? Aggiungasi che se v'erano nello spirito di Francesco volontà precisa e decisione incrollabile, eran quelle di apportare al mondo qualcosa di imponentemente nuovo, in nulla paragonabile al modello stereotipato delle ormai logore e inette Regole cenobitiche.

Non mancano invero indicazioni apodittiche di fonti per arguire la consapevolezza in Francesco della novità che la sua personale esperienza del messaggio neo-testamentario introduceva nello sviluppo della tradizione etica operantesi nella Chiesa romana. Nello Speculum perfectionis, in cui sono parecchie reminiscenze erratiche delle primitive memorie consegnate ai rotuli di frate Leone, c'è un capitolo il quale consente di cogliere una formulazione autentica del còmpito che Francesco si era assegnato nella vita religiosa del suo tempo. Il Serafico si abbandona ad una concitata rampogna contro quei «fratres sapientes et scientiati» che vorrebbero ridurre la sua disciplina, sgorgante unicamente dal fuoco di una forte passione mistica ed umanitaria, ai tipi tradizionali, delle Regole benedettina, agostiniana e cistercense. «Fratelli miei, fratelli miei», egli esclamava, «il Signore mi chiamò perché marciassi sulla via della semplicità e della umiltà: questa via ha additato in modo indubitabile a me e a coloro che mi vogliono credere ed imitare. Voglio pertanto che non mi nominiate alcuna altra Regola: non quella di San Benedetto, non quella di Sant'Agostino, non quella di San Bernardo, non un'altra foggia qualsiasi di vita, che non sia quella misericordiosamente mostratami e donatami dal Signore. Il quale mi disse di volere che io fossi un nuovo patto nel mondo, e non volle condurci per altra via se non per quella rappresentata da questa scienza. La vostra scienza invece e la vostra sapienza saranno confuse da Dio: onde ho fiducia nei castaldi del Signore, i demoni, per mezzo dei quali Dio vi punirà». La mitezza e la condiscendenza abituali dello squisito Joculator Domini cedono improvvisamente il posto ad una corrucciata irritazione, sol quando egli vede minacciato da anguste preoccupazioni intellettuali o disciplinari il suo sublime miraggio evangelico.

Qual valore pertanto avrebbe egli potuto assegnare ai tentativi, da qualunque parte venissero, di codificare e di stilizzare in aride formule prescrittive quella che ai suoi occhi doveva essere e restare una pura attitudine di spiriti, votati all'ideale dell'universale fraternità nella pace e nella gioia? Il codice della perfezione, quale egli aveva vagheggiato e quale voleva fosse con pari fervore bramato dai suoi amici, era, tutto, nei pochi incisi neotestamentari che egli aveva sottoposto all'esame sbigottito di Innocenzo III. Ogni loro ampliamento esegetico importava una depauperazione: ogni clausola di commento e di specificazione significava un abbassamento.

Veramente lo sviluppo repentino della comunità, la imponenza delle riunioni fraterne nei pressi della Porziuncola ad ogni sfiorire della primavera e ad ogni cadere autunnale delle foglie, la vastità del campo d'azione dischiusosi all'apostolato minoritico, avevano richiesto la formulazione di qualche monito generale, che accompagnasse ed ispirasse, dovunque e sempre, l'atteggiamento degli spirituali seguaci del Serafico. Deve risalire ad uno dei piú vecchi strati del successivo processo di codificazione della vita francescana la finissima consegna, scomparsa poi dalla Regola del 1223: «Stiano bene attenti i fratelli a non atteggiare esteriormente il loro aspetto a tristezza, a rannuvolata preoccupazione, a concentrata ipocrisia; ma si mostrino piú tosto tripudianti nel Signore, ilari sempre, e sempre convenientemente aggraziati». Ma si trattava di poche vaghe enunciazioni e di rapide esortazioni, ricolme di candore e di discrezione, che volevano illuminare ed inculcare sempre meglio quella assoluta legge della sorridente bontà e della longanime tolleranza in cui era, per Francesco, il canone predominante della morale cristiana. Ben altra minuta e precisa enucleazione di norme disciplinari, liturgiche, devozionali, si riprometteva la Curia di imporre alla comunità in formazione, per assicurarne l'immunità da ogni sottile infiltrazione di sregolato sbandamento e di periglioso spirito anticuriale.

Il momento piú acconcio per l'opera di accerchiamento e di conquista della «religione» francescana parve scoccato quando il fondatore prese, nel '19, la via dell'Oriente. Son quelli i mesi piú oscuri nello sviluppo dell'opera del Serafico. Se i biografi ufficiali si diffondono nel narrarci, interpretandole a lor guisa, le mirabili gesta del Santo al cospetto degli infedeli, sono altrettanto parchi e guardinghi nel registrare gli eventi verificatisi in Italia in seno alla comunità momentaneamente orbata del suo padre e del suo spirito animatore. Le tardive fonti degli intransigenti nelle quali deve e può sopravvivere un'eco delle vecchie divergenze e dei primitivi acuti contrasti, accennano ad un sottile piano architettato da alcuni complici della Curia, per ridurre l'Ordine incipiente alle regole tradizionali. E il piano offriva tanto maggior probabilità di felice riuscita, in quanto avvicinare le forme della vita francescana ai modelli regolari preesistenti significava in pratica moltiplicare quelle manifestazioni esterne di pietà e di mortificazione, che cosí spesso sembran dare farisaicamente il cambio alle genuine virtu evangeliche, la carità ed il perdono, e che, ciononostante, empiono di tanto compunta ammirazione tutti coloro, e son folla, che preferiscono un'astinenza a un gesto di bontà e ad una parola di dolcezza. La Curia dal canto suo cercava di agevolare l'impresa, intervenendo a disarmare, con Bolle di presentazione e di raccomandazione, le diffidenze che accoglievano ovunque, nei vescovadi, l'apparizione dei predicatori francescani.

Le tristi nuove pervennero alle orecchie di Francesco in Oriente. Egli affrettò, con l'animo in ansia, il suo ritorno. La situazione gli si rivelò piú allarmante di quanto non avesse preveduto. Incominciava cosí la fase acuta del dramma intimo da cui non si sarebbe piú liberato, e che è tutto nella resistenza simultaneamente opposta, fino alle ultime volontà del Testamentum, al duplice tentativo di deformazione che si perpetra a danno del suo primo ideale, da coloro che spingono l'elastica autonomia di questo verso la licenza e, al polo opposto, da coloro che vorrebbero infrenarla ed ucciderla con la stilizzazione delle tradizionali Regole monastiche. Anche nel cristianesimo primitivo il dramma profondo, generato dalla nuova esperienza del Riscatto, è nello sforzo immane per salvare i valori etici contro ogni possibile e insidiosa deviazione indifferentistica («tutto è consentito»), senza ricadere però in un legalismo esteriore, pregno di ipocrisia e di ottusità farisaica. Attraverso le angosciose ore della sua ineffabile tragedia, Francesco dovette convincersi, suo malgrado, che il còmpito di salvare senza un'ombra di concessione l'idealità che aveva alimentato il sogno della «conversione» era superiore alle sue forze, o meglio, al di là delle capacità recettive della vita associata, che il suo fascino e la sua parola avevano cementato. E allora, affinché qualcosa potesse pur sopravvivere del suo iniziale programma, volle riservare, ad ogni costo, a se medesimo l'onere di compilare ed allestire le Regole, che le pressioni della Curia ormai imperiosamente esigevano.

Anche quel privilegio pagò caro. Quando per il San Michele del '20 Francesco si presentò al Capitolo della Porziuncola, una Bolla di Onorio III l'aveva già preceduto, che imponeva il rituale anno di prova a chi postulasse di farsi minore. E al cospetto della solenne adunanza, dalla quale era esulata ormai quell'aria di gaia e spensierata serenità che aveva avvivato i primi convegni dei fratelli, il Serafico rimetteva nelle mani di Pietro Cattani le redini dell'Ordine, che non avrebbe piú riprese. Il suo còmpito doveva essere ormai quello di preparare le Regole. Ed egli vi si accinse con animo pronto a tutte le prove e a tutti i disinganni. Pochissimi dati sporadici delle fonti spirituali stanno però ad attestare di scorcio lo strazio che devono essere costati alla sua anima di inguaribile idealista il trapasso dal testo elaborato del '21 a quello piú schematico ma non piú soddisfacente per lui del '23 e il successivo abbandono, sotto l'opprimente assedio dei ministri provinciali, delle prescrizioni piú rigidamente evangeliche o piú tipicamente «francescane», che l'evolversi della associazione verso l'ufficialità imponeva.

Nello sgretolarsi fatale e nel dissiparsi delle piú eccelse idealità che avevano sorriso alla sua palingenesi spirituale, due incrollabili fedeli rimanevano a Francesco: Chiara e la natura. Nel minuscolo rifugio di San Damiano, che conserva ancor oggi il fragrante sentore dell'umile vita francescana menatavi dal nucleo delle pauperes sorores, Chiara, costituitasi garante dell'assoluta povertà, ha potuto rinunciare ad attendere dalla piccola terrazza prospiciente la valle l'arrivo giocondo e frettoloso del suo amico e maestro, quando l'opera instancabile del proselitismo della pace lo chiamava lontano. Ma non ha potuto ripiegare un lembo solo della vocazione al completo distacco che Francesco aveva sigillato nell'anima sua quella notte in cui, ai piedi della disadorna ara della Porziuncola, le aveva reciso le chiome. Comunque amari volgessero gli eventi e sgradevoli si atteggiassero gli umori degli uomini, Francesco sapeva molto bene che lassu, fra il ciuffo di cipressi ombreggianti in alto il cammino da Rivotorto ad Assisi, vegliava, nell'amore, un'anima tenace e risoluta, che avrebbe pertinacemente celebrato l'altezza incorruttibile del suo messaggio.

La natura poi, che alla sensibilità fine e vibrante del Serafico offriva generosamente la risposta del suo luminoso consenso e della sua canora armonia, non era già la forza anonima e indefinibile che amano raffigurarsi la speculazione monistica o la fantasia panteistica dei poeti: era piuttosto il coro ritmico di tutte le voci coscienti e personali che hanno ricevuto da Dio, nell'universo, il còmpito di tesserne le lodi e di esaltarne la paterna grandezza. Il fraterno contatto con le creature aveva infuso in Francesco uno squisito potere di intenderne il linguaggio, di coglierne le piú esili e nascoste espressioni. Ogni stelo aveva un messaggio per lui: ogni stormir di foglie rivelava alla sua anima attenta un presagio: ogni uccello che fendeva l'aria sul suo capo, e ogni animale che traversava il suo sentiero, venivano a moltiplicare intorno a lui la comunità di affetti e di tenerezza in cui egli viveva tuffato. Sotto il pungolo tormentoso delle sue delusioni trepidanti, il Serafico si ripiegava a cercare piú avidamente quella solidarietà con le cose che egli aveva quotidianamente resa piú intensa e piú comprensiva dal giorno in cui, convalescente, aveva inteso, riguardando con l'occhio estatico la lussureggiante vallata, il suo corpo percorso da cosí indefinibile brivido di piacere insieme e di sgomento.

Aveva egli ormai veramente il bisogno, cosí fisico come morale, di trovare nella contemplazione tregua al suo disagio e alle sue apprensioni, balsamo e ristoro alle sue energie affievolite. Le ardenti emozioni, le diuturne asprezze della sua ascesi, le assidue fatiche del suo apostolato itinerante, le traversie di suoi viaggi oltre mare, avevano miseramente logorato le riserve del suo organismo fragile ed ipersensibile. Gli anni che corrono fra la redazione dell'ultima Regola e il trapasso beatifico nel rifugio della Porziuncola, sono anni di sofferenza e di martirio. Colpito da misteriosi disturbi nelle sue funzioni assimilatrici; tormentato da una penosissima infermità ai suoi occhi che cosí luminosi sorrisi avevano donato ai compagni e alle cose, Francesco sembra cercare in una mobilità piú inquieta e in un peregrinare piú instabile le espressioni supreme della sua anima, che il fuoco della fede e il tirocinio dell'amore avevano misteriosamente trasfigurato.

Ormai, dopo un ventennio dalla «conversione», la sua coscienza era impregnata fino alle ultime molecole dell'immagine del Cristo, testimone cruento della suprema legge dell'amore fra gli uomini, e le sue energie psichiche erano tutte protese verso l'estrema manifestazione prodigiosa della grazia e della gioia. Questo approfondimento estatico della virtú restauratrice del Cristo, mediante lo spiegamento della sua carità salvatrice e la divina immolazione del Golgota, doveva avere il suo sigillo sensibile. Sotto il Sasso della Verna, dopo giornate di rapimento e di dolore, un serafino miracoloso incideva, nel settembre del '24, sulle carni vive del giullare sacro le impronte sanguinanti della passione.

In quell'intenso rimescolìo di aspettative e di inquietudini che traversavano e riscaldavano l'atmosfera della spiritualità collettiva nel secolo decimoterzo incipiente, il prodigio misterioso della Verna doveva suscitare echi molteplici e vasti. Ciascuno ne diede l'interpretazione meglio rispondente alle proprie valutazioni e ai propri ideali. Frate Leone, compagno del Serafico nell'aspra solitudine montana, vi dovette scorgere la prova sensibile del martirio ineffabile a cui le delusioni e le deviazioni dell'Ordine avevano sottoposto il suo grande amico. Frate Elia, annunciando il miracolo all'universalità della famiglia minoritica all'indomani della morte del Santo, lo segnalerà unicamente come la sanzione soprannaturale della sua santità taumaturgica, che designava Francesco a divenire, quasi esclusivamente, un eccezionale oggetto di culto. Ma i tardi interpreti di Gioacchino da Fiore che, disseminati per i cenobi d'Italia, continuavano ad alimentare la impaziente speranza con i segni ammonitori del suo apocalittico presagio, riconobbero allora in Francesco l'angelo annunciato dal Veggente di Patmos, come precorrente da presso i supremi momenti. «E vidi un altro angelo salire dall'Oriente, recante in sé il sigillo del Dio vivente». Simile raffigurazione e simile riconoscimento anzi si diffusero e si accreditarono cosí largamente, che lo stesso San Bonaventura, l'avversario implacabile ed astuto delle tendenze spirituali e gioachimite, se li appropriava, intendendoli naturalmente a suo modo. Piú tardi, decorando i costoloni della crociera soprastante all'altare papale nella basilica inferiore di Assisi, Giotto vi disegnava, intenzionalmente, angeli stigmatizzati, e Dante, facendo celebrare da San Tommaso nel cielo del Sole la gloria dell'assisiate, chiamava «Oriente» la sua città natale e accennava al «sigillo» ch'egli aveva ricevuto da Cristo.

La misteriosa impressione dei segni sensibili della Passione sul corpo esausto del Santo ne segnò il piú rapido declinare. Ormai Francesco doveva affrettarsi verso i luoghi che, testimoni delle sue prime mosse nella via dell'amore e della letizia evangelica, dovevano anche assistere al suo sereno trapasso. Scendendo dalla Verna, Francesco, col minuscolo stuolo dei compagni, prese la via di Monte Acuto. La sera era a Monte Casale, al disopra di Borgo San Sepolcro. Qualche giorno dopo, accompagnato dall'inseparabile Leone, si avviava verso Città di Castello, e di là alla Porziuncola. I suoi sensi, affinati dal male, resi prodigiosamente desti ed accorti dalla diuturna pratica dell'amore, del sacrificio e della gioia, bevevano come non mai le mille impressioni della natura, mollemente reclinante nel suo esangue languore autunnale. I prati che avevano riguadagnato subitamente il verde, sotto l'azione irrorante delle piogge settembrine; gli alberi che abbandonavano con lentezza stanca le loro foglie ingiallite; le montagne che si coloravano di evanescenti tinte opaline sotto la tremula carezza dei tramonti purpurei; sembravano affidare all'estatico un messaggio piú profondo e piú inebriante del consueto. E le sottili impressioni, depositatesi oscuramente nella sua coscienza dopo una gestazione laboriosa, ripullularono a distanza di poche settimane, in un inno di lode e di riconoscenza che il Serafico sciolse all'universa creazione.

Salito a San Damiano, Francesco cercò, al fianco di Chiara, refrigerio alle sue esasperanti sofferenze. E un giorno che il tormento fisico era piú acuto, ma il gaudio spirituale piú intenso, egli, affacciatosi sull'angusto balconcino, che aperto verso il sole nascente lascia spaziare lo sguardo su tutta la vallata dai mille colori e dalle mille sinuosità, sotto l'impeto imperioso delle esperienze accumulate in un ventennio di vita nella perfetta carità, intonò l'inno della fraternità universale: «Altissimo, onnipotente, bon signore – tue son le laude, la gloria e l'onore et omne benedictione. – Ad te solo, altissimo, se konfano – et nullo homo ene digno te mentovare. – Laudato si, mi signore, cum tucte le tue creature – spetialmente messer lo frate sole, – lo quale jorna, et allumina per lui; – et ello è bellu et radiante cum grande splendore; – de te, altissimo, porta significatione. – Laudato si, mi signore, per sora luna e le stelle, – in celu l'ai formate clarite et pretiose et belle. – Laudato si, mi signore, per frate vento – et per aere et nubilo et sereno et omne tempo, – per lo quale a le tue creature dai sustentamento. – Laudato si, mi signore, per sora acqua, – la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. – Laudato si, mi signore, per frate focu, – per lo quale enallumini la nocte, – et ello è bello et jucundo et robustoso et forte. – Laudato si, mi signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa – et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba».

Dal giorno in cui, in uno degli squarci improntati a piú denso lirismo di tutto il suo epistolario, Paolo aveva cantato l'aspettativa ansiosa dell'universa creazione, protesa in esplorare i segni premonitori della rivelazione dei figli di Dio, la coscienza cristiana non aveva udito mai piú accenti altrettanto alati e commossi, nella celebrazione mistica della fraternità con le cose. Poiché nel messaggio francescano della gioia, della carità e della pace, i figli di Dio rivelavano in una pienezza inarrivata i frutti della grazia e della pedagogia dell'Evangelo, tutte le creature cosmiche dovevano essere chiamate alla partecipazione di cosí insigne mistero. L'uomo le aveva asservite alla vanità e alla corruzione. Create da Dio per la loro gioia e la sua gloria, erano state dalla progenie di Adamo, caduta in balìa di un'oscura fatalità di concupiscenza e di morte, coinvolte anch'esse, nolenti, in un destino tragico di reciproco sfruttamento e di contaminante servilismo. Le creature si erano abituate a considerare l'uomo tiranno e nemico. Gli avevano negato, per rappresaglia, il diritto di condividere con loro il tripudio della libera vita e l'innocenza dell'istintiva felicità, nello spiegamento dell'universale omaggio al Padre. Paolo aveva presentito il gaudio del cosmo il dí che gli uomini, ridivenuti figli di Dio, levassero la fronte redenta nel conseguimento della liberazione e del riscatto. Francesco, ridivenuto puro e semplice come un primitivo, attraverso la pratica della bontà, fuori di tutte le menzognere convenzioni della convivenza sociale, meritava di risentire fratelli gli esseri dell'universa creazione. Ed essi rivelavano ai suoi sensi inebriati la bellezza della legge di bene, che presiede e disciplina il ritmo della loro esistenza. Figgendo a fondo lo sguardo nei tessuti della loro collegata fraternità; cogliendo le note della loro sinfonica esaltazione del Padre; l'estatico scopriva l'essenza etica dell'universo, e, a cose apparentemente inanimate, applicava, con sublime sapienza, proprietà psichiche e qualificativi etici. V'è una castità dell'acqua e una giocondità del fuoco. Le virtú debbono essere nell'uomo quel che sono nelle cose: efflorescenza spontanea di un semplice e intonato collocamento delle capacità vitali nella sinfonia dell'universo.

Francesco aveva cosí raggiunto la espressione massima della sua eccezionale esperienza religiosa. Le lodi delle creature erano il suo simbolo e il suo testamento. Joculator Domini fino all'ultimo dí della sua vita, egli ormai, tagliato fuori dallo sviluppo autonomo del suo Ordine, non poteva far di meglio che chiedere alle strofe del suo canto il placamento dei suoi dolori e il mezzo infallibile della sua propaganda. I compagni intonarono quelle strofe anche quel pomeriggio d'ottobre in cui, nell'umile capanna della Porziuncola, mentre le care allodole trillavano sbattendo affannosamente le ali, Francesco si spense serenamente, consumandosi nel desiderio di quel congiungimento con l'Assoluto, a cui per ventidue anni aveva ininterrottamente cercato di appressarsi nell'amore e nel martirio. Presso il morente era accorsa da Roma, col tesoro del suo affetto e della sua tenerezza, Jacopa de' Settesoli, la seconda creatura femminile che l'ardore del Serafico aveva soggiogato, con le vampe del suo idealismo e della sua purezza.

La mattina dopo, la venerata salma era trasportata senza indugio, per volontà di frate Elia, ad Assisi. Cominciava la triste odissea dell'ideale francescano. Ché gli uomini san trovare un magnifico diversivo alla loro congenita neghittosità e al loro funzionale fariseismo avvolgendo negli incensi della loro devozione le figure di eccezione, che avrebbero voluto invece unicamente trasformare ed innalzare il tenore della loro vita. L'Ordine, già sfuggito alla direzione effettiva di Francesco, si accingeva a battere, con ritmo accelerato, la via della sua consacrazione ufficiale nella Chiesa e nel mondo. Francesco aveva sognato i fratelli messaggeri umili e poveri di pace e di perdono: l'Ordine avrebbe innalzato dovunque le sedi stabili del suo magistero. Francesco aveva maledetto il fratello che a Bologna aveva per primo sanzionato la contaminazione della scienza con l'idealità minoritica: l'Ordine sarebbe entrato a vele spiegate nell'insegnamento accademico. Francesco aveva deprecato ogni privilegio curiale: l'Ordine avrebbe questuato a Roma le Bolle del suo ambiguo e clandestino arricchimento. Francesco aveva prescritto la povertà dell'arredamento della suppellettile sacra: Elia avrebbe dedicato alla sua memoria un monumento senza pari.

Con la visione della nuova economia dell'amore negli occhi abbacinati, Gioacchino da Fiore, a disarmare le ostilità dell'ortodossa disciplina contro la propria precisazione, aveva sentenziato: «L'economia ecclesiastica non dovrà dolersi della propria dissoluzione, quando rifletta che questa apre il varco ad una piú alta e nobile successione. Ché è proprio della religione, e non costituisce affatto una variazione nella fede, il transito da un ordine all'altro nella vita dello spirito. Là dove una perfezione universale succede ad una perfezione particolare, ci sarà rammarico, ci sarà lotta, ci sarà resistenza? No, no, no. Dio ci guardi dal pensare che la successione di Pietro sia presa da cupida invidia e da basso rancore contro la superiore manifestazione dell'economia spirituale. Al contrario, con le viscere tremanti di emozione e di gioia, essa dovrà intonare il cantico: Ora, o Signore, riprenditi il servo tuo, ché i suoi occhi videro la sognata tua salvezza».

Francesco d'Assisi aveva praticato la superiore economia dello spirito, risollevando in pieno la sublime semplicità della vita evangelica. Ma non appena la sua idealità si era concretata in una forma di esistenza associata, la sua purezza sembrava essersi offuscata, e il suo ardore intiepidito. I risultati dell'esperienza in lui incarnata non sono stati per questo meno imponenti. La spiritualità europea, nelle varie sue manifestazioni estetiche, culturali, morali, ha risentito il contraccolpo poderoso della reincarnazione evangelica, operatasi sulle pendici del Subasio. Ed è rimasta tutta sconvolta e soggiogata dal suo fascino anche se ha preferito esaltarne la bellezza, anziché appropriarsene e realizzarne il monito e l'invito.

Le correnti degli spirituali hanno creduto di rimanere fedeli all'ideale di Francesco sfidando per esso le autorità costituite e affrontando le persecuzioni e gli ostracismi. Son vissuti fuori della storia. I grandi maestri della fraternità umana vivono immortali proprio in virtú del lento, macerante martirio a cui debbono essere sottoposti le loro aspirazioni e il loro programma, per fiorire e fruttificare sul solco arido, ingrato e tardo della vita associata.

La leggenda agiografica ufficialmente sanzionata e canonizzata fa incontrare San Francesco con San Domenico al sinodo del Laterano del 1215. Se la presenza di San Domenico al Concilio è attestata dal primo biografo del Santo, Giordano di Sassonia, e del resto è resa verosimile dalla discussione, avvenuta al Concilio, della situazione nel Sud della Francia, alla quale Domenico e il vescovo di Tolosa, l'ex-giullare Falco, avevano cosí da presso portato pratico e fattivo interesse, la presenza invece di San Francesco a Roma in quella stessa occasione non solamente è accampata da biografi tardi e poco dimostrativi, ma è anche in palese contrasto con l'atteggiamento costante di Francesco al cospetto della Curia romana da cui, fu sua consegna, non si sarebbero mai dovute chiedere e aspettare concessioni. Con il loro lavorìo sincretistico e armonistico, le versioni agiografiche ufficiali han voluto far apparire convergenti due indirizzi religiosi regolari che sono invece, in sostanza e in radice, profondamente difformi l'uno dall'altro, e rappresentano, in quell'alba del secolo decimoterzo in cui si fissavano i futuri destini della Cristianità europea, due orientamenti dei quali l'uno doveva essere violentemente sopraffatto ed annullato dall'altro.

Entrambi gli Ordini religiosi che sono usciti dall'opera proselitistica di Francesco e di Domenico sono compresi sotto la comune etichetta di «Ordini mendicanti». Ed entrambi infatti, teoricamente almeno, fanno professione di povertà e rifiutano quell'accumulamento di ricchezze in cui era andata miseramente a naufragare la idealità religiosa dei precedenti Ordini monastici. E da questo punto di vista e sulla base di questo presupposto, che del resto ebbe transitoria e precaria applicazione, i due nuovi Ordini religiosi, che invece a norma delle decisioni conciliari del 1215 non si sarebbero mai dovuti costituire perché trasgredivano la prescrizione di non emanare nuove Regole monastiche oltre quelle già preesistenti, rappresentavano una posizione mediana fra la pura ed intransigente ortodossia e i movimenti ereticali del tempo, i quali facevano del rinnegamento del possesso e della opposizione a qualsiasi accumulamento di capitali uno dei loro principi basilari. Ma questa, si potrebbe dire, era una semplice rassomiglianza esteriore. Lo spirito che lo spagnolo Domenico portava nella sua famiglia religiosa era abissalmente diverso da quello che il giullare di Assisi trasfondeva nei suoi fratelli di libertà e di letizia.

Nato il 24 giugno 1170 da due nobili, Felice di Guzman e Giovanna de Aza, a Caleruega, nella vecchia Castiglia, Domenico, ordinato sacerdote, era stato aggregato al Capitolo della cattedrale di Osma, Capitolo associato nella Regola di Sant'Agostino. Messosi al séguito del vescovo Don Diego di Acevedo, come abbiamo visto, nel momento in cui questi era stato inviato in Danimarca, aveva potuto trovarsi in Linguadoca nel momento della massima tensione fra ortodossia ed eresia albigese.

Il giovane prete spagnolo senti colà, d'istinto, il suo ambiente. Cominciò con lo svolgere presso il santuario di Santa Maria di Prouille una sua opera di propaganda spirituale, che raccolse intorno a lui un primo stuolo di giovanette. Nasceva cosi, con un primo nucleo femminile, l'Ordine domenicano, professante alle origini la medesima Regola di Sant'Agostino, che effettivamente era stata nel suo primo momento una disciplina femminile, data dal vescovo d'Ippona ad una comunità presieduta da una sua sorella.

Ma ben presto si raccolsero intorno a Domenico uomini di lettere e di scienze. Fu questa circostanza, evidentemente in armonia con le predilezioni e le tendenze personali del fondatore, che diede alla nuova comunità religiosa, la cui disciplina doveva ricevere l'approvazione da Onorio III, il suo carattere peculiare.

La Cristianità d'Innocenzo III si trovava effettivamente ad un bivio decisivo. Non erano solamente le competizioni politiche o gli interessi diplomatici che ponevano il Pontificato, all'atto stesso della sua piú alta affermazione ecumenica, nel piú serio imbarazzo per la scelta dei mezzi atti alla conservazione e alla solidificazione della sua egemonia spirituale. Quel programma che il cristianesimo si era portato dalle origini, il programma della tutela e dell'amplificazione dei grandi istituti sociali, mercè il rinnegamento del mondo e dei suoi valori, poteva essere ancora il programma di una società ecclesiastica giunta a cosí vasta conquista politica da essersi costituita in Europa arbitra della legalità dei poteri e della legittimità delle case dinastiche? Le grandi configurazioni internazionali possono essere mantenute nell'atmosfera degli inviolabili principi cristiani da una gerarchia ecclesiastica mescolata a tutti gli interessi e a tutte le cupidigie della terra? O non piuttosto, quando la società ecclesiastica uscita dal Vangelo è trascinata dalle circostanze storiche a trasgredire la primitiva consegna che ha fatto realizzare al cristianesimo ogni progresso sociale attraverso la negazione del mondo e delle sue ambizioni, è necessario ricominciare da capo, e riportare l'esperienza evangelica pura e semplice in mezzo agli uomini?

Nella risposta diversa a questo quesito è la diversa posizione di Francesco e di Domenico. Lo si vede nella maniera piú chiara nel modo rispettivo di risolvere il problema della cultura teologica. Noi abbiamo già visto come, con Sant'Anselmo, la cultura ecclesiastica, fino allora profondamente avvivata ed ispirata dai principî agostiniani, avesse subìto un sostanziale rivolgimento. L'argomento antologico per dimostrare la esistenza di Dio era stato di questo rivolgimento il sintomo significativo. Dio era stato fino allora creduto. Ora lo si voleva dimostrato. Abbiamo anche visto in mezzo a quale accompagnamento di trasformati elementi economici e sociali si fosse venuta compiendo questa metamorfosi degli indirizzi religiosi della Cristianità. Ora, in pieno regime unitario europeo, sotto l'egida pontificale di Innocenzo, il rivolgimento albeggiante all'epoca di Anselmo giungeva alla sua piena maturità. La dimostrazione razionale della esistenza di Dio maturava in una globale e minuta trascrizione concettuale della secolare tradizione carismatica cristiana.

C'è nella vita di San Francesco un episodio tipico al riguardo. Un giorno Francesco apprese che uno dei suoi seguaci e associati, Pietro Staccia, aveva fondato, a Bologna, una casa di studi per i fratelli dell'Ordine. Egli ne fu fieramente indignato. Secondo le tradizioni spirituali degli Ordini egli si sarebbe messo a gridare: «Fratelli miei, fratelli miei, il Signore mi ha chiamato a camminare sulle vie dell'umiltà e della semplicità, e ha spinto al mio séguito tutti coloro che vogliono imitarmi. Perché il Signore mi ha detto che voleva che io fossi un semplice, un insensato, come non se ne era visto altri mai, e che la sua intenzione era quella di condurci per altre vie, che non fossero quelle della scienza». Anzi, Francesco fu cosí severo con il suo degenere seguace di Bologna da non venire a patti con lui, a quanto raccontavano le correnti spirituali dei francescani, neppure al momento della sua agonia e del suo trapasso.

Le medesime fonti spirituali che hanno conservato le impressioni e gli episodi di quel primo fedelissimo nucleo di seguaci del Poverello, che appaiono indubbiamente come i piú genuini interpreti del suo pensiero e della sua pedagogia, raccontano che quando già l'Ordine, col generalato di San Bonaventura, si era anch'esso incamminato per la via della teologia accademica, un giorno il buon frate Egidio andò, con grande aria di compunzione e di rispetto, ad interpellare il dottore di Bagnoregio se gli ignoranti si sarebbero potuti salvare alla pari dei dotti e se un uomo non istruito poteva amare Dio altrettanto bene che un uomo istruito. Bonaventura rispose con sorriso candido e dolce che senza dubbio una buona donnicciuola era altrettanto in grado di amare Dio che un maestro di teologia. E allora Egidio, non senza una sottilissima vena di ironia canzonatoria, si era sporto sul balcone del giardino e si era messo a gridare con tutte le sue forze: «State bene a sentire: una vecchietta che non ha mai imparato nulla e non sa neppur leggere può amare Dio piú del fratello Bonaventura!».

Non c'è possibilità di dubbio sugli orientamenti extraculturali della ispirazione francescana. Nella luce di un presentimento lungimirante, Francesco avverte l'insidia che la nascente scienza teologica sta tendendo alla tradizione carismatica del cristianesimo. Nella universale contaminazione e deformazione degli istituti religiosi, la scienza viene ad inserirsi come giustificazione razionale delle situazioni di fatto. Ora, quel che all'alba del secolo decimoterzo pare a Francesco debba essere salvato, non è l'apparato pomposo e fastoso della Curia, non è la universalità delle sue ingerenze politiche, non è la rigidezza della sua disciplina gerarchica e canonica. Il cristianesimo aveva vinto il mondo dispregiando i valori del mondo. Il cristianesimo aveva, in nome di Dio, tutelato la spirituale convivenza degli uomini e favorito di rimbalzo il prosperare civile, annunciando soltanto beni ultra terreni e realtà trascendenti. Ma i beni ultra terreni e le realtà trascendenti si servono e si celebrano, non con la scienza, ma con il senso della fraternità e dell'amore. L'opera di Francesco è tutta in questo programma.

L'Ordine domenicano nasce invece in aperta contrapposizione a queste finalità del tutto mistiche e carismatiche del movimento francescano. Fin dal primo momento Domenico cerca uomini non soltanto devoti, ma anche istruiti. Nella tremenda lotta con gli Albigesi, Domenico si persuade che nella nuova temperie ecclesiastica la scienza teologale ha un còmpito indeclinabile di solidificazione costruttiva. Aveva appena ottenuto, il 22 dicembre 1216, per opera di Onorio III, la definitiva approvazione del suo Ordine, che cercava di guadagnare alla sua causa uomini capaci di cooperare con lui e di essergli strumenti adatti nel suo vasto programma universitario.

Se i primi genuini e fedeli seguaci di Francesco sono Leone, pecorella di Dio, Egidio, Ginepro, Masseo, Pacifico, i primi schietti interpreti del programma domenicano sono il beato Reginaldo e il suo scolaro, il beato Giordano Teutonico.

Reginaldo è scelto da Domenico per instaurare l'Ordine a Bologna e a Parigi, le città per eccellenza della cultura e del diritto. Se Bologna ha già la sua scuola legale di fama europea, Parigi è, nel secolo decimoterzo, non soltanto la capitale di una nazione, bensí anche il centro internazionale degli studi teologici e filosofici. Domenico incontrava Reginaldo canonico di Sant'Aniano ad Orléans, maestro di diritto canonico a Parigi, nei primi mesi del 1218, in occasione del passaggio di Reginaldo da Roma, diretto col suo vescovo verso i Luoghi Santi palestinesi. L'incontro dovette lasciare nello spirito di Reginaldo una impressione profonda se, reduce dalla Palestina nell'autunno del medesimo anno, si poneva senz'altro a disposizione del Santo spagnolo e si trasferiva a Bologna per rinvigorire la giovane comunità domenicana, che egli riusciva a trasferire dalla piccola chiesa di S. Maria di Mascarella in quella di S. Niccolò delle Vigne. Ad un anno solo di distanza Domenico, avvertendo tutte le straordinarie capacità di Reginaldo, lo inviava a Parigi, dove la sua nuova fondazione aveva altrettanto bisogno di essere corroborata ed ampliata. E anche lí Reginaldo riportò successi cospicui. Morendo, a pochi mesi di distanza, egli aveva già guadagnato alla giovane comunità due allievi tedeschi che avrebbero spiegato una attività imponente nella propagazione della teologia domenicana: Giordano di Sassonia ed Enrico, il futuro priore di Colonia. Giordano di Sassonia infatti gli sarebbe stato dato per successore dal Capitolo del 1222.

Senza dubbio la grande crisi che sconvolse l'Università parigina fra il 1229 e il 1231, in séguito ai disordini provocati dal massacro di alcuni studenti e dalle lotte che seguirono fra le varie nazionalità, favorí la costituzione della scuola teologica domenicana presso la chiesa dedicata a San Giacomo. Questa scuola teologica fu illustrata dall'attività del maestro Rolando da Cremona, al quale si deve unaSumma teologica che, mentre chiude il periodo della Scolastica primitiva, annuncia già l'età aurea della Scolastica, il tempo cioè di San Bonaventura, di Alberto Magno e di San Tommaso d'Aquino. Siamo ancora nel periodo in cui i manuali teologici si ripetono uniformemente sul medesimo modello, che abbraccia: la serie delle auctoritates o materiali teologici o filosofici, attinti dai Santi Padri nelle loro polemiche e nelle loro elucubrazioni, quali sono raccolte e registrate dai sommisti e dai sentenziari; lo sviluppo dato a questi materiali positivi, mercè le idee logiche e filosofiche derivate da Sant'Agostino e da Boezio. La Summa di Rolando è ancora sul modello di quella di Pier Lombardo, di Pietro di Poitiers, di Guglielmo di Auxerre.

Per una singolarissima coincidenza storica, che ha senza dubbio del provvidenziale, è proprio in questo medesimo torno di tempo che la divulgazione in latino della metafisica aristotelica porterà di rimbalzo nell'ambito delle scienze teologiche una rigida e sistematica elaborazione di tutta la teologia tradizionale. L'Ordine domenicano è di questa introduzione aristotelica nel fascio delle scienze religiose, il mediatore efficace. Lo stesso Ordine francescano risentirà, sotto lo stimolo di una comprensibile emulazione, l'influsso di questo processo aristotelico della speculazione religiosa, e Alessandro di Hales sarà, parallelamente a Reginaldo, l'introduttore della scienza teologale nell'ambito della famiglia francescana.

La religiosità, cosí, del secolo decimoterzo, si avvia verso una delineazione divergente di spiriti, da una parte puramente mistica e apocalittica, dall'altra sistematico-teologica, che porrà la Chiesa dinanzi al bivio decisivo della sua nuova storia.

Nei lontani tempi, al declinare del quarto secolo avanti Cristo, nel momento in cui la grecità trionfalmente espansiva varcava, sotto la guida irresistibile di Alessandro, le soglie della sacra Asia, e nel Vicino Oriente si costituiva sotto l'egida ellenica il piú grande impero del mondo antico, Aristotele era venuto con la sua metafisica realistica, tutta poggiata sulla esperienza sensibile, a dare una sistemazione organica alla visione del mondo. Dopo secoli di laborioso travaglio interiore la speculazione filosofica, nata sulle coste ioniche nel momento in cui la spiritualità iranica tendeva verso il Mediterraneo, raggiungeva il suo apogeo sistematico, organando la concezione del reale in un quadro di categorie metafisiche capaci veramente di disciplinare in unità la riflessione collettiva. Contemplando ora la rinascita aristotelica, che in virtú di una singolarissima coincidenza è possibile nella prima metà del secolo decimoterzo mercè la divulgazione in latino volgare delle opere meno conosciute fino allora dello Stagirita, vien fatto naturalmente di domandarsi se la filosofia aristotelica non è, per vocazione e per natura, la filosofia degli Imperi in formazione. Essa aveva offerto l'ambiente culturale acconcio alla conquista imperialistica di Alessandro il Macedone; ora veniva a suffragare, con la sua concezione unitaria e gerarchicamente disciplinata dell'universo sensibile e spirituale, l'imperialismo del potere papale, creatosi a lembo a lembo attraverso i secoli del magistero e del governo medioevali.

Per un provvidenziale ricorso storico, non fu soltanto la divulgazione delle opere metafisiche del maestro di Alessandro a provocare la sintesi scolastica: perché il parallelismo fosse perfetto, dall'Ordine domenicano, dalla scuola di un maestro teutonico, Alberto Magno, doveva uscire colui che, rivivendo in pieno le esigenze e gli orientamenti del realismo aristotelico, era chiamato ad offrire al magistero ecumenico della Chiesa romana le armi di un sistema filosofico-teologico che si offriva quale rivestimento imperituro della tradizione dogmatica e carismatica cristiana: Tommaso di Aquino.

Ma la ragione è, per la fede, una cooperatrice invida ed insidiosa. Non la si può chiamare in proprio soccorso senza correre il rischio di vedersela erigere dinanzi, tiranna assorbente ed esclusivista. Se nella teodicea di Sant'Anselmo di Aosta era già implicito un sentore di illuminismo, ora, con la speculazione scolastica, l'infiltrazione razionalistica si fa vasta e provocante.

Se ne sarebbero vedute nei secoli le ripercussioni, funeste per il nucleo centrale della fede cristiana.

Share on Twitter Share on Facebook