XV INNOCENZO III

Ci sono conflitti che i temperamenti dei protagonisti possono acuire ed esasperare, ma che sono, in realtà, nella essenza delle cose. Di tale natura è il conflitto che mette di fronte Papato e Impero dal secolo undecimo in poi.

Può darsi che la concezione stessa dell'autorità politica negli imperatori teutonici rendesse piú aspro e piú appariscente il dissidio profondo che si celava nella coabitazione dei due principi, il religioso e lo statale, quali si erano venuti a porre di fronte l'uno all'altro nella istituzione romana dell'Impero sacro. Non è cosa straordinariamente significativa che le lingue neo-latine abbiano dovuto prendere a prestito il vocabolo designante il conflitto delle armi, guerra, dalla parola germanica Wërra, anziché dal latino bellum? Si direbbe che la trasformazione cristiana della concezione romana della vita associata avesse fatto definitivamente cadere in oblio il vocabolo romano usato per indicare la lotta armata.

Per la concessione cristiana non c'era che una lotta degna di essere combattuta, la lotta di Dio contro Satana. Venuti tardi al cristianesimo, quando il cristianesimo stesso aveva perduto tanto e tanto della sua dualistica e trascendente esperienza primitiva, i Germani non avevano avvertito tutte quelle incompatibilità che sussistono fra la professione del Vangelo e la visione esterioristica dei rapporti sociali.

La stessa costituzione dell'Impero, affidata a mani germaniche, aveva subito una deformazione inevitabile. Il feudalesimo d'altro canto aveva fatto il resto. In fondo, come abbiamo detto e ripetuto, la costituzione dell'Impero sacro per opera di Leone III aveva voluto rappresentare una costituzione in equilibrio instabile delle due città, quali la filosofia della storia di Sant'Agostino aveva teoricamente sistemato. Valori politici e valori religiosi, la città del mondo e la città di Dio, avevano tentato di costituirsi l'una di fronte all'altra, diciamo meglio, l'una in grembo all'altra, in una maniera che fosse quotidianamente riconoscibile e disciplinabile.

Ma la visione del De Civitate Dei di Sant'Agostino era una visione essenzialmente mistica e, per definizione, refrattaria ad una trasposizione meccanica in sede empirica. Basata preliminarmente su un'antropologia pessimistica e dualistica, sulla visione cioè di una massa dannata che è preda permanente di Satana e a Satana deve fatalmente ritornare, qualora non si inserisca sacramentalmente nella grazia, la sociologia agostiniana non poteva essere affidata ad istituti giuridici, senza deformarsi e senza impoverirsi. D'altro canto, come riuscire mai a stabilire nitidamente e matematicamente la linea divisoria fra quelle che sono le gerarchie dello Spirito e quelle che sono le gerarchie della politica terrena?

L'episcopato e il monachismo, noi l'abbiamo visto, avevano finito, nella costituzione unitaria dell'Impero consacrato da Roma, con l'offrire il modello alla feudalità laica. E questa d'altro canto rifluiva e si ripercuoteva sulla gerarchia carismatica, profanizzandone i poteri, laicizzandone le mansioni, subordinandola al controllo e all'investitura dell'autorità imperiale. Ed ecco allora la inevitabile urgenza e la inevitabile fatalità del conflitto fra suprema autorità religiosa e suprema autorità politica.

Uomini come Enrico IV e Gregorio VII possono aver portato nello spiegamento del dramma le dure asprezze dei loro rispettivi caratteri. Ma il conflitto era nelle cose, piú che nelle persone. Lo mostra il suo rinascere dopo le temporanee tregue, il suo prolungarsi attraverso Pontificati successivi, il suo complicarsi ed inasprirsi in ragione stessa degli elementi economici che entrano a rendere piú imbarazzanti giorno per giorno le oscillazioni della lotta che si combatte, a colpi di scomuniche e di sentenze conciliari.

Verso la Pasqua del 1086 i cardinali eleggevano a successore di Gregorio VII Desiderio di Montecassino col nome di Vittore III. Timido ed irresoluto, egli abbandona Roma ancor prima di essere consacrato. Ritorna al principio dell'anno successivo accompagnato da una scorta di soldati normanni, ma ne riparte poco dopo e muore a Montecassino lo stesso anno.

Il 12 marzo del 1088, i cardinali radunati a Terracina designano al Pontificato Ottone Ostiense, francese di nascita e di nobile famiglia, che prende il nome di Urbano II. È il Papa della Crociata, di cui non vide l'evento definitivo, l'arrivo cioè vittorioso a Gerusalemme.

Designato da lui fu eletto a succedergli nel 1099 il cardinale Raniero, Pasquale II, anch'egli già monaco di Cluny. Devoto come Urbano alle dottrine di Gregorio VII e severo nella sua pietà personale, Pasquale non possedeva probabilmente le doti del suo immediato predecessore, come molto meno aveva alcunchè che potesse avvicinarlo alla diamantina figura di Ildebrando. Ad un anno dalla sua elevazione al Pontificato si spegneva a Civitacastellana l'antipapa di Enrico IV, Guiberto. E ancora un anno piú tardi con la morte di Corrado si spegnevano le lotte in Germania, ed Enrico IV, sentendosi piú libero, riprendeva irreconciliabilmente la sua lotta contro le rivendicazioni papali e per la restaurazione di quei diritti imperiali cui egli non aveva mai in cuor suo rinunciato, nella distribuzione e nel conferimento delle dignità ecclesiastiche. Ancora una volta Roma, nella persona di Pasquale II, era costretta, in piena adunanza sinodale, a lanciare di nuovo l'anatema contro l'imperatore pervicace e fedifrago, cercando in pari tempo di stringere sempre piú i vincoli gerarchici fra episcopato e Papato.

Questa diuturna resistenza papale sulle medesime posizioni non mancava di destare per tutto una impressione profonda. Si direbbe che attraverso questa resistenza l'autorità del Pontificato romano salisse sempre piú in alto. Nel 1104 Filippo I a Parigi chiedeva l'assoluzione dalle censure in cui era incorso per il suo divorzio da Berta. Frattanto in Germania il figlio dell'imperatore Enrico IV, anch'egli Enrico, scendeva clamorosamente in lotta contro il padre, rifiutando obbedienza ad uno scomunicato, lo sopraffaceva e lo imprigionava a Coblenza. Condotto a Ingelheim, quegli che era stato l'imperatore di Canossa, alla presenza del figlio, di due legati papali, di molti baroni, doveva spogliarsi delle insegne imperiali, dichiarare di rinunciare a tutti i suoi possessi, pronunciare da sé la propria sentenza di decadimento dal potere. I legati romani, irremovibili, chiesero perfino che egli si confessasse colpevole al cospetto della figura di Gregorio VII come dei suoi successori. Enrico dovette accettare. Nel gennaio del 1106 Enrico V era coronato a Magonza quale re e romanorum imperator. Pochi mesi dopo Enrico IV si spegneva a Liegi. Disgraziato, forse piú che perverso, egli aveva con ostinazione indomabile sostenuto e difeso le pretese assolutistiche imperiali. Come lottare di fronte ad una cosí ardua situazione come quella nascente dalla commistione dei poteri spirituali, carismatici e religiosi da una parte; politici, feudali, economici dall'altra, provocata dal programma stesso di definire giuridicamente quelle che sono le impalpabili correlazioni di spirito e materia nell'uomo e nella vita aggregata? La tradizione imperialistica, che Enrico IV aveva personificato e tutelato, era ben superiore al volere degli individui e non poteva fare a meno di affermare e rivendicare se stessa fino all'ultimo suo anelito. Mentre la pratica dell'investitura laica si spegneva senza sforzo in Inghilterra e in Francia, lasciando dietro di sé, superstite traccia insignificante, l'esteriore omaggio feudale per i beni retaggio e appannaggio della dignità vescovile, in Germania, dato il concetto stesso della supremazia imperiale e data soprattutto la pratica teutonica del potere politico, offriva ancora inesausta materia di controversia.

Invitato a recarsi in Germania per tentare di comporre la questione, Pasquale si incontrava a Châlons con un'ambasceria di Enrico V, che pretendeva di dare per primo un consenso alle elezioni vescovili, senza cui le elezioni stesse dovessero ritenersi ineffettuabili. Era un modo di riprendere con la sinistra, quello che si era dato con la destra. Era, comunque, un riconoscimento implicito che la designazione alle dignità religiose dovesse essere demandata innanzi tutto all'autorità spirituale di Roma. Ormai il conflitto tra Pontificato e Impero si avvicinava ad una soluzione sul cui carattere non era piú lecito nutrire dubbi. Pasquale resistette a Châlons e disperando, per il momento, dell'accordo, se ne tornò in Italia.

Nel 1110 anche Enrico prendeva le vie del Mezzogiorno. Fermatosi a Sutri lanciò un proclama lusinghiero ai Romani e spiccò ambasciatori al Pontefice, i quali vennero a sostenere che il loro sovrano era nella impossibilità materiale e morale di rinunciare ai suoi diritti alla investitura vescovile, sempre a causa dei numerosi e pingui feudi imperiali, dei quali, per la generosità stessa di Carlo Magno e dei suoi successori, i vescovi erano i depositari. E allora Pasquale II, spinto dalla stessa necessità di riconoscere coerentemente la natura spirituale della dignità che egli conferiva con l'episcopato, costretto quindi a tradurre in pratica quella distinzione cristiana dei due poteri e delle due città, si induceva a rinunciare a tutti quelli che erano diritti regalistici dei vescovi dell'Impero, pur di salvare l'insindacabile autonomia dell'amministrazione carismatica. Ci si avvicinava cosí a quello che sarebbe stato il concordato di Worms del 1122, nel quale i regalia, cioè tutti i diritti temporali dei vescovi che erano di loro natura statali ed economici, sarebbero stati distinti dai poteri e beni ecclesiastici, sottoposti gli uni e gli altri rispettivamente a regolamento e a disciplina diversi.

Ma quale sarebbe stata mai la reazione dei direttamente interessati alla decisione papale? Quell'episcopato germanico che già si era mostrato cosí docile strumento nelle mani dell'autorità imperiale, e cosí recalcitrante alle decisioni romane, quale accoglienza mai avrebbe fatto ad una decisione di tal genere del Pontefice romano?

Pasquale II prometteva che all'episcopato, sottratto all'investitura regia, sarebbe stato recisamente e perentoriamente vietato di ingerirsi in tutte quelle mansioni giuridico-economiche e commerciali, che l'ormai secolare immissione dell'episcopato nella gerarchia feudale era venuta abusivamente creando. Sicuro in cuor suo probabilmente che una clausola di tal genere sarebbe stata difficilmente realizzabile, e che i primi a fare opposizione alla concessione del Papa sarebbero stati i suoi vescovi, Enrico accettava la proposizione di Pasquale e nel febbraio del 1111 entrava a Roma.

Non aveva previsto male. Bastò che le condizioni proposte da Pasquale fossero note al gruppo di vescovi germanici che seguivano l'imperatore, perché da parte di questi si levasse una fiera protesta che permise ad Enrico di impossessarsi della persona del Pontefice, col pretesto di tutelarlo. Isolato in una località remota della Sabina, Pasquale ritornò sulle sue concessioni, rilasciando ad Enrico un privilegio che ripristinava e riconsacrava l'investitura imperiale. Dopo di che si procedé alla incoronazione ufficiale dell'imperatore a Roma.

La sollevazione dell'opinione pubblica cristiana, cosí in Italia come in Francia, fu tanto vivace che ad un anno di distanza Pasquale II doveva di nuovo tornare sui suoi passi, sconfessando se stesso e scomunicando Enrico V come reo di avergli usato violenza.

E di nuovo la discordia divampava in Germania.

Al principio del 1116 Enrico V era costretto a rivalicare le Alpi, spinto anche dal fatto che la morte della contessa Matilde di Toscana e il suo testamento a favore del Papato sollevavano una nuova discussione, che si sarebbe prolungata per lunghi e lunghi anni, circa la trasmissibilità di quelli fra i beni della contessa Matilde che rivestivano una riconoscibile veste feudale. Nel 1117 entrava in Roma, ma Pasquale II se ne era allontanato. Enrico V vi poté spadroneggiare a suo libito. Pasquale ritornava quando Enrico se ne era allontanato, ma vi moriva poco dopo.

I cardinali radunati sul Palatino designavano Papa col nome di Gelasio II il cardinale Giovanni da Gaeta, già monaco cassinese. Enrico V credé di poterlo spaventare riavvicinandosi a Roma e Gelasio infatti se ne allontanava per Gaeta, facendosi consacrare là mentre i partigiani di Enrico eleggevano, sotto il nome, nientemeno, di Gregorio VIII, Maurizio Bourdin.

Gelasio II, dopo avere scomunicato entrambi, imperatore ed antipapa, si trasferiva in Francia, dove moriva a Cluny nel 1119. Gli succedeva Callisto II, Guido arcivescovo di Vienna. Sebbene il decreto di Niccolò II avesse permesso di scegliere il Papa anche fuori del clero romano, e di procedere alle elezioni anche fuori di Roma, Callisto II non volle riconoscere la validità della sua nomina se non dopo aver chiesto il consenso dei Romani. E il consenso fu unanime.

I turbamenti degli ultimi anni, questa penosa e scandalosa odissea, questo ripetersi di scomuniche, di rappresaglie, di violenze, imponevano un non piú prorogabile sforzo per la pacificazione del mondo cristiano. A tale scopo Callisto II convocava per l'ottobre del 1119 un grande sinodo a Reims. E avendo avvertito che anche Enrico V nutriva sentimenti di pacificazione, gli inviava legati ai quali Enrico mostrò schietto desiderio di una risoluzione del conflitto che non ledesse i suoi diritti sovrani. Uno dei legati, il noto Guglielmo di Champeaux, insisté nel tentativo di mostrare che, rinunciando all'investitura, l'imperatore non rinunciava affatto ai suoi diritti temporali sui possessi vescovili. Ma la distinzione teorica si rivelava ancora nella concreta pratica del governo imperiale germanico di arduissima se non impossibile applicazione. La riconciliazione si palesava ancora prematura e a Reims la convocazione papale si decideva ancora una volta a lanciare l'anatema contro l'Enrico recalcitrante, a dispetto forse delle sue stesse buone intenzioni.

Nel giugno del 1120 Callisto entrava a Roma e prima cosa a cui provvide fu la cattura dell'antipapa Gregorio VIII a Sutri. Le cose volgevano al meglio per lui. La sentenza ecclesiastica di Reims aveva di nuovo suscitato l'insurrezione sassone contro Enrico V, e questi era nuovamente spinto a propositi d'intesa. Lamberto, cardinale di Ostia, era inviato in Germania per favorire la convocazione di un sinodo in cui principi e prelati tedeschi studiassero la stesura di un trattato da confermarsi poi a Roma in Concilio generale.

Il sinodo si radunava a Worms nel settembre del 1122 ed emanava quel concordato che, noto anche col nome di Pacta Callistina, sarebbe stato confermato un anno dopo dal primo Concilio del Laterano nel 1123, col quale veramente si può dire che la diuturna lotta per le investiture fra Papa e imperatore giungeva al suo epilogo.

È in certo modo il primo concordato che si conosca. E come tale ha un'importanza rilevante nella storia dei rapporti fra autorità politica e autorità religiosa. Poiché fra Chiesa ed Impero, per la stessa natura delle cose, per la stessa forza indomabile degli avvenimenti, si erano venute creando e determinando tante ragioni di dissenso e tanta rivalità di attribuzioni; poiché nella pratica si era rivelato cosí malagevole il proposito di ripartire le mansioni spirituali e le mansioni politiche; poiché in pratica la città di Dio e la città del mondo procedevano cosí male di conserva; occorreva assolutamente venire a patti scambievoli, nei quali ciascuna delle due parti cedesse un po' delle sue pretese e delle sue rivendicazioni.

Si sarebbe battagliato poi per secoli per sapere se, in questi vicendevoli accordi, la Chiesa abbandonasse un po' dei suoi invulnerabili diritti spirituali alle esigenze del regime politico che la Chiesa stessa aveva creato dinanzi a sé. D'altro canto, appunto perché creato da una autorità ecclesiastica, l'Impero avrebbe potuto considerare come proprie quelle attribuzioni e quelle concessioni che la Chiesa aveva l'aria di elargire in maniera del tutto graziosa e generosa? Mano mano nel corso dei secoli i concordati sarebbero venuti assumendo sempre piú nitidamente quell'aspetto di atti bilaterali, a cui partecipano insieme entrambe le parti interessate che li sottoscrivono a mezzo dei loro rappresentanti, analogamente alle convenzioni internazionali.

Due teorie si sarebbero contese il terreno nel modo di valutare la portata e il significato delle convenzioni concordatarie. Una prima teoria, detta curialista o dell'indulto, avrebbe considerato i concordati semplicemente come privilegi, come concessioni benevole, fatte dalla Chiesa ai sovrani, e quindi interpretabili unicamente secondo le Istruzioni del Pontefice e revocabili quando ad esso fosse piaciuto. Tale teoria si sarebbe basata sul presupposto della superiorità della Chiesa sullo Stato, per cui la prima non può venire col secondo a patti, i quali per definizione suppongono l'uguaglianza dei contraenti. Ma simile teoria, concepibile in un'età come la medioevale, ancora tutta piena di fervore religioso, e tutta tuffata in un'atmosfera di realtà carismatiche, sarebbe lentamente e automaticamente venuta meno, con il progressivo laicizzarsi della cultura e della moralità pubbliche. Donde la seconda teoria, regalista o legale, che, partendo dal concetto dell'egemonia dello Stato, a norma della quale non solamente la Chiesa non può sovrapporsi a questo, ma neppure può dirsi sua eguale, derivando da esso come potestà sovrana ogni diritto, non avrebbe riconosciuto nei concordati dei veri patti bilaterali, non potendo lo Stato venire a patti con chi gli è sottoposto. Tesi estrema anche questa seconda, di fronte a cui avrebbe preso posto col tempo la terza dottrina, cosiddetta contrattuale, la quale, prescindendo da ogni questione dottrinale sulla preminenza dell'uno o dell'altro ente, e ponendosi unicamente sul terreno della realtà storica, considerando cioè la natura effettiva del rapporto che si mette in atto con un concordato, ne avrebbe dedotto che questo ha puramente e semplicemente valore giuridico di contratto che deve essere rispettato da entrambi i contraenti.

In quell'anno 1122 il concordato di Worms, riferendosi alla questione delle investiture sovrane sulla persona dei vescovi, veniva in realtà a installare e collocare su basi nuove per secoli i rapporti fra magistero ecclesiastico romano e poteri politici. Il documento è di tale importanza che mette conto trascriverne le clausole concernenti la delimitazione rispettiva dei poteri papali e dei poteri imperiali, relativamene allo spiegamento delle funzioni e delle dignità vescovili.

«Io Callisto – il concordato è dettato in forma di due "privilegi" che si scambiano fra loro il Papa e l'imperatore – vescovo servo dei servi di Dio, a te figlio diletto Enrico per grazia di Dio imperatore dei Romani, concedo che le elezioni dei vescovi e degli abbati del regno teutonico, i quali rientrano nella giurisdizione del reame, siano fatte alla tua presenza, senza simonia e senza alcuna violenza. Ché se una qualsiasi discordia nasca tra le parti, tu, su consiglio e verdetto del metropolitano e dei comprovinciali, possa e debba prestare assenso ed aiuto alla parte piú sana. L'eletto poi concedo che riceva da te i regalia per mezzo dello scettro, e che egli compia quel che in base a questi regalia deve a te, a norma di diritto. Quegli poi che sia consacrato nelle altre varie parti dell'Impero riceva da te, nel giro di sei mesi, i regalia stessi per mezzo dello scettro. E a sua volta assolva verso di te quel che è suo dovere, a norma di diritto, eccezione fatta per tutto ciò che si sa appartenere alla Chiesa romana. Di tutto per cui ti rivolgerai a me chiedendo aiuto, io mi renderò cooperatore e garante verso di te, secondo il debito della mia funzione. Ti dò la vera pace e, come la dò a te, la dò a tutti coloro che militeranno nella parte tua, durante il periodo di questa discordia (tempore huius discordiae: le parole di questo inciso vanno tenute ben presenti) e che dalla parte tua sono anche in questo momento».

Il Privilegium Imperatoris fu invece cosí concepito: «Nel nome della santa ed individuata Trinità, io Enrico, per grazia di Dio imperatore augusto dei Romani, per amore della santa Chiesa romana e del signor Papa Callisto, e per la salvezza dell'anima mia, abbandono a Dio e ai santi Apostoli di Dio Pietro e Paolo e alla santa cattolica Chiesa ogni investitura per mezzo dell'anello e del pastorale, e concedo che in tutte le chiese che sono nel mio regno o nel mio Impero, si possa procedere alla canonica elezione e alla libera consacrazione. I possessi e i regalia del beato Pietro, che dal principio di questa discordia (huius discordiae – da segnalare anche qui l'inciso nella sua formula letterale) fino ad oggi, sia al tempo di mio padre sia nel mio tempo, sono stati confiscati e che io ho in possesso, li restituisco tutti alla medesima santa Chiesa romana, e quei che non sono in mio possesso, farò in modo che siano fedelmente restituiti. Anche i possessi di tutte le altre chiese e principi e di tutte le altre personalità, sia ecclesiastiche che laiche, che sono stati sottratti nel corso di questa guerra (possessiones quae in wërra ista amissae sunt: anche qui l'inciso va letteralmente registrato, ché si direbbe che in questo concordato di Worms del 1122 non solo fu stipulato un originale patto giuridico fra Impero e Santa Sede, ma anche una sensibile trasformazione idiomatica si introdusse nel linguaggio latino curiale: laddove il Papa parla di discordia, l'imperatore parla di guerra: una parola che egli prende dal suo idioma teutonico e trascrive in latino, quasi termine di cui il linguaggio curiale e cristiano non abbia l'equivalente: wërra) col consiglio dei principi a norma di giustizia, e che io ancora ho in mano, restituirò e quei che non ho, farò in modo che siano fedelmente restituiti. E dò la vera pace al signor Papa Callisto, alla santa Chiesa romana e a tutti coloro che furono schierati o sono schierati dalla sua parte. E in tutto ciò per cui la santa romana Chiesa avrà chiesto aiuto, aiuto fedelmente darò, e in tutte le controversie per le quali essa mi avrà mossa querimonia, io le renderò la dovuta giustizia».

Cosí si pattuiva fra il Papa e l'imperatore. Non era compiutamente, nella sua integrità, la realizzazione del programma ildebrandino. Ma era senza dubbio il massimo che la politica imperiale potesse concedergli. A sei mesi di distanza dal convegno di Worms, Roma teneva il primo di una serie di sinodi lateranensi che avrebbero in questo movimentato periodo segnato l'ascendente prestigio del Pontificato e della Curia. Il sinodo, considerato come nono ecumenico, adunato nel marzo del 1123, non solamente sanzionava il precedente concordato, ma adottava parecchie decisioni disciplinari di enorme importanza, dirette a stringere sempre piú i vincoli della gerarchia ecclesiastica. Drastiche provvidenze erano sanzionate contro la simonia, i possessi ecclesiastici, sulla ordinazione sacra, sul celibato. Su quest'ultimo punto in particolare il Concilio lateranense adottava un provvedimento destinato a diventare capitale nella prassi del sacerdozio cattolico.

Ecco il testo del settimo canone: «Ai preti, ai diaconi e ai suddiaconi vietiamo perentoriamente la convivenza con concubine e mogli, e la coabitazione con altre donne ad eccezione di quelle che il Concilio niceno permise che coabitassero, per le pratiche necessità, vale a dire madre, sorella, zia, paterna o materna, o vincolate da analogo vincolo di consanguineità, sulla cui onestà e moralità nessun dubbio possa essere sollevato».

Ad un anno di distanza da questo memorando sinodo Callisto moriva. A lui succedeva Onorio II, Lamberto di Ostia. E a pochi mesi di distanza anche Enrico V spirava a Utrecht senza eredi. Con lui si spegneva la dinastia franconia iniziatasi con Corrado II.

La elezione del rex romanorum diede luogo a un contrasto carico di conseguenze tra Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia (Waiblingen, donde Ghibellini) ed Enrico il Nero di Baviera (Welfen, donde Guelfi). L'episcopato teutone, alla cui autorità si direbbe che la vittoria papale nella formidabile lotta per le investiture avesse apportato un aumento cospicuo di dignità e di potere, preferí invece Lotario di Suplimburgo che, memore appunto di questa designazione ecclesiastica, si mostrò eccezionalmente docile ed ossequiente alla Chiesa, cercando senz'altro che la sua nomina ottenesse il riconoscimento ufficiale del Pontificato romano.

Dopo un pacifico Pontificato di un quinquennio, sul quale erano venute a riflettersi le epiche gesta del Pontificato ildebrandino, Onorio moriva. La successione diede luogo ad una contesa che doveva durare aspra ed esiziale per parecchi anni. Una parte infatti del Sacro Collegio eleggeva il cardinale Gregorio, che prendeva il nome di Innocenzo II, mentre l'altra designava Pietro di Pierleone, col nome di Anacleto II, quest'ultimo rappresentante del partito che piú intransigentemente aveva difesa la politica ildebrandina e che probabilmente, non contento delle concessioni fatte da Callisto II all'Impero teutonico, non disdegnava di volgere l'asse della politica pontificia piuttosto a favore dei Normanni dell'Italia meridionale, anziché della potenza d'oltr'Alpe. Ad Innocenzo II vanno infatti le simpatie delle nazioni continentali europee, mentre Anacleto II non ha con sé che i Romani, i Milanesi e Ruggero II, che nel 1 130 era proclamato re di uno Stato comprendente ora, oltre la Puglia e la Calabria, il principato di Capua e il ducato di Napoli.

Solo mercè l'aiuto di Lotario, Innocenzo poteva avere il sopravvento su Anacleto. Solo accompagnato da lui poté occupare la sua sede romana. Anacleto non sopravviveva a questo scacco e dopo un momentaneo tentativo di prolungare lo scisma, Innocenzo II otteneva l'universale riconoscimento. Ne approfittava per tenere a Roma un nuovo sinodo ecumenico, nell'aprile del 1139, il decimo ecumenico, il secondo lateranense. Di nuovo, in questo sinodo furono condannati la simonia e il concubinato. Furono emanati nuovi canoni relativi alle elezioni vescovili e all'impeccabile andamento della vita monastica. Vi furono confermati i decreti anteriori concernenti la tregua di Dio. Fu bandito dall'Italia l'agitatore Arnaldo da Brescia e furono altamente e solennemente proclamati i diritti sovrani del Pontefice.

Ruggero II dal canto suo faceva atto di sottomissione e di vassallaggio ad Innocenzo. Sembrava che la vittoria di questo fosse definitiva. Ed invece a Roma stessa una sollevazione di popolo lo esponeva a seri repentagli ed egli si spegneva il 24 settembre 1143, mentre ancora la rivolta romana continuava.

Lo spirito della libertà comunale che, attraverso le lotte tra Pontificato ed Impero, si era venuto rigogliosamente sviluppando, non mancava di investire la stessa Città Santa. Alla morte di Innocenzo, mentre i cardinali eleggevano Celestino, e alla sua morte, sopravvenuta poco appresso, Lucio II, l'agitatore Arnaldo rientrava a Roma e sotto la sua guida i Romani apprestavano una nuova organizzazione cittadina, un Senato cioè di cinquantasei membri e un patrizio, chiedendo al Papa la rinuncia al suo potere statale. Ma il Pontificato non per nulla era venuto a patti sulle questioni generali con l'Impero. Ora chiese ad esso il soccorso.

Ma il soccorso di Corrado III di Hohenstaufen tardava e allora il Papa Lucio II iniziava dal canto suo l'assalto del Campidoglio, in cui il popolo si era asserragliato, ma era respinto, ferito in malo modo e della ferita moriva nel febbraio del 1145.

Venne nominato al suo posto dai cardinali un discepolo di Bernardo di Chiaravalle, Bernardo di Pisa, che prese il nome di Eugenio III. Ma non poté consacrarsi a Roma. Si faceva consacrare a Farfa. La sua fuga naturalmente non faceva che rinfocolare l'audacia dei Romani, i quali abolivano la dignità di prefetto e negavano al Pontefice qualunque ingerenza nel governo della città. Da Viterbo Eugenio lanciava l'anatema contro il patrizio Giordano, poi, con truppe fornitegli dai Tivolesi, riusciva a penetrare a Roma, stipulando con i Romani un trattato con cui i senatori riconoscevano la propria autorità dall'autorità pontificale. Fu effimera tregua. Doveva di nuovo, in séguito a torbidi, allontanarsi dalla città e trasferirsi in Francia. Nel novembre del 1140, sostenuto dalle truppe di Ruggero, poteva rientrare nella sua sede, stipulando un nuovo patto che non doveva essere per lui straordinariamente favorevole, se non gli assicurava l'espulsione di Arnaldo. Di nuovo il Pontefice era ricacciato poco dopo da Roma e doveva ripiegare sul nuovo sovrano teutonico, che fu questa volta Federico Barbarossa. Con questi stipulava a Costanza un trattato, in virtú del quale Federico si impegnava a non fare mai tregua né con i Romani né col re di Sicilia, senza il consenso pontificio, promettendo di spiegare tutta la sua potenza per ridurre Roma nella soggezione del Pontefice. Eugenio si impegnava dal canto suo a intervenire canonicamente qualora la corona germanica si trovasse in pericolo. Pochi mesi dopo Eugenio moriva e gli succedeva Corrado di Sabina, col nome di Anastasio IV, che in tanto poté mantenersi pacificamente a Roma in quanto si disinteressò completamente del suo governo civile. Rinnovava frattanto anch'egli le sue invocazioni a Federico: e Federico nell'ottobre del 1154 compariva nell'Alta Italia.

Nel medesimo anno, a due mesi di distanza, Anastasio IV moriva ed era designato a succedergli il cardinale vescovo di Albano, Nicola Breakspeare, inglese di nascita, col nome di Adriano IV, difensore acerrimo delle prerogative pontificie. Poiché al principio del 1155, in nuovi torbidi romani, un cardinale era stato ferito dalla folla, il nuovo Papa gettava un interdetto collettivo sulla città, creando cosí per la prima volta nella storia una situazione eccezionale: la sede del Pontificato, messa fuori dalla regolarità delle funzioni sacramentali.

La resipiscenza non poteva mancare. All'appressarsi della Pasqua il popolo implorò il perdono del Pontefice, e questo perdono non fu concesso se non a prezzo di una cacciata definitiva dalla città dell'agitatore bresciano, Arnaldo. Frattanto Federico si era avvicinato allo Stato pontificio. Doveva nutrire dei singolari propositi. Il concordato di Worms del 1122, se poteva essere considerato dal punto di vista giuridico, come tutti i concordati, un compromesso fra Papato ed Impero nel quale ciascuna delle due parti aveva ceduto un po' delle sue rivendicazioni e delle sue pretese, in realtà aveva costituito su assise anche piú solide l'autorità pontificale. Non è detto che con questo l'Impero avesse rinunciato alle sue aspirazioni. Questo Impero teutonico, passando da dinastia a dinastia e da casa a casa, manteneva intatte, si potrebbe dire, le sue concezioni assolutistiche e le sue velleità illimitate. L'Impero non concepiva che i grandi dello Stato, anche se rivestiti di infule sacerdotali, potessero sfuggire in qualsiasi modo alla sua designazione e al suo controllo. Di fronte alla irremovibile intransigenza dei Papi, quale si era venuta delineando da Leone IX in poi, gli imperatori germanici avevano dovuto, apparentemente almeno, capitolare, rinunciando alle loro esigenze piú spinte. Ma quel che avevano a malincuore ceduto, era sempre in fondo ai loro propositi e nel cuore del loro programma. Sarebbe stato necessario ormai battere vie traverse, per giungere a riottenere, con l'insidia e con l'avvolgimento, quel che era stato abbandonato per via, attraverso le stipulazioni concordatarie.

L'Impero aveva evidentemente avvertito che il dilatarsi e il rafforzarsi dell'autorità curiale romana portavano con sé degli oneri economici e finanziari, su cui in qualche modo l'imperatore stesso avrebbe potuto puntare, per esercitare, di fronte ai Papi, una specie di azione sollecitatrice e ricattatrice. D'altro canto, se la Curia romana, al cospetto dell'autorità imperiale, che pure era creata e spiritualmente salvaguardata da lei, in tanto poteva erigersi in una posizione di irriducibile resistenza, in quanto aveva nella potenza normanna del Mezzogiorno d'Italia un punto di riferimento e una leva atta ad azioni di rivalsa e di rappresaglia, l'Impero, per rendersi invulnerabile, non avrebbe dovuto fare altro che sopprimere in un modo qualsiasi nel Mezzogiorno normanno questa potenza rivale ed insidiatrice.

Del resto, un'unità continentale europea, quale era quella rappresentata dalla costituzione imperiale, per mantenersi salda e per toccare le sue logiche conseguenze, non doveva fatalmente pencolare verso quel Mediterraneo che aveva costituito altra volta il vero fulcro dell'unità vigilata da Roma? Federico di Hohenstaufen doveva avere già concepito nel suo spirito il proposito della calata nel Mezzogiorno italiano, allorché alle porte di Roma veniva a chiedere la coronazione imperiale. Aveva lasciato alle spalle nell'Italia Settentrionale una condizione di cose lacrimevole. Appena sceso in Italia nell'ottobre del 1154, aveva preso a Pavia la corona di re. Ma aveva in pari tempo avvertito l'ostilità sorda e fiera dei Comuni lombardi. Per dar prova della sua dura e inclemente potenza, aveva esercitato rappresaglie crudeli contro Rosate e Gagliate, Asti, Chieri, Tortona. La fama di queste sue crudeltà doveva averlo preceduto.

Cardinali furono mandati incontro a lui da Adriano IV, per incontrarlo con decoro e per scrutarne l'anima e le intenzioni. L'accorto imperatore doveva aver fatto anche molto assegnamento sul fatto che le turbolenze romane, alimentate da Arnaldo da Brescia, erano una spina pungentissima nel cuore dell'autorità curiale, ed infatti le prime cose che i rappresentanti di Adriano chiesero al sopravveniente imperatore furono la cattura di Arnaldo e la sua eliminazione dalla scena politica romana. Su questo punto Federico non esitò ad accontentare la controparte. Incontratosi con il Pontefice a Nepi in un atteggiamento che, se era fondamentalmente di scambievole diffidenza, era però espresso da un insieme di appariscenti convenevoli, Federico non esitò a piegarsi di fronte al Papa in atteggiamento di stratore, a sostenere cioè la staffa al Pontefice saliente in sella, pur di averne in cambio la sospirata corona imperiale.

Arnaldo da Brescia fu catturato e arso. Federico fu coronato il 17 giugno 1155. Ma un'immediata sollevazione di romani lo costrinse a rivalicare le Alpi. Era stata una significativa avvisaglia. Si direbbe che l'imperatore volesse di nuovo spingere il Pontefice nelle braccia dei Normanni, salvo poi a ripresentarsi in atteggiamento di salvatore quando le inevitabili controversie per l'amministrazione religiosa nel Mezzogiorno italiano avessero di nuovo rabbuiato i rapporti fra Roma e il re Guglielmo.

Frattanto Adriano stipulava con Guglielmo un patto concedendo al regno normanno cospicue autonomie religiose, ottenendone in compenso professione di vassallaggio e un tributo annuo.

Quando nel 1157 Federico tenne a Besanzone la sua Dieta, il cancelliere della Chiesa Rolando Bandinelli, che doveva essere poi Alessandro III, si presentò con una lettera papale nella quale si levavano le piú fiere proteste per la indifferenza dell'imperatore, ostentata al cospetto di una violenta aggressione perpetrata sulla persona di un arcivescovo. Federico fece mostra di irritarsi per la riprensione pontificia e rispose con un pronunciamento in cui era rivendicata l'origine direttamente ed esclusivamente soprannaturale della sua dignità regale ed imperiale, con un rinnovato rimando a quella duplicità delle spade dichiarata necessaria da Cristo nell'ora della sua agonia, a cui avevano fatto ricorso i precedenti teorici della autorità dell'imperatore.

Non era che un accenno alla ripresa della lotta. Nel 1158 Federico scendeva di nuovo in Italia. Si arrestò dapprima a debellare l'indomita resistenza milanese. Sopraffatta il 7 settembre, Milano dovette espiare la sua indisciplina con una cospicua multa, con numerosi ostaggi, giurando, per soprappiú, la propria fedeltà, e sottoponendo all'approvazione imperiale la elezione dei suoi consoli.

Nel novembre Federico era a Roncaglia, la località emiliana a nove chilometri da Piacenza, situata sulla sinistra del Nure, poco a monte della confluenza col Po.

Lí, con l'intervento di un ragguardevole numero di vescovi e di signori tedeschi e di grandi feudatari italiani e di consoli e giudici in rappresentanza dei Comuni, mercè la cooperazione dei dottori bolognesi Bulgaro, Martino, Jacopo e Ugo, si addivenne alla compilazione delle famose costituzioni. In queste furono rivendicate alla corona imperiale quelle piú cospicue prerogative in materia giurisdizionale e fiscale, a cui nel concordato di Worms l'Impero aveva rinunciato. Fu inoltre sanzionato il principio che i magistrati anche comunali dovessero ricevere la investitura dall'imperatore e a lui prestare giuramento. Anche i rappresentanti comunali sottoscrissero la convenzione. In fondo, anche i Comuni riconoscevano in teoria l'Impero come unica fonte di diritto pubblico. Probabilmente ritennero che l'imperatore si sarebbe accontentato degli introiti fiscali. Dalla parte opposta l'imperatore veniva in qualche modo a riconoscere e a sanzionare le costituzioni cittadine, sottoponendo alla propria nomina soltanto le loro rispettive magistrature. Evidentemente c'era qualcosa di ambiguo nella stesura della mutua convenzione, perché ciascuna delle due parti si proponeva di interpretarla e di utilizzarla ai propri fini secondo le proprie concezioni.

Forte ad ogni modo di questa dichiarazione giuridica stipulata e sottoscritta a Roncaglia, Federico scendeva verso sud, impadronendosi dei beni della contessa Matilde e cercando di far sentire sempre piú sull'episcopato il peso dei vincoli di vassallaggio.

Adriano IV avvertí la minaccia incombente e si sentí anche piú spinto verso l'alleanza con i Comuni lombardi. Ma moriva nel settembre del 1159.

A pochi giorni di distanza, nella elezione del succes­sore, scoppiava lo scisma. La maggioranza dei cardinali eleggeva Rolando, che prendeva il nome di Alessandro III. La minoranza, fautrice di Federico, acclamava in un tumulto il cardinale Ottaviano, che prendeva il nome di Vittore IV. Fu impossibile procedere ad una qualsiasi cerimonia religiosa nella città in subbuglio. E Alessandro III si faceva consacrare a Ninfa, Vittore IV nella vecchia Badia imperiale di Farfa.

Dandosi atteggiamenti di paciere, Federico invitava i due contendenti ad un sinodo pavese per il 1160. Alessandro, forte del suo diritto e ritenendo, non solamente superfluo, ma impertinente qualsiasi riconoscimento imperiale, si astenne dal parteciparvi. La cinquantina dei vescovi presenti lo condannava, riconoscendo con una certa ostentata solennità il suo competitore Vittore. E allora di rimando, Alessandro da Anagni comunicava all'imperatore che scioglieva i suoi vassalli dal giuramento di fedeltà. Aderirono a lui apertamente il re di Sicilia, i sovrani di Francia e d'Inghilterra, di Spagna, di Norvegia e di Ungheria. Un numeroso sinodo di Tolosa dava alla validità della sua elezione un riconoscimento pubblico di grande rilievo.

Federico non sembrò darsene per inteso. Distrutta la città di Crema, si rivolgeva contro Milano che sostenne per tre anni uno spossante assedio, arrendendosi per fame solo nella primavera del 1163. Sono rimaste memorande le durissime condizioni della resa. I cittadini dovettero disperdersi in borghi lontani parecchie miglia dall'amata città, le cui mura e le cui torri furono abbattute e i cui quartieri furono abbandonati al saccheggio e alla distruzione.

A Vittore IV, spentosi nell'aprile del 1164, Federico sostituiva come nuovo Papa un'altra sua creatura, Guido di Crema, che prese il nome di Pasquale III e a cui impose la canonizzazione di Carlo Magno, del quale aveva voluto si esumassero le ossa ad Aquisgrana.

Esule dall'Italia, Alessandro III aveva da lungi potuto riallacciare i suoi rapporti con Roma che, tenacemente refrattaria alle lusinghe imperiali anche nella sua intolleranza del governo politico curiale, lo rivolle fra le sue mura. Federico scese per ricacciarnelo e Alessandro dovette andare ramingando a cercare ospitalità verso i Normanni, mentre Federico installava nella cattedra di Pietro il Papa della sua elezione.

Una furiosa epidemia malarica lo costringeva però a riprendere la via del ritorno.

Non fu l'ultimo elemento delle rovesciate situazioni. Già nella primavera di quell'anno 1167 i Comuni dell'Alta Italia avevano giurato, nel convento benedettino di Pontida, un patto di alleanza, in virtú del quale Milano doveva essere ricostruita e i confederati avrebbero concordemente sostenuto qualsiasi lotta per il riconoscimento delle loro libertà. Alessandro III fu proclamato protettore della lega, e proprio dal suo nome fu chiamata la nuova città costruita fra la Trebbia e il Tanaro. L'episcopato germanico anch'esso cominciava a sentire la insostenibilità dello scisma e cominciava a mostrare segni di insofferenza al cospetto dell'imperatore. La insubordinazione di Enrico il Leone, accintosi ad una fortunata impresa di conquista fra le popolazioni danesi e slave, rese piú che mai precaria la situazione imperiale di Federico. Questi però non mostrò di preoccuparsene. Nel 1174 scese di nuovo in Italia e assediò Alessandria. Invano. La città resistette validamente, preparando con la sua fiera resistenza la giornata campale di Legnano dove, il 29 maggio 1176, l'esercito imperiale subí una clamorosa e definitiva sconfitta.

Fu anche un trionfo per il Pontificato, che negli anni precedenti aveva dovuto subire altre significative lotte con case regali come quella di Enrico II d'Inghilterra, contro le cui pretese Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, aveva energicamente rivendicato l'autonomia ecclesiastica. La sconfitta di Legnano consigliava a Federico propositi di pacificazione. Ad un anno di distanza dalla giornata fortunosa, Papa e imperatore si incontravano a Venezia e stipulavano una pace mercè cui, mentre l'imperatore rinunciava allo scisma e riconosceva Alessandro come legittimo Pontefice, obbligandosi in pari tempo a concedere ai Lombardi una tregua di sei anni in vista di un accordo definitivo, il Papa assolveva l'imperatore e ne riconosceva la dignità.

Dopo di che Alessandro poteva, nel marzo del 1179, tenere a Roma, al Laterano, un Concilio ecumenico, undecimo della serie, terio fra i convocati nella vecchia residenza papale romana. Le decisioni prese in quel sinodo confermarono in sostanza quelle dei sinodi precedenti contro la simonia, contro il concubinato, sulla tregua di Dio, fissando però ex novo il numero dei suffragi cardinalizi necessari per le elezioni papali ai due terzi e definendo come età minima necessaria per la validità della dignità vescovile l'età di trent'anni.

Le conseguenze della battaglia di Legnano furono veramente incalcolabili. Fu assicurata una volta per sempre la libertà dell'Italia comunale lombarda. Furono smantellate, almeno per un certo lasso di tempo, le velleità aggressive e accaparratrici dell'Impero. Anche il regno normanno sembrò dovesse salvarsi dalla minaccia incombente di un'invasione teutonica. Temendo del resto le alleanze matrimoniali altrettanto che le intese politiche e militari, Alessandro III, paventando evidentemente in cuor suo una unione di regno siculo ed Impero che avrebbe rappresentàto per la potenza pontificia romana un rischio incommensurabile, aveva favorito fin da prima della vittoria di Legnano il matrimonio di Guglielmo di Sicilia con Giovanna, figlia di Enrico II d'Inghilterra. E il matrimonio era stato celebrato con gran pompa il 13 febbraio 1177, nella cappella palatina di Palermo, alla presenza di un cospicuo stuolo di vescovi e di un contingente numeroso di feudatari.

Sembrava che l'autorità pontificale avesse guadagnato, attraverso le complicate vicende politico-diplomatiche degli ultimi anni, una posizione incrollabile. Ma Federico Barbarossa non aveva ceduto che in apparenza. Vincitore di Enrico il Leone in Germania, tornava al suo sogno di un Impero universale. Alla morte di Alessandro III cercò di risolvere, mercè trattative col suo successore Lucio III, la controversia per i beni della contessa Matilde e quasi per accaparrarsene la benevolenza formulò un progetto di finanziamento della Chiesa romana da parte dell'Impero, progetto destinato a risolvere quelle assillanti preoccupazioni finanziarie che l'ampiezza del governo ecclesiastico aveva ormai cominciato a far sentire cosí acutamente alla Curia. Nel 1183, scaduto il periodo della tregua, una pace veniva sottoscritta a Costanza fra i Comuni lombardi e l'imperatore. Federico riconosceva ormai esplicitamente le libertà comunali, postulando per sé soltanto un tributo e il giuramento di fedeltà dei magistrati.

Ma la grossa rivincita Federico se la prese nel Mezzogiorno d'Italia. Poiché il matrimonio di Guglielmo II con Giovanna di Inghilterra si era dimostrato sterile, c'era qualcosa da complottare e da preparare laggiú. Unica erede del regno si presentava Costanza, figlia di Ruggero II e zia di Guglielmo. Un matrimonio non sarebbe stato dunque ancora una possibile via di accordo col Mezzogiorno italiano, e quindi un varco aperto su quella strategica eredità che avrebbe dato effettivamente all'Impero teutonico i caratteri di una rinnovata unità mediterraneo-continentale, sotto l'egida dell'Impero? Federico, in un momento che non possiamo precisare, fece richiedere la mano di Costanza per suo figlio Enrico. La proposta fu accettata senza esitazione, e il matrimonio fu celebrato a Milano nel 1186. Le conseguenze di questo matrimonio furono di un rilievo fatale.

Quando nel 1187 Gerusalemme cadeva in mano di Saladino, l'interesse riaccesosi per la rivendicazione crociata sembrò far passare in seconda linea ogni altra preoccupazione. Anche Federico sentí l'opportunità di partecipare ad una riconquista destinata a tutelare sul fianco del Vicino Oriente il grande impero sognato. Però in viaggio per la Terra Santa moriva in Cilicia, prendendo un bagno nel Salef. Era il 10 giugno 1190.

Sette mesi prima Guglielmo II si era spento a Palermo. Costanza apparve l'unica erede legittima della corona normanna e con lei Enrico VI, il figlio di Federico Barbarossa. Già i nobili normanni erano stati in anticipo costretti da Guglielmo a riconoscere, a Troia, i suoi diritti ereditari, e quindi l'eventuale trapasso del regno siculo nelle mani della corona teutonica. Cominciava cosí nel Mezzogiorno d'Italia una tragedia di cui Guglielmo aveva tessuto inconsapevolmente le fila.

Che i sentimenti della popolazione non fossero affatto favorevoli agli Svevi, cui, per diritto di contratto nuziale, sanzionato con un giuramento di fedeltà estorto in anticipo, veniva ad essere devoluto ora il regno normanno, traspare da copiose testimonianze. Non si potrebbe dire però che l'attaccamento alla dinastia dei Normanni fosse ugualmente radicato in tutte le parti del regno. Fortissimo in Sicilia, abbastanza profondo e tenace in Calabria negli strati borghesi e popolari, era molto superficiale nelle città pugliesi, animate da vivo sentimento di autonomia comunale. Ma d'altro canto gli avversari degli Svevi non erano concordi. Alcuni designarono alla successione Ruggero di Andria, uno dei negoziatori per il regno siculo alla pace di Venezia. Altri invece proposero Tancredi, conte di Lecce, grande conestabile e giustiziere della Puglia e della Terra di Lavoro, figlio bastardo di Ruggero II. Per quest'ultimo si schierò anche il vice-cancelliere Matteo di Aiello. Per cui l'arcivescovo Gualtiero di Palermo si trovò costretto a consacrare il nuovo re, probabilmente già nel primissimo mese del 1190.

Enrico si rivelò cosí impaziente di cingere la corona imperiale e di contrastare a Tancredi quella che riteneva sua legittima eredità siciliana, che si piegò ad un rapido accordo con Enrico il Leone duca di Baviera, sempre irrequieto e indocile in Germania, per affrettarsi a scendere giú, oltre le Alpi. E il 15 aprile 1191 egli era incoronato a Roma imperatore da Celestino III, comprando l'acquiescenza dei Romani alla propria incoronazione, mercè l'abbandono di Tuscolo alla loro rappresaglia.

Tancredi si trovò cosí di fronte ad una situazione complicatissima. Proclamato re contro un potente rivale, investito di un diritto ereditario, dovette reprimere una vasta sollevazione di vassalli. Avuta ragione della loro ostilità armata, si trovò dinanzi gli imbarazzi creatigli dal passaggio dei principi crociati. Filippo Augusto di Francia ed Enrico II d'Inghilterra avevano concordemente scelto, per raggiungere la Terra Santa, la via del mare. Enrico II era morto prima di intraprendere il viaggio, e suo figlio, Riccardo Cuor di Leone, seguí l'itinerario del padre. I due re si sarebbero dovuti incontrare a Messina. Mentre Riccardo sbarcava nei dintorni di Napoli, Filippo Augusto toccava direttamente il porto dello stretto. Le due flotte rimasero ancorate colà per un semestre che fu fatale cosí alla efficienza delle truppe come alla tranquillità dell'ospite. Per di piú, Riccardo Cuor di Leone accampava pretese sul trono siculo, in quanto rivendicava il dominio totale di sua sorella Giovanna, vedova di Guglielmo II, e alcuni legati del re defunto.

Minacciato da tante parti, Tancredi dovette dar prova di prudenza e di moderazione. Emise certamente un sospiro di sollievo quando, ai primi tepori di primavera del 1191, i Crociati salparono da Messina. Ma, partiti questi, si avvicinava Enrico che, coronato da Celestino III, violava alla fine di aprile il confine normanno.

Tancredi disponeva i suoi piani difensivi su capisaldi che dovevano essere Napoli a ponente, il gruppo Taranto e Lecce a levante. Costretto a diffidare dei suoi vassalli, parecchi dei quali gli rifiutavano perfino il servizio militare, Tancredi ripiegava appoggiandosi sulla borghesia cittadina. Le libertà comunali nascevano nel Mezzogiorno d'Italia attraverso il conflitto di due regalità rivali.

Non c'era da farsi illusioni sulla fedeltà dei grandi cenobi, preoccupati innanzi tutto delle loro fortune materiali. Anche là dove, come a Montecassino, si trovavano grandi dignitari dichiarati fautori di Tancredi, c'era da prevedere che nell'ora del pericolo si sarebbe trovato il modo di sottrarsi ad una fedeltà pericolosa. Neppure le città mantennero una linea di condotta coerente.

Mentre l'esercito imperiale si arrestava dinanzi a Napoli, dove erano concentrate le truppe di Tancredi, Salerno ospitava Costanza nella residenza stessa dei re normanni. Ma la resistenza degli assediati fu cosí tenace e cosí bene aiutata dalla via del mare, che si poté attendere il sopravvenire della stagione calda, la quale decimò lo esercito alemanno e costrinse Enrico VI, colpito anche lui dal male, a togliere l'assedio e a tornarsene in Germania.

Era naturale che lo scacco subito cosí dall'imperatore riportasse in auge il partito di Tancredi. Anche il Papa Celestino III si mostrò incline a volgere l'asse delle sue simpatie interessate verso l'astro brillante del re normanno. Si costituí anzi intermediario fra Enrico e Tancredi, mandando all'imperatore un suo messo, l'abbate cistercense di Casamari, Gerardo, per indurlo a trattative di pace. Sembra, da alcuni accenni di Pietro da Eboli, che con l'accordo di Gravina il Papa si fosse già fatto dare da Tancredi un pingue compenso per questa sua simpatia tardiva e per queste sue funzioni di mediatore. Gli imbarazzi finanziari della Santa Sede dovevano essere in quel momento ben gravi, ed Enrico VI al momento opportuno ne avrebbe fatto suo prò.

Abusando della sua vittoria, Tancredi, d'accordo con i Salernitani, trasformò in cattura quella ospitalità che Costanza aveva trovato a Salerno. L'imperatrice fu cosí condotta prigioniera alla città reale della sua famiglia, a Palermo. La sua presenza colà sembrò tuttavia ridestare le sopite simpatie per la sua casa e Tancredi reputò piú prudente rimandarla a Napoli, chiudendola in quel castello di San Salvatore che ancor oggi sopravvive col nome di Castel dell'Ovo. Enrico VI se ne sarebbe ricordato al momento opportuno.

La morte troncava prematuramente nel febbraio del 1194 l'aspro sforzo di Tancredi per il consolidamento del suo regno. Il figlio suo Ruggero lo aveva preceduto di poco nel sepolcro, per cui la reggenza del minorenne Guglielmo III fu assunta dalla regina vedova Sibilla. Tutto, al di qua e al di là delle Alpi, sembrava volgere a favore dell'imperatore che da tre anni andava accarezzando il sogno della sua vendetta. Ammaestrato dal suo precedente insuccesso, Enrico VI volle questa volta assicurarsi il soccorso e la tutela da parte del mare. Condusse negoziati in questo senso durante la traversata dell'Italia settentrionale nella primavera del 1194. E quando, ai primi di settembre, Enrico comparve col grosso delle truppe tedesche dinanzi alle truppe di Napoli, le due flotte, la pisana e la genovese, stazionavano, per lui, da una settimana nel golfo. Questa volta la campagna, lungi dall'incontrare considerevoli resistenze, ebbe l'andatura di una marcia trionfale. Salerno, rea di avere tre anni innanzi tenuta Costanza prigioniera, fu ferocemente saccheggiata e quasi del tutto distrutta. Non ci volle di piú perché tutte le città del Mezzogiorno capitolassero a discrezione. Ad ottobre Enrico era a Messina e il 20 entrava solennemente a Palermo.

Si trattava ora di ottenere la sicura tutela e simpatia pontificale. Enrico era stato ammaestrato dai rapporti fra Celestino III e Tancredi sul modo piú sicuro per tenere avvinta a sé la Curia romana. Il 18 dicembre 1196 egli spiccava da Capua a Celestino III un misterioso messaggio, in cui, dopo avere accennato vagamente agli argomenti formanti il tema di conversazione con i due legati papali, il cardinale Pietro Ostiense e Cencio Camerario, che erano stati invitati al suo campo durante una lunga permanenza a Tivoli; dopo avere detto come egli avesse capito quel che il Papa desiderava da lui, perché la buona relazione reciproca ricevesse sanzione e corroboramento; protestava che le proposte da lui fatte «rappresentavano il massimo che da parte imperiale fosse stato mai profferto alla Curia». Enrico soggiungeva di aver conosciuto il rifiuto pontificio opposto a tali profferte, ma concludeva di avere accolto la replica negativa con animo tranquillo, fiducioso che, essendo egli sempre disposto a trattare su quelle basi, il Pontefice avrebbe dal canto suo ritirato il suo ripudio e accettato di concludere.

In che cosa erano propriamente consistite quelle proposte e perché mai il Pontefice le aveva rifiutate? C'è qui un enigma di capitale importanza per lo sviluppo della politica pontificia e della finanza curiale in questo tramonto del secolo duodecimo cosí carico di avvenire. Ma l'enigma può essere risolto mercè la testimonianza di uno scrittore: Giraldo Cambrense. Si tratta, è vero, di uno scrittore malfamato e di discussa veridicità. Ma in questo caso la sua informazione ha il controllo della diretta dimestichezza con la corte pontificia e ha l'indiscutibile suffragio del posteriore contegno della Curia. Egli ci dice dunque che, bramoso di venire in soccorso dell'indigenza della Sede romana, ponendola in grado di risparmiarsi quelle manovre affaristiche che la esponevano alla taccia di ingordigia, Enrico VI, non potendo e non volendo restituire quei beni matildini per la cui rivendicazione la Curia si era battuta per decenni tanto strenuamente, proponeva una allettante via di uscita. L'imperatore cioè prometteva di garantire alla Sede romana un appannaggio abbondantissimo, costringendo ogni chiesa metropolitana dell'Impero a devolvere a Roma le rendite di una sua prebenda. Secondo Giraldo Cambrense, Enrico VI sarebbe andato anche piú in là, e avrebbe proposto di convocare anche un Concilio in cui il provvedimento da lui escogitato fosse solennemente esteso a tutti i territori cattolici, sicché Roma avrebbe avuto garantite per sempre le rendite necessarie e sufficienti alle spese di tutto il complesso funzionamento della sua burocrazia.

Non si può dire che con questo grandioso piano di finanziamento papale Enrico VI non avesse, con molta accortezza, individuato il punto debole dell'organizzazione curiale romana. Giunto nell'undecimo secolo alla concreta attuazione delle sue virtuali aspirazioni al governo universale della Chiesa, il Pontificato aveva immediatamente avvertito gli oneri finanziari che un tale programma comportava. Nel periodo di Gregorio VII si era cominciato a cercare di superare questo imbarazzante gravame finanziario imprimendo un carattere ecumenico ed internazionale al reclutamento del personale di Curia. Ma la misura si era rivelata e si rivelava impari allo scopo. La potenza ecclesiastica e politica del Papato si veniva sviluppando con un ritmo molto piú accelerato di quello che accompagnava l'organizzazione delle sue risorse finanziarie. Per cui si comprendono le ragioni pratiche che inducevano la Santa Sede a difendere con tanta ostinazione, dinanzi all'Impero, il proprio diritto all'eredità matildina e in generale ai propri possessi temporali. Alle esigenze gravose dell'amministrazione ecumenica curiale si aggiungevano le avidità insaziabili del popolo romano, che solo le elargizioni avevano virtú di tenere fedele. Il biografo di Alessandro III nel Liber Pontificalis aveva già lasciato cadere dalla sua penna un verdetto tremendo: «Se Roma trovasse il compratore, si rivelerebbe immediatamente venale quale è».

Naturalmente non erano quelle additate dalla ingenua credulità di Giraldo le ragioni che suggerivano ad Enrico un provvedimento cosí grandioso come quello che egli proponeva di adottare per assicurare alla Curia una rendita annuale imponente, piovuta da tutte le sedi metropolitane dell'immenso Impero.

L'imperatore e re di Sicilia aveva interessi ben concreti e immediati da tutelare, mercè la solidale assistenza pontificia. Egli aveva cioè da scardinare e rovesciare la vecchia politica papale, che era stata sempre contraria al congiungimento della corona sicula con quella imperiale; e aveva da garantirsi la simpatia di Roma per la sua politica espansionistica, che non si arrestava piú ormai neppure al regno siculo e lanciava il suo volo verso il Vicino Oriente. Doveva soprattutto farsi perdonare le atrocità senza nome con le quali egli aveva cercato, nel Mezzogiorno d'Italia, di consolidare il trono siculo, ereditato dai Normanni e acquisito a prezzo di tanti sforzi bellici e di tante combinazioni diplomatiche.

Ma proprio le medesime ragioni che potevano spingere l'imperatore di casa sveva a lusingare la Curia con proposte solleticanti di vistosi guadagni pecuniari, dovevano spingere Celestino III alla diffidenza e alla cautela. Già altra volta la proposta di Federico Barbarossa, il quale aveva offerto alla Sede romana una vistosa rendita contro la rinuncia formale alla eredità matildina, aveva sortito un reciso insuccesso. Era un precedente istruttivo. Celestino III dovette, sebbene a malincuore, declinare l'offerta imperiale. La proposta di Enrico VI faceva passare il finanziamento della Curia per la trafila delle provvidenze e delle decisioni imperiali. Roma non avrebbe potuto accettarla, senza una diminuzione di dignità e senza un rischio: prebende ed indennità non possono venire alla Santa Sede dalle autorità politiche laiche. Questo il principio che ha consigliato a Celestino III il rifiuto. Erano gli ultimi barlumi di uno scrupolo morale che le circostanze imperiose avrebbero costretto a sorpassare. I problemi economici e finanziari, gli imbarazzi materiali della Curia non sono gli argomenti destinati a rappresentare una parte predominante nella politica e nella disciplina ecumenica del successore di Celestino III, il grande Papa medioevale Lotario dei conti di Segni, innalzato al soglio pontificio nel gennaio del 1198 col nome di Innocenzo III?

Quando questi era proclamato Papa, Enrico VI era morto già da quattro mesi, a soli 32 anni, lasciando al figlioletto Federico, che aveva solo tre anni, la triste eredità di una memoria esecrata, di un trono malsicuro, di innumerevoli nemici. Questa circostanza doveva offrire larga messe di possibilità alla politica accorta e lungimirante del nuovo Pontefice. I problemi della diplomazia pontificia e dei rapporti fra la suprema autorità religiosa cristiana e il fascio delle forze internazionali che stringevano la vita dei vari Stati, si presentavano al regime curiale in una forma nel medesimo tempo complessa e schematica.

Il problema dei rapporti fra Chiesa ed Impero era venuto rivelando adagio adagio, attraverso le competizioni dei secoli XI e XII, il suo carattere fondamentale. Era il problema stesso che il cristianesimo si portava con sé dal giorno in cui, divenuto religione ecumenica, si era accinto alla costituzione di forze internazionali, in armonia con i propri presupposti e le proprie idealità. La spiritualità può essere una forza politica o la forza politica è per se stessa una forza spirituale? I due domini, quello della politica empirica e quello della disciplina spirituale, in quale relazione scambievole debbono essere disposti? E qual è il principio gerarchico che può vicendevolmente associarli?

La Chiesa aveva consacrato il rinato Impero come una forza da tenere a propria disposizione per la tutela delle proprie finalità spirituali e per la garanzia della propria pratica efficienza nel mondo. Ma l'Impero a sua volta, di fronte alla Chiesa, che lo aveva investito della sua consacrazione, aveva sentito sorgere in sé la consapevolezza di una funzione indeclinabile, conferitagli, si direbbe, per virtú di una diretta investitura divina. E poiché esso possedeva la forza, si era venuto accostumando all'idea che il suo potere fosse il suo libito e il suo diritto fosse la sua virtú operativa.

D'altro canto, nella stessa universalità della duplice nozione, della nozione di Chiesa e della nozione di Stato imperiale, c'era insito un pericolo per l'una e per l'altra autorità. Come l'Impero aveva generato e alimentato il feudalesimo, si direbbe che la universalità dei due poteri funzionalmente associati dovesse generare un'applicazione del principio feudale allo stesso configurarsi dei singoli Stati nazionali.

Federico I imperatore sembra quasi considerare i so­vrani stranieri come «sovrani provinciali» a sé soggetti, e d'altro canto nella mentalità della Curia ogni potere regale in Europa assume l'aspetto di un potere conferito dalla Sede romana in virtú di una investitura feudale. A questo si aggiungano le esigenze finanziarie sempre piú acute ed assillanti del regime curiale, e si avrà un quadro significativo della temperie morale e politica su cui viene ad esercitarsi, all'alba del secolo XIII, la politica di un Papa dalle larghissime ambizioni, com'è Papa Innocenzo III.

Con la creazione rinnovata della suprema autorità imperiale, tutte le difficoltà possibili nella politica della Santa Sede avevano trovato il loro comune denominatore. Tutte cioè erano venute automaticamente a riferirsi e a subordinarsi alla pregiudiziale condizione della assegnazione e del riconoscimento di chi dovesse rivestire tale autorità.

La scomparsa precoce e repentina di Enrico VI diede immediatamente la sensazione del gravissimo repentaglio in cui venivano ad esser gettate le sorti della Germania imperiale. I dissensi mai sopiti tra i gruppi principeschi germanici avrebbero avuto la possibilità di riacutizzarsi e di esplodere nella piú irreconciliabile delle guerre civili. I sovrani d'Occidente, Filippo Augusto in Francia e Riccardo Cuor di Leone in Inghilterra, avrebbero certamente potuto far pesare in loro favore una parte o l'altra dei vari partiti imperiali in contesa. Ma soprattutto la Santa Sede dalla provvidenziale vittoria avrebbe potuto ricavare i piú cospicui vantaggi per la riaffermazione solenne della sua predominante ed arbitrale autorità, nel momento in cui la secolare lotta tra Papato e Impero pencolava verso il suo epilogo.

Le stesse oscillazioni della linea politica seguìta da Innocenzo III dimostrano a chiare note come la Santa Sede fosse tratta d'istinto a cogliere i maggiori vantaggi dalla situazione, piegando di momento in momento l'asse della sua orientazione secondo le esigenze mai smentite della sua tattica, che erano tutte comprese in questi due presupposti basilari: riaffermare la propria sovrana autorità sull'Impero e sulla sua designazione, ed evitare ad ogni costo che l'unione della corona imperiale con la regalità dell'Italia meridionale venisse a pesare in maniera minacciosa sul dominio territoriale della Curia romana.

Alla scomparsa di Enrico VI, il partito ghibellino e la maggioranza degli elettori e dei principi in Germania destinarono per la sua successione il fratello Filippo di Svevia. Un gruppo di principi guelfi del Reno, con a capo l'arcivescovo di Colonia, raccolse invece i propri suffragi su Ottone di Brunswick, figlio di quell'Enrico il Leone che aveva cosí pertinacemente resistito a Federico Barbarossa. Il Ghibellino fu eletto per primo l'8 maggio 1198 e coronato a Magonza l'8 settembre successivo. Il Guelfo, eletto il 9 giugno, fu posto sul trono il 12 luglio ad Aquisgrana.

A chi sarebbe andato il decisivo favore papale? Innocenzo III esitò a lungo. Occorreva ben studiare, da tutti gli angoli dell'orizzonte, l'eventualità della diplomazia europea, prima di prendere una decisione.

Filippo non tardò a postulare dal Pontefice il proprio riconoscimento. A rincalzo della sua richiesta gli elettori che avevano raccolto sul suo nome i loro suffragi pensarono bene di intervenire essi stessi a favore del proprio eletto presso il Pontefice. Nella missiva al Papa si fanno forti del loro numero per accreditare cosí la designazione di Filippo a re non dei «Romani», secondo la qualifica ormai tradizionale, bensí ad «imperatore del trono romano», mostrando con questo stesso di riconoscere come diritto degli elettori l'assegnazione della dignità imperiale. Rispondendo a questi postulatori, Innocenzo III rivendicava, senz'altro, il diritto curiale alla nomina all'Impero. «Sarebbe stato necessario», egli prendeva questa occasione per ricordare, c che si fosse fatto innanzi tutto ricorso alla Santa Sede, poiché tale questione appartiene al novero di quelle che solo la Sede Apostolica ha il diritto di risolvere, cosí nei suoi principi ideali, come nella sua concreta realizzazione. Non è stata forse la Santa Sede a trasferire altra volta l'Impero dall'Oriente all'Occidente, e non è essa che in ultima radice dispone della corona imperiale? Noi facciamo appello alla luce dell'Onnipotente perché noi possiamo risolvere questa controversia per il meglio degli interessi ecclesiastici e per il bene stesso del regime imperiale».

Già le predilezioni di Innocenzo si rivelavano attraverso questo messaggio. Ad ogni modo, il Pontefice attese tre anni prima di addivenire ad una decisione impegnativa. Solo agli inizi del 1201, con una sua pubblica deliberazione, Innocenzo faceva pendere il suo favore per Ottone, e spiccava al designato il cardinale vescovo di Palestrina assieme con altri funzionari di Curia per prendere contatto con lui. Si incontrarono ad Aquisgrana e l'intesa scambievole fu tutta basata su questo patto bilaterale: il Papa conferiva la corona imperiale ad Ottone, e questi rinunciava a qualsiasi velleità e a qualsiasi diritto in Italia: vale a dire, s'impegnava a lasciare in pieno potere della Chiesa romana tutte le sue acquisizioni territoriali, e cioè il patrimonio di San Pietro, l'Esarcato di Ravenna, la Marca di Ancona, il ducato di Spoleto, i possessi matildini, la contea di Bertinoro.

A conclusione delle trattative, Ottone era coronato il 3 luglio.

Non finiva con questo la lotta intestina in Germania. Di fronte a Ottone, Filippo di Svevia riaffermava la legittimità della sua proclamazione, proprio perché convalidata dal suffragio dei príncipi, indipendentemente dall'intervento papale.

La scissione politica gettava sempre piú la Germania in un indomabile disordine materiale e morale. Ma per quella mefistofelica impossibilità di mutua costante intesa che faceva dell'Impero e della Chiesa due istituti inseparabili e in pari tempo incompatibili, ben presto Innocenzo dovette pentirsi della sua scelta, proprio per le medesime ragioni che gliel'avevano suggerita, vale a dire per la profilantesi minaccia di un ritorno di Ottone su quei possessi dell'Italia meridionale, la cui congiunzione con la corona imperiale rappresentava per lo Stato pontificio la piú mortale delle minacce.

Dopo essersi già intiepidito nei suoi sentimenti di preferenza verso Ottone, in séguito alle piú allettanti profferte fattegli da Filippo di Svevia, mostrando cosí quanto i motivi e le considerazioni opportunistici pesassero sugli orientamenti della politica papale, e dopo avere mostrato di essere anche pronto a cambiare le direttive della sua politica qualora le fortune avessero arriso a Filippo, l'improvvisa uccisione di questi nel 1208 faceva tornare Innocenzo alle sue prime decisioni.

Noi vediamo in questo momento, ancor piú palesemente che nel corso delle precedenti vicende pontificie, gli interessi personali del Pontefice e della sua famiglia entrare come elemento determinante nelle direttive pubbliche dell'azione pontificale. Filippo di Svevia, per solleticare vieppiú i sentimenti di Lotario di Segni, si era lasciato andare ad una promessa di matrimonio di sua figlia Beatrice con il nipote del Papa, anche egli Lotario, a cui sarebbero stati devoluti i beni matildini, quale feudo imperiale.

La repentina scomparsa di Filippo aveva mandato all'aria tutti questi progetti. E Innocenzo III, con mirabile disinvoltura, procedeva senz'altro alla incoronazione di Ottone il 4 ottobre 1209, dopo avere ricevuto da lui, nel diploma di Spira, la riconferma delle precedenti promesse e la rinuncia a qualsiasi abusivo intervento nello spiegamento delle elezioni ecclesiastiche.

Ma, abbiamo detto, era destino che Chiesa ed Impero non potessero procedere d'accordo, per qualcosa di irriducibilmente insidioso ed ambiguo che si nascondeva negli stessi presupposti della duplice autorità l'una fronteggiante l'altra.

Poiché Ottone, tratto da una logica piú forte della volontà umana, avanzava le sue rivendicazioni imperiali sul regno siculo, scendendo in armi nel Mezzogiorno d'Italia, Innocenzo disdiceva se stesso, lo deponeva dalla dignità imperiale, e proclamava che il giovane re, affidato alla sua tutela e alla sua sorveglianza, avrebbe offerto minori rischi e maggiori possibilità a quello che era il proposito costante della Santa Sede, di non fare dell'unità imperiale e territoriale dalla Germania alla Sicilia una minaccia soffocante per i propri poteri territoriali.

Federico era coronato re a Francoforte il 5 dicembre 1212, e due anni dopo le sue truppe debellavano Ottone a Bouvines. Innocenzo credeva cosí di premunire i suoi Stati e i suoi poteri da una grave minaccia e non faceva che crearne un'altra ben piú dura per i suoi successori. Per il momento ad ogni modo sembrava che l'autorità pontificale irraggiasse da sé il piú vasto alone di luce e di potere.

I vari Stati europei sembrano, nonostante le recalcitranti riluttanze, subire irresistibilmente l'ascendente e il prestigio della Sede romana.

In realtà, nella storia del Pontificato romano, di questo Pontificato di cui noi abbiamo veduto grandeggiare progressivamente il fascino su tutto il mondo ecumenico cristiano, il Pontificato di Lotario di Segni segna probabilmente il piú vasto e risplendente meriggio. Filippo Augusto di Francia, Giovanni Senzaterra di Inghilterra, Pietro II di Aragona, debbono l'uno dopo l'altro fare atto di vassallaggio e di sudditanza dinanzi alla Sede romana.

Da questo punto di vista sono particolarmente significative, e sono quelle pertanto su cui bisogna arrestare di piú la nostra attenzione, le relazioni fra Innocenzo e il re d'Inghilterra: soprattutto perché, nello spiegamento di queste relazioni, noi vediamo piú palesemente trapelare quelle cure e quelle preoccupazioni finanziarie che debbono essere tenute nel massimo conto da chi voglia segnalare le trasformazioni che si vengono effettuando, in questo denso periodo del Duecento incipiente, nella struttura intima e nel funzionamento pubblico della Curia romana, dei suoi poteri, del suo governo spirituale e religioso.

Era stato detto da un biografo di Alessandro III che Roma si sarebbe senza esitazione venduta, qualora le si fosse presentato dinanzi un conveniente acquirente. Ai tempi di Innocenzo III la situazione morale della Curia non era davvero cambiata: probabilmente era peggiorata.

Il cronista tedesco di Ursberg afferma senza sottintesi che il denaro era allora piú che mai l'unica divinità dei Romani. «Rallegrati, o Roma madre nostra», egli dice in un sarcastico impeto lirico che non manca di grottesco: «le cateratte dei tesori del mondo si sono spalancate, e da ogni parte il denaro fluisce verso di te come un fiume e si accumula per te in colline. Non c'è al mondo un vescovado, una dignità religiosa, una chiesa parrocchiale che non sia oggetto di un processo e non porti gente alle tue porte, con la borsa ben fornita. L'iniquità degli umani rappresenta la fonte della tua prosperità. Tu ne trai copiosamente i1 tuo vantaggio. Tu non hai al mondo cooperatore piú prezioso che lo spirito di contesa. Questo spirito di contesa vien fuori dai pozzi infernali proprio per coprirti d'oro. Ecco dunque di che placare la tua sete. Intona pure l'inno della gioia. È a causa della malizia umana e non già a causa del tuo senso religioso che tu trionfi dell'universo. Ricordati che non sono la vera pietà e la genuina devozione che spingono gli uomini verso di te, né la purezza della coscienza, bensí il desiderio di espiare il crimine o di guadagnare a prezzo di valsente un processo». L'amara invettiva del cronista teutonico, in cui sembra quasi di cogliere in anticipo quelle che saranno le lamentele, le facezie irriverenti e le calunnie degli obscuri viri nell'immediata vigilia della riforma luterana, trova nelle cronache, specialmente monacali, di tutti i paesi europei del tempo, conferme ed illustrazioni sorprendenti.

Nulla di piú significativo a questo riguardo che il racconto fatto da Tommaso Marleberge, dell'Abbadia di Evesham nella diocesi di Worcester, della sua lunga permanenza a Roma per difendere i diritti della comunità monastica della sua Badia in pari tempo contro la losca figura dell'abbate Ruggero Norreys e contro la Curia di Worcester, di fronte alla quale l'Abbadia rivendicava, in nome di vecchi privilegi pontifici, la propria esenzione. Tommaso e il corpo monastico da lui validamente e pazientemente rappresentato ebbero partita vinta, ma quanto fu alto il prezzo per ottenere ragione al cospetto del Papa e come abbondantemente furono dovute versare somme per propiziarsi la turba innumerevole dei dignitari curiali, dei valletti, degli avvocati accreditati, del personale superiore e subalterno!

Le vecchie difficoltà finanziarie, che avevano già messo tante volte a durissima prova il funzionamento della Curia, chiamata a tanto vasta amministrazione, e che avevano rappresentato, si potrebbe dire, il punto piú vulnerabile della vita ecclesiastica romana, sí da invogliare gli imperatori teutonici a battere e insistere su questo punto per tentare di captare la acquiescenza pontificia nella grossa questione delle investiture episcopali, pesavano ancora, opprimenti, sull'atmosfera pontificale romana. In nessuna zona e in nessun settore dello spiegamento del governo pontificale noi lo possiamo constatare meglio che in quelli concernenti i rapporti fra Roma e la Chiesa inglese, all'epoca di Riccardo Cuor di Leone e di suo fratello Giovanni Senzaterra.

Attraverso i secoli e attraverso le vicende storiche, la Chiesa dei paesi britannici era venuta progressivamente occupando nel mondo cattolico occidentale una situazione peculiarissima. L'Inghilterra vera e propria comprendeva ormai due arcivescovadi, quello di Canterbury e quello di York. Ma questi due arcivescovadi erano molto diversi l'uno dall'altro in efficienza. Il primo, infatti, contava non meno di diciassette vescovi suffraganei, mentre il secondo ne contava soltanto due. Si comprende quindi di primo acchito l'eccezionale importanza dell'occupante la sede di Canterbury. In Scozia si contavano undici vescovadi senza metropolitano, tutti direttamente soggetti al Papa. L'Irlanda contava non meno di trentasei vescovi, di cui quattro con titolo arcivescovile.

Quando nei secoli X e XI gli Anglosassoni furono sopraffatti e surrogati dai Danesi, i nuovi invasori si conformarono alle vecchie tradizioni delle isole d'oltre Manica, tra cui notevole la ormai secolare consuetudine dell'obolo annuale alla sede di Pietro. Si può dire che continuando a pagare il loro tributo a Roma i conquistatori danesi legittimavano in qualche modo la loro conquista. Canuto il Grande, re di Danimarca e d'Inghilterra, reputò opportuno spiegare al popolo inglese perché aveva fatto appello a Roma: «Sapendo che l'Apostolo Pietro riveste la solenne virtú di legare e di sciogliere e che egli è il clavigero del Regno celeste, ho creduto saggio sollecitare il suo favore e il suo patronato».

L'invasione normanna del 1066 ebbe la tutela del Pontificato romano, proprio perché Guglielmo il Conquistatore poté avvalersi della circostanza che gli ultimi re della dinastia decaduta non erano stati fedeli nel pagamento dell'obolo annuale. All'avvento di Innocenzo III al Pontificato, i registri pontifici prendono regolarmente nota della somma che viene prelevata dalle diverse diocesi delle isole britanniche e che prende le vie di Roma insieme ai rimanenti contributi regali. Nella mentalità della Curia romana il tributo pecuniario implica sempre soggezione politica. Nella indistinta concezione politica del Medioevo, nella visione universale dei due poteri, l'imperiale e il papale, nella cosciente superiorità dei valori spirituali sugli empirici, viene naturale di pensare che in ogni potere politico e in ogni dignità dinastica è implicito un vincolo di sudditanza e di inferiorità al cospetto della autorità pontificale.

Già Gregorio VII aveva chiesto a Guglielmo il Conquistatore non solamente il pagamento regolare e integrale del tradizionale tributo annuo, bensí anche il giuramento di fedeltà e di omaggio. Con lui, e molto piú con Enrico II il Plantageneto, la monarchia inglese era venuta assumendo un carattere assolutista piuttosto restio e refrattario alle velleità del Pontificato. Nei rapporti fra i sovrani britannici e i Papi si andavano introducendo presupposti secondo cui un legato romano non sarebbe potuto entrare in Inghilterra per convocarvi Concilî se non a prezzo di un permesso reale; secondo cui anche l'appello a Roma non avrebbe dovuto essere possibile che in controversie matrimoniali o testamentarie; secondo cui infine la nomina vescovile ed abbaziale avrebbe dovuto essere esclusivo retaggio della corona.

Roma resisté a simili pretese reali in Inghilterra. La lotta sostenuta da Tommaso Becket e da Papa Alessandro III contro Enrico II aveva avuto qualche cosa di epico. I suoi due figli, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senzaterra, si erano accinti a battere la medesima strada. Di qui le controversie fra Roma e la monarchia britannica, che accompagnarono drammaticamente il Pontificato di Innocenzo III e in cui si riflessero in una maniera a volte tutt'altro che edificante gli imbarazzi e i disagi finanziari della Curia romana.

Effettivamente la storia dei rapporti fra Innocenzo III e Giovanni Senzaterra è una storia carica di significato. Sembra a volte di cogliervi come un presentimento di quel che sarà la separazione della Chiesa d'Inghilterra da Roma nel secolo XVI. D'altro canto, le variazioni sensibilissime negli atteggiamenti del Pontefice di fronte al duro enigmatico sovrano d' Inghilterra, se rivelano a un certo punto in tutta la sua spettacolosa efficienza pratica la potenza spirituale a cui era arrivato il Papato agli albori del secolo XIII, dimostrano pure quanto fossero complesse e talora niente affatto commendevoli e nobili le ragioni e le considerazioni che foggiavano e dirigevano le determinazioni pontificie.

Si comprende che Giovanni Senzaterra, nei suoi rapporti con la Chiesa, mirasse come i suoi predecessori a mantenere invulnerabile la pretesa di disporre in materia di benefici ecclesiastici e di nomine vescovili. Vivente ancora suo fratello Riccardo Cuor di Leone, egli, semplice governatore d'Irlanda, aveva già fatto sentire il peso della sua invadente cupidigia introducendosi abusivamente nell'amministrazione delle rendite ecclesiastiche. L'arcivescovo di Dublino, refrattario alle sue lusinghe come alle sue minacce, aveva dovuto prendere la via dell'esilio. Salito al trono dopo fortunose peripezie, non tardò a rivelare la sua prepotente e facinorosa volontà di sopraffazione. Innocenzo III si mostrò dapprima longanime e condiscendente. Si direbbe che egli contasse su Giovanni nelle eventuali resistenze continentali contro le insidie del re francese Filippo Augusto, come anche per averlo propizio nel suo atteggiamento a favore di Ottone di Brunswick in Germania. Non potremmo escludere che ragioni ancor meno confessabili fossero nello spirito di Innocenzo. Giovanni non si rivelava straordinariamente generoso con la corte di Roma e con i suoi funzionari? I registri papali sono lí a dimostrare che l'inquieto e torbido re britannico non cessò mai di mantenere a Roma, a rincalzo di copiose lettere di credito tratte presso le banche romane, ambasciatori, procuratori, avvocati che offrivano pingui risorse al commercio locale. Noi possiamo benissimo constatare come cardinali e notai, ambasciatori e dignitari, spesso legati col Pontefice da vincoli di sangue, partecipassero largamente alle generose ablazioni del sovrano d'oltre Manica. Documenti incontrovertibili dimostrano senza possibilità di dubbio che Giovanni aveva provveduto ad assicurare regolari pensioni a nipoti del Papa, a parenti di cardinali, perfino a famiglie alleate del Pontefice, come la famiglia degli Annibaldi.

La grossa questione che mise alle prese Giovanni e Innocenzo e che vide probabilmente uno dei piú grandi successi politici della Santa Sede dopo l'umiliazione imperiale di Canossa, fu quella sollevatasi per l'elezione dell'arcivescovo di Canterbury alla morte di Uberto Walter il 12 luglio 1205. Si scatenò allora un dissidio, donde sorse una crisi in cui veramente la sicurezza stessa dell'Inghilterra sembrò dovesse naufragare. La potente comunità dei monaci della Chiesa di Cristo si accinse senz'altro a nominare il successore nella persona di Reginaldo. Giovanni non avrebbe voluto che fosse in alcuna maniera installato sulla preminente sede primaziale un individuo di cui non gli fosse assicurata in anticipo la perfetta soggezione.

Il Papa per conto suo non diede ragione né agli uni né all'altro, ma prescelse un cardinale di nazionalità inglese che aveva dimorato lungo tempo in Francia e a Parigi ed era molto apprezzato alla corte romana: Stefano Langton. Egli riuscí a far accettare il suo designato dai monaci della Chiesa di Cristo, ma non valse questo a raccogliere il suffragio regale. Al re parve di essere stato beffardamente tradito dal Pontefice e ne fece pubblicamente e solennemente le sue lamentele.

«Mi rifiuto», egli diceva nella lettera di risposta al Papa che gli comunicava l'evento, «di accettare l'elezione di questo Langton. Egli ha dimorato sempre in Francia in mezzo ai miei nemici. Io non lo conosco. Voi Papa lo avete promosso all'arcivescovado con danno e con dispregio dei diritti e dell'indipendenza della nostra corona reale. Mi meraviglio assai che la Curia e i cardinali dimentichino con tanta facilità il bisogno che essi hanno della nostra amicizia. Non sanno essi che il regno d'Inghilterra rende loro da solo piú che tutti gli altri paesi al di qua delle Alpi? Se occorre, io combatterò fino alla morte per la libertà della mia corona. Se Roma si rifiuta di darmi soddisfazione, io chiuderò la strada di Roma ai miei sudditi. Io non voglio che il nostro denaro vada fuori dei confini del regno. Bisogna bene che io custodisca e tuteli le risorse necessarie alla difesa del paese. Dopo tutto l'Inghilterra e i paesi che ne dipendono contano un numero sufficiente di arcivescovi, di vescovi e di prelati dotti e capaci perché noi si possa fare a meno, se occorre, degli stranieri che Roma c'impone».

Il conflitto raggiunse un'asprezza inaudita. Se i negoziati durano ininterrotti, Innocenzo III non disdegna, pur di avere ragione, di ricorrere alle misure estreme. Egli sapeva molto bene come Filippo Augusto re di Francia, nemico ereditario dei Plantageneti, a danno dei quali non aveva cessato e non avrebbe mai cessato un istante di rivendicare quelli che riteneva usurpati territori francesi, mantenesse in segreto rapporti insidiosi con la maggior parte dei baroni inglesi, spiando l'occasione propizia per tentare uno sbarco oltre Manica. Quando Innocenzo giunse all'interdetto generale dell'Inghilterra e alla scomunica generale del re e quando questi gravissimi provvedimenti pontifici si rivelarono in pratica inefficaci allo scopo, Filippo Augusto si sentí bene incoraggiato ad offrire all'ira del Pontefice la promessa del suo intervento armato.

Innocenzo III si lasciò andare su questa via temeraria. Nella sua anima la consapevolezza della sua forza, la visione dell'Europa soggiacente al cenno di Roma, assumono improvvisamente una cosí gagliarda e irresistibile forza, da indurlo a pronunciare senz'altro la deposizione di Giovanni Senzaterra e il trasferimento della sua corona ad un altro sovrano. Quel medesimo Pontefice che organizzava la quarta Crociata, che aveva trasformato dovunque in Europa ogni rivendicazione politica, spirituale e dogmatica della Santa Sede in impresa crociata, faceva ora anche dell'invasione dell'Inghilterra spossessata del suo re un'impresa militare, garantita e accompagnata dalla elargizione dell'universale perdono.

Questa volta veramente Giovanni Senzaterra dovette sentire la gravità della minaccia.

Nel 1212 Innocenzo mandava il suo legato Pandolfo in Francia, perché prendesse con Filippo Augusto gli accordi definitivi per la occupazione dell' Inghilterra, decisa per la primavera del 1213. Dalla Francia Pandolfo passava a discutere col re inglese. I cronisti britannici ci hanno conservato, non possiamo esattamente dire con quale veridicità, le conversazioni, dalle quali apparirebbe che, mentre Giovanni riconosceva il dovere dell'obbedienza al Pontefice, ma unicamente nel dominio spirituale, il legato pontificio si appellava a questo dovere di obbedienza verso la Sede romana, quasi tale obbedienza rappresentasse un impegno formale ed esplicito assunto dai sovrani inglesi attraverso il giuramento o la professione di fede, al momento stesso della loro salita al trono. Il legato d'altro canto non manca di appellarsi alla consuetudine papale di condannare alla decadenza i sovrani che non obbediscono all'imperio di Roma.

Sta di fatto che, di fronte all'accerchiamento operatosi mercè l'unione di Innocenzo e di Filippo Augusto, Giovanni Senzaterra capitolava. Il 13 maggio 1213 egli firmava la formula di pace che Innocenzo III aveva da molto tempo preparata quasi sicuro della vittoria, e dava al legato papale sedici suoi baroni come ostaggi per la sicurezza del proprio ravvedimento. Quando il 22 maggio Filippo Augusto si diresse verso Gravelines per imbarcarsi per l'Inghilterra, seppe che il Papa l'aveva abbandonato e che l'agognata preda britannica gli sfuggiva dalle mani.

Non è detto che con questo fossero cessati per sempre i dissensi con la corte britannica. Innocenzo III tripudiò legittimamente del suo inaudito successo. Di fronte alla cosiddetta umiliazione di Canossa, la capitolazione di Giovanni Senzaterra dovette assumere agli occhi dei contemporanei ben altre proporzioni. Il 5 luglio Innocenzo scriveva: «Le tenebre della notte hanno ceduto il passo al cielo sereno. Sgombrata ogni avversità, tacitata ormai ogni angoscia, la barca di San Pietro può ben essere malmenata dal soffio della tempesta: non naufraga mai». E il giorno dopo, rivolgendosi personalmente a Giovanni, glorifica in termini ditirambici la metamorfosi che si è prodotta: «Chi ti ha portato a penitenza e chi ha guidato la tua anima se non quello spirito divino che soffia dove vuole? Ecco che la regalità è ora nelle tue mani fatte piú solide e piú auguste di prima, poiché il tuo regno è diventato sacerdotale e il sacerdozio ha assunto un carattere regale».

A qualche mese di distanza il Papa, cercando di spremere i piú grandi vantaggi dal successo riportato e di trasformarlo in una consegna e in una figura giuridica, mostra di considerare senz'altro l'Inghilterra come direttamente costituita feudo del Papato. Le parole che adopera in un messaggio del 4 novembre sono precise e tassative in argomento: «Tu», scrive Innocenzo a Giovanni, «ti sei voluto sottomettere e con te hai voluto sottomettere la tua terra, anche nell'ordine temporale, a colui del quale tu riconoscevi già il magistero spirituale, affinché nella persona del vicario di Gesù Cristo l'Impero e il Sacerdozio fossero uniti come uniti sono il corpo e l'anima per il piú grande vantaggio dell'uno e dell'altro. Dio ha deciso pertanto che questo paese d'Inghilterra, a cui la Chiesa romana altra volta impartí l'insegnamento cristiano e per il quale quindi essa si costituí madre spirituale, fosse ugualmente anche sul terreno temporale sotto il suo dominio peculiare». In virtú pertanto di tale privilegio, il Papa si atteggia a concedere in feudo a Giovanni Senzaterra il regno inglese e quello irlandese, in condizioni tali che tutti i successori del re, al momento del loro avvento al trono, si debbono riconoscere feudatari del sovrano Pontefice prestandogli uniformemente giuramento di fedeltà.

Le conseguenze finanziarie e politiche di questa subitanea trasformazione del regno dei Plantageneti in stato sacerdotale non tardarono a manifestarsi. Innocenzo e i suoi legati, tutto il personale di servizio, i cardinali e i loro consanguinei, i nipoti e i familiari del Papa, i mercanti e banchieri romani, tutti beneficiarono larghissimamente, come dimostra la corrispondenza amministrativa della corte inglese per gli anni 1212-13-14-15, delle terre, delle prebende, del denaro, dei regali sovrani. Ma la instaurazione spiegata dal diretto potere papale nel regime ecclesiastico inglese non andò senza reazioni baronali ed ecclesiastiche. Sono queste reazioni che strapparono a Giovanni Senzaterra, nonostante la solidarietà pontificia, la sottoscrizione di quella Magna Charta che è la prima manifestazione clamorosa della vita costituzionale in Europa. Il 24 agosto 1215 Innocenzo III, con una Bolla emanata da Anagni, tentò di venire in soccorso al re che aveva capitolato e si era prostrato dinanzi a lui, cancellando e annullando il documento in cui erano state consacrate le rivendicazioni costituzionali dei signori britannici. «Questa carta», vi proclamava il Pontefice, «è stata strappata al re dalla forza. Essa significa una mancanza di rispetto alla Sede Apostolica, un grave attentato alla dignità reale, un'onta alla nazione inglese, un pericolo per la Cristianità intiera, poiché la guerra civile d'oltre Manica ha rappresentato un pesante ostacolo alla Crociata. Nel nome pertanto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in virtú dell'autorità di San Pietro e di San Paolo e del nostro personale potere, su parere unanime dei nostri fratelli i cardinali, noi riproviamo e condanniamo questa Charta, vietiamo, sotto pena di scomunica, al re di rispettarla, ai baroni e ai loro complici di esigerne il rispetto. Dichiariamo nulli e cancelliamo cosí la Charta stessa come gli atti destinati a garantirne l'esecuzione e decretiamo che mai possano avere alcun valore».

E allora si verificò il piú strano e paradossale dei capovolgimenti di parti. Altra volta era stato Innocenzo III ad invocare il soccorso di Filippo Augusto di Francia contro Giovanni Senzaterra. Ora furono i baroni inglesi con a capo quell'arcivescovo di Canterbury che Innocenzo III aveva voluto sul seggio, Stefano Langton, a chiedere il soccorso della corte francese contro il loro fedifrago sovrano, alleato del Papa. Luigi, figlio di Filippo, fu invitato ad assumere la corona di Inghilterra. E, arrivato a Londra nel maggio del 1216, vi fu solennemente acclamato. Giovanni Senzaterra gli oppose resistenza vittoriosa, ma nel pieno della campagna moriva improvvisamente. Il Papato aveva combattuto contro di lui la piú fiera e fortunosa delle sue campagne, ma nelle strane peripezie di essa aveva perduto molto della sua dignità e del suo decoro.

Non fu la sola campagna ingaggiata da Innocenzo III che sotto l'apparenza dell'esteriore successo politico nascondesse una intima degradazione e un invisibile ma cospicuo logoramento. Se tutta la metodica del regime cristiano ed ecclesiastico nella storia era stata fino allora nel riportare successi concreti attraverso qualsiasi disinteresse politico e qualsiasi dispregio della comune tattica empirica della politica umana, ora che la Chiesa riportava palesi successi politici, cominciando a dimenticare che il cristianesimo vince rinnegando le terrene vittorie, si sarebbe detto che i successi politici dovessero automaticamente trasformarsi per lei in disfatte morali.

Lo si vide molto bene nell'armeggìo diplomatico spiegato da Innocenzo per la preparazione della quarta Crociata, e molto meglio ancora nella terribile, funesta impresa della repressione armata delle correnti cosí dette ereticali del Mezzogiorno francese, che rivendicavano, nell'ora del piú vasto successo politico della Santa Sede, i principi dualistici e rinunciatari su cui, piú o meno consapevolmente, per tanto lunga serie di secoli, si era imperniata la pedagogia umana del cristianesimo.

Fin dagli inizi del suo Pontificato, la Crociata fu, di nuovo, all'apice delle preoccupazioni e delle cure di Innocenzo III. Ormai gli occhi del mondo cristiano erano stati diretti verso la Terra Santa e le vicende dei territori conquistati dalla prima Crociata e poi di nuovo riperduti non potevano non destare vivissima eco nell'Occidente cristiano. Ma, d'altro canto, l'ideale crociato aveva già irrimediabilmente perduto l'anima religiosa dei suoi inizi, e si era trasformato in una complessa questione internazionale, nella quale facevano sentire le piú dirette e torbide ripercussioni le contese fra Papato ed Impero, fra nazione e nazione, fra popolo e popolo. La quarta Crociata, quella appunto che Innocenzo III venne bandendo, si complicò fin dai suoi inizi con una interferenza tutta politica e profana con le lotte dinastiche di Costantinopoli.

Dopo la deposizione di Isacco II per opera di Alessio III l'Angelo, questi si era trovato nuovamente insidiato dal nipote d'Isacco, Alessio, il quale, con la connivenza di Filippo di Svevia, che aveva sposato una figlia di Isacco, Irene, tentò ogni via per recuperare la dignità imperiale. In pari tempo il ricatto perpetrato dalla Repubblica veneta ai Crociati, ai quali aveva assicurato la propria flotta, solo a patto di averne aiuto nelle sue rivendicazioni dalmatiche, imponeva all'itinerario degli arruolati una deviazione su Zara, che fu il prologo di una seconda e piú grave e funesta deviazione su Costantinopoli. Innocenzo III, nonostante le sue minacce e le sue scomuniche, non riusci ad impedire queste deviazioni, che compromisero l'esito religioso della Crociata e portarono alla cattura e al saccheggio di Costantinopoli.

Fu, dal punto di vista religioso, una autentica catastrofe. Invece di prevalere sull'islamismo siriaco ed egiziano, la Crociata aveva finito con lo sboccare in un atto di selvaggio predominio della latinità sulla grecità, con la conseguenza inevitabile che fra Roma e Bisanzio si scavò piú profondo l'abisso e nell'indebolimento stesso dell'Impero costantinopolitano si preparò da lungi in qualche modo il trionfo dell'islamismo turco.

Innocenzo III con le sue scomuniche aveva cercato di trattenere i Crociati e i loro condottieri da simile profana e rovinosa avventura. Ma nella realtà ormai il Pontificato si andava assuefacendo all'idea e alla pratica di una politica realistica capace di acconciarsi, per un effimero successo immediato, a un travisamento e a un tradimento di quelle idealità trascendenti, il cui rispetto inconcusso e indeclinabile aveva rappresentato, nei secoli anteriori la forza invulnerabile e il prestigio immacolato dell'insegnamento e della pedagogia cristiani.

Piú gravi ancora furono i danni che ridondarono sul magistero romano dalla terribile campagna ingaggiata nel Sud della Francia contro le reviviscenze manichee, che prendono il nome di albigesismo, dalla diocesi di Albi, dove pullularono con speciale vigore, e di catarismo, dall'appellativo di puri (catharos), che gli iniziati si assumevano.

Come a mezzo il secolo quinto, all'epoca di Leone Magno, all'epoca cioè delle prime manifestazioni clamorose della efficienza politica del Pontificato romano, il dualismo manicheo, costante fermento dell'esperienza religiosa mediterranea nella storia, aveva avuto una ripresa vigorosa, di cui ci sono testimonianze superstiti in pari tempo e la copia della letteratura apocrifa e le reazioni dure dell'episcopato romano, cosí ora, agli albori del secolo decimoterzo, il dualismo ripullulava impetuosamente riaffermando, si direbbe, di fronte al magistero curiale sempre piú impigliato nel giuoco delle competizioni politiche, l'irriducibile opposizione della religiosità intransigente a tutto che è empirico e terreno, guerra, economia capitalistica, illimitato sviluppo demografico.

Come il manicheismo dei primi secoli e quello del quinto secolo, anche il neo-manicheismo medioevale rappresenta un movimento di pensiero filosofico e religioso sul quale le nostre conoscenze positive erano rimaste, fino a questi ultimi anni, vaghe ed incerte. Si sa molto bene come le fonti dirette dalle quali la ricerca critica avrebbe potuto attingere, sono presso che completamente scomparse, distrutte per disposizione di quella Inquisizione, che proprio ora, mentre il genuino Medioevo volge al tramonto, si viene, fra l'epoca di Innocenzo III e quella di Gregorio IX, rapidamente organizzando. Sicché le nostre fonti di informazioni erano unicamente gli scritti polemici di origine cattolica, gli archivi dei tribunali inquisitoriali e qualche sparuta e lacunosa cronaca.

Oggi non è piú cosi. Come i copiosi ritrovamenti di testi manichei nell'Estremo Oriente ci hanno permesso di arrivare ad una conoscenza della primitiva predicazione di Mani infinitamente piú attendibile e completa di quanto non ci avessero permesso fino a ieri le opere polemiche degli scrittori ortodossi, cosí anche per il neomanicheismo medioevale il ritrovamento di testi ufficiali delle sètte eretiche, come il Liber de Duobus Principiis di Giovanni de Lugio, ci permette ormai di riconoscere in questi movimenti ereticali del duodecimo e decimoterzo secolo posizioni sostanzialmente affini a quelle del manicheismo delle origini, vale a dire posizioni piú vicine alla originaria professione cristiana di quanto la polemica inquisitoriale non ci avrebbe lasciato credere.

Noi vediamo in questo ripullulante manicheismo all'epoca di Innocenzo III riaffermata solennemente l'opposizione eterna e radicale del bene e del male, quindi la distinzione di due principî che si contendono il dominio dell'universo e soprattutto il dominio del cuore umano. Al Dio buono è impossibile attribuire, con la sovrana bontà, la onnipotenza. Il mondo attuale presuppone una realtà preesistente, nella zona della quale il principio buono ha subìto una prima sconfitta. È a causa di questa che il mondo è stato costituito, quasi mezzo di reintegrazione del principio buono, una prima volta sopraffatto. La terra è in certo modo il luogo in cui sono punite le anime che il principio malvagio ha captato e vinto. È su questa terra che si deve compiere l'opera di reintegrazione delle anime buone, malmenate dal principio infernale. Debbono essere esse progressivamente liberate dalla loro prigione materiale. La terra è dunque l'inferno, in cui regna il principio del male. Tutti gli spiriti celesti decaduti per la insidia tramata e perpetrata dal Maligno nel mondo superiore sono stati legati alla materia e ne dovranno essere liberati, per essere restituiti al Dio della bontà e della pace. Il Cristo che rappresenta il prezzo di riscatto per tutti è disceso nel mondo sensibile per far conoscere la verità e la via della liberazione agli uomini e collocarli cosí sul cammino del regno della bontà e della luce. L'opera della reintegrazione è lenta e faticosa. Il battesimo cataro, mercè l'imposizione delle mani, è l'arra del ritorno a quelle regioni della luce, da cui il principio del male ha trascinato via le anime su cui ha potuto esercitare il suo dominio.

Ma il principio del male non cede facilmente la sua preda. Tutto, nel mondo della vita empirica, è organizzato in modo da favorire la permanenza della servitú degli spiriti. Chi ha discoperto il dramma profondo dell'universo, che è tutto nella lotta di due principi sovrani, il principio del male e il principio del bene, sa che questa terra è lo scenario del dio malvagio che contende ininterrottamente al Dio buono la riconquista del suo perduto dominio. E chi ha discoperto questa tragedia cosmica sa che il suo còmpito è di vivere nell'ascesi e nella rinuncia, sottraendo al principio del male, con la sua casta continenza, col suo rifiuto di adoperare le armi, con il suo odio per la guerra e per la violenza, qualsiasi cooperazione.

Cosí il neo-manicheismo ripristinava in pieno secolo XIII, quando la società cristiana si era già ormai illimitatamente piegata ad ogni commistione e ad ogni complicità col mondo della forza, della politica bellica, del progrediente sviluppo dell'economia capitalistica e dello sviluppo demografico, quei principî rinunciatari ed ascetici su cui il cristianesimo delle origini aveva fatto leva per la sua paradossale conquista del mondo. E l'atteggiamento della Curia fu nettamente, violentemente ostile.

Alle condanne di Alessandro III nel 1179 e a quelle del Concilio di Verona del 1184, dove anche i seguaci di Pietro Valdo furono diffidati da qualsiasi predicazione religiosa che non fosse rivestita della ufficialità dell'Ordine sacerdotale, seguiva ora la sistematica repressione di Innocenzo III. Fu dapprima un'opera di propaganda e di apostolato che egli intraprese col concorso soprattutto di monaci cistercensi. Ma anche ai suoi primi inviati, come Rinieri e Guido, e poi il cardinale Giovanni di San Paolo e infine Pietro di Castelnau, monaco dell'Abbazia di Fontfroide presso Narbona, Innocenzo conferiva poteri discrezionali i quali sembravano in qualche modo sottrarre la giurisdizione ecclesiastica ai prelati locali, che non riscuotevano la piena e illimitata fiducia della autorità curiale.

Questa stessa deroga alle norme della disciplina gerarchica nella Chiesa poteva essere considerata come un sintomo inquietante della situazione anormale in cui le circostanze storiche erano venute a porre, all'alba del secolo decimoterzo, l'equilibrio della vita interna della Chiesa cristiana.

In quel Mezzogiorno della Francia che aveva ospitato, alle origini della propaganda evangelica nel mondo mediterraneo, le prime comunità credenti del territorio gallico, comunità formate di elementi emigrati dall'Anatolia e pencolanti, nella seconda metà del secondo secolo, verso la reviviscenza apocalittica che era nata in Frigia sotto l'ispirazione di Montano, la Cristianità del XII secolo declinante si era improvvisamente sentita di nuovo unita con quelle correnti dualistiche che nella zona orientale dei Balcani non avevano mai forse cessato di fermentare nel Medioevo.

Ora che il Papato era giunto al meriggio piú fastoso della sua potenza terrena, nata dallo stesso esercizio delle sue mansioni carismatiche; mentre il mondo feudale, favorito nella sua crescenza dalla stessa istituzione imperiale, veniva disfacendosi sotto la pressione dei nuovi impulsi demografici e delle nuove forme economiche, i movimenti ereticali neo-manichei venivano a segnare una nuova resistenza di quello che era stato il patrimonio originario della propaganda cristiana. Roma non poteva non reagire con tutte le sue energie. La stessa logica inesorabile delle sue conquiste spirituali la condannava a cercare nei fattori e negli elementi della politica empirica la garanzia della sua sopravvivenza.

Alla missione proselitistica dei suoi messi ecclesiastici Roma faceva seguire, nella resistenza all'eresia dualistica che si propagava vittoriosamente dal Sud della Francia nel Settentrione d' Italia, l'appello alla forza delle autorità laiche. Quando Pietro di Castelnau fu proditoriamente ucciso il 5 gennaio 1208 da un vassallo del conte Raimondo VI di Tolosa, Innocenzo III bandiva la Crociata armata contro gli eretici del Mezzogiorno francese. Fu un abbate cistercense, Arnaldo, a predicarla.

La Crociata, che era nata come campagna per la sottrazione dei Luoghi Santi al dominio degli infedeli, era trapiantata come espressione di guerra intestina nell'ambito stesso della società credente. E il braccio secolare era invocato a rincalzo e a sostegno dell'opera di conversione dei ribelli al magistero curiale.

Pochi anni prima, al loro passaggio per la Linguadoca in viaggio diplomatico verso la Danimarca, alla ricerca di una sposa regale per il figlio di Alfonso IX re di Castiglia, Diego De Acevedo, vescovo di Osma, capoluogo della provincia spagnola di Soria, e il suo compagno Domenico di Guzman, canonico della cattedrale, avevano potuto constatare la vasta potenza dell'eresia dualistica. E Domenico si era sentito ispirato ad installarsi anche lui colà per unirsi all'opera di conversione dei messi papali.

Nasceva cosí l'Ordine dei domenicani. Ma il lavoro inerme del proselitismo rivelandosi radicalmente inefficace, l'autorità ecclesiastica non disdegnava di far precipitare le cose verso una risoluzione per le armi.

I nuovi Crociati messi insieme da Arnaldo, l'abbate cistercense di Citeaux, conquistavano Béziers il 22 luglio 1209. Seguiva la cattura di Narbona e di Carcassona. Il 16 agosto Simone di Montfort, creato visconte di Carcassona e di Béziers, si poneva a capo dell'impresa crociata, proseguendo la sua opera di distruzione e di repressione attraverso orrori inauditi. La lotta iniziata con scopi religiosi contro i movimenti ereticali, terminava nel 1229 col trattato di Meaux, devolvendo a vantaggio della monarchia francese la devastata feudalità del Mezzogiorno della Francia e inaridendo fino al midollo quella che era stata la floridezza autonoma di tutto il territorio.

Si vedeva così come l'appello a fattori politici per la prevalenza delle correnti ortodosse sulle ereticali portasse automaticamente ad un favoreggiamento di correnti politiche che non nascondevano in alcuna maniera le loro mire egoistiche e i loro bassi e venali interessi. La Chiesa stessa di Roma non era ormai tutta impegolata in una formidabile impresa di sfruttamento fiscale del mondo cristiano?

È stato largamente messo in luce come tutti gli atti del Pontificato di Innocenzo stiano a dimostrare che i bisogni finanziari della Curia romana, giunta ormai allo spiegamento massimo della sua efficienza amministrativa nel mondo cristiano, pesavano in maniera riconoscibile e assillante sulla tecnica disciplinare romana.

In nome della sua potestà generale, costituendosi «protettore apostolico» delle chiese, dei cenobi, delle collegiate, il Pontificato preleva sulla massa dei benefici e delle prebende ecclesiastiche una parte sempre piú cospicua a favore delle proprie creature, dei propri funzionari, di tutti coloro che avevano ben meritato del governo ecclesiastico. Quelle ormai consuetudinarie difficoltà amministrative che dall'epoca di Gregorio VII non avevano mancato piú di affliggere la Curia romana, si fanno ancor piú pressanti all'epoca di Innocenzo. Lo possiamo constatare in una maniera piena di sorprendente significato in quello che dal punto di vista religioso è l'avvenimento massimo del Pontificato di Innocenzo: la convocazione cioè del IV Concilio ecumenico del Laterano, nel novembre del 1215.

I cronisti del tempo si dilungano nel descrivere l'interminabile corteo di arcivescovi, di vescovi, di abbati, di ecclesiastici, di principi, che mossero da tutti gli angoli dell'orizzonte europeo verso la capitale del mondo cattolico. Innocenzo li aveva già convocati due anni e mezzo prima con grande solennità, delineando in forma perentoria quali sarebbero state le finalità da raggiungere: ricostituire una grande massa crociata che si accingesse effettivamente a realizzare quel sogno in Oriente che la quarta Crociata aveva cosí fraudolentemente tradito; riformare i costumi ecclesiastici; stringere in una rete non piú scompaginabile le fila tutte del mondo credente.

E le adunanze apertesi nel novembre del 1215, nei vastissimi saloni di quel palazzo lateranense che fu cosí improvvidamente abbattuto poi da Sisto V per far luogo all'attuale piazza di San Giovanni, ebbero effettivamente la pompa grandiosa delle piú imponenti assise che la Cristianità avesse mai celebrato.

Cronisti piuttosto maliziosi, come Matteo di Parigi e Giraldo Cambrense, si soffermano con particolare compiacimento a registrare le esigenze fiscali della Curia romana in quell'occasione. Matteo ci dice che quando, al chiudersi del sinodo, i prelati vennero a chiedere ad Innocenzo il permesso di lasciare Roma, il Papa richiese a ciascuno di essi a titolo di soccorso una determinata somma che essi furono obbligati di prendere a prestito a gravoso interesse dai banchieri di Curia; e Giraldo afferma piú specificamente che Innocenzo spiegò tutti i suoi migliori sforzi per ottenere da ogni chiesa del mondo intiero la decima delle rispettive rendite per i bisogni della Santa Sede.

Era lo stesso aiuto che Enrico VI aveva proposto di concertare con Celestino III. Ma questa volta non era ottenuto attraverso il decreto imperiale, ma direttamente in nome del governo ecclesiastico romano, oramai giunto a tale ampiezza di regime da non poter piú bastare ai bisogni della propria amministrazione.

Simili collegamenti finanziari non erano, del resto, che il rivestimento esteriore di una rigida ed ecumenica disciplina spirituale, che il Pontificato di Innocenzo III mirava, attraverso il Concilio lateranense, ad imporre alla società cattolica.

Se fra i documenti emanati dal Concilio l'editto «Ad liberandam terram», vòlto alla organizzazione della nuova spedizione crociata per il 1216, rappresenta l'espressione saliente, le varie decine di canoni emanati dal Concilio stesso stanno a dimostrare quale vasta portata dovesse avere il Pontificato di Innocenzo III nello sviluppo ulteriore della cattolicità.

Precede una solenne professione di fede, i cui articoli singoli sono redatti in modo da costituire una organica confutazione delle dottrine ereticali piú diffuse, vale a dire quelle dei Catari, dei Patarini d'Italia, degli Albigesi di Francia, dei Valdesi. Simile preoccupazione è palesemente riconoscibile. Quando, alla fine del primo canone, il Concilio sentenzia non senza solennità: «Non solamente le vergini e i continenti, ma anche i coniugati, che mercè la loro fede ortodossa e l'onesto operare piacciono a Dio, meritano di pervenire alla beatitudine eterna», non ci vuol molto a capire che si vogliono condannare tutte quelle molteplici tendenze che, appellandosi ai principi clandestini del manicheismo, sempre in qualche modo perdurante negli strati piú nascosti della tradizione cristiana, tendono a praticare quella limitazione delle nascite rivestita con la concezione teologica che attribuisce il rapporto matrimoniale, in vista della procreazione, ad un'opera del principio del male mirante a fare della trasmissione fisica della vita un mezzo per la conservazione del proprio dominio.

Nel secondo canone è condannata la dottrina trinitaria di Gioacchino da Fiore, come contrapposta a quella di Pier Lombardo. Pur riferendosi ad un particolare scritto del profeta calabrese che noi non possediamo piú, il Concilio vuoi colpire evidentemente quella interpretazione «economica» del mistero trinitario, che ne faceva una raffigurazione teologale delle leggi governanti il succedersi delle economie divine nella storia. Aveva scritto Pier Lombardo nei libri delle sue Sentenze: «C'è una somma realtà, Padre, Figlio e Spirito Santo, che non è né generante, né generata, né procedente». E Gioacchino da Fiore ne aveva tratto motivo per accusare il maestro parigino di sostenere, anziché una Trinità, una certa quaternità, distinguendo cioè una essenza primordiale dalle persone sottoposte a processi di generazione e di processione. Ciò che aveva dovuto offendere la sensibilità religiosa e mistica di Gioacchino in questa asserzione di Pier Lombardo era soprattutto quella concezione di una fissità inalterabile dell'essenza divina, mentre egli non vedeva nell'essenza divina che un diverso atteggiarsi del divino governo del mondo. Il Concilio condannava cosí la posizione di Gioacchino preludendo in qualche modo a quella piú solenne e perentoria condanna che sarebbe venuta a un quarantennio di distanza col responso della commissione di Anagni.

Sono condannati in pari tempo, dal Concilio, Amalrico di Bena e i seguaci di Pietro Valdo. Si riafferma solennemente la preminenza della Chiesa latina sulla greca e si emanano provvedimenti di natura antisemitica. Non meno di quattro canoni sono consacrati dal sinodo del Laterano alla questione ebraica. Il Concilio vuole che dal punto di vista finanziario i cristiani si sottraggano alla usura ebraica, condanna gli ebrei ad indossare vesti riconoscibili, proibisce loro, in occasione delle grandi feste cristiane, di presentarsi per le vie, e vieta che si conferiscano ad essi impieghi pubblici.

Di pari passo, con simili provvidenze repressive, il Concilio rivendica i grandi principi della gerarchia me­dioevale cattolica. Proclama il primato della Chiesa romana, mater et magistra di tutti i cristiani. Il Papa è di nuovo solennemente collocato al disopra dei quattro patriarchi orientali. Nel medesimo tempo si stabilisce l'ordine gerarchico dei patriarchi: il primo posto è assegnato a Costantinopoli; il secondo ad Alessandria; il terzo ad Antiochia; il quarto a Gerusalemme.

Mirando alla purificazione del costume ecclesiastico, il Concilio adotta misure severe contro l'ereditarietà delle prebende ecclesiastiche, contro la simonia, contro l'abuso della scomunica, contro il cumulo dei benefici, contro qualsiasi sentenza giudiziaria ecclesiastica che comporti penalità cruente. Una curiosa e sintomatica disposizione vieta agli ecclesiastici il commercio delle reliquie e l'abuso di quelle cerimonie che consistono nel mostrarle al pubblico dietro pagamento.

I canoni XXI e XXII decretano che ogni fedele il quale abbia raggiunto l'età della discrezione dovrà confessarsi una volta all'anno al prete della propria parrocchia e comunicarsi in occasione della Pasqua. Chi si sottragga a questa legge perentoria sarà espulso dalla Chiesa e privato della sepoltura ecclesiastica.

Infine, quasi presentendo quel pullulare di nuove discipline regolari che avrebbe caratterizzato tutto il secolo XIII, e che provocherà a suo tempo il sarcasmo disdegnoso di Fra Salimbene da Parma, il Concilio vieta che si instaurino nuove Regole cenobitiche, al di fuori di quelle consacrate dall'uso ecclesiastico, quali la benedettina e l'agostiniana.

Siamo qui ad una delle manifestazioni piú singolari e nel medesimo tempo piú significative della disciplina curiale in questo momento. Già qualche anno prima Innocenzo III aveva concesso in certo modo a Francesco d'Assisi di vivere col suo minuscolo stuolo di amici a suo modo, a modo cioè del primitivo Vangelo.

I ricordi leggendari addensatisi sulle prime origini cosí dell'Ordine francescano come dell'Ordine domenicano, suppongono che in questo stesso momento Innocenzo desse approvazione al nuovo Ordine dei fratelli predicatori. Nulla di tutto questo. I testi del Concilio lateranense parlano chiaro e preciso. Come reagisce al movimento valdese e al movimento cataro, Innocenzo III diffida delle nuove possibili congregazioni religiose. Chiude le porte pertanto all'insinuarsi di nuovi aspetti di ascesi organizzata che possano rappresentare forme costituite di teorie manichee e antisociali.

Si potrebbe dire che l'unico residuo superstite possibile e consentito di manicheismo è quello implicitamente compreso nel celibato ecclesiastico. Ma per uno strano paradosso della storia spirituale cristiana del secolo XIII, quel medesimo Papato che nel 1215 sanziona il divieto di qualsiasi nuova costituzione monastica, imporrà a pochissimi anni di distanza dal Concilio del Laterano, a Francesco d'Assisi, di trasformare il suo vasto programma di una vera e propria reviviscenza evangelica, in un programma piú ridotto ed angusto, qual è quello della costituzione di una nuova Regola menacale!

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