XVIII L'APOCALISSI DANTESCA

La Divina Commedia non ha forse nella nostra vita spirituale nazionale il posto appropriato che le compete. Sia perché la sua molteplice natura permette di isolarne un aspetto a detrimento degli altri, sia perché il nostro disinteresse per le cose religiose e per le grandi realtà cristiane invalso fra noi da qualche secolo a questa parte, grazie allo sforzo compiuto dal gesuitismo onde isolare le cose dell'apologia e della fede dal vivo commercio delle correnti popolari, ci ha straniati dal vero mondo della Divina Commedia, questa è, si potrebbe dire, divenuta dominio esclusivo di eruditi in filologia e in storia. E invece essa è il piú grande poema religioso della Cristianità latina. È anzi, piú esattamente parlando, una mirabile apocalissi, che vuole esaltare le sanzioni eterne prescritte e garantite da Dio alle consegne fondamentali della rivelazione evangelica. Se tutte le letterature nazionali hanno origini religiose, solo la letteratura nazionale italiana è stata capace di dare al mondo, con la Divina Commedia, una celebrazione ecumenica della vita cristiana, quale essa si era venuta organando nel Medioevo.

In quella che è forse, in tutta la produzione critica dedicata al poema dantesco, la pagina piú densa e piú profonda, Giosuè Carducci ha scritto: «Dante giunse a tempo a raccogliere in sé i riverberi delle mille e mille visioni del Medioevo e a rispecchiarli potentemente uniti sul mondo; giunse a tempo a chiudere con un monumento gigantesco l'età dell'allegoria. Egli, in quel secolo stesso che le cattedrali di Germania e d'Italia rimanevano interrotte per non essere riprese piú mai; egli, come per uno di quegli incanti o di quei miracoli de' quali intorno alla fabbrica di quelle cattedrali favoleggiavasi; egli, nella solitudine dell'esilio, in una notte di dolore, immaginò, disegnò, distribui, adornò, dipinse, finí in tutti i minimi particolari, il suo monumento gigantesco, il duomo e la tomba del Medioevo. Havvi momenti storici in che le nazioni, dopo lente e lunghe modificazioni che per una parte hanno operato su la religione e per l'altra hanno dalla religione ricevuto, giungono quasi a identificarsi con essa religione nei sentimenti e nelle idee, nei costumi e nelle istituzioni: allora la religione prende quasi il carattere della nazione e la nazione quel della religione alla sua volta: in codesti momenti solo è possibile la epopea religiosa a un tempo e politica. Ciò dopo Pier Damiani, Francesco d'Assisi, Tommaso d'Aquino, Bonaventura da Bagnorea, dopo Gregorio VII ed Innocenzo III, vivente Bonifazio VIII, in quegli ultimi dieci anni del secolo decimoterzo che furono la primavera della democrazia e dell'arte toscana e dell'anima di Dante, era avvenuto del cattolicismo rispetto all'Italia. Ora Dante, com'è natura de' poeti veramente grandi di rappresentare e conchiudere un grande passato, Dante fu l'Omero di cotesto momento di civiltà. Ma son momenti che presto passano; e i diversi elementi, dopo incontratisi nelle loro correnti, riprendono ognun la sua via. Per ciò avvenne che della Divina Commedia rimanendo vivo tutto che è concezione e rappresentazione individuale, fosse già antica fin nel Trecento la forma primigenia, la visione teologica: per ciò Dante non ebbe successori in integro. Egli discese di Paradiso portando seco le chiavi dell'altro mondo, e le gettò nell'abisso del passato: niuno le ha piú ritrovate».

Se quelle chiavi non sono state piú ritrovate, la ragione ne è una sola, semplice e perentoria. E la ragione è che, nell'opera di Dante, è tutto il Medioevo che ha cantato le sue idealità e le sue esperienze fondamentali. E poiché noi ci siamo cosí irrimediabilmente allontanati dalle idealità universali del Medioevo cristiano, le soglie dell'esperienza dantesca ci sono rimaste impenetrabilmente serrate, e noi siamo stati capaci di esercitarci intorno al divino poema nelle forme della piú elaborata e spesso lambiccata esegesi, senza riuscire mai però a recuperarne l'intimo afflato e il prodigioso calore.

Una vera valutazione pertanto della Divina Commedia nel suo inconguagliabile significato religioso ci può esser data soltanto da un ricollocare il poema mirabile nell'ambiente della sua concreta spiritualità e della sua ispirazione: ambiente che ci si rivela cosí profondamente difforme da quello in cui si esplica la nostra vita spirituale. Per misurare questa difformità basta rifarsi senz'altro al primo problema di ogni vita consapevolmente umana: il problema del rapporto dell'io col non io.

Noi, da tre secoli a questa parte, cioè da Cartesio in poi, lo poniamo e lo risolviamo oggi in termini di pura conoscenza astratta. Il soggetto è dinanzi all'oggetto nella posizione del percipiente dinanzi al percepito. Il vuoto fra l'uno e l'altro è colmato dall'atto del pensiero. E la natura di questo trasferimento dell'oggetto conosciuto nel soggetto conoscente è variamente calcolata, dall'abisso fra natura reale e pensata di ogni forma di materialismo, al monismo idealistico di ogni soggettivismo, che fa svaporare l'oggetto nella capacità creatrice del soggetto pensante.

Il Medioevo non aveva conosciuto simile formulazione del problema gnoseologico. Il problema degli universali era nato tardi e, pur nelle sue prime delineazioni, non aveva avuto valore gnoseologico, ma, si direbbe, morale e sociale. Il dogma trinitario, che del problema degli universali: «predicabilità dell'uno nei molteplici» non è che una esemplificazione tipica, viene prospettato in forma molto diversa, come abbiamo visto, in Abelardo, per esempio, e in Gioacchino da Fiore. Per il primo, esso impone effettivamente un'analisi teoretica della possibilità che il generico si rifranga nello specifico e nel singolo. Per il secondo, non impone altro che lo sforzo di realizzare, nella pratica, quella fusione dei molti nell'unità, che costituisce la prerogativa del mistero divino: «Quia ipse Deus in unitate Trinus est, quaesivit semper et quaerit quomodo plures homines et diversi populi convenirent in unum, sciens quod nulla possit esse felicitas, ubi est scissio et diversitas. – Perché Dio stesso è trino nella unità, cercò sempre e cerca in quale maniera molti uomini e popoli diversi possano essere ridotti ad unità, sapendo molto bene (si direbbe per esperienza) che non ci può essere felicità dove c'è scissione e dove c'è diversità». Il problema del rapporto fra l'io e il non io, fra il soggetto e l'oggetto, non è prospettato dal Medioevo che in termini di amore. Naturalmente non c'è amore senza conoscenza. Ma si tratta di sapere se è amando che si giunge alla conoscenza, o se è attraverso alla conoscenza che si giunge all'amore. Tutta la cultura moderna, pervasa e assillata da preoccupazioni strettamente gnoseologiche, ma miseramente sprovvista di ogni senso di amore, starebbe di per sé a provare che la seconda alternativa è una vana illusione. La conoscenza uccide l'amore: non l'alimenta. E la nostra civiltà ne ha fatto un'esperienza tragica.

Ma che cosa è esattamente l'amore e quale è la legge intima e fatale del suo sorgere e del suo divenire? Al cuore della spiritualità medioevale sta il quesito: c se sia cosa naturale che l'uomo ami Dio piú di se stesso». Se l'amore è ricerca inquieta di appagamento e di soddisfazione, in qual modo l'amor concupiscentiae può trasformarsi in amor amicitiae, come cioè può la ricerca del proprio godimento sublimarsi in atto di dedizione volonterosa e dolorosa? Come possiamo chiamare «amore naturale» quello che ci porta ad amare Dio piú di noi stessi, a sacrificare noi stessi per amore di Dio? Sant' Agostino, nel passo del L. XIV del De Civitate Dei, di cui abbiamo posto in rilievo la capitale importanza, aveva distinto nell'uomo due amori possibili: l'amore di sé, che travalica l'amore di Dio, e l'amore di Dio, che travalica l'amore di sé. Dal primo scaturisce ed è avvivata la città terrena. Dal secondo scaturisce ed è avvivata la città celeste. Come si passa dall'una all'altra? Quali sono i rapporti dell'una con l'altra? Il fondamentale dualismo agostiniano aveva dato a tutta la civiltà cristiana dell'alto Medioevo l'andatura drammatica di una lotta che non si risolve. Il monachismo, fuori del mondo, aveva reagito sul mondo, sotto il pungolo e la norma di quella dialettica delle realizzazioni attraverso le antitesi, che appare la metodica sociale caratteristica del cristianesimo. Ma i grandi istituti usciti dal travaglio diuturno di lunghi cicli di generazioni tendono automaticamente ad adagiarsi staticamente sulle loro pingui conquiste. E alla decadenza del Medioevo la visione sociale, cosí ineffabilmente dinamica, del De Civitate Dei, era logora e anacronistica per la capacità di una Chiesa idropicamente cresciuta a dominio mondiale, non fatto di solo spirito. La concezione dei due amori entrava in un laborioso periodo di rielaborazione. Non c'era altro mezzo per conciliarli che esasperarne il dissidio. Fra l'amore di sé e l'amore di Dio, fra l'amor concupiscentiae e l'amor amicitiae, non c'era altra mediazione possibile che l'annullamento dell'io sotto la incombente, divorante e irresistibile pressione del non io.

Il Duecento spirituale, il secolo che ha nutrito Dante, vide due concezioni opposte dell'amore: la prima risolve dialetticamente il dualismo agostiniano, la seconda lo porta alla piú cruda esasperazione, tentando una reviviscenza di quell'entusiasmo messianico che aveva altra volta generato la società cristiana. Vinse la prima. E la grande tradizione cristiana fu colpita a morte. Ma Dante ci rimase testimone sovrano del memorando duello. Possiamo chiamare le due concezioni contendenti, la prima, concezione fisica (nel significato etimologico, cioè naturale) dell'amore; la seconda, concezione estatica (anch'essa nel significato etimologico, cioè folle e irrazionale) dell'amore.

Della prima è teorico completo e insuperabile San Tommaso. Aveva sentenziato Aristotele nella sua Etica a Nicomaco (IX, 4) che «i nostri rapporti di affetto con le persone amate sembrano trarre natura e fisionomia dall'amore che noi portiamo a noi stessi». Il Vangelo aveva invece affermato tutt'altra cosa. Aveva cioè proclamato che il vero modo di amare noi stessi è di odiare noi stessi per amore degli altri; di non cercare cioè noi in noi stessi, ma noi stessi nell'amore degli altri: «Per ritrovare l'anima e la vita, bisogna prima averla rinnegata e gettata allo sbaraglio» (Lc. XVII, 33). Che un giorno un grande e illustre maestro cristiano dovesse tentare, attraverso una lambiccatissima costruzione sillogistica, la combinazione sintetica delle due posizioni assolutamente antitetiche, ecco un evento che nessuno avrebbe mai osato sognare. E pure San Tommaso ha compiuto il tentativo. Per comprendere la portata concreta e vitale del suo ragionamento, come, piú genericamente, per comprendere la concretezza del problema dell'amore di Dio in tutto il Medioevo, bisogna tenere ben presente che per gli spiriti del Medioevo, infinitamente piú che per noi, usi a veder Dio attraverso gli schemi astratti della speculazione cosmogonica, Dio è per eccellenza l'Essere reale, personale, vivente. Di modo che per lo spirito medioevale il problema dell'amor di Dio è la quintessenza ipostatizzata del problema quotidiano del nostro amore del prossimo.

Ragiona dunque San Tommaso: «Amare Dio sopra ogni cosa, piú di se stessi, è cosa naturale, non solamente all'angelo e all'uomo, ma ad ogni cosa creata, nella misura in cui può amare o sensibilmente o naturalmente. Di fatto, quelle che sono le inclinazioni naturali possono essere riconosciute negli atti che si compiono naturalmente, indipendentemente da ogni deliberazione. Nel mondo della natura infatti ciascuna cosa opera a norma dell'attitudine e della potenzialità ad essere, a propria volta, foggiata. Ora noi constatiamo che ogni parte di un tutto, tratta da una tal quale inclinazione naturale, opera in vista del bene del tutto, anche con pericolo e danno propri. Ecco cosí la mano aperta alla spada per la difesa della testa, da cui dipende la vita di tutto il corpo. Per cui è cosa naturale che ciascuna parte, a suo modo, ami il tutto piú di se stessa. Allo stesso modo, a norma della medesima inclinazione naturale, e secondo quella ch'è la virtú civica, il buon cittadino si espone volonterosamente al pericolo di morte, per il bene collettivo. Ora è chiaro che Dio è il bene comune di tutto l'universo e di tutte le sue parti. Dal che risulta che ogni cosa creata ama a suo modo naturalmente Dio, piú di se stessa: le cose insensibili, cioè, per forza cieca di natura; i bruti animali attraverso la loro vita sensitiva; l'uomo, creatura ragionevole, attraverso quell'amore intellettuale, che chiamiamo carità». (Quodl. I, a. 8; cfr. Summa Theol. I. p. 60, a. 5; I, II, q. 109 a. 3).

L'uomo dunque ama Dio piú di sé, in virtú di una legge naturale, che esercita il suo infallibile e incontrollabile imperio sull'universa creazione. Uscito dalle mani di Dio, il mondo costituisce un tutto con lui. Amando Dio, le cose amano in fondo la totalità e il coronamento di se stesse. Non potrebbero non amarli. Pertanto nell'amore delle cose verso Dio, è Dio che ama se stesso, perché l'universo, considerato in ciascuna delle sue parti, appartiene a Dio, è di Dio, viene da Dio e torna in Dio. «Poiché ogni cosa creata, naturalmente, nella misura in cui è, è di Dio, ne segue che l'angelo e l'uomo, tratti da una carità naturale, amino Dio sopra tutto, piú di se stessi». (I. q. 60 a. 5). Ma allora come va che l'uomo, unico fra gli esseri, sbaglia nella scelta degli oggetti da amare, ed è capace di rivolgersi a termini di amore che lo allontanano da Dio, invece di appropinquarlo a Lui? Qui l'antitesi agostiniana dei due amori, fra cui non c'è conciliazione possibile senza distruzione dell'uno o dell'altro, viene sciolta dialetticamente, mercè un processo di semplice chiarificazione nazionale. «Il bene della parte», insegna San Tommaso, «è subordinato al bene del tutto. Pertanto, nello stato di natura integra, l'uomo subordinava l'amore di sé all'amore di Dio, come al fine ultimo. E al medesimo amore di Dio subordinava l'amore di tutte le altre cose, amando cosí Dio piú di sé e piú di tutto. Ma nella condizione della natura corrotta, che è la nostra attuale, l'uomo manca a questo segno, sotto lo stimolo della inclinazione della volontà razionale, la quale, a causa del corrompimento della natura, segue il bene individuale, qualora non sia guarita e reintegrata in virtu della grazia di Dio». (I. II. q. 109, a. 3). Si direbbe che, secondo San Tommaso, vi siano negli esseri ragionevoli come due piani di inclinazione e di appetizione. Il piano naturale li porta automaticamente ad amare Dio piú di se stessi. Il piano razionale, in cui è l'orma mortifera e pestifera della colpa originale, li induce invece a fare svaporare la tendenza verso Dio in tendenza verso il bene generico, che, come tale, non può essere ricercato ed amato con amore puro e disinteressato. Donde l'amore del proprio essere sussistente prende il sopravvento sull'amore di Dio, e l'egoismo sopraffà l'altruismo.

Come l'intelligenza, nel sistema di Bergson, costituisce un arresto di sviluppo e una fossilizzazione statica dello slancio vitale, cosí in San Tommaso la «rationalis voluntas», ferita nelle sue capacità dal peccato d'origine, arresta ed impaccia e devia la «naturale» tendenza della creatura ragionevole verso l'Assoluto personale, Dio. Ma è uno squilibrio nella capacità guidatrice; è una deformazione e una contraffazione di una tendenza naturale al bene; non è un rovesciamento integrale e un corrompimento radicale, sanabile solo mercè una amputazione e una resecazione spietate. In ogni azione umana, nel piú mostruoso peccato, è sempre a Dio che tende inconsapevolmente la volontà del peccatore. «Un peccatore qualsiasi, per il fatto che agogna e sogna un bene precario, va verso Dio, nella cui partecipazione è la radice di ogni bene. Per il fatto però che si protende verso quel bene precario in una misura non ordinata, si allontana da Dio, vale a dire si allontana dalla norma della Sua giustizia». (De malo, q. XVI a. 3 ad. lum.). Sicché par lecito concludere che, secondo San Tommaso, il problema dell'amore si pone per l'uomo come un problema di distribuzione gerarchica di valori. L'aspirazione amorosa a Dio è la legge ferrea che avvolge l'universo in un unico movimento, ascendente verso l'Essere che ha posto fuori di sé l'Esistente. Ma la legge ha interruzioni e sobbalzi. La ragione contaminata dell'uomo può imporre al suo amore mete disdicevoli e termini sproporzionati. Quella grazia, che San Tommaso postula necessaria perché anche l'uomo si ricollochi nel piano generale della retta aspirazione affettuosa verso Dio, non ha tutta l'aria di essere, puramente e semplicemente, un retto senso della ragione, non difforme da quello che avrebbe potuto costituire il sogno equilibrato di uno stoico o di un platonico? L'amore, pertanto, nella Scolastica, è un trovarsi razionale nella sinfonia che l'universo scioglie, protendendosi verso il termine del proprio anelito al bene, che è Dio.

Secondo la concezione estatica, invece, l'amore non è un trovarsi, mercè l'applicazione della valutazione equa, ragionevole e insieme soprannaturale sui vari oggetti di amore; è bensí un ritrovarsi, dopo lo smarrimento integrale e la morte, nell'oggetto amato e per l'oggetto amato. «Micidiale e soavissima ferita l'amore!», proclama San Bernardo. E tutta la scuola cistercense, e quella francescana poi, lo ripetono in coro con lui. Nella concezione fisica il senso profondo dell'unità universale fra tutti gli esseri usciti dalle mani di Dio e tornanti al cuore di Dio, è la ragione sostanziale e l'ideale dell'amore. Nella concezione estatica invece la dualità è data come elemento necessario. Lo aveva già detto Gregorio Magno: «L'amore non si dà, se non si esce da sé verso un altro». E tutta la tradizione mistica medioevale lo ripete. Data l'esasperata coscienza della relazione dualistica che è nell'amore, l'amore non può essere che annichilimento volontario – dono gratuito – dell'uno nell'altro. Dio stesso ne ha fatto l'esperienza: «L'amore», insegna Bernardo ai suoi monaci, «ha trionfato persino di Dio». Chi, dopo ciò, può sinceramente e onestamente pretendere che l'amore possa comunque soggiacere al controllo e al giogo della razionalità? L'amore è un sovrano dispotico: e il primo suo servo è il «principale nostrum», l'intelletto. Lo dice infinite volte San Bernardo nei suoi memorandi commentari al Cantico dei Cantici: «L'amore ignora il giudizio della ragione». E l'ordine dell'amore è il disordine, è l'ubriacatura, un'ubriacatura che deve assuefarsi a salire in sublimità, passando dalla sensibilità ai piú alti vertici spirituali. «Perché siamo carnali, e siamo nati dalla concupiscenza carnale, è necessario che i movimenti della nostra cupidigia, cioè del nostro amore, comincino dalla carne» ammette, audacemente, San Bernardo, nella sua lettera al priore Guignone. La vita non è altro pertanto che una incessante risurrezione dalla continua morte dell'amore, il quale aspira a librarsi sempre piú in alto nei cieli della spiritualità. L'amore è pertanto il fine supremo dell'esistenza.

Gilberto di Hoy, il continuatore di San Bernardo nel commento alla Cantica, lo dice in termini di una tale spontanea e incisiva finezza, che noi siamo indotti a proporci un suggestivo quesito. Siamo indotti cioè a domandarci se, essendo l'arte non esteriore tecnica di formulazione, bensí diretto e immediato contatto dell'anima con i grandi valori della vita, con l'amore innanzi tutto, lo «stil novo», cosí meravigliosamente definito da Dante in risposta a Bonagiunta da Lucca (Purg., XXIV, 52 e sg.), non è nato la prima volta nelle celle dei monaci cistercensi. Dice Gilberto: «L'amore è piú alto di ogni grazia. L'amore è fondamento e termine. L'amore è al principio e alla fine di ogni esistenza. L'amore rappresenta la pienezza della legge. All'amore nulla è sufficiente: nulla che sia inferiore a lui e sia diverso da lui. L'amore è incapace di saziarsi di sé. E pure l'amore non può nutrirsi d'altro che di se stesso. L'amore è il proprio pascolo. Esso è come l'olio: cessa di espandersi solamente quando manchi spazio alla sua espansione. Ma anche allora non si lascia circoscrivere e costringere. L'amore non vuole fare altro che amare e il suo destino mirabile è quello di divorare la propria avida, inesauribile fame».

La grandiosa e sublime concezione estatica dell'amore, che pervade tutta la mistica cistercense (non a caso la carta costitutiva della riforma di Citeaux si chiamò Charta Charitatis, e non a caso la figura della donna per eccellenza, Maria, di cui Beatrice sarà una rifrazione piú umana, dà il nome a tutti gli edifici di culto dell'Ordine cistercense, dell'Ordine cioè che rompe la costituzione del mondo medioevale, nel quale la donna non ha parte, e inaugura il nuovo «stato») si trasmette nel movimento francescano, che di Citeaux e dei suoi profeti è la realizzazione apocalittica.

Canta Jacopone da Todi:

«Per comperare amor – tutto aggio dato:
lo mondo e mene – tutto per baratto.
Se tutto fosse mio – quel ch'è creato
dariolo per amor – senza onne patto.
E trovomi d'amor – quasi ingannato,
ché, tutto dato – non so dove so' tratto:
per amor so' desfatto – pazzo sí so' tenuto
ma perché so' venduto – da me non ho valore...
Amor de caritate – perché m'hai sí ferito?
Lo cor tutt'ho partito – ed arde per amore.
Arde ed incede – nulla trova loco,
non può fugir – però che d'è legato,
sí se consuma – ma come cera a foco;
vivendo, more – languisce, stemperato,
domanda di poter – fugire un poco
ed en fornace – trovase locato.
Ohimè, dò so' menato? – A sí forte languire?
Vivendo sí, è morire – tanto monta l'ardore».

Quando i due atteggiamenti al cospetto del problema dell'amore, l'atteggiamento che abbiamo definito fisico e l'altro che abbiamo definito estatico, entrano nelle scuole filosofiche, si traducono in un problema di natura psicologica: a quale delle due facoltà dello spirito umano, l'intelletto o la volontà, spetta il primato? I domenicani opteranno per il primo (è la trascrizione antropologica della concezione fisica dell'amore). I francescani per la seconda (è la trascrizione antropologica della visione estatica dell'amore).

Ma il sustrato e il presupposto del quesito metafisico affiorano di quando in quando nelle disputazioni scolastiche, rivelando eloquentemente lo stato d'animo dei due Ordini religiosi, che nel Duecento si contendono la interpretazione ufficiale della spiritualità cristiana. Tra le Quaestiones parisienses, disputate verso il 1302 e il 1303 fra il misticismo intellettualistico di Maestro Eckehart domenicano e il misticismo volontaristico di Maestro Gonsalvo di Valboa francescano, recentemente pubblicate, una ve n'ha di inestimabile significazione. La quaestio è cosí formulata: «Utrum laus Dei in patria sit nobilior eius dilectione in via. – Se la lode di Dio in Paradiso, cioè nella patria del cristiano, sia cosa piú insigne e piú nobile dell'amore di Lui nel pellegrinaggio terreno». Il domenicano è per il sí: la funzione dell'intelletto nella visione beatifica è la piú alta meta cui possa aspirare e che possa attingere la creatura ragionevole. Il francescano è per il no: c'è qualcosa di piú alto e di piú nobile che vedere e lodare Dio: ed è il consumarsi nel suo amore, il morire e il rinascere ogni giorno, nella dedizione amorosa.

Vale la pena di riferire il ragionamento di Gonsalvo: «Si deve riconoscere che se l'amore nella via e la lode in patria siano considerati rigorosamente in sé e nei loro elementi essenziali, l'amore nella via è cosa piú nobile della lode nella patria, anzi, diciamo meglio, della visione nella patria. Infatti quell'atto è semplicemente piú nobile di un altro, che un qualsiasi retto movimento di desiderio non indigente, e quindi sufficiente a se stesso, preferirebbe all'altro. Ho detto non indigente, perché, in pratica, quando si è in condizione di indigenza, un bene minore viene preferito a uno maggiore. L'ha detto anche Aristotele: per un poveraccio è cosa preferibile acquistar delle ricchezze che far della filosofia. Ma per un poveraccio! Ora un desiderio retto, costituito in stato di autosufficienza (e per un francescano questo era lo stato naturale) deve preferire ed anteporre l'amore di Dio nel cammino della vita, alla visione di Dio in Paradiso. Altrimenti non sarebbe un desiderio retto. Infatti non è un desiderio retto quello che antepone un bene finito e minore, a un bene infinito e maggiore. Ora farebbe precisamente questo chi anteponesse la visione di Dio in patria all'amore di Dio nella via. In tal caso infatti costui mostrerebbe cosí di amare qualcosa di diverso da Dio, nella fattispecie la visione di Dio, piú di Dio stesso, e di anteporla a Dio. Sta di fatto che chi ama la visione di Dio piú del suo amore, è piú disposto ad essere privo dell'amore di Dio, anziché della visione di Dio. Ma evidentemente chi è disposto a privarsi dell'amore di Dio, non ama Dio. Donde si ricava che chi antepone la visione all'amore di Dio, preferisce esser privo di Dio, anziché della visione di Dio. Per cui costui vuole e ama piuttosto la visione di Dio, anziché Dio. E non si può amare piú la visione di Dio, anziché il suo amore, senza amare la visione di Dio piú di Dio stesso. E simile desiderio non è retto. Al contrario, quando si ama l'amore di Dio piú della sua visione, non vuol dire che si ami qualcosa di diverso da Dio, piú di Dio stesso. Concludiamo: in un retto orientamento della vita, l'amore di Dio nell'aspro cammino della vita è cosa ben piú nobile della visione di Dio nella patria celeste!».

Se Dante è stato a Parigi, come non spregevoli indizi lasciano validamente supporre, e se il suo viaggio a Parigi ha avuto luogo nel primissimo tempo dell'esilio, il randagio poeta potrebbe aver anche assistito, nel «vico degli Strami», a questa sorprendente disputa fra il domenicano e il francescano, sul valore rispettivo della conoscenza e dell'amore. Comunque, Dante non aveva alcun bisogno di andare ad apprendere a Parigi quali erano gli indirizzi contrastanti della teologia domenicana e della mistica cistercense-francescana. Egli li aveva avuti a portata di mano, rappresentati il primo, quello scolastico-domenicano, dall'insigne maestro di Santa Maria Novella, frate Remigio dei Girolami, il secondo, quello mistico-francescano, dal famoso maestro provenzale, tutto dominato dallo spirito del gioachimismo, Pietro Olivi, a Santa Croce. I due insegnamenti si sono mescolati, non fusi, nell'anima di Dante. Dante li ha portati nel proprio spirito, vivi e operanti l'uno e l'altro, senza riuscire a risolverli e amalgamarli in un'unica sintesi. Come avrebbe potuto farlo, data l'antagonistica polarizzazione dell'uno e dell'altro? C'è da domandarsi piuttosto se la grandezza del dramma dantesco; la permanente vitalità del suo messaggio; la imperitura significazione della sua opera, non sgorghino appunto dal fatto che il poeta si porta in cuore le due visioni antitetiche, che hanno travagliato e squassato la nostra spiritualità nel Duecento. C'è da domandarsi piuttosto se, come ogni grande creazione dello spirito umano, la creazione dell'Alighieri non deve la sua sublime capacità normativa alle intime sue incoerenze; se, sopra tutto, essa non ha un'incalcolabile validità nella: nostra tradizione storica, perché è fondamentalmente costituita sull'instabile equilibrio di due prospettive eterogenee, quella della spiritualità medioevale cadente, e quella della prima Rinascita, che prende nome e norma dal sogno profetico di Gioacchino da Fiore.

D'altro canto, occorre sforzarsi di inserire e di innestare il travaglio culturale di Dante sul piano di sviluppo della sua vita sentimentale ed affettiva, per coglierne le reciproche interferenze e le scambievoli azioni, sopra tutto per spiegare quelle espressioni simbolistiche che gli affetti di Dante hanno assunto negli orizzonti della sua visione poetica e profetica.

Dante ha seguìto le lezioni di Pietro Olivi negli anni della permanenza di questi a Santa Croce: il biennio 1287-1289. Le concezioni del mistico francescano, quelle concezioni di cui abbiamo cercato di individuare la linea e gli orientamenti, hanno offerto a Dante lo schema ideale nel quale egli ha potuto inquadrare il suo amore per Beatrice. Proprio in quel torno di tempo Beatrice è scomparsa dalla terra. La morte mistica che è in ogni trasporto d'amore, secondo la visione cistercense-francescana sprofondava nella consapevolezza sbigottita di una irreparabile lacerazione fisica. Il sorriso di una donna pietosa veniva a lusingare l'afflitto animo del poeta. E in pari tempo l'insegnamento tomistico di Santa Maria Novella, con la sua concezione «fisica» dell'amore, veniva a sostituire, nell'intelletto di Dante, il dramma palpitante dell'«amore estatico» con la staticità razionale dell'amore universale, disciplinato dalla ragione. Dante stesso ricorderà piú tardi: «Come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente che si argomentava di sanare, provide, poi che né 'l mio né l'altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea... E sí come esser suole che l'uomo va cercando argento e fuori della intenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse senza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E immaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva immaginare in atto alcuno, se non misericordioso... E da questo immaginare cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti». (Convivio, II, 12).

Era proprio il torno di tempo in cui splendeva piú alta a Santa Maria Novella la fama di Remigio dei Girolami, allievo ed amico di Tommaso d'Aquino, commentatore anche lui del Cantico dei Cantici e autore di trattati sull'essenza delle cose, e in cui a Firenze lo studium solenne dei domenicani era innalzato al grado di studium generale. Dante dovette compiere sotto tale maestro un assiduo tirocinio. Gli apparve piú tardi come una defezione. E come nelle vie dell'esilio dovette tante volte risollevarsi su dalla polvere della sua dura randagia esistenza e dall'ammaliamento di tante povere e precarie passioni carnali, l'amor amicitiae di Beatrice, nato e purificato nella morte, cosí, altrettante volte, dovette risollevarsi, fino alla suprema visione del Paradiso terrestre, su dai ritorni prepotenti della visione tomistica dell'universo e delle sue leggi, la visione della Ecclesia spiritualis gioachimita, descritta da Pietro Olivi, e identificatasi, sotto il diuturno travaglio della meditazione e del rimpianto, nel cuore e nella visione del poeta, con la creatura di sogno incontrata e riveduta fra Santa Maria Novella domenicana e Santa Croce francescana.

II primo incontro di Dante, novenne, con Beatrice, poco meno che novenne, era stato una morte e una risurrezione. «Apparve», racconta Dante a principio della Vita Nova, «vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo core, cominciò a tremare sí fortemente che apparia ne li menimi polsi orribilmente e tremando disse queste parole: ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi».

Quando, nel 1293, Dante scrive la Vita Nova, egli ha ancora pieno lo spirito di reminiscenze gioachimitiche. Persino la terminologia se ne risente. E l'apparizione di Beatrice fanciulla egli la rievoca con parole che arieggiano le proposizioni con le quali, da Gherardo di Borgo San Dannino in poi, i gioachimiti alludevano al trapasso dall'economia dei due Testamenti canonici alla nuova età dello Spirito: «La vita era uscita dai due Testamenti perché divenissero Vangelo eterno. – Circa MCC annum incarnationis dominicae exivit spiritus vitae de duobus Testamentis, ut fieret evangelium aeternum». L'amore è come la rivelazione: presuppone e implica un trapasso mortale. Dante sente cosí intensamente la violenza devastatrice dell'amore che uccide e risuscita, che ne proietta la virtú mortifera e prodigiosa al di là e al di sopra degli stessi eventi sensibili ed empirici. Beatrice ha agito su di lui inconsciamente molto prima che si incontrassero fanciulli.

Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
una passione nova,
tal ch'io rimasi di paura pieno;
ch'a tutte mie virtú fu posto un freno
subitamente, sí ch'io caddi in terra,
per una luce che nel cuor percosse:
e se 'l libro non erra,
lo spirito maggior tremò sí forte,
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse.

Su questa canzone (Rime, LXVII) il padre Mandonnet si è lungamente sbizzarrito, per scoprirvi un'allusione simbolica alla iniziazione battesimale di Dante, come si è sbizzarrito a suo agio sul racconto della Vita Nova (XII), in cui Dante parla di «uno giovane vestito di bianchissime vestimenta» apparsogli in sonno, per scoprirvi un padre spirituale, naturalmente domenicano, che gli impone le condizioni necessarie per salire agli Ordini minori. Tutta questa esegesi è superflua. Dante sente profondamente la potenza mortifera dell'amore e ne anticipa poeticamente l'azione all'istante in cui Beatrice, la creatura fatale, ha dischiuso le pupille alla luce. Poi, da quando Dante si è imbattuto in lei la prima volta, ogni incontro sensibile con lei, ogni sua ricomparsa nel mondo beato, segnano invariabilmente, per Dante, esodi violenti dalla vita e dalla sensibilità. «Amor vulnus et languor» aveva detto San Bernardo. Amore è morte, aveva cantato la mistica francescana.

Ch'Amor m'assale subitanamente,
sí che la vita quasi m'abbandona:
campami un spirto vivo solamente
e que' riman perché di voi ragiona.
Poscia mi sforzo, ché mi voglio stare;
e cosí smorto, d'onne valor vòto,
vegno a vedervi, credendo guerire:
e se io levo li occhi per guardare,
nel cor mi si comincia uno tremoto,
che fa de' polsi l'anima partire.

(Vita Nova, XVI)

Qual io divegno sí feruto, amore,
sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza vita:
e se l'anima torna poscia al core,
ignoranza ed oblio
stato è con lei, mentre ch'ella è partita
Com'io risurgo, e miro la ferita,
che mi disfece quand'io fui percosso,
confortar non mi posso
sí ch'io non triemi tutto di paura.

(Rime, CXVI)

E quando nell'alto del paradiso terrestre Dante ha confessato la sua colpa e sta per ricevere, dopo l'immersione nel Lete, la rivelazione dei destini della Chiesa, egli cade vinto al cospetto di Beatrice (Purgatorio, XXXI, 88).

Dante esprime e canta cosí, su motivi suggeriti dalla mistica cistercense-francescana, il suo romanzo d'amore. Santa Croce ha dato il lessico e le immagini al suo trasporto amoroso. Ma la sua ispirazione poetica è di tale prodigiosa potenza da saper tradurre in canto anche l'insegnamento di Santa Maria Novella.

Nel cielo del Sole San Tommaso, dopo aver tessuto in termini di francescanesimo gioachimita il panegirico del Serafico (Ascesi deve essere detta Oriente, a norma della credenza degli spirituali che Francesco fosse l'angelo del VI sigillo, veniente dall' Oriente del Sole, con le stigmate del Redentore), traduce in versi magnifici l'epopea della creazione che è il primo atto del dramma d'amore che porta lungi da Dio le creature che a Lui, sotto il pungolo dell'amore, ritorneranno fameliche e beate.

Alla limpida descrizione tomistica del procedimento delle cose da Dio, può porsi a fronte la teoria tomistica dell'amore fisico, che vede nel mondo una turba sconfinata di esseri, riguadagnanti, sotto il pungolo di una unica forza, il porto di Dio. Essa è esposta da Virgilio nel canto XVII (91-139) del Purgatorio e poi da Beatrice nel canto I (103-140) del Paradiso. Beatrice stessa, nel canto XXIX del Paradiso, riassume le due fasi del poema cosmico, la fase dell'eruzione creativa e la fase della ricapitolazione nell'amore, alla luce dei principi tomistici. È il poema attraverso il quale «s'aperse in nuovi amor l'eterno amore».

Ma come nell'animo di Dante l'intellettualismo tomistico e il volontarismo cistercense-francescano si mantenessero giustapposti, senza elidersi né sopraffarsi, appare dalla contraddizione in cui è lasciata cadere Beatrice, quando, nel canto XXVIII del Paradiso, spiegando il movimento dei cerchi angelici, afferma una volta tomisticamente che l'amore poggia sul conoscere («si fonda – l'esser beato ne l'atto che vede, – non in quel ch'ama, che poscia seconda», vv. 109-111) e afferma un'altra volta, francescanamente, che il conoscere poggia sull'amare («il cerchio che piú ama e che piú sape», v. 72).

Siamo ad ogni modo nel mondo dell'esposizione teoretica. Quale delle due concezioni è quella che sollecita piú intensamente lo spirito del poeta, quando egli traduce nella luce delle sue evocazioni fantastiche drammi d'amore che hanno piú potentemente commosso la sua sensibilità o quando evoca i momenti della propria tragedia sentimentale, appesantita e oscurata dalle vicende di una lacrimevole odissea politica? Possiamo rispondere senza molta difficoltà. Nel secondo cerchio dell'Inferno Dante associa nel medesimo vortice uraganico della bufera c che mai non resta» i corpi di Paolo e di Francesca, «sí al vento leggieri». Vien fatto di domandarsi se l'averli immaginati cosí, «menati» ancora dal loro amore peccaminoso, non risponda in qualche modo al presupposto bernardiano, che ammette anche nella voluttà una possibilità di sublimazione, che fa anzi, della dedizione mortifera che è nell'amore carnale, il primo indeclinabile varco all'amore piú alto (Inf., V). I termini vaghi e misteriosi con cui Dante accenna al destino oscuro di Pia dei Tolomei (Purg., V), cui la morte violenta è stata possibilità di purificazione, fan pensare cosí anch'essi, se in tanto la morte violenta l'ha spinta in Purgatorio, in quanto essa è stata l'equivalente di quella purificazione, che il fallo amoroso di Pia avrebbe potuto trovare in se stesso. La gloria di Cunizza da Romano (Par., IX) che «indulge a sé medesma» nel cielo di Venere, è il sigillo su una vita di passioni brucianti che si è chiusa con un gesto di magnanimità e di amore purificato. Tutto il paradiso non è dominio di volontà, appagata e quietata dall'amore portato alla piú sublime espressione di sé? (Par. III, 70-71).

Ma quando Dante innesta le sue piú dolci reminiscenze personali alla sua apocalittica visione, allora sí le sotterranee e subcoscienti reminiscenze dei principî bevuti a Santa Croce dànno valore e sapore alla sua espressione artistica e profetica. Aveva egli un giorno cantato, nella sua diletta Firenze, l'amore della sua donna, e lo «stil nuovo» non aveva mai trovato accenti piú toccanti e piú sottili:

«Amor che nella mente mi ragiona
de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo 'ntelletto sovr'esse disvia.
Lo suo parlar sí dolcemente sona,
che l'anima ch'ascolta e che lo sente
dice: «Oh me lassa! Ch'io non son possente
di dir quel ch'odo de la donna mia!».
E certo e' mi convien lasciare in pria,
s'io vo' trattar di quel ch'odo di lei,
ciò che lo mio intelletto non comprende;
e di quel che s'intende
gran parte, perché dirlo non savrei.
Però, se le mie rime avran difetto
ch'entreran ne la lode di costei,
di ciò si biasmi il debole intelletto
e 'l parlar nostro, che non ha valore
di ritrar tutto ciò che dice amore...
Cose appariscon ne lo suo aspetto,
che mostran de' piacer di Paradiso,
dico ne li occhi e nel suo dolce viso
che le vi reca Amor com'a suo loco.
Elle soverchian lo nostro intelletto,
come raggio di sole un frale viso:
e perch'io non le posso mirar fiso,
mi convien contentar di dirne poco».

L'amore è paralisi delle capacità espressive e cogitative. È un mistero di annullamento e di ricupero della vita. Il poeta non può cantarne il segreto ineffabile senza chiedere il soccorso al musica. E Casella viene in soccorso a Dante. Traduce in note la impalpabile inesprimibilità del suo sentimento. E nella intimità fraterna del manipolo fiorentino di artisti, che dànno voce alla metamorfosi della loro età, canta soavemente i versi dell'amico, ch'egli stesso, Casella, ha musicato.

Ma sulle vie amare e pesanti dell'esilio Dante sente a volte l'animo inaridirsi e chiudersi, come in una corazza, di fronte al martirio della vita quotidiana, dietro le grate delle astrazioni concettuali, di cui il suo cervello si è impinguato alla scuola di Santa Maria Novella. L'amore vero è la conoscenza, perché la conoscenza è congiungimento con Dio della parte dell'anima che piú e meglio Dio rispecchia, l'intelletto. Nella rete immensa di proclività amorose in cui si rifrange l'universale tendenza verso Dio, l'uomo ha la parte preminente, in quanto il suo amore di Dio è consapevole e ragionata volontà di inclinare al Bene supremo, verso cui pencolano senza controllo e senza possibilità di deviazione le realtà inanimate. E sulle vie dell'esilio Dante commenta tomisticamente la canzone ch'egli ha la prima volta concepito francescanamente e che Casella francescanamente ha musicato. «Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata; nel quale unimento di propria sua natura l'anima corre tosto o tardi, secondo che è libera o impedita. E la ragione di questa naturalitade può essere questa. Ciascuna forza sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio... Onde, con ciò sia cosa che ciascun effetto ritenga de la natura de la sua cagione..., ciascuna forma ha essere de la divina natura in alcun modo... E quanto la forma è piú nobile, tanto piú di questa natura tiene: onde l'anima umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate, piú riceve de la natura divina che alcun'altra. E però che naturalissimo è in Dio volere essere... l'anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che 'l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare... Onde si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade. E questo è il luogo dove dico che Amore mi ragiona de la mia donna» (Conv. III, 11).

Ma gli anni incalzano. E le delusioni si moltiplicano. Con lo svanire dei sogni politici e con il cadere delle speranze umane, anche la fiducia nella «mente» viene meno. L'animo di Dante torna alla visione mistica dei maestri di Santa Croce, per cui ogni amore è morte, e ogni ideale è immolazione. E quando in un giorno e in un luogo indeterminati del suo esilio, Dante, percorrendo in fantasia le vie dell'oltretomba nella settimana santa del '300, ricorda che l'amico Casella, morto da pochi mesi, può essere sul «legno» che si avvia al Purgatorio, immagina di incontrarlo e si fa cantare, come ai bei tempi della giovinezza fiorentina, la francescana canzone:

...Amor che ne la mente mi ragiona...

E le anime tutte cadono in estasi (Purg. II, v. 112).

Era ben giusto che l'amore di Beatrice desse ancora una volta l'estasi al poeta, nel momento di cominciar l'erta del monte, sull'alto del quale la Donna, la Donna per eccellenza, gli si sarebbe rivelata personificazione vivente della nuova spiritualità religiosa.

Aveva scritto Andrea, il cappellano di Maria di Champagne: «L'amore è una passione istintiva, alimentata dalla visione e dalla assillante immaginazione delle forme dell'altro sesso. – Amor est passio quaedam innata, precedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus» (De amore libri tres, ed. Trojel, Hauniae, 1892, I, I, c. 1).

Alter sexus! Ma ufficialmente e pubblicamente la spiritualità medioevale lo ignora. Il trapasso dalla età medioevale alla nuova non è appunto segnato dall'ingresso trionfale della donna nelle forme della vita pubblica? La cavalleria ne canta l'immagine irreale. I cistercensi la pensano nella figura della Vergine Madre. È esplosione di amore anche il culto di Maria. «Un petto algido non comprende il bruciante linguaggio dell'amore», dice San Bernardo (Sermo LXXXIX). E Dante sceglie San Bernardo ultima guida e cantore di Maria, nel poema che è tutto un canto sciolto alla «donna angelica», segnante il secondo passo dell'entrata della donna nella pienezza della vita.

Cosí, in quello che è il problema capitale della spiritualità umana, il rapporto dell'io col non io, il vincolo di collegamento fra la nostra individualità cosciente e l'altro da noi naturale, divino e umano, Dante si rivela capace, nella vastità della sua anima e della sua esperienza, di riassumere in sé e di sintetizzare le due correnti antitetiche in cui si era polarizzata in quella meravigliosa e turgida età del Duecento la tradizione del cristianesimo: la corrente mistico-amorosa del francescanesimo e la corrente dialettica della Scolastica. La misticità francescana e la metafisica domenicana trovavano entrambe una eco poderosa e drammaticamente simultanea nell'animo del veggente poeta.

Ma si potrebbe dire che, come nella antica età cristiana, quel che dava alla sintesi ardua, e in fondo non duratura, della poesia dantesca il calore della fusione e il valore patetico della ispirazione artistica, era l'affiato profetico apocalittico, che Dante attinge dall'insegnamento di Gioacchino da Fiore e porta ad espressione sublime. È questo afflato profetico che gli consente di rivivere in pieno le grandi idealità unitarie del Medioevo e di sentire per l'universalità della Chiesa, come per l'universalità dell'Impero, una devozione e un entusiasmo che, se da un canto lo fanno apparire un ritardatario, dall'altro dànno alla sua creazione quel valore eterno poggiante unicamente sulla certezza di quelle divine palingenesi, e solo capace di conferire ad un'opera di arte o di religione l'indelebile carattere dell'eternità.

Nella sua elaboratissima esegesi allegorica Gioacchino da Fiore aveva temprato il suo acume nel discoprire le armonie e le corrispondenze fra l'economia del Vecchio e l'economia del Nuovo Testamento. La sua Concordia fra le due età della rivelazione divina, la vecchio-testamentaria e la neo-testamentaria, era postulata dal suo bisogno costante di individuare e di additare i segni premonitori dell'avvento dello Spirito. Dante si pone riconoscibilmente alla sequela di Gioacchino quando dopo avere attraversato i regni della punizione e della espiazione, egli giunge sull'alto del paradiso terrestre, donde ha avuto inizio l'amara odissea dell'umanità peccatrice ed è in grado di ricapitolare anche lui i momenti di questa odissea e di preannunciarne l'epilogo. La processione che egli vede dispiegarsi lassú, sotto i suoi occhi attoniti, è anch'essa una Concordia Veteris et Novi Testamenti di poeta e di storico. Ma, come per Gioacchino, anche per Dante simile Concordia non può avere significato e applicazione che in virtú di un orizzonte profetico.

Alla ricomparsa terrificante e beatificante di Beatrice corrucciata, che da dieci anni era scomparsa dal mondo e che il poeta rivede ora per la prima volta, in atto di conferirgli un perdono piú valido e piú vasto di quello conferito dal giubileo, Dante sente il rimorso della sua molteplice e multiforme infedeltà. Beatrice è la personificazione della Ecclesia spiritualis, destinata a trionfare di tutte le aberrazioni temporalesche della Curia degenere. Dinanzi a lei, che è la distributrice del perdono crociato, come lo è la Porziuncola nella devozione francescana, Dante fa ammenda dei suoi trascorsi sentimentali, intellettuali e politici. Allora può lasciare nel Lete fin la memoria delle sue deviazioni, può sciogliere le note fatidiche del suo Psalterium decem chordarum, e può trarre dagli eventi della Chiesa, allegoricamente intesi, l'annuncio della nuova età, prefigurata dal Vangelo, che sta per diventare Vangelo, che sta per diventare Vangelo eterno.

Utilizzando, come nessun altro mai in tutta la storia secolare della esegesi scritturale, le risorse della interpretazione allegorica, Gioacchino da Fiore aveva còlto tutte le piú esili e riposte corrispondenze fra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Ma la sua non era stata un'astratta esercitazione virtuosistica, diretta a segnalare parallelismi di eventi e di realtà trascorse. Se il Vecchio Testamento offriva, nei suoi valori mistici e nelle sue significazioni esoteriche, una prefigurazione esatta e completa del Nuovo, questo a sua volta era un tessuto di simboli meravigliosi e appropriati della nuova economia religiosa nello Spirito. L'ermeneutica biblica non poteva essere scopo a se stessa: era avviamento alla discoperta della nuova alba spirituale. Gli avvenimenti stessi della storia della società cristiana non potevano essere intesi che da chi li scorgesse alla luce profetica del Nuovo Testamento, apparso nel mondo come prodromo della terza età, l'età della terza persona divina, l'età della imminente palingenesi, del trionfo finale del Bene e della ricapitolazione dell'opera di Dio nell'universo. Dante applica gli identici metodi, in forma di visione poetica.

Egli risale la corrente del Lete sulla destra del fiume. Matelda la risale dalla sinistra. Ed ecco, che subitamente la foresta s'illumina e l'aria lucente è traversata da una melodia. Il poeta vede venirgli incontro, dall'altra parte del fiume, un singolare corteggio. Lo precedono sette alberi d'oro, che quando son vicini si rivelano invece essere sette candelabri. Seguono ventiquattro vecchi coronati di gigli, disposti a due a due e cantanti: «Benedetta tu, fra le figlie di Adamo». Seguono quattro animali, coronati di verde, secondo la raffigurazione di Ezechiele, corretta dall'autore dell'Apocalissi. In mezzo a loro è un carro trionfale, su due ruote, tratto da un Grifone, aquila nella parte superiore, leone nell'inferiore. Tre donne danzano sul lato della ruota sinistra. Seguono, a loro volta, due vegliardi, l'uno nel comportamento dei seguaci di Ippocrate, l'altro armato di un'affilatissima spada, che incute terrore pure a distanza. E poi di nuovo altri quattro vecchi, umili e dimessi, e poi un altro vecchio, solo, con gli occhi chiusi di dormiente, ma con le labbra atteggiate ad un arguto sorriso. Quando il carro è all'altezza di Dante, un improvviso tuono impone un arresto al corteggio. I ventiquattro vecchi, che seguono direttamente i candelabri, si rivolgono verso il carro, e invocano: «Veni, Sponsa de Libano». E la Chiesa spirituale, personificata in Beatrice, discende fra un coro di angeli. Dante si confessa, nelle lacrime. E allora, purificato ed immemore del passato, può scoprire il significato della storia, unico mezzo per «ricordarsi» dell'«avvenire». Un nostro grande poeta moderno l'ha detto: profetare è «ricordarsi» di giorni ancora «non venuti».

Il corteggio riprende il suo cammino. Si arresta dinanzi al dispogliato albero di Adamo. Beatrice scende dal carro. Il Grifone lega il timone al tronco, e d'un subito «s'innovò la pianta – che prima avea le ramora si sole». Dal corteggio beato si leva un inno che fa a Dante perdere la conoscenza. Al ridestarsi vede Beatrice assisa ai piedi della pianta, circondata dalle sette danzatrici, che hanno ciascuna impugnato uno dei sette candelabri. Essa è il testimone di quel che è il decorso della Chiesa nel tempo. La storia, che è profezia, sta per dischiudere agli occhi di Dante il suo significato recondito. E Dante sarà a Beatrice compagno, «silvano», per breve ora, nella ripristinata armonia dell'umanità, nel Regno dello Spirito, nel terzo stato. Dopo di che potrà salire a quella Roma celeste, di cui Cristo è cittadino. Come in Paolo, come in Gioacchino, così in Dante la visione profetico-apocalittica si sdoppia in due momenti: la parusia imminente, e la finale beatitudine eterna.

Ed ecco la serie dei quadri storico-apocalittici. Un'aquila si abbatte sull'albero rinverdito e colpisce «'l carro di tutta sua forza». Poi una volpe si avventa «ne la cuna del trionfal veicolo». Beatrice la pone in fuga. E l'aquila torna alla carica, lasciando «l'arca del carro... di sé piumata». Un drago esce dalla terra fra le due ruote e trascina via dal fondo, con la coda, una parte della conca del carro. Dopo di che quel che ne era rimasto si ricopre in un attimo di altre piume, e sul fondo e sulle ruote e sul timone. E agli angoli del carro, come sul timone, appaiono teste mostruose, bicornute le due del timone, con un corno ciascuna le quattro spuntate agli angoli del carro. Siamo alla suprema contaminazione. Sul carro sconsacrato, mutilato e oscenamente impinguato di penne altrui, si asside, al posto della cacciata Beatrice, una «puttana sciolta», la quale si abbandona a lascive carezze con un «drudo» che la flagella e la trae lungi, non appena vede che il suo occhio si volge «cupido e vagante» verso Dante. Nella desolazione universale provocata dalla macabra scena, Beatrice lancia il suo verdetto profetico e consolatore:

«Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.

...un cinquecento dieci e cinque (DUX)
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque».

Un secolo, o poco piú, prima dell'anno in cui Dante immaginava il suo viaggio d'oltre tomba verso l'empireo, un imaginifico calabrese aveva avuto anch'egli la sua visione. Ma la sua era stata la contemplazione profetica di un teologo; mentre la visione mistico-storica di Dante era la profezia di un poeta. Anche Gioacchino, nell'atto di accingersi alla segnalazione del cammino risolutivo della rivelazione di Dio nella storia, aveva veduto farglisi incontro sette candelabri luminosi. E li aveva minutamente descritti. Sono i sette tipi di interpretazione mistica ed allegorica, da applicarsi ai documenti ai quali la rivelazione di Dio nella storia degli uomini è affidata. Senza la luce di quei candelabri, i libri rivelati sono lettera, non sono mai spirito. E la lettera uccide: solo lo spirito vivifica.

Mercè la luce irradiata da quei sette candelabri, Gioacchino aveva cercato di scoprire lo Spirito sotto le fattezze dei ventiquattro vecchi, che sono i ventiquattro libri del Vecchio Testamento. E aveva constatato come, nel mo mento dell'apparizione della economia del Vangelo nel mondo, quei ventiquattro seniori si volgono con la faccia verso il carro che attende la discesa della spiritualità, verso il carro guidato dall'eterno Cristo, che è l'umanità in cammino verso i suoi destini. Gioacchino aveva numerato una ad una le corrispondenze armoniche fra i libri del Vecchio Testamento e i singoli libri del Nuovo: i quattro Vangeli, gli Atti, l'epistolario paolino, le quattro lettere cattoliche, l'Apocalissi di Giovanni.

Quest'ultimo libro, ultimo nel gruppo dei libri neotestamentari, aveva un significato peculiare. Costituiva, con le sue visioni profetiche, l'anello di congiunzione fra l'economia del Nuovo Testamento, realizzazione dei presagi del Vecchio, e l'economia della storia ecclesiastica, che attendeva un'altra realizzazione: quella dell'età dello Spirito e della piena vittoria della Ecclesia spiritualis. Meritava, l'apocalittista, di essere isolato dal gruppo degli altri autori neo-testamentari. E Gioacchino dedica a lui un commento vasto e accurato, analogo al suo commento sui quattro evangelisti. Non era Giovanni, come Tiresia, un cieco veggente, un dormiente desto, che sorrideva al corso mutevole e tumultuoso dei fatti, consapevole, come nessuno, del loro sbocco fatale e predestinato? A buon conto l'autore dell'Apocalissi canonica, nel suo stato di catalessi presaga, aveva visto emergere dal mare il dragone dalle sette teste, e tendere la sua insidia a tutti i sedotti abitanti della terra.

C'era altro còmpito, per il cristiano consapevole del duodecimo secolo, oltre quello di scoprire le gesta del dragone nei secoli della storia evangelica? Gioacchino aveva additato una ad una quelle sette teste dragoniche, nelle prove piú dure della spiritualità cristiana. Ad un secolo di distanza, Dante, sull'alto del paradiso terrestre, assiste con i medesimi occhi del Veggente della Sila alla processione storica del cristianesimo nel mondo.

Anch'egli applica la luce raggiante dei sette candelabri ai libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Anch'egli registra il loro incontro concorde ed univoco al momento dell'apparizione della spiritualità evangelica nella vita degli uomini. Anch'egli assiste al rifiorire dell'albero squallido e nudo d'Adamo, al tocco del carro salutare, guidato dal Cristo. E anch'egli, sulle orme del vecchio che dorme «con la faccia arguta», individua le teste del dragone satanico che lo insidia. Sono: la persecuzione dell'Impero romano; l'assalto dell'eresia debellato dalla reazione della Ecclesia spiritualis; la donazione di Costantino; la lacerazione islamica; la pinguedine ricattatrice dei doni terreni. Ed ecco che tutto il carro ha assunto fattezze di mostro apocalittico, dalle sette teste con dieci corna, talamo degli accoppiamenti inverecondi della Curia con i potentati della terra, la «puttana» e il «drudo». La Chiesa è, ad Avignone, nelle braccia oscene d i Filippo il Bello. Ma il carro procederà sulle ruote dei due nuovi Ordini religiosi e le ninfe che danzano intorno ad esse – le virtú cardinali e le teologali – prendono in mano i candelabri per la nuova irradiazione di luce.

Un secolo di inquietudine spirituale apocalittico-francescana e di turbinose vicende ecclesiastiche permette a Dante di abbondare in determinazioni cronologiche e cronistoriche, nel quadro allegorico dei momenti e delle prove attraverso cui è passato il carro della rivelazione di Dio nel tempo. Ma l'atmosfera in cui la sua ispirazione si muove è, intatta, l'atmosfera respirata da Gioacchino da Fiore: la tecnica della sua interpretazione – della Bibbia e della storia ecclesiastica – è tuttora, intatta e precisa, la tecnica del Veggente di Celico. Chi mutila e deturpa l'immenso sogno apocalittico del poeta, facendo di lui un circoscritto antesignano di idealità nazionali? Non vi è profeta che dell'universale. E Dante, che ha scritto una volta di sé queste amarissime e insieme sublimi parole: «Nos cui mundus est patria velut piscibus aequor – Per noi è patria il mondo, come per i pesci il mare» (De vulg. eloquentia, I, 6, 3), è profeta nel più autentico valore del termine. Solo le idee universali hanno significato per lui.

Aveva, Gioacchino da Fiore, scoperto nel mistero trinitario il simbolo programmatico della convivenza umana. Dante ragiona come lui. «Genus humanum maxime Deo assimilatur quando maxime est unum: vero enim ratio unius in solo illo est; propter quod scriptum est: audi Israel, Dominus Deus tuus unus est. Sed tunc genus humanum maxime est unum, quando totum unitur in uno; quod esse non potest, nisi quando uni principi totaliter subiacet, ut de se patet. Ergo humanum genus uni principi subiacens, maxime Deo assimilatur, et per consequens maxime est secundum divinam intentionem: quod est bene et optime se habere. – La famiglia umana allora in massimo grado rassomiglia a Dio, quando piú è una. Perché in Lui solo è l'essenza dell'unità. Onde è scritto: ascolta Israele, il tuo Dio è uno. E la famiglia umana allora è massimamente una, quando tutta si raccoglie e si fonde e si unifica. Ora ciò non si può verificare che ad una condizione: che tutta soggiaccia all'autorità di un solo potere. Per cui la famiglia umana tutta sottoposta ad uno solo potere, è fatta eccezionalmente simile a Dio, e quindi è nella massima misura conforme al piano divino» (De Mon., I, 8).

Naturalmente un secolo, e un secolo ricco e denso come il Duecento, non era passato invano fra il miraggio del contemplante di San Giovanni in Fiore e la passione drammatica dell'esule fiorentino. Tutto avvolto nell'aura mite e placida della sua lunga esperienza monastica; con l'anima piena delle glorie recenti e prodigiose dell'Ordine riformatore e dissodatore, che aveva· rinnovato l'economia, l'arte, l'idealità di tutta l'Europa, di quell'Ordine che a lui, povero servo della gleba, laggiú alle pendici della Sila, aveva dato personalità ed educazione, Gioacchino auspica l'età dello Spirito, come età di asceti e di contemplativi. Il Duecento ha laicizzato e portato nella fervida vita dei Comuni e delle scuole l'ideale della nuova età. E come Beatrice rappresenta l'avviamento verso una completa rivendicazione della femminilità nella spiritualità collettiva, al posto della Vergine Madre, che era stata l'ipostasi idealizzata della donna nella rivoluzione cistercense, l'ideale della vita pratica e concretamente vissuta, che Dante celebra, segna la traduzione reale, nella vita associata, dell'impetuosa volontà di rinascita cui la decadenza del vecchio mondo feudale aveva aperto il varco.

Ma l'attitudine profetica, da Gioacchino a Dante, non è sostanzialmente cambiata. Quando San Giacomo interroga Dante sulla speranza, Beatrice previene la sua risposta, dandogli questa altissima testimonianza:

«La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con piú speranza, com'è scritto
nel sol che raggia tutto nostro stuolo».

(Par., XXV, 52-54).

Dante avrebbe potuto a sua volta testimoniare cosí di Gioacchino. A distanza di un secolo, i due profeti si incontravano nel medesimo primato. Tutto era stato speranza in Gioacchino. Tutto fu speranza in Dante.

Egli si illudeva persino, al declinare rapido dei suoi giorni in esilio, che il «poema sacro», uscito dalla collaborazione del cielo e della terra, potesse vincere «la crudeltà» che lo «serrava fuori del bello ovile» dove aveva dormito agnello.

Ma no. Gli odi degli uomini sono piú forti di poemi e di profezie. Dante muore in esilio. La Firenze terrena tenne inesorabilmente chiuse le sue porte all'accorato grido dell'esule.

Ma che cosa sono mai le porte delle città terrene e delle anagrafi ufficiali? La speranza inconsumabile ha dischiuso a Dante le porte di una superiore città: quella in cui vivono, trionfanti, i profeti e i maestri, che hanno additato agli uomini l'unico ideale santo, l'ideale della verità e della fraternità nello Spirito e in Dio. Egli stesso ebbe chiarissima la consapevolezza della sua vocazione di martire e di profeta.

Nel suo poema Dante ha immaginato appunto che l'incoraggiamento al martirio gli venga da quello dei suoi antenati che, testimone anche lui, aveva dovuto dar luogo nelle memorie di famiglia al piú largo e appassionato fantasticare: dal trisavolo Cacciaguida. Questi era stato Crociato. Era andato cioè a cercare in Oriente la remissione della pena espiatrice delle proprie colpe, nella campagna per la conquista dei luoghi sacri. La Crociata cui Cacciaguida aveva partecipato era la seconda, quella che San Bernardo aveva predicato, nuovo Pietro l'Eremita, il 21 marzo 1146 a Vézelay, e che aveva avuto un esito tanto disgraziato da compromettere seriamente la buona fama del monaco. Da quella Crociata, Cacciaguida non era tornato. Ma il suo era stato un vero martirio, e dall'ignorato campo della sua cristiana battaglia era salito direttamente nel cielo di Marte.

Dante immagina di incontrarlo lassú, nella settimana santa del 1300. È un anno di perdono generale anche quello. San Francesco, realizzando un presagio di Gioacchino da Fiore, aveva voluto mostrare come fosse giunto il tempo nel quale la vittoria sull'Islam sarebbe stata una vittoria della predicazione, non delle armi. Ed era andato a predicare al Sultano. Poi, non potendo sognar di fare di tutti i cristiani altrettanti predicatori del Vangelo, aveva, con la riproduzione della grotta di Betlem nella stalla di Greccio, mostrato che il luogo piú sacro poteva ben ricostruirsi dovunque fossero anime pronte a prostrarsi dinanzi ad una rievocazione venerabonda delle scene della salvezza. Infine, per dimostrare che la completa estirpazione dell'onere di pena contratto con colpe anche rimesse non era legata all'assunzione delle armi e al viaggio d'Oriente, non si peritò lui stesso di assicurare l'indulgenza plenaria a chiunque avesse visitato, con animo contrito, la chiesetta della Porziuncola. Nell'immenso successo che accompagnò la disseminazione del messaggio francescano, la Curia avvertí il pericolo di una simile pratica, qualora si universalizzasse. Il pericolo non solamente investiva il proselitismo crociato, a cui il Papato non avrebbe potuto rinunciare senza rinunciare a uno dei suoi piú efficienti diversivi politici nella lotta implacabile contro l'Impero, ma investiva anche, indirettamente, le forme devozionali che avevano per meta Roma e per risultato l'impinguamento regolare delle casse curiali. Il giubileo di Bonifacio VIII ovviava soprattutto alla seconda minaccia. Sí, c'era la possibilità di conseguire, mercè la semplice visita ad un santuario, la medesima indulgenza plenaria, il cui conseguimento era stato la molla primaria dell'entusiasmo crociato: ma quel santuario doveva essere San Pietro di Roma. Fra i pellegrini del '300 Ponte Sant'Angelo conobbe Dante Alighieri. Ma poi, con il trascorrere degli anni e con l'infoschirsi della sua fede nella virtú salutifera della Chiesa romana, Dante sembra aver alimentato sempre minore confidenza nelle provvidenze spirituali della Curia. E come fa indugiare Casella alle foci del Tevere, senza eccessiva preoccupazione di un perdono che potrebbe piú sollecitamente portarlo in Paradiso, cosí si fa presagire da un «martire» suo antenato la propria vita di «martirio», e l'accetta coraggiosamente per poter poi, quando che sia, in virtú di questo stesso «martirio», salire anche lui direttamente all'Empireo. Anche il «martirio» importa un'indulgenza plenaria.

Che Dante, dettando il Paradiso negli ultimi anni della sua vita randagia e dolorosa, attribuisse valore di «martirio» a tutta la sua travagliata odissea di perseguitato politico e di rivendicatore sfortunato dei grandi principî cristiani dell'universalità nell'equilibrio dei poteri ecclesiastico ed imperiale, appare dall'ampiezza e dalla solennità dei particolari e dalla sacralità delle parole, con è evocato l'immaginario incontro col «martire» Cacciaguida. Il canto XVII del Paradiso è l'autobiografia di Dante in forma di profezia. E il sapore di presagio è dato dalla professione di fede che Dante innesta sul racconto postumo dei suoi casi. L'esilio sarà voluto da quella Curia «dove Cristo tutto dí si merca». Dante assaporerà tutte le umiliazioni e tutti i disagi dell'esilio accattone. La magnanima accoglienza di qualche insigne e generoso mecenate non riuscirà a placare la corrosione della quotidiana, logorante amarezza. Con una visione retrospettiva del suo quindicennio di martirio, Dante immagina di chiedere all'antenato, nella settimana di Passione del '300, se valga la pena di consacrarsi ad un ministero cristiano che costerà tanta angoscia, tanta sofferenza. Cacciaguida, il martire crociato, rincuora il suo pronipote, martire anche lui di un'altra Crociata: la Crociata, quale l'avevano immaginata Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi: predicazione inerme della unità cristiana a chiunque sia fuori della luce del Vangelo, sia esso il Sultano o il Papa. Non c'è predicazione pura che non porti effetto e non c'è dolore che non redima. Il messaggio del Deutero-Isaia trovava ancora una volta la sua attualità.

«Rimossa ogni menzogna,
tutta la vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,
che le piú alte cime piú percuote;
e ciò non fa d'onor poco argomento».

Ma quando cosí Dante, dopo piú che un quindicennio di esilio, riandando al suo penoso passato, immaginava di sentirsene fare il presagio dal suo glorioso trisavolo nel '300, e si domandava, col cuore stretto dall'angoscia, se antivedendo il suo martirio avrebbe ripercorso la strada amaramente battuta, rispondendosi che sí, il piú cocente tormento della sua vita non era ancora piombato su di lui. Sono infatti posteriori all'incontro con Cacciaguida nel cielo di Marte le allusioni alla folle politica di Giovanni XXII, lanciare l'interdetto contro i dominî di tutti i rappresentanti del potere imperiale in Italia. Subito dopo, salito nel cielo di Giove, il cielo della giustizia, che è distribuzione di poteri e cernita di valori, Dante invoca da Dio un rinnovarsi di quella santa ira che cacciò, a suon di fustigate, i mercatanti dal Tempio; onde cessi lo sconcio offerto dalla Curia, che dell'Eucarestia, simbolo e mezzo di fraternità e di pace, fa mezzo e strumento di guerra e di divisione fra cristiani, vietandone l'amministrazione dove siano ragioni di cupidigia e di rivalità politiche.

«Già si solea con le spade far guerra;
ma ora si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che 'l pio Padre a nessun serra».

E questa guerra combattuta fra Curia e parte dei fedeli a colpi di scomuniche e di interdetti è cosa che affligge cosí ferocemente l'anima ecumenica di Dante, che quando piú tardi pone sulle labbra irate di San Pietro la piú violenta invettiva che sia stata mai lanciata, in venti secoli di storia cristiana, contro il malgoverno curiale, il motivo ritorna, aspro e tagliente:

«Non fu nostra intenzion ch'a destra mano
de' nostri successor parte sedesse,
parte da l'altra del popol cristiano;

né che le chiavi che mi fur concesse
divenisser signaculo in vessillo,
che contr'a i battezzati combattesse;

né ch'io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond'io sovente arrosso e disfavillo».

Il tono dell'invettiva è troppo acre e troppo passionale, perché sia lecito supporla sgorgante da una contemplazione puramente teoretica della situazione politica e religiosa della Chiesa. Vien fatto di pensare piuttosto che Dante abbia risentito personalmente della pervicace crudeltà con cui Giovanni XXII infieriva, con i suoi interdetti, contro i vicari imperiali in Italia, Matteo Visconti, Cangrande della Scala, Passarino dei Bonacolsi. Non sarebbe stata la sentenza d'interdetto contro Verona, che impediva l'amministrazione dei Sacramenti nel territorio, a spingere via Dante, dalla corte dell'amico Cangrande, verso quella guelfa dei Da Polenta? Se sí, si spiegherebbe ancor meglio il cruccio di Dante, costretto da una scomunica papale e dal suo desiderio indomabile della vita carismatica, ad una secessione che dovette avere per lui sapore di ingratitudine. Non c'è dramma piú atroce nella vita che quello aperto dal contrasto fra i sentimenti umani e l'attaccamento implacabile a quei carismi, di cui la Curia è amministratrice insurrogabile e in pari tempo iniqua. Dante assaporò questo dramma fino in fondo? Possiamo pensarlo. E se l'ipotesi è giusta, come tutto lascia supporre, noi possiamo constatare che il dolore di Dante ha raggiunto le vette dell'umana capacità di soffrire. Ed egli accettò il martirio nella consapevolezza della sua indispensabile virtú salvatrice. Qui la grandezza umana del poeta e qui la ragione della sua irraggiungibile ispirazione.

Dante chiama Cristo il «nostro pellicano» e il pellicano, si sa, si squarcia il petto per dissetare col sangue i piccoli boccheggianti. Cantava la sequenza:

«Pie pellicane, Jesu Domine,
tu me immundum munda tuo sanguine,
cuius una stilla salvum facere
totum mundum quit ab omni scelere».

Per il cristiano genuino, e Dante lo è in grado eccelso, la sequela del Maestro non è pratica consuetudinaria o acquiescenza passiva ad una disciplina inanimata. È abnegazione e martirio.

Dante si è lacerato l'anima per farne sprizzare il sangue della sua rivelazione, e per ritemprare cosí le labbra inaridite di quanti, nel mondo, languono nella sete della pace, della verità e della giustizia. La lacerazione della sua anima era in fondo la lacerazione di tutta la Cristianità. Il Medioevo si chiudeva nella angosciante durezza di un dubbio insolubile. Quel Medioevo che aveva realizzato in una maniera cosí stupenda la divisione dei due poteri, il religioso e il politico, patrocinata dalle posizioni centrali del cristianesimo, come avrebbe potuto far sopravvivere le idealità centrali dell'Evangelo, dal momento che la Curia ufficiale si laicizzava nello sforzo stesso di perpetuare i suoi poteri, e l'Impero non riusciva a mantenersi integro nella dissoluzione della sua autorità politica? In Dante è il Medioevo soprattutto che trova la sua celebrazione epica e profetica: un Medioevo misticamente risognato e vagheggiato nelle sue linee programmatiche, piú che nella sua concreta attuazione. Proprio in questo carattere mistico della visione dantesca, la ragione degli ineffabili contrasti del poeta con se stesso.

L'invettiva di Pietro contro i Pontefici degeneri del XXVII canto del Paradiso, se costituisce una delle piú impressionanti scene del poema, rappresenta anche una delle piú violente diatribe che siano state mai scagliate contro la Curia romana. Ma quel medesimo poeta che ardisce accenti cosí temerari contro il Pontefice romano, è lo stesso che, nel canto XX del Purgatorio, leva il piú accorato lamento sulla scena di Anagni dove gli sgherri di Filippo il Bello hanno osato oltraggiare il Vicario di Cristo. Dante profeta è qui veramente interprete adeguato della tragedia che accompagna da secoli la coscienza cristiana nel mondo moderno, condannata in pari tempo a riconoscere la insufficienza della Cattedra romana ad assolvere la sua missione nel mondo, e ad avvertire che al di fuori della comunità cristiana di Roma non c'è possibilità di vita religiosa integrale e di salvezza ecumenica.

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