XVII LA NUOVA TEOLOGIA

Il lunedi 18 luglio 1323, nella chiesa di Nostra Signora ad Avignone, alla presenza dei sovrani di Napoli e di Sicilia, Giovanni XXII iscriveva solennemente Tommaso di Aquino nel novero dei santi. L'anonimo cronista della memoranda funzione, il cui racconto, conservato in un codice della biblioteca municipale di Tolosa, è stato pubblicato dal Percin e dal Douais, ci narra che celebrando la messa del novello Santo, il Papa pronunciò un sermone, prendendo a motivo l'inciso del salmo: «Grande sei tu, o Signore, operator di prodigi». Quattro giorni prima, nella congregazione che doveva costituire il preambolo della canonizzazione, il medesimo Giovanni XXII, sempre secondo il ricordo del testimone oculare, in un discorso tutto ispirato dal proposito di tessere il panegirico piú caloroso dell'Ordine domenicano, aveva additato Tommaso come colui il quale era stato da Dio insignito di tali eccezionali doni da illuminar la Chiesa con una luce capace di emulare quella irradiata dagli Apostoli e dai primi Dottori. Sicché il Pontefice credeva di poter a buon diritto applicare alla data fatidica della imminente canonizzazione le parole del quarto libro dei Re (VII, 9): «Ecco un'alba di propizio augurio. Qualora noi tacessimo e tergiversassimo fino a domani, ci si potrebbe accusare di un delitto».

Se cosí alta era la considerazione cui la figura del grande teologo era assurta nel mondo ecclesiastico e civile del secolo XIV incipiente, perché il riconoscimento ufficiale della sua santità giungeva a distanza relativamente cosí notevole dalla sua morte? Tommaso si era spento da un cinquantennio nella solitudine miasmatica del cenobio cistercense di Fossanova, sui margini delle Paludi Pontine. E intorno alla sua salma contesa si era subito determinato quello spontaneo culto pubblico, che annuncia infallibilmente nella Chiesa cattolica gli onori degli altari. I miracoli si moltiplicano sui luoghi che ricordano il suo passaggio nella vita: la ricerca delle sue reliquie si fa cosí febbrile, da sconfinare a volte nella irriverenza. I biografi, che, primi, rievocano i momenti salienti della non lunga esistenza terrena del doctor communis, Tolomeo da Lucca, Guglielmo di Tocco, Bernardo di Guido, sospinti dall'onda della venerazione dei fedeli, tradiscono i loro intenti apologetici, e mostrano di essere consapevoli che il loro lavoro è un apprestare il materiale al processo curiale di santificazione. L'autorità ecclesiastica non affrettava, per questo, l'oculata ponderazione delle sue decisioni. Per quell'istinto chiaroveggente, che accompagna costantemente il procedere e gli sviluppi del suo magistero e della sua disciplina, essa intuiva nitidamente che il sigillo ufficiale impresso sull' opera del grande scomparso avrebbe sortito ripercussioni imponenti negli indirizzi ulteriori della filosofia religiosa del cattolicesimo, e che d'altro canto l'apologetica tomistica del dogma, tutta contesta di rispondenze geometriche, costrutta a lembo a lembo mercè la fusione della metafisica aristotelica con l'eredità concettuale del messaggio evangelico; costituiva tal novità nella tradizione millenaria della speculazione cristiana, da non poter essere definitivamente sanzionata senza le piú scrupolose cautele. L'originalità delle fondamentali posizioni tomistiche era generalmente avvertita. A giustificarne la genesi e il divulgamento, i primi illustratori e patrocinatori del Santo non esitavano ad ascriverne il merito ad una particolare illuminazione dall'alto: «Dio aveva infuso in Tommaso», assevera uno di essi, «tal copia esuberante di scienza, che egli senti in sé il coraggio di insegnare e sostenere una tesi ispiratagli direttamente dal Cielo».

L'insegnamento speculativo dei maestri cristiani, per tutto il lungo periodo che va dalla prima organizzazione enciclopedica cristiana occidentale per opera di Agostino ai primi saggi della speculazione scolastica, era stato direttamente e nettamente ispirato ai principî che la tradizione del neo-platonismo aveva consegnato alla elaborazione dello spirito del grande convertito, assunto alle infule episcopali di Ippona. Le caratteristiche piú appariscenti del pensiero cristiano, quale era uscito, nel Medioevo latino prescolastico, dalla grande sistemazione agostiniana, e si era mantenuto fino a Sant'Anselmo, possono essere facilmente ricordate di scorcio. Vi mancava innanzi tutto una distinzione formale fra il dominio della filosofia e quello della teologia, fra l'ordine delle verità razionali e quello delle verità rivelate. Di rimbalzo vi era implicitamente cancellata la separazione fra la natura e la grazia, fra la zona in cui si esercitano le insite capacità dell'essere razionale e la sfera misteriosa delle comunicazioni carismatiche. Parallelamente a questa visione, che poteva definirsi prevalentemente mistica, dello sviluppo delle attitudini umane nella conquista dell'Assoluto, l'agostinismo, inclinando a definire il vero in funzione del bene, aveva celebrato il primato della volontà sulla intelligenza, della vita affettiva su quella strettamente intellettuale. Infine l'agostinismo, nella valutazione degli elementi che entrano nella costituzione del mondo e dell'uomo, aveva pensato che la materia prima non sia una povera e nuda potenzialità, bensi una positiva per quanto infima ed embrionale attualità. L'anima, dal canto suo, non acquistava, secondo l'agostinismo, la sua singolare individuazione in virtu della sua unione con il corpo, e nel composto umano veniva a costituire una nuova, non unica, forma sostanziale.

A queste posizioni fondamentali della tradizione speculativa agostiniana nella Chiesa, che in pieno secolo XIII trovavano ancora patrocinatori aperti e dilucidatori tenaci, specialmente nelle file del clero secolare e in quelle dei teologi francescani, preoccupati, secondo la frase incisiva di San Bonaventura, di fare opera di unzione spirituale prima che di elevazione edificativa, si era levato il programma del rinnovamento aristotelico, bandito con arte sapiente e tenace da Alberto Magno e da Tommaso d'Aquino, rappresentanti tipici di quella pedagogia domenicana, che, sempre secondo la felice osservazione di Bonaventura, cercava di edificare illuminando, piú che di illuminare edificando.

Veramente il programma del trapiantamento di Aristotele sul solco della credenza cristiana non era completamente nuovo nell'ambito della società cristiana. All'alba del sesto secolo, nel primo tentativo che fosse stato compiuto sotto gli auspici di Teodorico, per una sistemazione ed un'alleanza politica italo-barbarica, Boezio, ultimo rappresentante di una lunga teoria di pensatori latini che aveva invariabilmente scorto l'ideale della intellettualità dell'Occidente nell'assorbimento totale e completo della tradizione ellenica, si era già proposto di volgere in latino tutti gli scritti aristotelici che gli fossero capitati nelle mani. Ma, avesse egli o no attuato integralmente il suo piano, questo non sortí alcuna vasta capacità di risonanze, in quel rapido disfacimento del programma conciliatorista di Teodorico, in quel succedersi turbinoso di crisi politiche, che il conflitto dei Bizantini e dei Longobardi alimentò in Italia per piú di due secoli.

A mezzo il secolo ottavo, Giovanni di Damasco, condensando nella sua Fonte della Conoscenza una vera enciclopedia del sapere ecclesiastico, aveva largamente utilizzato i presupposti dialettici e razionali del Liceo. Ma neppure la sua apologetica era riuscita a guadagnare il valore di norma, per il pensiero ufficiale e universale della Chiesa. Bisogna scendere al secolo XIII per imbattersi in un periodo di fermentazione concettuale che doveva veramente rivestire una importanza unica nella determinazione delle forme speculative della tradizione cristiana. A sette secoli di distanza, il sogno di Boezio si veniva a realizzare, e la filosofia di colui che era stato il pedagogo di Alessandro Magno doveva trovare nella Chiesa cristiana di Innocenzo III quel diritto di libera ed ufficiale cittadinanza che il patrizio romano non era riuscito a fare ottenere nell'epoca di Gelasio, di Simmaco e di Giovanni.

Ancora verso il 1120 Abelardo aveva deplorato che si possedessero in latino solamente i primi due libri della Logica di Aristotele: nulla invece della sua Fisica e della sua Metafisica. Ma è proprio in quel torno di tempo, o pochi decenni dopo, che tutta una dinastia di traduttori, in cui spiccano i nomi di Giacomo da Venezia, di Burgundia da Pisa, di Mosè da Bergamo, di Enrico Aristippo da Catania, di Gerardo da Cremona, si accingeva a divulgare in Occidente l'opera ancora ignorata dello Stagirita e dei suoi piú insigni commentatori. A distanza di poco piú di un secolo Bartolomeo da Messina e Guglielmo di Moerbeke completavano il programma gigantesco, traducendo il commento averroistico e rivedendo con piú scrupolosa acribia le traduzioni già circolanti dell'originale. Le ripercussioni di questa diretta ed ampia conoscenza del realismo aristotelico furono di una vastità e di un'imponenza, di cui si coglie ancora oggi l'efficacia nell'ambito della speculazione cristiana ortodossa. Due orientamenti intellettuali ne scaturiscono a dare al secolo XIII tramontante la sua originale fisionomia culturale. L'uno, collegato ai nomi di due maestri domenicani, gelosamente preoccupati di non ledere attraverso l'assimilazione delle dottrine peripatetiche la sostanza e le posizioni centrali della tradizione ecclesiastica, vince adagio adagio le naturali diffidenze e trae il pensiero ecclesiastico ufficiale su di un sentiero in cui doveva trovare la sua adeguata sistemazione e il suo tremendo repentaglio; l'altro, rappresentato a Parigi da pochi docenti laici della Facoltà delle Arti, concedeva al razionalismo dello Stagirita troppo ampio e incontrollato credito perché la collettività cristiana e i suoi interpreti ufficiali non sentissero compromessi senza rimedio, attraverso i suoi postulati audacissimi, i capisaldi dell'esperienza cristiana associata, e non si affrettassero pertanto ad espellerlo dal novero delle dottrine approvate.

Perché sarebbe un errore grossolano e un'illusione anacronistica, immaginarsi che fra aristotelismo e cristianesimo sussistessero delle armonie prestabilite e che quindi l'adattamento dell'uno ai postulati dell'altro potesse effettuarsi con disinvolta facilità e senza acri e laboriosi contrasti. Sta di fatto invece che le teorie di Aristotele avevano impresso al pensiero umano un orientamento e presupponevano postulati intrinsecamente antitetici agli insegnamenti della religione cristiana. Alcuni principî della metodica aristotelica, come alcune asserzioni del sistema a proposito di Dio e dell'anima, appaiono in contrasto insanabile con le asserzioni piú perentorie dell'insegnamento cristiano. Il capo della scuola agostiniana nell'età stessa di San Tommaso, Egidio Colonna, romano, nella sua opera polemica De moribus philosophorum Aristotelis, Averrois, Avicennae, Algazelis, Alkindi, Rabbi Moysis, enumera minutamente le tesi erronee che si riscontravano in Aristotele: l'eternità del movimento, del tempo, del mondo, del cielo, della generazione e della corruzione dei corpi; l'impossibilità della resurrezione della carne; la asserita assurdità della coesistenza di due corpi nel medesimo luogo.

Si comprende pertanto come, fin dagli inizi, la penetrazione dell'Aristotele latino nella cerchia degli studi regolari ecclesiastici non andasse esente da gravi e decise opposizioni. Una serie di provvedimenti adottati a Parigi fra il 1210 e il 1215 sta ad attestare che, se la Logica aristotelica non suscitava e non poteva suscitare allarmi e diffidenze, l'accoglimento della Metafisica aristotelica sembrava a molti dovesse sovvertire pericolosamente gli indirizzi storici della speculazione cristiana. Ma ci sono correnti intellettuali che in determinati momenti rispondono cosí adeguatamente alle esigenze profonde della cultura associata, che se le tradizioni religiose, le quali sono tratte ad aderire e a rispettare piú tenacemente il passato, possono solo a rilento acconciarsi alla trasformazione vittoriosa delle visuali scientifiche circostanti, non possono però scongiurarne l'avvento e il successo. Il 13 aprile 1231, nel suo regolamento fondamentale per l'Università di Parigi, ribadendo genericamente l'anatema già scagliato contro la Metafisica aristotelica, Gregorio IX dichiarava ch'esso doveva considerarsi provvisorio e durare fino al giorno in cui i libri di Aristotele fossero sottoposti ad esame e correzioni. Vent'anni dopo, i programmi accademici della Facoltà delle Arti a Parigi presuppongono integra ed intera la conoscenza di Aristotele. E pure l'introduzione della speculazione peripatetica nell'ambito dell'insegnamento accademico non mancava di tradire tutti i suoi rischi e tutte le sue insidie. Se Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, uomini di fede e di professione monastica, docenti di una Facoltà teologica, riuscivano, con un procedimento di esegesi e d'interpretazione che è un capolavoro di equilibrio e di armonia, a fare della filosofia del Peripato la piú avvincente propedeutica e la piú organica delucidazione del dogma cristiano, un loro collega laico della Facoltà delle Arti, Sigieri di Brabante, troppo preso dalle concezioni meccanicistiche del maestro greco, rivissuto da Averrois, non riusciva a saldare la sua filosofia con la professione cristiana che mediante una giustapposizione artificiosa ed esteriore. Nel trentennio che va dal 1245 al 1275 è racchiusa l'attività didattica e scientifica dei due maestri domenicani di Parigi, che non manca di suscitare tra i compagni di professione religiosa e i colleghi di facoltà diffidenze e opposizioni, di cui i loro scritti conservano qualche traccia discreta ed amareggiata. Alberto Magno attraverso una parafrasi ampia ed ornata, Tommaso d'Aquino attraverso un commento schematico, rude ed incisivo, riescono a tradurre le concezioni aristoteliche in formule adatte alla mentalità latina e suscettibili di adattamento cristiano, non senza gettare i semi di quel che sarà il panteismo trascendentale dei mistici domenicani tedeschi.

E mentre essi svolgono la loro azione apprezzata ed ammirata nella Facoltà teologica, Sigieri li avanza nell'accettazione di Aristotele e guadagna rapidamente la facile ammirazione della giovanile scolaresca, con la sua celebrazione razionale della conoscenza scientifica del mondo e del suo ferreo determinismo causale.

Redigendo nel 1270 il De unitate intellectus contro gli averroisti, Tommaso d'Aquino confessa che l'errore da lui preso a partito, quello cioè che negava essere l'intelligenza una facoltà dell'anima e affermava l'unità numerica di tale facoltà, impugnando cosí indirettamente l'immortalità individuale, era già vecchio nel mondo accademico parigino. Sigieri, il brabantino, doveva bandirlo dalla cattedra da parecchi anni, insieme alle altre conclusioni centrali del suo aristotelismo averroistico, di cui cogliamo la formulazione nei suoi scritti superstiti, le Quaestiones logicales, il De Anima intellectiva, il De Aeternitate Mundi, il De Necessitate et Contingentia Causarum, e precisamente: la negazione della Provvidenza divina nell'ordine della contingenza, l'eternità del mondo, il determinismo cosmico ed umano. Ma simile contrasto tra Tommaso e Sigieri a proposito, diremmo noi in termini moderni, dei rapporti fra il soggetto empirico e il soggetto trascendentale, fra lo spirito e il suo divenire, non è che una delle espressioni tipiche del divario profondo che scinde l'orientamento di questi due maestri, pure affratellati nel comune proposito di risuscitare dalle nebbie del passato e di acclimatare nel mondo della cultura contemporanea la tradizione dello Stagirita. Saldamente aderendo alla trasmissione del dogma cristiano, profondamente vincolato alla partecipazione carismatica ed alla disciplina ecclesiastica, San Tommaso non è in alcun modo disposto a sovrapporre l'autorità di Aristotele all'insegnamento ufficiale del cattolicesimo. La rivelazione è per lui il fatto centrale della storia e la ragione umana può spianare la via al suo riconoscimento, offrire il controllo della sua verisimiglianza concettuale, non può surrogarne o esaurirne il prodigioso mistero. Sigieri non riconosce limiti alle capacità sconfinate dell'umano intelletto. Il mondo è per lui l'immenso tessuto organico di causalità infallibili, e la storia è il tracciato epico di un infinito ritorno. Il cristianesimo stesso, risultato meccanico di caratteristiche congiunzioni astrali, è stato prima di Cristo e sarà ancora di nuovo, quando del cristianesimo storico si sarà perduta pur la memoria. Nella illimitata esplicazione delle forze intellettive dello spirito, l'individuo, secondo Sigieri, non possiede una configurazione circoscritta invariabile e non può accampare titoli ad una sopravvivenza personale. La libertà dell'arbitrio e quindi la capacità del merito sono ai suoi occhi frasi vuote di senso. La moralità delle azioni rampolla unicamente dalla loro maggiore o minore adeguazione alle esigenze della vita associata e il cristianesimo e il suo insegnamento non sono che espressioni di bisogni collettivi, a cui anche il filosofo piega docilmente la sua adesione pubblica, pur riconoscendone in cuore come fallaci e irrazionali i postulati. Secondo Sigieri infatti verità filosofica e verità religiosa non sono categorie armoniche e vicendevolmente completantisi, sono piuttosto valori disparati ed attitudini eterogenee conciliabili non in virtú di una fusione psicologica e dialettica, bensí solo in virtu di una continuità esteriore, che non sopprime la mutua indipendenza.

Nel 1270, tredici fra le piú arrischiate proposizioni dell'averroismo latino erano condannate e la scomunica era lanciata contro chi avesse ancora osato insegnarle. Dobbiamo pensare che il provvedimento non andasse esente da recriminazioni e discussioni se, verso la Pasqua dell'anno seguente, un singolare quesito era sottoposto a San Tommaso: deve veramente evitarsi la compagnia di quegli scomunicati, sulla cui scomunica esiste divergenza di apprezzamento fra i competenti? San Tommaso risolve il quesito in senso affermativo, non tacendo però che l'appello alle autorità superiori poteva sospendere l'efficacia della condanna. Sette anni piú tardi una nuova condanna, emanata da Stefano Tempier vescovo di Parigi, colpiva una lunga lista di proposizioni, parecchie delle quali non erano unicamente attinte dall'insegnamento di Sigieri, ma coinvolgevano palesemente quello di Tommaso. I pericoli cui la propagazione dell'aristotelismo esponeva le posizioni centrali del trascendentismo cristiano inducevano alcuni circoli ecclesiastici a ripudiare qualsiasi tentativo di introduzione del peripatetismo sul terreno dell'apologetica religiosa.

Gli indirizzi dunque della sistemazione aristotelico-scolastica non andavano immuni da ostilità e da diffidenze. Un precipitoso riconoscimento ufficiale della santità del principale loro fautore non avrebbe sollevato polemiche e non avrebbe perturbato il processo della loro spontanea armonizzazione con i bisogni della cultura religiosa? D'altro canto, il momento storico sembrava richiedere l'adozione di una metodica razionale e di un orientamento concettuale, capaci di offrire gli istrumenti di una piú efficace difesa della tradizione dogmatica e disciplinare del cattolicesimo. La Chiesa si trovava ormai agli inizi di quella crisi formidabile di discordia e di sgretolamento, che doveva sboccare, due secoli piú tardi, nei grandi movimenti «riformatori». Il ventennale Pontificato di Giovanni XXII segnava l'esplosione aspra della crisi. Marsilio da Padova minava alle basi l'edificio della costituzione ecclesiastica, estollendo il potere laico a danno dell'ecclesiastico. Giovanni di Jandun riprendeva la propaganda averroistica. Duns Scoto e Durando di Saint-Pourçain scuotevano le fondamenta prime della certezza metafisica. Eckehart precipitava la contemplazione religiosa nel misticismo panteistico. Arnaldo di Villanova ripristinava il rivoluzionario programma dei fraticelli e il sogno apocalittico del Vangelo eterno. Il Pontefice credette di non dover procrastinare piú oltre l'investitura solenne di un metodo filosofico-teologico, che si pensava potesse dare alla società cristiana in materia dottrinale l'arma meglio temprata per la sua conservazione rigida e invulnerabile. Il riconoscimento del mondo dei dotti era venuto molto in anticipo. La Facoltà parigina delle arti, all'indomani della morte del Dottore, aveva scritto al Capitolo generale dell'Ordine domenicano, celebrando lo scomparso come il designato dalla natura universa alla interpretazione dei suoi piú riposti segreti: «eum videbatur simpliciter posuisse natura ad elucidandum ipsius occulta». Cosí gli onori dell'esaltazione accademica e il merito della consacrazione ecclesiastica avvolgevano la figura dell'umile religioso, la cui vita, placida e uniforme, era stata tutta spesa nell'esplorazione delle verità teologali e nell'esercizio delle virtú ascetiche.

Nato nel 1226 (l'anno stesso in cui il Serafico chiudeva gli occhi alla luce sensibile dinanzi alla sua Assisi) nel castello di Roccasecca, Tommaso aveva ricevuto la sua prima educazione a Montecassino. Entrato diciottenne nella famiglia di San Domenico, era stato presto mandato a Parigi alla scuola di Alberto Magno. La sagace acutezza del suo ingegno raccolto e meditabondo l'aveva ben presto additato alla considerazione del maestro. Quando nel 1248 uno studium generale fu fondato a Colonia, Alberto, nominatone reggente, non esitò ad affidare al giovanissimo allievo il còmpito di commentare le sentenze di Pier Lombardo. Cosí si iniziava la precoce carriera didattica del monaco aquinate. Da Colonia tornava dopo un triennio a Parigi, ove doveva svolgere una intensa attività dalla cattedra, dal pergamo, nelle polemiche vive e appassionanti del tempo. Dopo il Capitolo generale di Valenciennes nel giugno del 1259, Tommaso era fatto rientrare in Italia. Le sue doti spiccatissime lo designavano naturalmente ad occupare una posizione eminente nel corpo, diciamo cosi, della consulenza intellettuale della Santa Sede. Seguendo la Curia nei suoi frequenti spostamenti, Tommaso insegna ad Orvieto, a Roma, a Viterbo. Vanno assegnate a quel torno di tempo le sue opere piú organiche e piú poderose. A dieci anni di distanza ritornava a Parigi e per un triennio vi occupava la cattedra di maestro in teologia. Nel 1271 le reiterate insistenze di Carlo, re delle Due Sicilie, fratello di Luigi IX, lo attiravano a Napoli ad iniziare un insegnamento che troppo presto la morte doveva interrompere. Nel gennaio del 1274, designato da Gregorio X, partiva per il Concilio di Lione, ma ammalatosi in casa di sua nipote, Francesca d'Aquino, si faceva trasportare a Fossanova per chiudere gli occhi il sette marzo in una minuscola e disadorna cella del cenobio cistercense.

Gli atti completi del processo di canonizzazione dell'Aquinate, contenuti nei manoscritti 3112 e 3113 del fondo latino della Biblioteca Nazionale di Parigi, racchiudono un catalogo degli scritti del Santo che può a buon diritto considerarsi come ufficiale. Esso comprende una settantina di numeri ripartiti in Opuscola (25), Opera (36) e Alia quae non ipse scripsit et notavit, sed alii recollegerunt post eum legentem vel praedicantem (9). Né pure questo catalogo dà il novero completo degli scritti autentici del maestro: non annovera ad esempio l'Officium de Festo Corporis Christi, che nessuno oggi piú si attenterebbe di contestare alla squisita vena mistica dell' Aquinate. E vi sono scritti segnalati nel catalogo ufficiale, come la Expositio super quatuor Evangelia ad litteram, gran parte dei quali giace ancora probabilmente inesplorata nelle biblioteche europee. Naturalmente, essendo i principali lavori di San Tommaso il risultato del diuturno insegnamento intorno ai fondamentali problemi della speculazione filosofica, innestati su quelli dell'insegnamento tradizionale cristiano, vi occorrono motivi ed enunciati che si ripetono uniformemente e sono analogamente difesi e sviluppati. Ma le ripetizioni di San Tommaso non sono il ricorrere monotono di un pensiero povero e schematico, che si esaurisce nel cerchio ristretto di poche formule stereotipate. Sono piuttosto la consapevolezza lucida della efficienza centrale di alcune posizioni mentali, che garantiscono rigore e saldezza ad un immenso edificio di idee e di raffigurazioni della realtà, il cui intimo collegamento è integralmente posto allo scoperto da un virtuosismo dialettico che costituisce un prodigio di precisione e di chiarezza. Il procedimento dialettico seguìto da San Tommaso nello spiegamento delle sue dimostrazioni rappresenta un'applicazione costante del metodo sillogistico. Le argomentazioni si succedono l'una all'altra legate, nella enucleazione delle tesi, con la spontaneità e l'intima armonia di una sorgente inesauribile. Ogni momento, nel flusso magnifico di questa capacità raziocinativa perfettamente attuata, può stare da sé, come un momento logico sufficiente a se stesso. Una analisi, pertanto, del sistema tomistico, che volesse risultare completa ed adeguata, dovrebbe finire con l'essere una riproduzione minuta di tutto l'apparato dimostrativo in cui l'Angelico ha celebrato una sistemazione, si potrebbe dire temeraria, della indagine puramente razionale con le posizioni della dogmatica cristiana.

Ma chi voglia, in rapide linee, circoscrivere la posizione di San Tommaso nella traiettoria del pensiero cattolico; chi miri a scoprire nella sua essenza piú intima la originale sagoma del pensatore e del mistico, che la Chiesa romana del Medioevo cadente ha proclamato antesignano e realizzatore perfetto della sua migliore apologetica; non deve tanto riprodurre pedissequamente il ciclo delle sue catene argomentative, ma piuttosto indagare le posizioni nelle quali la sua intelligenza e la sua fede hanno compiuto l'innesto della metafisica aristotelica sulla rivelazione neo-testamentaria. Perché appunto San Tommaso sta a segnare nella storia del pensiero religioso una data di un'importanza che non è possibile esagerare, per il fatto che in lui ragione e fede hanno celebrato un connubio il quale era richiesto da una società religiosa giunta al fastigio della sua efficienza pubblica. Per riuscire a scolpire il profilo dell'Angelico occorre cogliere la saldatura che egli ha tentato della indagine speculativa con la credenza mistica, nell'ambito dei problemi in cui si connettono e verso cui si appuntano cosí il còmpito della filosofia come l'anelito della fede: l'essere e le sue categorie; la dimostrazione di Dio; la natura di Dio; l'idea di Dio nello sviluppo dell'umano pensiero; il divino e l'umano nell'azione libera. La Summa Theologica, la Summa de vèritate catholicae fidei contra Gentiles, le Quaestiones disputatae de Veritate, sono, si capisce, le fonti precipue a cui bisogna chiedere i dati per delineare la posizione mistico-razionale di colui a cui il destino riservò la missione di riassumere il pensiero dell'organizzazione spirituale cattolica, nell'ora della sua piú vasta e vittoriosa espansione.

«Poiché v'è pure qualcuno piú in alto dell'essere naturale (la natura infatti non è che un genere dell'essere), si consideri dunque questa realtà universale, il valore speculativo attinente alla prima sostanza. Ché se la considerazione della natura fisica è una sapienza, non è la prima... Conviene, a chi conosca a fondo ogni genere, poter enunciare i principî saldi della realtà che lo riguarda: a quegli che fa professione di esplorare gli enti in quanto tali, enunciare i principî piú saldi fra tutti. Costui solo è il filosofo». Cosí, nel terzo libro dei Metafisici, Aristotele aveva fissato il còmpito della filosofia prima: enunciare i principî che disciplinano dialetticamente la realtà nella sua essenza piú universale. San Tommaso non ha nulla da obiettare a simile delineazione dei còmpiti che spettano alla ricerca metafisica. Esponente della maturità concettuale che il pensiero cristiano ha raggiunto dopo dodici secoli di esperienza vissuta, egli avverte di intuito che una sistemazione razionale della verità religiosa, capace della piú ampia e salda disciplina collettiva, dovrà collocare il suo fondamento sulla presupposta validità dell'intelletto umano a raggiungere una raffigurazione effettiva del reale, senza cui la fede nell'azione del Trascendente personale rimarrebbe priva di sostegno, di preambolo, di garanzia preliminare. Il problema della verità e della sua presenza nell'umano apprendimento è pertanto il primo e piú vivo per lui. Ma è, precisamente, un problema? O non si deve dire piuttosto che il problema gnoseologico postula una pregiudiziale soluzione positiva in chiunque si accinga a risolverlo, non già nell'attitudine individualistica del criticismo che chiude la vita dello spirito nell'atto del pensiero, bensi in quella, sincretistica, che circoscrive la funzione del pensiero nella totalità dei fenomeni vitali, individuali e collettivi? San Tommaso ragiona al riguardo ponendosi dall'angolo visuale che, unico, consente di scorgere la natura del vero, in funzione di tutte le profonde esigenze cui può e deve sottostare l'esplorazione metafisica e dialettica, per non venir meno ai suoi còmpiti di disciplinatrice della spiritualità individuale come di quella associata. La prima quaestio disputata è tutta consacrata alla verità. San Tommaso ne mette a prova le varie definizioni; ne esplora le scaturigini; ne indaga le interferenze sostanziali con la nozione stessa dell'essere; ne circoscrive la sede adeguata; ne tenta prudentemente i vincoli di collegamento col divino. Egli parte da un presupposto che è una sfida a tutte le forme del criticismo trascendentale: ma che è, per questo stesso, la riflessione, in sede filosofica, del buon senso e delle postulazioni preliminari di ogni sistemazione mentale, capace di far presa sulla collettività. Come nei processi dimostrativi occorre arrestarsi ad alcuni principî direttamente noti all'intelletto, cosí nell'esplorazione delle quiddità circostanti è fatale che si addivenga ad una nozione irriducibile, senza di che si procederebbe all'infinito, e cadrebbe cosí nel vuoto qualsiasi conoscenza «scientifica» delle cose. Ebbene: la nozione nella quale l'intelletto scompone tutti i suoi possibili concepimenti e tutte le sue possibili appercezioni è quella dell'essere. Onde appare che tutte le specificazioni della sua capacità conoscitiva non siano che delle addizioni sovrapposte alla nozione dell'essere.

Ma che cosa si può aggiungere all'essere che non sia essere? Sicché le presunte sovrapposizioni all'essere non fanno altro che individuare un suo particolare atteggiarsi, non espresso dal suo nome indeterminato. Ora le possibili modalità dell'essere o sono generiche o sono specifiche. Le generiche, o seguono automaticamente lo stesso porsi dell'essere o scaturiscono normalmente dal rapporto di un essere con un altro. Nel primo caso, ne esprimono qualche connotato o affermativo – l'essenza quidditativa in quanto distinta dall'atto dell'esistenza – o negativo – l'indivisione, che è l'unità. Nel secondo caso, o ne esprimono la separazione dagli altri esseri o ne indicano e ne precisano la capacità di una qualsiasi scambievole convenienza. Ma quale realtà dotata di piú vasta attitudine alla assimilazione con la molteplicità indefinita degli esseri, se non l'anima umana, nella esplicazione delle sue latenti possibilità di effusione e di assorbimento? Aristotele ha detto che l'anima è potenzialmente tutte le cose, in quanto cosí in virtú della sua energia conoscitiva come in virtú di quella appetitiva, l'universo è il campo del suo proteiforme arricchimento. Ma l'atto del conoscere non può essere celebrato che a prezzo di una intima ed ineffabile assimilazione dell'oggetto conosciuto per opera del soggetto conoscente.

Per una esilissima e insieme profondissima analogia, segnalare la quale non è eccentrico né paradossale, la gnoseologia aristotelica sembra costituire un parallelismo singolare all'etica cristiana. Questa aveva annunciato la compiuta realizzazione dello spirito nella integrale dedizione di sé alla legge suprema della effusione amorosa («chi perderà la sua anima, la troverà»); quella aveva additato la perfetta costituzione dello spirito conoscente nella sua indefinita presa di possesso della realtà conoscibile. Cosí che non si dà conoscenza che non sia connubio di soggetto ed oggetto, mediante la percezione sensibile; e non si dà verità, che non sia congrua adeguazione fra i due termini dell'inviolabile rapporto. Per cui San Tommaso, pur menando per parzialmente buone le definizioni della verità proposte da Sant'Agostino («verum est id quod est: veritas est qua ostenditur id quod est; veritas est secundum quam de inferioribus iudicamus»); da Sant'Anselmo («rectitudo sola mente perceptibilis»); da Avicenna («veritas cuiuslibet rei est proprietas sui esse quod stabilitum est rei»); fa propria quella di Isacco («adaequatio rei et intellectus»). Naturalmente simile concezione della possibilità di una armonia e di una rispondenza perfette fra l'organismo complesso della realtà e la sua riflessione astratta sul diaframma dell'umano conoscimento, presuppone un particolare modo di intendere l'entrata in contatto del soggetto conoscente con l'oggetto conosciuto e in pari tempo una fede saldissima nella corrispondenza del mondo agli schemi ideali della mente infinita che l'ha pensato e, pensandolo, l'ha posto. Qui il substrato religioso della gnoseologia scolastica.

Attingendo, con aderenza consapevole ma in pari tempo con perspicacia personalissima, dalla gnoseologia aristotelica, San Tommaso (I p. Summae Theol., LXXXV) muove decisamente il passo dalla esperienza sensibile. L'oggetto della conoscenza è funzionalmente e per definizione proporzionato alla capacità conoscente. L'organo sensorio possiede anch'esso una sua speciale virtú di conoscenza. Ma il termine suo proporzionato è unicamente l'individualità corporea, che ne colpisce la superficie sensibile. Esiste all'estremità opposta una potenza conoscitiva – l'intelletto degli angeli – scissa radicalmente da qualsiasi compartecipazione corporea, che intuisce di primo acchito le forme ideali, spogliate di ogni materiale individuazione. L'intelletto umano, potenza di uno spirito destinato ad informare un organismo corporeo, partecipa dell'una e dell'altra forma di percezione conoscitiva. Posto attraverso l'apparato sensorio a diretto contatto col mondo esterno, il soggetto umano non si arresta alla segnalazione della fenomenologia empirica. Il fantasma disegnato nel suo cervello dal tocco dell'esperienza, diviene il materiale di una elaborazione invisibile, mediante la quale la ragione raggiunge le nozioni universali, indispensabili alla sua raffigurazione disciplinata del reale, che è dialetticamente collegato nelle sue parti in virt del vincolo causale. La vita del pensiero è pertanto la trasfigurazione misteriosa di tutti quegli elementi che dal flusso della vita sensibile raggiungono la sfera della interiore spiritualità. I fantasmi sono il vincolo necessario per ogni elevazione e per ogni arricchimento del soggetto pensante. La tradizione come la pedagogia sono un equivalente del panorama policromo offerto dal mondo esterno, dalla cui efficacia impalpabile lo spirito ritrae l'alimento del suo progredire incessante. «Il discente» spiega San Tommaso, «riceve dal maestro le forme intelligibili, mercè le quali si costituisce la scienza. Il maestro non fa che esibire i segni delle realtà intellettuali. Onde le sue parole, ascoltate o lette, spiegano, nel processo formativo della scienza, la medesima funzione delle realtà esistenti al di fuori dell'anima. Sebbene la parola del maestro svolga un'azione piú immediata e fattiva, in quanto le sue parole sono già segni di valori intellettuali».

Collocati cosí i termini del problema gnoseologico su un terreno egualmente distante da ogni riduzione della conoscenza umana a puro simbolismo dell'atomica percezione empirica, come da ogni suo riassorbimento nella pura funzionalità dello spirito cogitante; concesso, sulle orme di Aristotele, quanto è necessario al soggettivismo del pensiero, che non può afferrare l'altro da sé senza «digerirlo» attraverso la sua virtú astratta ed universalizzatrice, ma salvando gelosamente quanto di realismo è imposto dagli imprescindibili collegamenti fra il soggetto, i soggetti e il mondo esterno, piattaforma dei loro rapporti cosí teorici come pratici, con la definizione dell'intelletto passibile, ricettacolo delle forme ideali del reale; San Tommaso è in grado di sovvertire in anticipo ogni tipo di gnoseologia che si discosti da quella che è una mirabile posizione di equilibrio. Supporre, egli dichiara, che le nostre capacità conoscitive colgano e fissino unicamente le proprie alterazioni nello sviluppo dei loro procedimenti funzionali, equivale a patrocinare un teorema falso da un duplice punto di vista. Innanzi tutto perché non v'è divario fra quel che intendiamo e il substrato delle scienze: se dunque il termine della nostra operosità conoscitiva fosse costituito unicamente dalle forme concettuali che sono nello spirito, ne seguirebbe che la scienza non investirebbe il reale extra-soggettivo, bensí solamente le modificazioni soggettive dell'io pensante. In secondo luogo, perché verrebbe cosí implicitamente rinnegato il principio di contraddizione, rivestendo automaticamente un uguale carattere di verità tutto quello che compare, fugacemente, nella zona di luce di un pensiero riflesso, per quanto abnorme e deformato. «Qualunque opinione sarà pertanto a pari titolo vera», e il mondo del pensiero sarà il caos e il nulla.

Non è questa l'unica volta in cui San Tommaso, per dimostrare l'assurdità di un teorema metafisica, fa appello alle perniciose conseguenze che esso può provocare nell'ambito dei rapporti sociali. Lo spirito cristiano opera cosí a fondo nel pensiero dell'Aquinate. Quando, ad esempio, nel De Unitate intellectus egli impugna la dottrina averroistica dell'unico intelletto possibile in tutti i soggetti pensanti, argomenta in questo modo: «Se l'intelletto, nel quale solo risiede la superiorità e il dominio su tutte le altre facoltà umane, è uno solo e il medesimo in tutti gli uomini, ne seguirà che tra questi non esisterà né pure alcuna molteplicità per ciò che concerne la libera scelta del volere. Il che è palesemente falso ed impossibile. Ripugna infatti all'ovvia apparenza della realtà; recide alle basi ogni scienza morale; sovverte irrimediabilmente e scompagina l'umana convivenza». Ma infinitamente superiore alla adeguazione di conoscente e di conosciuto che si celebra e si consuma nell'atto dell'umano pensiero, sussiste un'altra adeguazione, che di quella è presupposto e sanzione. Il mondo universo delle realtà è come sospeso fra due intelletti: il divino e l'umano. La sua verità è in funzione del suo duplice rapporto ad entrambi. Il reale riceve una prima connotazione di verità dalla sua rispondenza adeguata all'intelletto divino, di cui realizza il piano e il proposito. La seconda connotazione di verità gli deriva dalla sua attitudine a suscitare di sé nell'intelletto umano una raffigurazione adeguata. Ma il rapporto fra Dio e il mondo preesiste a quello del mondo con l'uomo: e la verità che rampolla dall'adeguazione del cosmo ai prototipi in Dio, costituisce la sostruzione eterna e ineffabile delle pallide e cadenti adeguazioni che il reale riscontra nelle tentennanti virtú conoscitive del soggetto finito.

Dio! San Tommaso lo presenta cosí fin da quando, sulle orme della psicologia aristotelica, si accinge a formulare la sua misurata soluzione del problema del vero. Sospinto da quel bisogno che fin dall'inizio del secolo XII si era fatto sentire nell'ambito del pensiero cristiano, e che tendeva ansiosamente e pericolosamente alla determinazione di una dimostrazione razionale del divino, l'Angelico viene apprestando i coefficienti logici e metafisici della sua teodicea, la quale è sostenuta dai contrafforti di una gnoseologia realistica. A norma di questa, l'intelligenza umana è riconosciuta atta a scoprire nelle cose il meccanismo causale che attinge la sua verità dalla sua eterna adeguazione agli schemi iniziali della intelligenza creatrice. Ma c'è da domandarsi se tutta la speculazione tomistica non soggiaccia all'azione recondita della fede di cui si costituisce apologetica, se cioè anche per essa non vale l'assioma che per cercar Dio, occorre averlo già trovato.

Senza dubbio San Tommaso ha in aperta uggia ogni argomentazione aprioristica diretta al sostegno dell'esistenza di Dio. Il famoso argomento anselmiano non trova grazia ai suoi occhi. Egli lo dice derivato da un inganno della consuetudine, e in pari tempo da una confusione manifesta fra quel che è per sé noto simpliciter, e quel che è per sé noto quoad nos. Perfettamente consapevole dei pericoli insiti in ogni esagerato avvicinamento dell'ordine reale all'ordine ideale, Tommaso ripudia una dimostrazione di un enunciato, la quale sia unicamente legata all'analisi dialettica dei suoi termini. Una dimostrazione del divino pienamente coerente nella sua struttura, capace di offrirsi impavida al vaglio della piú sottile disamina, atta a cementare gli spiriti di una vasta collettività nel medesimo senso del Trascendente, gli appare indissolubilmente stretta ad una visione globale dell'universo e del suo meccanismo interiore. Aristotele, con la dimostrazione del motore immobile nella sua Fisica e dell'Atto puro nella sua Metafisica, spianava alla speculazione dell'Angelico un sentiero regale dal punto di vista dialettico, anche se rischioso dal punto di vista religioso e cristiano.

La dimostrazione di Dio nel processo di sviluppo dell'immensa produzione tomistica ha l'andatura solenne di una sinfonia, di cui occorre scandire i tempi successivi per coglierne tutta la riposta e grandiosa bellezza e per valutarne il significato nel suo momento storico. Docente a Parigi come baccelliere, fra il 1251 e il 1252, appena ventiseienne, Tommaso d'Aquino commenta i Libri delle Sentenze di Pier Lombardo, il grande sommista di un secolo prima, nella cui opera aveva confluito il meglio cosí della mistica dei Vittorini come della speculazione abelardiana. Nella Distinzione terza del primo libro il Lombardo aveva trattato della conoscibilità di Dio. In quel processo di transizione dalle forme teistiche della fede all'apologetica razionale del divino, in che è tutta l'essenza della speculazione religiosa nei secoli XI e XII, il Lombardo era stato a rappresentare una posizione di equilibrio instabile, nella quale gli elementi tipicamente mistici e quelli strettamente razionali si erano amalgamati in una sistemazione provvisoria. La dimostrazione di Dio tentata dal Lombardo è disorganica e frammentaria. Citazioni neo-testamentarie (il passo capitale di San Paolo nella lettera ai Romani, I. 20, è utilizzato secondo la versione volgata in cui si perde il valore preciso dell'originale) e reminiscenze patristiche si mescolano a spunti di argomentazione razionale, la cui possibilità di sviluppo non è neppure intravvista. Il commento del giovane baccelliere è, anch'esso, rapido e schematico. L'Aquinate si limita sostanzialmente, sulle orme dello pseudo-Dionigi, ad additare i modi di salire dalle creature a Dio, in nome del principio di causalità, in virtu del processo di rimozione, in base al metodo della sublimazione, che porta a scorgere nel divino, esaltate, le proprietà buone degli esseri. A cinque anni di distanza il problema di Dio era nuovamente agitato da Tommaso in una delle consuete esercitazioni accademiche sulla Verità, la quinta, sotto il particolare aspetto della Provvidenza nel mondo. La visione cosmogonico-sacrale dell'universo, con la nozione di Dio creatore alla sua origine e di Dio restauratore al suo termine, si viene organando nella mente dell'Angelico ed egli la riveste di motivi ampi e sonori. «La finalità del mondo trapela dalla normalità del suo regolare funzionamento. Là dove infatti vige il caso, non si dànno legge di fenomeni e uniformità di risultati. Ma le realtà mancanti di capacità raziocinativa non possono gravitare verso un fine, se non sotto l'impulso di un movente estraneo. Di modo che, mancando le sostanze cosmiche di conoscenza, occorre supporre la preesistenza di un intelletto, che abbia disposto la natura al conseguimento di una meta. L'universo è la saetta cui un divino sagittario imprime moto e direzione».

Ma frattanto San Tommaso viene acquistando sempre piú sottile e consapevole familiarità con la Metafisica dello Stagirita. I commenti ai libri della Fisica e della Metafisica, la cui redazione va intercalata nel lustro fra il 1257 e il 1262, mostrano di quali mirabili riserve di acume e di lucidità potesse disporre il forte intelletto dell'Aquinate, nell'assimilare e rielaborare le ardue posizioni aristoteliche. Le geniali concezioni del movimento e della sua natura: attualità evolventesi dell'essere potenziale, in quanto tale; dell'atto e della potenza; della causalità e della sua quadruplice specificazione: materiale, formale, efficiente e finale; nella cui laboriosa incubazione era consistito, può dirsi, tutto il travaglio della speculazione presocratica e socratica, e nella cui sagace sistemazione Aristotele aveva offerto la prova piú luminosa delle sue facoltà eccezionali, filtrano nello spirito pronto e duttile dell'Angelico e lo foggiano in maniera definitiva. Il diuturno contatto con la Metafisica del Liceo, cosí impregnata di razionalismo matematico, cosí lontana da ogni senso della Provvidenza e da ogni esperienza del divino operante nell'anima, non ingenerò a volte in lui l'ombra di un dubbio religioso, la tentazione di un immanentismo superbo? È il segreto che San Tommaso si è portato con sé nel sepolcro. I suoi scritti, che si avviano dall'uno all'altro ad una formulazione sempre piú limpida, lapidare, cristallina, non tradiscono mai contraddizioni o bruschi superamenti. La loro grandezza rivela unicamente il processo di una assimilazione progressiva, immune cosí da crepe come da artificiosità e da sovrapposizioni superficiali.

Nel primo libro della Summa de veritate catholicae fidei contra Gentiles (c. 13) la dimostrazione della esistenza di Dio reca le tracce dell'azione recente delle opere di Aristotele. I motivi che i libri VII e VIII della Fisica e il XII della Metafisica aristoteliche hanno suscitato nella sua anima di credente, ansiosa di raccomandare il postulato cardinale della sua fede ad una rigorosa documentazione empirico-razionale, tradiscono ancora qualcosa di discontinuo e di avventizio. San Tommaso dichiara schiettamente di non fare altro che addurre ed enucleare le ragioni mediante le quali Aristotele procede alla dimostrazione di Dio, prendendo le mosse dal concetto di movimento e determinando le sue implicite postulazioni. Le argomentazioni aristoteliche destinate ad accertare, con metodo matematico, la necessità del concatenamento continuo dei movimenti e la necessità che la loro serie si arresti quando che sia, in virtú stessa del suo attuale spiegamento, sono riprodotte con prolissa fedeltà e con qualche appariscente digressione, che ai fini della dimostrazione può risultare superflua.

Ma è nella Summa Theologica (I p., II q., 3 art.) che la mente dell'Aquinate, ormai perfettamente agguerrita e pienamente matura, spicca il volo della sua piú alta e serrata dimostrazione del divino personale. I vecchi motivi dello Stagirita avevano ormai subìto nella sua anima di pensatore e di mistico la piú feconda elaborazione ed egli poteva rienunciarli, con la forma martellante e cadenzata del suo stile incisivo, come il canto finale di una sinfonia diuturnamente nutrita con tutti gli elementi di una ricca vitalità spirituale.

«Che Dio esista si può dimostrare in cinque maniere. La prima, la piú perspicua, poggia sulla nozione del moto. È indubitabile – attraverso l'esperienza – che vi siano al mondo delle realtà che si muovono. Ora, ogni realtà che si muove riceve l'impulso da un'altra. Infatti, quel che è mosso, in tanto è mosso in quanto tradisce ed implica attitudine alla condizione verso cui muove: e nulla può muovere, se non realizza in sé l'attualità di quella forma particolare di essere, verso cui sospinge l'oggetto mosso. Muovere è precisamente, nella sua piú generale e piú propria accezione, trarre una realtà dalla sua condizione potenziale al conseguimento della sua attualità. Ora, simile esplicazione delle capacità latenti di un essere, simile appagamento delle sue riposte attitudini, non possono essere favoriti e provocati che da una realtà la quale possegga già, in atto, quel che la realtà mossa tende a conseguire. E poiché non è possibile, a norma del principio di contraddizione, che un medesimo essere sia nel medesimo tempo in potenza ed in atto, sotto il medesimo aspetto, che cioè possegga e non possegga una identica forma di essere, occorre riconoscere che ogni mobile ha fuori di sé la ragione del suo movimento. E poiché nella serie dei mobili e dei moventi non è possibile perdersi all'infinito, cessando automaticamente la trasmissione del moto là dove manca il punto di innesto del primo atto operante su una potenzialità in attesa, occorre arrestarsi ad un primo "motore immobile": e questo, tutti chiamano Dio».

«La seconda via è desunta dal concetto di causa efficiente. Esiste nell'universo sensibile un'ordinata gerarchia di cause efficienti. Ora, nulla può costituirsi causa efficiente di se stesso: ché in tal caso dovrebbe preesistere alla sua esistenza. D'altro canto non è consentito, nella serie delle cause efficienti, procedere all'infinito. Perché, anche qui, in una serie ordinata di cause efficienti, la funzionalità delle singole intermedie è collegata e vincolata all'operazione della prima. Onde, procedendo all'infinito e non arrestandosi ad una prima causa efficiente, non si daranno né pure le causalità intermedie e gli effetti ultimi. Il che contrasta alla esperienza. Di qui la necessità di porre una prima causalità: che tutti appellano Dio».

«La terza via è desunta dalle nozioni di possibile e di necessario. Il processo di dissoluzione e di generazione a cui soggiace la totalità dei fenomeni cosmici circostanti sta a dimostrare che le realtà sensibili sono funzionalmente contingenti: possono cioè essere come non essere. Ma un insieme di realtà contingenti non può avere, per definizione, in sé la ragione della propria ininterrotta persistenza: quel che, infatti, può non esistere, in qualche momento non è. Se la totalità degli esseri è composta indiscriminatamente di contingenti, ci fu un momento in cui nulla ebbe esistenza. Ed in tal caso, né pur ora nulla esisterebbe, perché il non esistente non sbocca nell'essere se non in virtú del già esistente. Occorre dunque concludere all'esistenza di una realtà necessaria, la quale racchiude in sé la ragione della propria necessità, ed è la causalità della partecipata necessità altrui: questa realtà tutti chiamano Dio».

«La quarta via è ricavata dalla molteplicità di gradazioni di essere e di perfezione nelle cose. Il piú e il meno si predica di numerosi soggetti in ragione del loro vario accostarsi alla perfezione assoluta delle loro qualità derivate. Il vero, il bello e il buono, che sono disseminati nella piú policroma diversità nel mondo, esigono e postulano l'esistenza del massimo vero, del massimo bello, del massimo buono, che è per ciò stesso massimamente essere. Ora la perfezione in un genere è la scaturigine di tutte le realtà parziali, che in quel genere rientrano. Esiste dunque una sostanza prima, da cui rampolla, come da causalità sussistente, quanto di essere e, con l'essere, di buono e di vero, è al mondo: tale sostanza battezziamo col nome di Dio».

«Infine, la quinta via è attinta dalla presenza di un ordine e di un governo nelle cose. È dato di esperienza quotidiana che i corpi naturali, pur mancanti di ragione, operano verso determinati fini. La costanza e l'uniformità delle loro operazioni lo dimostrano. Non il caso dunque, ma un'intenzione sovrana e chiaroveggente disciplina l'esplicazione laboriosa delle loro forze verso il conseguimento del meglio. Ora, le nature irragionevoli non possono gravitare verso una meta se non perché soggiacenti all'impulso di un essere intelligente: come la saetta scoccata dal sagittario. Esiste dunque una realtà conoscente, dalla quale tutta la natura composita ha ricevuto l'orientamento verso il suo scopo: questa realtà appelliamo Dio».

Cosí San Tommaso, con incisi rapidi e sonanti, svolge i tempi della sua serrata dimostrazione razionale di Dio. Gli spunti e i presupposti gliene sono stati offerti dalle posizioni fisiche e metafisiche aristoteliche; ma chi potrebbe dire che il Dio della sua adorazione appassionata sia il medesimo Dio dell'ardua e fredda speculazione meccanicistica dello Stagirita? È sempre straordinariamente malagevole disegnare sui margini la duplice zona in cui si esplicano nella intimità di uno spirito armonico le attitudini della sua riflessione e della sua intuizione extra-dialettica. Piú malagevole che mai fissare in un'anima ricca e vasta come quella dell'Angelico il punto d'innesto e d'inserzione della sua capacità speculativa sul tronco vivo della sua passione religiosa.

La Fisica di Aristotele ha educato la visione dell'Aquinate a scorgere nell'universo il brulichìo sconfinato di forze in sviluppo, il flusso canoro di mille forme realizzantisi nell'ansia di piú alte partecipazioni dell'essere. Il rigore matematico e dialettico del grande maestro d'Alessandro gli ha additato nel mondo il poema di una immensa potenzialità, che corre affannata verso l'esplicazione e l'appagamento integrale delle sue inconscie virtú obbedienziali. Gli ha dato inoltre la consapevolezza della necessità imperiosa, logica e metafisica, che là dove è movimento e processo verso il meglio, sia un impulso iniziale e una serie finita. Ma la speculazione di Aristotele si era arrestata, impotente, dinanzi al gelido simulacro di un primo movente immobile, che la preoccupazione di mantenere immune da ogni contaminazione e da ogni alterazione di natura e di potenza, aveva gelosamente sequestrato da ogni perturbante contatto con il fluttuare faticoso dell'essere caduco nel cosmo. Ai limiti estremi dove la riflessione filosofica si ricongiunge con l'affanno del possesso religioso, Aristotele aveva timidamente e oscuramente lasciato andare il postulato che la attualità prima, dalla sede impassibile dove realizza la sua virtú di «pensare il pensiero», esercitasse sul mondo, con la generosità sovrana di chi tutto dà e nulla attende il fascino attrattivo di un ideale e di un desiderio, troppo alti e troppo puri però per entrar mai, realizzati, nella corruttibile e superabile funzionalità ciclica delle cause seconde. San Tommaso ha alle spalle dodici secoli di esperienza cristiana diffusa, la cui originalità e la cui vitalità son tutte nell'affermata congiunzione del divino e dell'umano, attraverso la partecipazione mistica dei carismi ecclesiastici. «Accomunati nella divina natura», aveva definito i credenti la seconda lettera di Pietro (I, 4). E tutto il processo storico del cristianesimo era stato fino allora nella dialettica imposta dal programma della sempre piú vasta e sempre meglio disciplinata organizzazione dei mezzi, speculativi e pratici, atti ad instaurare e assicurare lo scambio ininterrotto fra i valori dell'Assoluto e le forme transitorie della convivenza nel mondo. Il domenicano pio e austero non esita pertanto, al di là di Aristotele, a sciogliere l'inaccessibile atto puro, causalità perfetta dell'universo, dal ghiaccio della sua impassibilità trascendentale. La teodicea tomistica è la «filosofia prima» di Aristotele, tutta pervasa dall'avvivante spirito della fede e dell'amore cristiani, tutta fervida della coscienza di una salvezza soprannaturalmente attuata.

Nulla, probabilmente, nella storia dell'umano pensiero, di piú alto e di piú poderoso che lo sforzo titanico compiuto dall'Aquinate per avvicinare il divino alla umana capacità di comprensione – bisogno imperioso di ogni forma religiosa costituita, mirante alla disciplina concettuale di larghe masse credenti – senza offuscare la limpidezza inalterabile della sua luce, senza abbassarne di un pollice la sublimità invulnerabile della sua trascendenza. Tommaso sa perfettamente che un Dio amorfo e inaccessibile, freddo e impotente dinanzi al corso formidabile del male, del dolore e della morte nel mondo, è un idolo muto e sordo incapace di prestare ascolto e di rispondere alle mille voci della supplica e dell'invocazione che sgorgano dalle anime tormentate delle sue creature. Ma sa d'altra parte che raffigurarsi il divino ammantato nei tipi della nostra quotidiana esperienza equivale a precipitare nella iconoclastia di un volgare antropomorfismo. Egli si apre risolutamente il sentiero dell'equilibrio e dell'armonia. Premette innanzi tutto una schematica e risolutiva affermazione della trascendenza. Ai suoi tempi, come sempre, le due forme di panteismo in cui si può specificare la millenaria tentazione che spinge insidiosamente l'uomo verso la divinizzazione di sé, il panteismo naturalistico cioè e il panteismo idealistico, avevano avuto rappresentanti numerosi e non inascoltati. David di Dinant, il celebre maestro in teologia, la cui opera De Tomis hoc est de Divisionibus era stata solennemente bruciata nel 1209, aveva sostenuto «stultissime», secondo l'apprezzamento di San Tommaso, che Dio fosse la materia prima, puro divenire pertanto, le cui determinazioni successive costituiscono la trama del mondo, e a cui, come poi riaffermerà Spinoza, non si può applicare alcun attributo specificativo, senza negarlo. Amalrico di Bena, anch'egli condannato nel 1204, partendo da principî diversi ma giungendo ai medesimi risultati – materialismo e panlogismo sono un equivalente tentativo di celebrazione dell'assoluto nell'empirico – aveva sostenuto che Dio è l'«esse formale omnium»: che, in altri termini, Dio è un soggetto trascendentale, spiegantesi nelle forme del soggetto empirico, che è quindi l'atto di ogni realtà apparente nel divenire dello spirito. Quando nella pienezza delle sue forze intellettuali l'Aquinate si accingeva a dare nelle Summae sistemazione a tutto il lavorìo dell'apologetica razionale compiutosi da due secoli nelle scuole ecclesiastiche, la società cristiana aveva già vittoriosamente espulso dall'organismo della sua esperienza associata gli elementi dissolvitori che il panteismo del secolo decimoterzo incipiente aveva tentato di iniettarvi. San Tommaso poteva riandare alla semiobliata polemica con l'occhio sereno dello spettatore spassionato. E con volo di aquila poteva pronunciare su di essa una parola definitiva, accampando argomenti e impostando il problema in una maniera atta a superare, dovunque e in ogni tempo, l'insidia che ogni forma di panteismo tende alla esplicazione della religiosità collettiva, che non può sussistere se non addita il vincolo dell'unità nell'assoluta trascendenza e nella sua comunicazione carismatica.

Nell'articolo centrale della Quaestio III della prima parte della Summa Theologica, col consueto metodo dubitativo che caratterizza la sua esposizione, San Tommaso formula il quesito «utrum Deus in compositionem aliorum veniat»: se Dio possa entrare in composizione con le cose. È la maniera piú elevata di enunciare il problema dei rapporti antologici fra l'assoluto e il relativo, fra l'eterno e il caduco, fra il necessario e il contingente, fra il permanente e l'effimero. San Tommaso risponde nettamente di no. E adduce a sostegno della sua negazione una serie di argomenti precisi e scultorei, nei quali sembra di poter individuare quanto di piú valido possano obbiettare la ragione e l'esperienza religiosa ad una raffigurazione del divino che ne dissipa e ne disgrega fatalmente l'essenza e ne distrugge bruscamente la virtu sanzionatrice.

Dimostrando l'esistenza di Dio col suo quintuplice argomento, San Tommaso non aveva fatto altro, in sostanza, che commisurare alla nozione della causalità il processo del divenire cosmico. I primi due argomenti e il quinto risalivano a Dio attraverso il flusso delle realtà, come alla prima sorgente del movimento, concepito metafisicamente quale progrediente realizzazione di capacità latenti, come al primo impulso causale, come alla finale reintegrazione della dispersione nel tutto. Il terzo e il quarto implicavano una applicazione alle cose dei concetti di causa materiale e formale, con tutte le loro soggiacenti postulazioni. Ma la natura dei quattro tipi possibili di cause è profondamente diversa, e le piú vigilanti precauzioni sono necessarie per ricavarne, senza pericoli, indicazioni convenienti intorno all'essenza della divinità e ai modi della sua operazione. La causa efficiente e la causa finale possono essere legate alle realtà causate in virtú di un collegamento puramente dinamico. Le cause materiale e formale entrano direttamente a parte dello sviluppo e delle successive alterazioni del causato. Puramente trascendentale pertanto dovrà essere la predicazione di Dio come causalità esemplare e formativa dell'universo sensibile.

Di fronte al mondo, Dio, proclama San Tommaso, è costituito come prima causa efficiente. Ora, la causa efficiente ha un modo tale di coincidere con la forma e la materia della realtà causata, da escludere ogni mescolanza con la sua forma e la sua materia. Infatti l'incidenza della causa efficiente nella forma del reale causato è puramente specifica, non numerica; nella materia però non è né pure specifica, essendo la materia potenziale e l'efficienza attuale. In secondo luogo, se Dio potesse in qualsiasi foggia, materiale o ideale, venire in composizione con i momenti successivi della vita universa, cesserebbe di essere la causa prima: dappoiché il composto è soggetto di operazione superiore ai suoi componenti. D'altro canto, cosí la materia come la forma hanno qualcosa di potenziale e di partecipato: quindi hanno ragione di posteriorità di fronte al primo essere semplicemente tale, Dio. Infine «quel che è comune a piú, non se ne diversifica che per virtú di ragione». Se pertanto il divino potesse in una qualsiasi maniera immaginarsi coinvolto al processo di sviluppo della natura o dello spirito, e non invece realizzante in sé, nell'eterno autopossesso della sua onnipotente beatitudine, la sua essenza e la sua perfezione, «Dio non sarà una realtà esistente, se non come pura creazione intellettuale». E ne cadrà cosí la sostruzione indispensabile di ogni forma religiosa.

È vero. Familiari modi di dire e spontanei modi di pensare suggeriscono lo scoprimento di Dio nella realtà universa. San Tommaso li enumera senza esitazioni. Ma Dio è nel mondo come il nocchiero della nave, non come la forma nel corpo. «Aristotele ha detto che il movente ed il mobile debbono porsi simultanei. È necessario difatti che ogni operante sia contiguo all'oggetto su cui immediatamente opera e lo investa con la sua capacità operante». Dio, che è l'essere per essenza, attinge con la sua potenza sconfinata l'essere e il suo flusso nel tempo, affrancato però da ogni contatto, che non sia dinamico, con la totalità delle loro espressioni.

Postosi cosí al sicuro, mediante queste dichiarazioni pregiudiziali antipanteistiche, da ogni possibilità di menomazione dell'assoluta trascendenza del divino sussistente, San Tommaso può procedere alla segnalazione dei suoi attributi. La sua non è una teodicea agnostica: ma tutto quanto egli crede di potere formulare ed enunciare a proposito del mistero ineffabile che è nella vita intima di Dio, nella ricchezza prodigiosa dei suoi attributi, nella superiore virtualità della sua azione, è detto con la consapevolezza vigile e scrupolosa della sproporzione incolmabile fra la natura divina e il balbettìo esitante della nostra povera cognizione. Facendo eco ad un assioma dello pseudo-Dionigi, San Tommaso riconosce che «la suprema cognizione di Dio, consentita alle nostre limitate capacità di viandanti verso una meta soprannaturale, è quella che consiste nel ritenere Dio infinitamente al disopra di tutto quel che ci sia dato di pensare di Lui».

Una intima, mirabile dialettica sembra presiedere alla formazione della dottrina tomistica degli attributi divini. Tutto quello che di buono, di santo, di bello compare nel mondo, attraverso il prisma della nostra costituzionale volontà di trovare una sanzione e uno scopo al tormentoso ascendere della vita associata nella perfezione dello spirito, va segnalato e definito anche nell'abisso inesplorabile dell'Essere divino: ma in pari tempo ogni pericolo di contaminante propinquità fra la creatura e il Creatore, che potrebbe celarsi in una concettuale interferenza del Trascendente con l'empirico, deve essere prontamente sventato mercè il riconoscimento e la dimostrazione di proprietà, che assicurino a Dio la sua residenza inviolabile nell'empireo dell'inabbordabile Assoluto. Le proprietà che San Tommaso predica di Dio potrebbero agevolmente ripartirsi in coppie, in ciascuna delle quali, mentre il primo termine salda uno degli anelli della catena mistica che avvince il divino all'umano, il secondo li affranca immediatamente dopo da ogni compromettente contiguità di natura. Dio possiede la totalità delle perfezioni che costituiscono l'essere spirituale, nella pienezza delle sue capacità buone, ma è squisitamente semplice; è onnipresente, ma è infinito; gode l'ubiquità, ma è immutabile; è uno, ed è eterno.

Al di sopra però della stessa reciproca virtú di scambievole neutralizzazione, che preserva l'enumerazione degli attributi divini dai pericoli dell'agnosticismo e dell'antropomorfismo, sta, salvaguardia pregiudiziale e infallibile, la dottrina dell'analogia. È impossibile, afferma San Tommaso, che un qualsiasi attributo si predichi univocamente di Dio e della creatura. Poiché la univocità è essenzialmente solidarietà nella ragione del nome. La creatura invece, qualunque sia il livello della sua approssimazione imitativa a Dio, non può giammai toccare il limite nel quale una proprietà potrebbe convenire a Dio e ad essa «eadem ratione». Infatti, perché questo accadesse, bisognerebbe che anche in Dio si riscontrasse quella distinzione fra essenza ed esistenza, che rende possibile nel mondo del finito l'identità della ragione essenziale e la molteplicità dell'atto esistenziale. Non si dirà per questo che la teoria degli attributi di Dio, ricavata dalla esplorazione delle qualità buone dell'universo e dal loro trasferimento e dalla loro sublimazione nella sfera del Trascendente, sia basata su una pura equivocità, cioè su una pura predicazione verbale, priva affatto di ogni piú esigua corrispondenza nella realtà. Poiché, se nessuna convenienza oggettiva e reale esistesse fra Dio e la creatura, l'essenza divina non rappresenterebbe piú il prototipo eterno dell'universo creato, e Dio, conoscendo la propria essenza, non vi scoprirebbe piú le forme ideali della molteplicità delle cose. Né noi d'altro canto avremmo alcuna possibilità di risalire dalla visione del creato sensibile, faticosamente ma sicuramente, all'accertamento di Dio. Si può dire di piu: in tale ipotesi qualunque predicato si formulasse delle creature, potrebbe indiscriminatamente venir ripetuto di Dio, ché là dove vige il capriccio della nuda equivocità, nessun appellativo ha piú diritto degli altri ad essere predicato dei molti. Onde – conclude subito San Tommaso – nessun nome e nessuna proprietà possono predicarsi di Dio e dell'uomo, in un valore puramente equivoco o strettamente univoco: bensí si predicano, tutti, in una accezione analogica.

Ma l'analogia, che è essenzialmente proporzione, può essere duplice. Sussistono rapporti di precisa convenienza fra i due termini di una proporzione, quando è matematicamente fissata, ad esempio, la loro reciproca distanza: come fra l'uno e il doppio. A volte, invece, la convenienza analogica non nasce tanto dal rapporto di due termini proporzionati, quanto da quello, scambievole, di due proporzioni. In questo secondo caso, piú che da una proporzione, l'analogia scaturisce da una proporzionalità. L'essere, ad esempio, si predica, secondo una analogia del primo tipo, della sostanza e dell'accidente, in quanto il fondamento di tale predicazione è nell'intima correlazione sussistente fra quella e questo. A volte invece la predicazione analogica poggia sulla convenienza di secondo tipo: tale la capacità visiva predicata dall'occhio e dall'intelletto. Orbene: poiché nell'analogia del primo tipo è implicitamente postulata una correlazione intima fra i termini proporzionali, è impossibile che un rapporto analogico di tal genere costringa Dio e la creatura, nessuna creatura possedendo tale consuetudine di fronte a Dio, da poter costituire mezzo di determinazione della divina perfezione. Ma il secondo tipo di analogia non implica alcuna specificata habitudo fra le entità che han qualcosa di analogamente comune: tale analogia pertanto può convenire a Dio e alle creature. Si riconosca dunque fra l'infinito e il finito un rapporto di proporzionalità. Quel che si predica degli esseri finiti come proprietà contingente, soggetta alle limitazioni fluttuanti dello spazio e del tempo, potrà essere predicato di Dio, quando rappresenti una perfezione dell'essere, purché però trasferito nella sfera senza ombre dell'Assoluto e dell'Eterno.

Ma fra tutte le proprietà, che, ammesse cosí ad essere predicato di Dio e delle creature in virtú di questa mirabile concezione dell'analogia avvicinante senza fonderli, e quindi senza dissiparli, l'umano e il divino, tradiscono suggestivamente la correzione sagace e provvidente che lo spirito cristiano ha introdotto nelle ambiziose velleità della pura speculazione razionale, alcune ve ne sono nella cui rielaborazione e sistemazione tomistica trapela piú vividamente il profondo processo di elevazione, cui il secolare ed anonimo travaglio del misticismo generato dal Vangelo si sforzava ormai di sottoporre le categorie della metafisica aristotelica. Occorre segnalarle.

All'inizio dell'ottavo libro della sua Naturalis Auscultatio, Aristotele, con la sua consueta esattezza matematica, aveva posto i problemi centrali della riflessione scientifica sul mondo: «Il movimento avrebbe avuto principio in un determinato momento, quasi prima non fosse esistito; e sarebbe di nuovo destinato a cessare, sí che piú nulla si muova dopo? O pure mai ebbe principio né soggiace a corrompimento, ma sempre era e sempre sarà, caratteristica immortale e inarrestabile delle cose, quasi vita naturale della universale esistenza?». E nel secondo libro del De anima, dopo aver mostrato che la vita appare a noi con tali epifenomeni da dover essere fatta rientrare nella piú vasta concezione del movimento, come specificata dall'autonomia, aveva precisato: «Riconosciamo dunque che una cosa distingue l'animato dall'inanimato, e cioè la vita. Ma il vivere si dice in molti modi, uno dei quali, solo offrendosi, autorizza a riconoscerlo: vita è nella conoscenza, nella sensibilità, nell'automovimento stesso spaziale, nel movimento cui si riduce l'assimilazione nutritiva, l'accrescimento organico, il deperimento fisiologico. Onde le piante, in universo, sembrano vivere, in quanto si rivelano dotate di capacità di sviluppo e di consumazione... Questa capacità è genericamente presente in ogni essere vivo... Ma di fronte a tutti i coefficienti del vivere, l'intelletto e la potenza contemplativa sembrano costituire uno speciale genere dell'anima, suscettibile di essere isolato, come l'eterno si contrappone al corruttibile». Per questo appare ad Aristotele (Etica a Nicomaco, IX, 9) che il vivere è essenzialmente «sentire e comprendere». Ed immaginando in Dio la rivelazione della suprema forma dell'esistenza, egli aveva, nella parte finale dei suoi libri metafisici (XI, 7) proclamato, sul limite estremo delle possibilità di visione consentite ad un'intelligenza non corroborata da una luce dall'alto: «Vita è l'operazione dell'intelletto. E Dio è atto, atto sussistente: vita quindi perfetta ed eterna. Diremo pertanto che Dio è l'eterno, il perfetto vivente: ché a lui conviene vita, durata incessante ed eterna. Tutto questo è Dio. Quanti, pertanto, come Pitagora e Speusippo, ritengono che l'ottimo e il magnifico non siano nel principio, per il fatto che i principî sono le cause anche delle piante e degli animali, e che la perfezione è in questi, non in quelli, sbagliano di grosso. Poiché la semenza sgorga da preesistenti perfetti: e la prima entità ad esistere non è la semenza, ma il perfetto».

Queste dense dichiarazioni aristoteliche, attraverso le quali è cosí incisivamente tracciato il divario fra le due fondamentali posizioni antitetiche su cui si polarizza di volta in volta l'umano pensiero, secondo che obbedisce alla legge della costruzione o all'istinto della dissoluzione: quella cioè che sovrappone l'essere al divenire e quella che sovrappone il divenire all'essere, San Tommaso aveva assimilato, durante il suo paziente e silenzioso tirocinio scolastico, che l'aveva fatto prediligere da Alberto Magno. Ma la sua anima di credente possedeva, nel suo piú intimo e geloso patrimonio, intorno alla vita e a Dio, nozioni ben piú precise e accenti ben piú sonori. Un grande mistico aveva proclamato, nel prologo di una sua meravigliosa epopea, dove la tradizione di un'altra scuola filosofica si era prodigiosamente innestata nel- senso vivo di un'esperienza religiosa sovrumana, che «fuori di Essa (la Parola) nulla, nulla venne all'esistenza: quel che venne fatto in Essa, era Vita». Questo inciso giovanneo, di una densità pregnante unica, è suscettibile di varie interpretazioni, a seconda della punteggiatura che gli si impone. La nostra Volgata clementina legge oggi: «Sine ipso factum est nihil quod factum est; in ipso vita erat». Sant'Agostino aveva letto: «Sine ipso factum est nihil. Quod factum. est, in illo vita erat». E aveva sottilmente e genialmente commentato nel De Genesi ad litteram: «Quel che fu fatto, in Lui era vita: vale a dire non in sé, nella propria natura, per cui fu fatto, come realtà posta e creata, ma in Lui, poiché Egli conosceva in anticipo tutto ciò che per sua virtú doveva essere fatto, e per questo stesso tutto ciò era in Lui, non in quanto creatura, bensí come vita e luce degli uomini, come la sapienza stessa e la Parola stessa, unigenito figlio di Dio».

San Tommaso conosce e rielabora cosí la concezione, tutta satura di dinamismo vitalistico, di Aristotele, come la contemplazione, carica di reminiscenze platoniche, dell'Ipponese. Quando egli tratta degli attributi di Dio, pone il problema: «se la nozione della vita convenga a Dio» e lo risolve affermativamente, definendo l'essenza della vitalità divina a modo tipicamente aristotelico. Ma subito dopo ricorda la visuale cristiana del mistero ineffabile dell'intima vita di Dio, nella quale dall'unica essenza rampolla la molteplicità delle ipostasi, ed è suscitata l'innumere fenomenologia dell'universo sensibile, e, ispirato dal versetto giovanneo, formula il quesito: «se tutto quel che è fatto, sia vita nel Verbo». Probabilmente in nessuna parte dell'immensa sistemazione tomistica la sutura fra speculazione e fede appare, come qui, altrettanto audace che originale.

Aristotele, l'abbiamo visto, aveva vagamente raffigurato il moto delle sfere celesti come un brivido di vita, percorrente misteriosamente le fibre di tutta la realtà naturale. San Tommaso, nella Quaestio quarta de Veritate, tutta dedicata al Verbo, surroga, nell'articolo ottavo, la Parola di Dio al cielo aristotelico: «La Parola di Dio», egli dice, «esercita sulle creature un'azione incommensurabilmente piú efficace di quella spiegata dal movimento del primo cielo. Per questo, in quanto sono nel Verbo, debbono dirsi vita». Nella prima parte della Summa Theologica (XVIII q., 3 art.) riafferma il medesimo motivo. Ma questa volta il parallelismo con la tesi meccanicistica di Aristotele è scomparso. Ha pensato San Tommaso che esso potesse suonare irriverente e profano? Può darsi. Ma con la soppressione, evidentemente intenzionale, non è riuscito a nascondere, a chi si preoccupi di seguire pian piano le tracce del suo evolversi verso la piena realizzazione del sistema, la trasformazione che il presupposto aristotelico ha subìto, sotto l'impulso della visione cristiana. Poiché il vivere in Dio è il suo comprendere, e poiché in Dio sono la medesima realtà cosí l'intelletto, come l'oggetto conosciuto e l'atto stesso del conoscere, ne segue che ogni realtà da lui compresa, è la sua vita. Onde tutto esiste in Dio idealmente come la pienezza stessa della sua vitalità sussistente.

Ma sempre nell'ambito della teodicea, un'altra significativa trasformazione ha subìto, attraverso la elaborazione tomistica, la visione aristotelica della vita e la graduatoria delle sue forme e dei suoi valori. Lo Stagirita aveva posto il fastigio delle forme viventi nella contemplazione astratta, nell'ebbra sublimazione del pensiero. Uno scrittore neotestamentario aveva detto che Dio è essenzialmente amore (I Joan. IV). San Tommaso accoppia le due posizioni. Iddio è, per lui, sempre, atto puro, e la sua funzione tipica è conoscere sé, e in sé, il tutto; ma è anche amore e volontà. C'è da domandarsi se nel progressivo affinarsi del nostro modo di rappresentarci la natura di Dio e le sue eccelse perfezioni non si rifletta automaticamente l'elevarsi costante del nostro modo di delineare i doveri e le attitudini inerenti alla nostra individualità, nel fascio delle relazioni associate.

Nel terzo libro della sua opera Sull'Anima (c. 10) Aristotele, con certe dichiarazioni leggermente ambigue, che potrebbero prestare il fianco a curiose interpretazioni pragmatistiche, aveva fissato a suo modo il meccanismo delle funzioni psichiche, asseverando che l'intelletto e la facoltà appetitiva muovono la vita spirituale, ma che a sua volta l'intelletto stesso soggiace all'inclinazione, la quale, in ultima analisi, è la prima molla del movimento vitale. Ma negli esseri coscienti, che posseggono appieno il dominio dei loro centri inibitori, l'inclinazione e l'appetito non sono piú in Aristotele il vago e leggermente torbido istinto passionale, ma una forza obbediente alla libera scelta razionale, e possono quindi divenire un atto di imperio volitivo ed assurgere alla dignità di perfetta facoltà spirituale.

San Tommaso riconosce che anche nell'inanalizzabile e non scomponibile essere divino, c'è posto per la volontà, come movimento che segue l'intelletto. Ma su questa volontà egli vede immediatamente diffondersi l'impalpabile irrorazione dell'«amore». La questione ventesima della prima parte della Summa Theologica è cosí la trasposizione, in sede di filosofia e di teodicea, della celebrazione sublime del grande valore che il cristianesimo aveva introdotto, sovrano, nel mondo dello spirito: l'amore. Di questo amore divino, che è la forza diffusiva del bene, che è, con la gioia e il diletto, l'espressione e il risultato dello stesso atto contemplante di Dio, l'universo creato rappresenta il poema meraviglioso.

Secondo la concezione dell'Aquinate, nella quale il meccanicismo aristotelico e l'esemplarismo platonico si erano armonicamente accoppiati al provvidenzialismo mistico cristiano, il mondo delle realtà cosí incorruttibili come corruttibili, immateriali come corporee, rappresenta il concretarsi esteriore di idee archetipe, che Dio, contemplando sé ed amando l'ipostatica contemplazione di sé, fa erompere dalla propria infinita realtà ed obbiettivizza, per quella sua misteriosa virtú capace di suscitare e porre in essere al di fuori di sé quanto sia apparso possibile e conveniente all'espansione irresistibile del suo amore operoso. Dio, scrive l'Angelico, conosce perfettamente la propria essenza. Onde l'esplora in tutta la misura in cui essa è indagabile. Ma la essenza divina può essere conosciuta non solamente per quel che essa è in sé, bensí anche in quanto è partecipabile, in un grado qualsiasi di somiglianza, dalle creature. Ora ciascuna creatura appartiene ad una determinata specie, per cui, in qualche modo, realizza una somiglianza con la divina essenza. Onde, in quanto Dio conosce la sua essenza come estrinsecamente partecipabile in un determinato modo, ad una particolare natura, la conosce di fatto come un prototipo razionale e ideale, rispondente a tale creatura. Lo stesso dicasi di tutte le altre creature. Pertanto appare chlaro che Dio intende i molteplici prototipi razionali delle creature possibili, e intendendoli, li pone nella realtà, li crea fuori di sé, li colloca, autonomi, nel ciclo sinfonico dell'esistenza universa.

Ma la creazione del cosmo esce da una decisione libera, sebbene non capricciosa e irrazionale, della volontà divina. La causa del volere infatti è un fine da conseguire. Ora il fine della divina volontà è la sua intima e sconfinata bontà: per cui in Dio la causa del volere è il suo stesso volere. Di tutte le realtà volute da Dio, nessuna può pretendere di essere causa adeguata e determinante della sua decisione autocosciente. Ma ciascuna di esse è causa dell'altra onde dal concatenamento infrangibile della loro reciproca solidarietà si svolge l'ordine totale verso la realizzazione del divino programma nel bene. Per questo Dio, volendo l'uno, vuole il tutto. Non sarà necessario pertanto supporre la discontinuità di una successione qualsiasi, nel misterioso atto della divina intelligenza e del divino volere. Poiché là dove è la semplicità non scomponibile di un'unica, ineffabile decisione dinamica di Dio, è impossibile scoprire traccia di una successione discorsiva. Dio, con istantaneo moto della sua essenza inanalizzabile, vuole di colpo e la sua bontà e il tutto che deve intesserne ed espanderne il poema nello spazio e nel tempo, dappoiché la sua azione non si distingue dalla sua essenza.

La successione abbraccia invece i rapporti delle cose che, germinate misteriosamente dall'unico atto creatore di Dio, si riproducono nei cerchi sempre piú larghi delle varie fogge dell'esistenza. Ecco da prima le essenze angeliche, rispecchianti piú da presso, nella loro consistenza incorporea, e quindi incorruttibile, lo splendore immacolato della divina semplicità. E poi, degradanti verso forme di esistenza inferiore, le altre specie contingenti, tutte realizzanti a lor modo, sotto l'ègida e il modello degli archetipi, la rassomiglianza con Dio, contaminata· però dall'azione delle influenze naturali. La varietà indefinita degli esseri è pertanto, nella luce della speculazione tomistica, il risultato mirabile dell'innestarsi delle causalità seconde, sul concretarsi progressivo delle idee divine. A causa di questo immenso innesto cosmico, compaiono negli esseri le imperfezioni della loro essenza e della loro capacità dinamica.

La parziale partecipazione al prototipo divino, sotto l'azione perturbatrice della natura, artefice maldestra, a cui la mano trema e vacilla nell'atto stesso di cooperare all'esplicazione del puro disegno di Dio, costituisce la spiegazione adeguata delle innumerevoli deficienze che l'occhio della esplorazione sensibile e l'intuito della percezione sentimentale scoprono nei tessuti della esistenza universale. Tutta la natura irragionevole, assevera nettamente San Tommaso, sta di fronte a Dio creante e provvidente come lo strumento ed il mezzo stanno nelle mani del principale agente. Nessuno pensi di poter agguagliare le modalità cui soggiace il funzionamento delle cause particolari al metodo di attuazione della causalità universale. Possono sussistere momenti e atteggiamenti dell'esistenza che si sottraggono all'ordine della causalità particolare: la causa universale ha invece un dominio illimitato e incondizionato. Le cause particolari possono scontrarsi e neutralizzarsi a vicenda: l'acqua può arrestare l'azione del fuoco. Ma l'armonia della causalità prima ed universa ha uno spiegamento infallibile, la cui realizzazione perfetta non può venir meno, per il fatto che la totalità dei motivi ne sfugge alla nostra circoscritta e lacunosa capacità di osservazione.

La realtà sono come servi che Dio dirige ad una meta comune, per vie lungo le quali ciascun viandante ignora il cammino, la provenienza, il destino dell'altro. Quelle stesse lacerazioni e quelle stesse discontinuità che i nostri sguardi fievoli e trepidanti credono di scorgere nella trama delle esistenze sensibili, rivelano la mano sicura di una causalità superiore. Spetta infatti solamente alle cause limitate e circoscritte il tendere ad escludere dagli oggetti sottoposti al loro influsso difetti e lacune che, esse intuiscono, potrebbero riuscire funesti ed irreparabili, data la limitatezza delle loro capacità di azione e di risanamento. Ma la causalità prima ed universale può senza rischio permettere, agli strumenti della sua operazione, di introdurre e di insinuare nella rete delle realtà cosmiche le imperfezioni e le deformazioni della loro tarda virtú di produzione, poiché sa che potrà tutte integrarle, superarle, vendicarle, nella immancabile convergenza finale del male nel bene, della morte nella vita, del dolore nella gioia.

La risoluzione proposta da San Tommaso del problema del male, con le sue trasparenti reminiscenze aristoteliche, con il suo fondamentale ottimismo, inclinato a negare all'eterna insidia dell'essere e della perfezione ogni consistenza, per ridurla alle proporzioni di una deficienza e di una lacuna, può e deve apparire alquanto frigida ed armonistica, a chi pensi alla drammaticità con cui l'hanno sentito ed affrontato i grandi geni della esperienza religiosa, da San Paolo a Sant'Agostino. Ma si deve in pari tempo osservare che, se sul terreno della antologia e della metafisica San Tommaso scorge il male come una necessaria quantità negativa, nello spiegamento universale dell'essere, sul terreno dell'etica, quello nel quale la concezione del male è in grado di sortire le ripercussioni piú importanti, egli riconosce nella colpa, nella posizione cioè di atti difformi dalla norma del giusto e del retto, una quantità positiva, capace di conseguenze incalcolabili.

L'ottimismo trasferito senza discernimento nel pomerio delle valutazioni etiche; trapiantato dal campo della cosmogonia in quello della morale; annulla in radice la costituzione stessa della Chiesa, che è per definizione società di redenti e coinonia di trasumanati. Ora San Tommaso riesce a tenersi sulla piattaforma inalienabile del messaggio cristiano: la fede in una salvezza spirituale. Naturalmente, non accettando alla lettera la tragica visione della colpa che era stata tratteggiata da sant'Agostino, come sconvolgimento sostanziale dell'essere, divenuto ormai una contaminata epopea di mali e di dolori, San Tommaso concepisce la redenzione prevalentemente come reintegrazione delle forze umane, risollevate alla possibilità di una finalità superumana, anziché come riscatto dalle torbide debolezze, che continuano inesorabilmente ad offuscare l'orma di Dio nel creato e nello spirito. Ma i concetti del peccato e della salvezza, della caduta e del rinnovamento, i due fochi intorno a cui si distende tutta l'ellissi dell'esperienza e della speculazione nel cristianesimo, campeggiano ancora sovrani nella sua antropologia. Le parti morali della sua Summa Theologica, la prima secundae e quella secunda secundae che Leibnitz proclamò la piú meravigliosa trattazione etica che fosse mai uscita da cervello umano, scaturiscono per intiero da una visione complessa, che comprende le possibilità naturali dell'uomo, l'entità della primitiva caduta e delle sue conseguenze, la vastità della soprannaturale palingenesi.

Aristotele aveva asserito che l'ideale umano, commisurato e proporzionato alle attitudini naturali del soggetto cogitante, consiste nell'attuazione integrale del còmpito e dell'atto proprio dell'uomo: il contemplare e il conoscere. San Tommaso pensa anch'egli che il termine della umana beatitudine sia riposto nell'appagamento di quell'avidità di sapere, che stimola inquietamente lo spirito umano. Ma alle sue spalle sono secoli di aspirazione cristiana al Regno di Dio, la cui prospettiva, se ha perduto nel corso del tempo le iridescenti colorazioni che ne avevano accompagnato lo spiegamento nell'apocalittica del tardo giudaismo e nelle correnti piú vive del cristianesimo antico, implica sempre un'eccezionale manifestazione del Padre, un soprannaturale dischiudersi dei veli che coprono il suo volto radioso. Pure ammettendo che la visione beatifica risponda ad una intima virtú obbedienziale dell'anima pensante, bramosa di toccare l'àpice del dominio conoscibile nel possesso razionale di Dio, San Tommaso proclama la sublime superiorità di una tale meta, nei confronti delle create potenze. Il dischiudersi pertanto dello spirito alle rivelate speranze è un dono e una grazia; il loro raggiungimento, parimenti, è un mistero di grazia. E il merito scaturisce da un ineffabile imeneo, che congiunge, nell'interno dell'umana sinderesi, le possibilità fragili ed esitanti della natura, e l'effusione carismatica dei doni soprannaturali.

Probabilmente è proprio nell'ambito delle sue teorie antropologiche e morali che San Tommaso tradisce meglio le interferenze profonde di fede e di ragione, stabilitesi nella sua esperienza e nel suo pensiero. Ogni passo da lui percorso nel sentiero che porta all'indagine delle umane capacità verso il vero e il bene appare illuminato dalla face di una soprannaturale visione dell'apporto che Dio reca all'elevazione e al coronamento della sua piú nobile creatura. L'intelletto dell'Angelico è tutto pervaso e permeato dalla consapevolezza delle realtà e dei valori soprannaturali, di cui la fede discopre l'annuncio e garantisce l'acquisto.

Quei tardi e fiacchi epigoni, che in nome del tomismo lanciano l'anatema contro ogni forma di apologetica, la quale esalti e celebri la virtú autonoma e sovrana della fede e la solidità dei procedimenti extra-dialettici nella elaborazione della esperienza religiosa, mostrano di non conoscere quanto intensamente l'Angelico sentisse la superiorità e la inconfondibilità del coefficiente volitivo, nella esplicazione concreta della religiosità. La Quaestio decimaquarta de Veritate, tutta consacrata alla fede, riassorbita dalla Quaestio secunda della secundae partis, della Summa Theologica, può essere definita, ad esempio, come uno dei trattati piú esaurienti che possano immaginarsi intorno al valore della fede e della sua perfetta autonomia nella vita dello spirito. La sagacia e la larghezza con cui l'Aquinate affronta il problema centrale dell'apologetica religiosa, quello dei rapporti tra il pensare ed il credere, dimostrano a luce meridiana che non sono davvero sulle sue orme coloro che, oggi, mentre il bisogno di riportare la fede pura e cosciente nella soprannaturalità della salvezza mistica fra le forze operanti della spiritualità associata batte cosí urgentemente alle porte, si ostinano a ripudiare ogni rivendicazione dell'adesione a Dio e alla sua parola rivelata, al di fuori delle claudicanti argomentazioni razionali.

San Tommaso ripartisce la sua Quaestio de Fide in dodici articoli consacrati successivamente: alla nozione della fede; al carattere virtuoso della fede; al soggetto della fede; ai rapporti fra la fede e la carità; alle differenze fra la fede animata dalla carità (formata) e quella spogliata di carità (informis); all'oggetto della fede; al problema dei rapporti fra credere e conoscere; alla necessità della fede; alla identità della fede degli antichi e dei moderni. Volendo adottare una terminologia nostra, si potrebbe dire che la Quaestio di San Tommaso comprende un trattato di psicologia della religione (i primi quattro articoli), un altro di apologetica della fede (i sette successivi), infine un terzo sui rapporti fra dogma e storia (l'ultimo). Qui sí San Tommaso dimentica tutta la speculazione aristotelica. L'esaltazione della fede, in che è la piú alta e la piú tipica espressione della spiritualità umana, erompe dalla sua penna, nitida e sicura, come l'acqua che zampilla impetuosa dalle viscere turgide della montagna. Egli comincia col dare una definizione del credere, che prende a prestito da Sant'Agostino: «credere est cum assentione cogitare». E ne delucida il contenuto, mostrando apertamente che il credere è atto di volontà, non di pura ragione. «L'assenso della fede non nasce dalla riflessione e dal pensiero, ma unicamente dalla volontà, che aderisce a Dio e alla sua rivelazione, in vista del premio che appagherà le sue ansie e le sue inquietudini».

Postosi risolutamente cosí sulla via che conduce all'analisi strettamente psicologica dell'atto di fede, San Tommaso riconosce che la definizione di questa, proposta dall'autore della lettera agli Ebrei (XI, 1): «substantia rerum sperandarum, argumentum non apparentium», è perfetta, anche se non rispondente alle prescrizioni meccaniche della logica aristotelica. Innanzi tutto, perché tocca e coinvolge tutti i fattori che entrano nella preparazione dell'atto di fede. Infatti, se la disposizione del credente è tale che in lui l'intelletto sia determinato a dare il suo consenso dalla volontà; e se la volontà nulla opera se non mossa dal desiderabile; occorrono alla fede due principî: il bene che muove il volere e la enunciazione cui l'intelletto aderisce sotto lo stimolo della volontà. Ora il bene verso cui gravita l'uomo è duplice: naturale e soprannaturale. D'altro canto, perché un essere possa tendere ad un fine, deve sussistere una certa sua proporzione con esso, da cui scaturisca lo stesso desiderio, nella quale proporzione è racchiusa una specie di prefigurazione e di pregustazione (inchoatio) del fine medesimo. Cosí i principî per sé noti e gli assiomi del diritto naturale costituiscono nell'uomo una potenziale inchoatio del suo fine naturale. La fede, dal canto suo, è un preannuncio e una iniziazione del fine soprannaturale: «È un'attitudine dello spirito in virtú della quale la vita eterna trova in noi un principio di realizzazione, piegando l'intelletto ad aderire a realtà non appariscenti». In secondo luogo, la definizione della fede data dalla lettera agli Ebrei ne specifica la natura di fronte a tutte le altre operazioni dello spirito (alla scienza, al dubbio, all'opinione). Infine, è di tale precisa e netta sicurezza da potersi ridurre ad essa tutte le altre definizioni proposte, compresa quella data da Ugo di San Vittore, piú di un secolo prima, in quella Summa Sententiarum (se di Ugo) che segna una data cosí saliente nello sviluppo della mistica e della teologia nel secolo duodecimo: «Fede è volontaria certezza dell'animo, a proposito di realtà non presenti, superiore all'opinione, inferiore alla scienza».

Appunto perché la fede sgorga in ultima analisi da una decisione consapevole della libera volontà umana, essa è una virtú, nel significato teologico della parola, quale capacità cioè di emettere atti meritori di vita eterna: ed è una virtú inerente all'intelletto speculativo, in quanto sottoposto ed obbediente al cenno della volontà. Per questa ultima circostanza il valore della fede scompare, se non sia in esso trasfuso il senso vivo ed operoso della carità. Poiché solo l'amore rappresenta la perfezione e l'anima del volere: e un atto intellettuale, determinato da una volontà imperfetta, cioè non amorosa, è un atto privo di forma. Arduo mantenere il dominio della fede nel suo delicato equilibrio fra la volontà che, se viziosa, lo depaupera, e la ragione che, se lo invade, lo annulla. Dal momento che l'oggetto della fede è costituito da realtà assenti e remote dall'intelletto; dal momento che il suo dominio è nella sfera dei valori superiori ad ogni capacità percettiva dello spirito; ogni elemento di fede che entri nella zona di luce della ragione, si sottrae per definizione dal panorama della visione credente. Ragione e fede pertanto, se si aiutano a vicenda, si escludono pure. Perché è impossibile e contraddittorio che il medesimo oggetto sia investito dalla fede e dalla scienza: «Impossibile est quod de eodem sit fides et scientia». Cosí enuncia perentoriamente San Tommaso: e se il suo enunciato non è in contrasto con gli stessi fondamentali procedimenti della sua apologetica, sta ad ogni modo a dimostrare quanta linfa di passione mistica fermentasse sotto la superficie del suo sviluppo argomentativo e razionale. San Tommaso è cosí prepotentemente convinto che l'attitudine della fede è autonoma e inviolabile nel piano di svolgimento della vita spirituale, che proclama con solennità non poter l'uomo attingere il suo estremo destino, se, resistendo a tutte le ammalianti insidie della ambiziosa ragione, non lascia, incontaminato, il dominio del credere, che diverrà dominio della visione solo nella luminosità dell'oltretomba.

Posta cosí la fede come attitudine centrale e necessaria dello spirito umano, chiamato da una vocazione soprannaturale al raggiungimento di un sublime destino ultraempirico, si comprende agevolmente come San Tommaso sia in grado di risolvere il problema sconcertante dei rapporti fra il fluttuare delle formulazioni esterne della fede e l'immutabilità granitica del suo oggetto, e l'identità sostanziale dei suoi soggettivi elementi psicologici. Il problema, evidentemente, non si poneva, per lui, con quella appassionante drammaticità con cui si pone per noi, gravati da tanto piú vasta conoscenza dello sviluppo storico della religiosità umana, e impoveriti da cosí diuturno logorìo delle forze mistiche della vita associata. Egli se ne sbriga succintamente nell'ultimo articolo della sua Quaestio: «utrum una sit fides modernorum et antiquorum». Ma le rapide e incisive conclusioni che egli formula in argomento, sono cosí pregne di significato e cosí liberali di respiro che, a distanza di secoli, in ambiente tanto diverso per orientamento e ideali, potrebbero ancora magnificamente servire a risolvere l'incognita sempre presente e sempre urgente della continuità della vita spirituale, sul solco dei medesimi valori e delle medesime speranze.

San Tommaso osserva sottilmente che l'oggetto della fede si può considerare da un duplice punto di vista: in sé qual è fuori dell'anima che lo investe e ne vive, o in quanto è partecipato dal soggetto conoscente. Ora, se si riguarda alla verità creduta, quale sussiste, indipendente e autonoma, di fronte allo spirito che la coglie, essa non cambia e non può cambiare, di qualunque entità sia la variazione delle formule, attraverso cui gli spiriti credenti se la raffigurano. È solamente dall'unità del suo soggetto che la fede attinge la propria uniformità nello spazio e nel tempo: «Ex unitate rei, fides unitatem recipit». Ma qualora si riguardi l'oggetto della fede nelle forme in cui si rifrange nella nostra accezione, tale oggetto si moltiplica in virtu delle varie possibilità della sua enunciazione. Né pure a questo modo però si può concludere alla diversificazione della fede: la quale è sostanzialmente e fondamentalmente sempre una. Con questa alata e pura visione dei rapporti contingenti fra l'attitudine primordiale della fede e il concretarsi empirico delle sue formulazioni esteriori; fra la realtà creduta, salda, eterna, immutabile, e il flusso delle umane sue rappresentazioni, San Tommaso mostra, a chi intenda esplorarne a fondo lo spirito e l'orientamento, a quale lungimirante larghezza lo sospingeva la mirabile fusione effettuatasi in lui fra l'atto della fede e l'esercizio dell'intelletto. In questa prodigiosa fusione e in questa intima saldatura di elementi puramente speculativi e di posizioni squisitamente mistico-religiose in un sistema organico, chiamato a dar ragione dell'essere e della sua origine, del mondo morale e del suo destino, è la grandezza impareggiabile di Tommaso d'Aquino. Ed è il significato della sua comparsa e della comparsa del suo sistema nella storia della religiosità cristiana a mezzo il secolo decimoterzo.

All'indomani della costituzione ecumenica dell'autorità pontificale nel mondo cristiano, quale si era rivelata nella figura e nel magistero grandiosi di Innocenzo III, la comparsa di questo sistema tomistico, poggiato su un equilibrio instabile, di cosí delicata e fragile natura, fra razionalità e fede, rispondeva effettivamente al bisogno anonimo della massa battezzata in Europa di stringere in un unico organismo la famiglia cristiana, sottoponendola ad una disciplina nella quale le attività religiose e le attività speculative fossero fuse in una non piú scomponibile saldatura. In realtà era questo un programma che veniva a ledere alcuni dei capisaldi del programma cristiano nella storia. Il cristianesimo antico aveva conosciuto le sue piú gravi crisi nel quarto secolo, quando, con la conversione di Costantino e l'automatico passaggio da religione di minoranza a religione di maggioranza, si trovò dinanzi il problema di come continuare ad essere fermento del mondo e sale della terra. Noi abbiamo largamente visto come le crisi cristiane del quarto secolo e dei secoli successivi furono tutte crisi suscitate dal bisogno di risolvere questo immanente e acuto problema.

Roma, scissa dalla vita politica orientale, riuscí in qualche modo a ricostituirsi in questa sua funzione cristiana di fermentante lievito della civiltà, mercè la sua dogmatica inviolabilmente misterica, la sua visione pessimistica agostiniana del mondo umano e della vita, l'organizzazione del suo ascetismo cenobitico. Ora, all'alba del secolo decimoterzo, l'universalità del magistero papale risuscitava di nuovo il medesimo problema. Come avrebbe potuto e dovuto la Cristianità conservare il suo carattere di fermento in una pasta non lievitata, di sale in una imbandigione universalmente insipida, quando tutto il mondo era stretto nella ecumenicità pontificale? La crisi si annunciava ancora piú grave di quella del quarto secolo e le sue risonanze ne sarebbero state vastissime.

Abbiamo visto come, quasi presentendo questa profonda rivoluzione – nei tessuti organici della comunità cristiana, il profeta di Celico, Gioacchino da Fiore, avesse lanciato l'annuncio apocalittico di una nuova età dello Spirito, che avrebbe riportato il cristianesimo all'entusiasmo rivoluzionario delle prime generazioni. Gli elementi «numinosi» che avevano dato al cristianesimo primitivo la sua irresistibile forza di espansione, erano cosí ricomparsi nel Vangelo Eterno. La Curia non l'avrebbe accettato e non l'avrebbe potuto accettare. La filosofia tomistica pertanto, pur nello splendore della sua audacia sistematica, fu il surrogato dell'aspettativa profetica di Gioacchino. Anche questa volta la materia incandescente del bando profetico fu sottoposta alle surroganti possibilità della speculazione razionale. Nella sua sostanza, la filosofia tomistica, per il fatto stesso che era sopra tutto filosofia, negava ogni dualismo, come rinunciava a qualsiasi velleità profetico-apocalittica. Con questo stesso, gli elementi «fascinosi» e «tremendi» del messaggio cristiano primitivo – la vita, ricercata nel suo rinnegamento; il male visto insediato alle origini stesse della vita individuale e collettiva; carattere perituro del mondo e precarietà di tutta l'esistenza cosmica al cospetto della indispensabile assistenza ininterrottamente paterna di Dio – venivano a subire una attenuazione sostanziale.

D'altro canto, quel processo di razionalizzazione della fede cristiana, che noi abbiamo veduto iniziato con Sant'Anselmo e con la prima dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio da lui tentata, raggiungeva, in San Tommaso, la sua organicità rigorosa. Abbiamo detto che non bisogna esagerare nel mettere in luce questo lato, diciamo cosí, «illuminista», del pensiero scolastico. Come Aristotele, alla luce di accurate ricerche moderne, ha rivelato, specialmente nel modo di considerare le religioni di mistero, una sensibilità extradialettica che in altri tempi non si sarebbe neppur sospettata, cosí San Tommaso, nella sua ricca esperienza spirituale, si rivela, come abbiamo visto, altrettanto sottile nelle disquisizioni metafisiche che sensibile ai valori centrali e inconfondibili della fede. Ma l'equilibrio mirabile in cui egli mantenne la fusione di ragione e di fede, di vita umana e di grazia, non sarebbe stato molto facile mantenerlo intatto. È dalla stessa speculazione tomistica infatti che deriverà quella mistica domenicana di Maestro Eckehart e di Täuler che, mentre da una parte aprirà la via ad alcune tendenze della religiosità patrocinata dalla Riforma luterana, dall'altra rappresenterà in qualche modo, come è oggi universalmente riconosciuto, il preannuncio dell'idealismo germanico moderno.

Cosí infrangibilmente solidale è il concatenamento delle tappe, attraverso cui si è venuto svolgendo, nell'età moderna, il patrimonio ereditario della tradizione cristiana.

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