XIV IL MESSAGGIO GIOACHIMITA

Non è una pura circostanza occasionale che le masse partecipanti alla seconda Crociata fossero state premute da Ruggero II a prendere le vie dell'Italia meridionale e del Mediterraneo.

Il Mezzogiorno d'Italia, e in particolare la Calabria, risentivano, piú che ogni altra regione europea, le conseguenze remote della lacerazione dell'unità mediterranea operatasi nel secolo VII con la irruzione islamica, e in pari tempo avvertivano piú che ogni altra zona rivierasca del Mediterraneo la necessità di una ricostituzione unitaria di questo mondo su cui, dall'epoca dell'Impero di Roma, si erano venuti organizzando in una sostanziale solidarietà i traffici mercantili e culturali di tutto il mondo su cui Roma era venuta progressivamente stendendo la sua forza e il suo prestigio.

Specialmente la Calabria offriva, da questo punto di vista, una sensibilità peculiare. In realtà, la sua singolare configurazione fisica, con la esuberante ricchezza di coste e con l'aspra inaccessibilità delle sue montagne, non aveva mai consentito alla Calabria, né nell'antichità né nel Medioevo, uno sviluppo omogeneo fra le sue varie parti. Popoli e civiltà in contrasto vi avevano per millenni spiegato l'irriducibile contesa delle loro rivalità e delle loro indomabili aspirazioni ad una propria egemonia. Per cui, in ogni momento e in ogni aspetto della storia calabrese, occorre rifarsi alla molteplicità dei tipi etnici e alla emulazione dei cicli culturali, per comprendere le forze profonde costantemente in opera o in agguato in quel tormentato territorio.

Le stesse sorti migranti della toponomastica hanno in qualche modo rispecchiato le complesse vicende politiche e civili della regione. Inizialmente usato per designare la penisola che si stende da Taranto al promontorio Japigio, parte quindi dell'Apulia nettamente distinta dal Bruzio, abitato dai ribelli Lucani, il nome di Calabria è andato adagio adagio designando la penisola montuosa del Sud-ovest, mano mano che i Longobardi corrodevano al Levante i possessi bizantini.

A mezzo il secolo ottavo tali possessi si ripartiscono in due nuclei nettamente distinti: da una parte il litorale campano, sottoposto al duca di Napoli; dall'altra, alle due estremità meridionali della penisola, Calabria e Terra di Otranto, le quali formano appunto un unico distretto amministrativo: il ducato calabrese. Il quale, strettamente unito al thema siculo ancor prima che Ravenna e Roma fossero perdute per l'Impero, ne segue le sorti sotto gli imperatori iconoclasti, gravitando, civilmente ed ecclesiasticamente, verso Bisanzio.

Ma il ducato calabrese cosí costituito non abbracciava neppure esso tutto il Bruzio. I Longobardi di Benevento ne avevano attaccato la valle del Crati con Cosenza e Bisignano. Comunque, i Bizantini continuavano a mantenere nelle loro liste ufficiali il nome di Calabria, applicandolo al territorio rimasto effettivamente in loro possesso, mentre il duca longobardo di Benevento, sopravvissuto alla caduta del regno nel 774, raggruppava nel suo principato le vecchie regioni del Sannio, dell'Apulia e della Lucania ed una zona della Calabria, che aveva per frontiera una linea partente sul Tirreno a nord di Amantea e che, abbracciando tutto il bacino del Crati, giungeva alle foci del fiume per passare a sud di Taranto e di Oria, e per sboccare poi nell'Adriatico a sud di Brindisi.

La dinastia macedone, che restaurava fortunosamente le sorti dell'Impero ad Oriente, aveva ripreso anche in Occidente il grande programma giustinianeo. E attraverso difficoltà ingenti e scacchi ripetuti, Basilio I, Leone VI, Niceforo Foca, avevano assicurato il ripristino del dominio imperiale in Italia. Fra il 1020 e il 1025, quando già i primi avventurieri normanni avevano dato principio alla loro romanzesca avventura nel Mezzogiorno, la potenza bizantina aveva riguadagnato molto del suo prestigio.

La Sicilia, è vero, era ormai tutto un possesso musulmano e le Repubbliche marinare del Mezzogiorno napoletano e i principati longobardi mantenevano la loro autonomia. Ma la riconquista aveva dato a Bisanzio una parte non indifferente della penisola, per quanto lo sforzo non dovesse portare a risultati duraturi. Nel giro di un trentennio esso precipitava nel nulla. Segno cotesto della precarietà e della superficialità della penetrazione bizantina nel Mezzogiorno italiano. La conquista di Bari nel 1071 per opera di Roberto il Guiscardo, dopo un assedio di un biennio, segnava la separazione definitiva dell'Italia meridionale dall'Impero.

Seguiva la conquista normanna della Sicilia e, a coronamento di questi grandi avvenimenti, si aveva nel Natale del 1130 la incoronazione di Ruggero II a re «del regno di Sicilia, della Calabria e dell'Apulia, del principato di Capua, insieme all'onore di Puglia e al soccorso degli uomini di Benevento». Due mesi prima la corona eragli stata elargita da quel Papa Anacleto II, Pierleoni, che la propaganda di San Bernardo, favorevole ad Innocenzo II, designava come antipapa. E non è da escludere che precisamente l'atteggiamento da assumere di fronte ai Normanni e di rimbalzo di fronte all'Impero gravitante piuttosto sul continente europeo, non pesasse precipuamente in questa lotta dei due Pontefici, che tenne per anni scissa la Cristianità europea.

I condottieri della seconda Crociata dovettero necessariamente tener conto della politica seguita da Ruggero II. Non riuscendo nell'intento di convogliare le forze crociate verso i propri territori, egli si disinteressò della spedizione verso la Terra Santa, approfittando del momento per spedire la sua flotta a compiere ruberie e devastazioni a Corfù, a Neapolis, a Tebe, a Corinto. Al ritorno dalla disgraziata spedizione levantina Luigi VII, battendo questa volta l'itinerario dell' Italia meridionale, si incontrava con Ruggero a Potenza, sul cadere dell'estate del 1149, e nell'ottobre successivo si incontrava a Tivoli con Eugenio III.

Questa volta Ruggero tentava di approfittare del fallimento della Crociata per organizzare le Potenze europee contro Costantinopoli. Corrado imperatore doveva mostrarsi contrario a simile iniziativa. L'astuto svevo, preveggente e lungimirante, capiva molto bene che, dal punto di vista della politica realistica, la restaurazione della potenza imperiale in Italia, di cui il Papato aveva cercato di allontanare la minaccia spingendola verso la via di Gerusalemme, valeva molto meglio di una qualsiasi avventura orientale, di cui il massimo beneficiario sarebbe stato l'accorto re siculo. Corrado moriva il 15 febbraio 1152. Federico successogli doveva però riprenderne totalmente i piani.

Di quale entità era stata, dall'epoca soprattutto della persecuzione iconoclastica, la penetrazione bizantina nell'Italia meridionale? Di quale entità soprattutto era stata la propagazione del monachismo basiliano in terra sicula e calabrese? All'epoca dei Macedoni, i monaci itineranti, gli asceti girovaghi, i nuclei basiliani, furono indubbiamente propagatori instancabili dell'orientalesimo religioso nell'Italia meridionale. Venuti dalla Sicilia o usciti da nobili famiglie locali, i monaci esercitarono, specialmente nella terra di Calabria nel nono e decimo secolo, un'azione spirituale di cui sussistono tracce letterarie insigni. Basta ricordare la biografia di Elia il Siciliano, nato a Castrogiovanni, morto a Tessalonica, e quella di Elia di Reggio, soprannominato lo Speleota, l'uomo delle grotte, nato e morto in Calabria. Ad un periodo un po' piú recente del loro appartengono i Santi Cristofaro, Macario, Sabe, nati in Sicilia, ma vissuti in quei mercuriacà di cui parlano anche gli atti relativi a San Nilo, come di una regione piena di istituzioni monastiche, che sembra doversi localizzare a nord della valle del Crati fra Cassano e Castrovillari.

In tutta questa teoria di monaci italo-bizantini domina la figura di San Nilo, nato verso il 910 a Rossano e vissuto dapprima nella piena licenza del mondo e poi bruscamente convertitosi a vita ascetica. Egli è il rappresentante tipico delle forme monastiche e delle aspirazioni ultra-ascetiche che, fiorite copiosamente nell'Egitto post-costantiniano, trapiantate in Anatolia da Eustazio di Sebaste e da San Basilio, avevano impresso la loro orma su tutta la tradizione dell'ascetismo organizzato bizantino-orientale. Aspramente e diuturnamente combattuto fra la vocazione eremitica e quella cenobitica, permanentemente instancabile, migrante, come tutti i suoi confratelli, da laura a laura e da cenobio a cenobio, praticante un'astinenza che terrifica e una disciplina che non perdona, Nilo personifica nell'Italia calabra, piú aperta ai contatti bizantini, lo spirito dell'ascesi orientale. Venerato dalle popolazioni come un eroe dello spirito e un taumaturgo, invocato nelle distrette come un intercessore efficace presso le autorità politiche, che nutrono e ostentano per lui tutti i riguardi; il monaco di Rossano tradisce una sagoma profondamente diversa da quella dei monaci latini, retti dalla mite ispirazione della Regola benedettina o dal misticismo della vita associata, quale traspare dalla Charta charitatis. Se le occupazioni giornaliere di Nilo, quali ci sono descritte dal suo biografo, fan rassomigliare in qualche modo la regola della sua esistenza a quella dei monaci benedettini, lo spirito generale del monachismo basiliano è sostanzialmente diverso da quello che, contemporaneamente a Nilo, al di là del massiccio della Sila, animava i cenobi latini. Anche per Nilo e i suoi seguaci il canto e la trascrizione dei codici costituiscono gli elementi centrali della cultura monastica. Ma le tradizioni su cui l'attività liturgica e l'operosità paleografica si svolgono nelle due grandi correnti monastiche si contrappongono, come tutto ciò che è uscito dalle due grandi madri del cristianesimo mediterraneo: Roma e Bisanzio. Nel Mezzogiorno d'Italia le due correnti si toccano, senza fondersi. La Sila segna la linea dello spartiacque spirituale.

Nessun documento ci consente di redigere un novero attendibile dei cenobi basiliani della Calabria e della Terra d'Otranto nell'epoca bizantina. I monumenti superstiti, che hanno probabilmente ripreso ed utilizzato vecchie edicole bizantine abbandonate, appartengono al periodo normanno. E anche essi fan pensare a un'esiguità di proporzioni e a una limitatezza di istituzioni, che trovano del resto la loro ragione nella stessa legislazione bizantina in fatto di proprietà ecclesiastica e monacale.

Non è da credere che l'ecclesiasticismo latino assistesse inerme e indifferente al dilagare del bizantinismo nell'Italia meridionale. Le competizioni piú tenaci fra penetrazione bizantina e giurisdizione latina e romana si rivelano sul terreno delle circoscrizioni vescovili e su quello dell'organizzazione cenobitica. Al monachismo basiliano si opponeva il monachismo benedettino. E non è senza profondo significato il fatto che, quando nel 1137 Bernardo si riconciliò con Ruggero II dopo la scomparsa di Anacleto e dopo il trionfo del Papa del suo cuore, Innocenzo, il terreno piú appropriato per la riconciliazione fosse il programma agricolo e morale della riforma cistercense. San Bernardo era pronto a dimenticare tutto, quando si trattava di disseminare i germi delle sue fondazioni monastiche. E d'altro canto Ruggero doveva essere ben soddisfatto di guadagnare la simpatia del grande monaco, favorendo la propagazione di un Ordine che aiutava il suo programma della latinizzazione religiosa del regno e offriva un contributo cosí cospicuo alla colonizzazione delle sue terre e alla loro redenzione dalla malaria e dalla incoltura.

Nacquero cosí i primi cenobi calabresi di Sambucina e Corazzo, nel momento stesso in cui alle porte di Roma cominciava a fiorire il cenobio delle Tre Fontane e nelle paludi Pontine si preparavano i centri cistercensi di Fossanova.

Ad una di queste Badie calabresi venne un giorno a chiedere ospizio un figlio della gleba nato a Celico, in quel territorio cosentino nel quale le tradizioni latine avevano mantenuto piú saldamente le loro linee difensive, aiutate dalla stessa configurazione degli itinerari sui quali esse avevano potuto fronteggiare la tenace penetrazione del bizantinismo. Si chiamava Gioacchino. La sua vocazione monastica può verosimilmente porsi in rapporto con la fortunata propaganda ascetica che ha accompagnato sempre alle calcagna San Bernardo nei suoi infaticabili spostamenti e che deve aver seguìto il suo viaggio nel Mezzogiorno d'Italia dopo la fine dello scisma di Anacleto II.

Gioacchino doveva essere allora, verso il 1137, appena adolescente e nella sua fantasia il successo della propaganda bernardiana si deve essere impresso con i colori di quei solleticanti miraggi che cosí spesso decidono nell'epoca della pubertà il destino delle giovani vite. L'ideale monastico fu per lui, proprio perché sgorgato dalle radici piú intime della sua esperienza giovanile, una realtà sacra ed una consegna inderogabile.

Molti anni piú tardi, quando la lunga carriera monastica gli ebbe consentito di constatare come i «veri monachi» non esistessero quasi affatto, egli manteneva ancora fede all'ideale monastico dei suoi primi anni, celebrandone, senza deviazione, il còmpito assoluto e intransigente.

Scriveva egli allora: «Chi è veramente monaco, una sola cosa reputa propria: la cetra, che è l'uomo nuovo creato a immagine di Dio e sotto l'operazione dello Spirito Santo, vibrazione ardente delle tre corde supreme di cui l'Apostolo ha detto: – Rimangono tre cose: la fede, la speranza e la carità. – Non può infatti liberamente lodare Iddio il cuore gravato dai fantasmi delle realtà sensibili e dalla preoccupazione del mondo. Là dove è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore. – Allora noi tragghiam dal nostro cuore i motivi della fede, della speranza e della carità, quando l'animo nostro è sgombro dall'attaccamento di qualsiasi cupidigia. Per cui non impropriamente i vittoriosi, secondo l'Apocalissi, della Bestia, della sua immagine e del numero del suo nome, sono descritti come aventi nelle loro mani le cetre di Dio, poiché coloro i quali custodiscono i loro cuori sgombri da cupidigia mondana meritano di essere colmati dai doni celesti, come al contrario non meritano di rivestire l'uomo nuovo coloro che non si curano di spogliarsi del vecchio e di accogliere i doni dello Spirito Santo, coloro che non disdegnano i favori del secolo. Chi dunque vuol cantare sulla cetra, miri a vincere non solamente la Bestia e l'immagine, bensí anche il numero, perché è indegno della familiarità del Cristo chi cammina carnalmente sulle orme dell'uomo vecchio».

Roma cristiana aveva cristianizzato la Gallia. La latinità cristianizzata aveva suscitato nella Gallia domata quell'episcopato cristiano, che, trasferendo l'amministrazione degli uomini dal campo civile in quello religioso, aveva preparato il terreno all'organizzazione cristiana del Medioevo.

Il latino San Benedetto aveva offerto all'Occidente cristiano, al momento del suo disfacimento politico, i nuclei alimentatori della nuova disciplina associata. Il monachismo benedettino aveva trovato nella Francia cristiana le sue riforme di Cluny prima, di Cistercio poi, come all'epoca dei primi carolingici aveva con Benedetto di Aniano cercato di recuperare la sua rigida disciplina e il suo ideale civilizzatore.

Ora la grande anima di San Bernardo, nobile borgognone, aveva ancora una volta risuscitato dalle sue primitive ispirazioni la virtú pedagogica del monachismo benedettino. In questo momento solenne, però, chi doveva spremere dalla riforma cistercense tutta la sua virtú profetica e tutta la sua capacità rivelatrice doveva essere questo monaco calabrese, figlio della gleba, che attraverso la vocazione monastica aveva trovato la sua libertà e che della vocazione monastica voleva fare l'inizio della grande palingenesi religiosa.

Dalle alture della Sila, che il suo nuovo Ordine faceva faro di cultura e di rinascita nello spirito, Gioacchino si apprestava ad annunciare l'avvento della terza economia e dei nuovi valori. L'elemento «fascinoso», la visione cioè definitiva del Regno di Dio, riaffiorava su improvvisamente dagli strati piú intimi e profondi della tradizione cristiana.

Ma dal giorno in cui il cristianesimo è entrato nel mondo come annuncio del Regno di Dio e come reintegrazione in questo Regno di tutti i valori e di tutti gli ideali che la empirica vita degli uomini malmena e bistratta, l'elemento «fascinoso» dell'esperienza cristiana non può esplicarsi che come forma di ritorno alle origini e come realizzazione di quell'avvento dello Spirito consolatore che nel Vangelo giovanneo è annunciato quale coronamento conclusivo della rivelazione portata da Cristo sulla terra.

L'annuncio profetico di Gioacchino da Fiore fu pertanto annuncio di una nuova economia religiosa, destinata a realizzare alfine quel che nel Nuovo Testamento era stato soltanto incipiente simbolismo. Profeta nel piú squisito senso della parola, Gioacchino scorge nel mondo circostante la manifestazione peritura di una economia in dissoluzione.

D'altra parte, egli ha alle spalle questa formidabile trasformazione della civiltà europea effettuata dalla riforma cistercense. Una riforma, questa, che non aveva espresso ancora dalle proprie viscere tutto quello che di spiritualmente innovatore essa portava agli uomini. Gioacchino ne è il predestinato celebratore. E conviene registrarne con ampia fedeltà i presagi e i verdetti, perché, come la parola della Cristianità primitiva, la sua parola è veramente innovatrice.

Tutto pervaso da preoccupazioni morali, tutto proteso verso la nuova rivelazione religiosa, Gioacchino non guarda gli eventi che per scoprirvi i segni preannunciatori della rinascita spirituale destinata a portare agli uomini la rivelazione piena dello Spirito Santo.

L'ambigua e oscillante storia del Papato attraverso le dure competizioni politiche italiche dell'XI e XII secolo fra Impero, Normanni, libertà comunali, ha in Gioacchino un evocatore e un valutatore circospetto e sagace. Il suo occhio si riposa con compiacimento nostalgico sul passato, sul ricordo già ormai lontano dell' Impero franco e dei primi Ottoni, quando veramente era parso che l'Europa potesse adagiarsi fruttuosamente sulla situazione di equilibrio stabile tra i due poteri, il politico e il religioso, la cui concorde coabitazione sembra l'ideale supremo dell'esperienza cristiana. Dopo erano state di nuovo discordie amare, che avevano devastato e insanguinato la misera Italia, portando la nave di Pietro nell'abisso.

I Papi che erano scesi in campo contro i Normanni e avevano compromesso cosí a cuor leggero il decoro e il prestigio della Chiesa in avventure militari in cui avevano avuto miseramente la peggio, passano tristemente dinanzi alla fantasia del «Veggente», come esempio tipico di quel che costi alla purezza dell'amministrazione ecclesiastica la cupidigia dei vantaggi terreni. Sui fantasmi però delle lotte di Leone IX e di Innocenzo II, si sovrappone nello spirito di Gioacchino la memoria recente dell'epica sollevazione dei comuni lombardi contro il dominio teutonico e della riconciliazione di Venezia, auspice Papa Alessandro III.

Le tribolazioni tuttavia si erano rinnovate piú angoscianti che mai subito dopo, e Gioacchino sembra domandarsi se i provvedimenti papali escogitati per amore di pace e di sicurezza, avevano rappresentato veramente la tutela piú acconcia degli interessi di Dio. Con un accenno sorprendente alla legge della eterogenesi dei fini da cui è dominato il corso degli umani casi, Gioacchino osserva che ben di frequente, quanto i praelati reputano bene, si traduce in male per i sudditi, e viceversa, quanto i praelati vorrebbero scongiurare come male incalcolabile, finisce col rappresentare un imponente vantaggio per la massa.

Non è da credere però che Gioacchino abbia qualità e temperamento di cronista. Il suo spirito è troppo intensamente dominato dal miraggio della palingenesi religiosa nello Spirito per non essere tratto a colorire a suo modo tutto quel che passa sul diaframma della sua esperienza e della sua osservazione. Persuaso che dai tempi di San Silvestro in poi, da quando al cristianesimo fu garantita la completa libertà di organizzazione e fu concessa una floridezza terrena, la purezza ecclesiastica si è annebbiata e i costumi si sono imbarbariti, Gioacchino reputa di appartenere al tramonto dell'economia religiosa inaugurata con l'avvento del Figlio di Dio sulla terra; di essere ormai al tramonto dei tempi e di poter annunciare la palingenesi universale. Egli stesso dice di appartenere alla generazione di quel nuovo Esodo, che deve portare i credenti nello Spirito dalla seconda alla terza età, ad una reviviscenza cioè della Cristianità primitiva, di contro all'egoismo e all'avidità dominanti. Si tratta di un Esodo pieno di incognite e di trepidazioni, che dovrà effettuarsi sotto la ferula pungente dell'Anticristo. Occorre dunque affrettare il passo e bandire senza riposo, finché è possibile, il messaggio della purificata spiritualità cristiana. Dopo anni ed anni di siccità, è il tempo questo della pioggia benefica e Gioacchino si sente l'Elia della irrigazione prodigiosa.

Ora, all'inizio della terza età, si sta per tradurre compiutamente in atto, fuori di ogni simbolo, e al di là di ogni Sacramento figurativo, la stupenda economia della libertà e della carità, che ebbe nel Vangelo una semplice premessa e che sarà inaugurata da un ordine spirituale e mistico, che sfugga ogni grandezza terrena e aspiri unicamente alla contemplazione e alla pace.

E come nell'epoca neo-testamentaria la rivelazione del Cristo si era potuta effettuare solo attraverso una interpretazione allegorica di tutta l'economia del Vecchio Testamento ed una riduzione a simboli misteriosi di tutta la precedente storia d'Israele (San Paolo come Filone non sanno fare altra esegesi che quella allegoristica delle tradizioni mosaiche e bibliche) cosí ora Gioacchino da Fiore, accingendosi a bandire agli uomini l'annuncio della nuova rivelazione nello Spirito, applica criteri allegoristici all'interpretazione di undici secoli di storia cristiana.

Non è quel che accade sempre, in quella qualsiasi confessione religiosa che si sforzi di conguagliare i suoi testi canonici alle mutevoli condizioni del mondo in mezzo a cui svolge la propria opera di magistero e di proselitismo? Già gli antichi scrittori cristiani, da Origene a Sant'Agostino e da Sant'Agostino ad Eucherio di Lione, costretti ad interpretare quella tradizione biblica che il cristianesimo aveva fatta propria, per poter ricongiungere i propri titoli giustificativi alle origini stesse della umanità, avevano ampiamente formulato la dottrina dei molteplici sensi scritturali.

Da questo punto di vista Gioacchino da Fiore non è originale. Il simbolismo allegorico, la tipologia simmetrica, imprimenti un'andatura che quasi potremmo definire geometrica alle sue expositiones scritturali, costituiscono semplicemente una applicazione organica e coerente dei principi tradizionali della esegesi patristica. Ma, a ben pensarci, lo stesso virtuosismo sfrenato mercè cui Gioacchino sembra quasi svalutare in radice e annullare in definitiva ogni significato e ogni valore reale dei racconti rivelati, per scoprirvi unicamente una prefigurazione degli eventi ai quali è prossimamente destinata la società cristiana, è oltre ogni dire insurrezionale.

Può sembrare alla superficie un'applicazione pedante, si direbbe quasi meccanica, di regole e di consuetudini esegetiche preesistenti; in realtà finisce con il diventare un vero insegnamento personale originale, perché non soggiace a preoccupazioni di minuta e fedele compiutezza ermeneutica, bensí a intenti arditissimi di innovatrice propaganda religiosa. Lo spiritualismo a oltranza di Gioacchino sembra letteralmente ubriacarsi in un'orgia di simboli e di corrispondenze fantastiche, sembra voler essere una specie di rito di iniziazione ad una nuova, solenne, definitiva «epifania» della «buona novella».

Per questo le opere di Gioacchino non possono davvero essere considerate e consultate come racchiudenti la enunciazione ordinata e la giustificazione organica di un sistema. Quando mai il profeta si è potuto sdoppiare in un accademico? L'ammonimento appassionato di Gioacchino è l'annuncio di un predicatore di conversione; i suoi scritti quindi rigurgitano di ripetizioni e di divagazioni. Un intento costante però li anima e li riscalda: quello di guadagnare proseliti all'annuncio della prossima palingenesi religiosa. Si ha quindi l'impressione che, di volta in volta, il monaco rivolga la sua parola ardente a pubblici diversi, tanto è uniforme e monocorde la proclamazione della sorte che attende ormai irrimediabilmente la morente economia della disciplina letterale. La stessa enunciazione e delimitazione dei canoni ermeneutici che presiedono alla riprova scritturale dei vaticini che Gioacchino scandisce con sicurezza oracolare, non sono collocati a principio dei commenti biblici; al contrario, sono disseminati occasionalmente nel corso della esposizione, che torna, con ricchezza lussureggiante di immagini, sui motivi cardinali della nuova Apocalissi.

Questo non vuol dire che, raccolti con cura dai passi nei quali sono enunciati e delineati, tali canoni ermeneutici non costituiscano un complesso di criteri interpretativi, ai quali Gioacchino rimane costantemente fedele, pur nella varietà apparentemente incomposta dei suoi simboli, ridotti ad unum, sempre, dalla vocazione profetica, che va disperatamente cercando nella cronistoria del passato tutti gli spunti capaci di offrire termini di parallelismo e giustificazione allegorica ai presagi, di cui si nutre la predicazione del «Veggente».

Qui probabilmente la differenza sostanziale fra Gioacchino e tutti i suoi predecessori, remoti e prossimi, cosí, nella utilizzazione della parola rivelata, come nella ispirazione dei loro accenti parenetici. E qui anche la ragione profonda per cui la predicazione di Gioacchino da Fiore segna una svolta nella storia del cristianesimo, e apre in realtà le porte di un nuovo, sorprendente periodo cristiano. Non importa che la sua previsione non si sia realizzata, e che l'età del terzo stato, l'età dello Spirito Santo, si sia concretata poi nell'epoca dell'Inquisizione e della dogmatica scolastica. Neppure il cristianesimo antico vide il sorgere di quell'alba del Regno di Dio, sulla cui imminenza esso aveva puntato tutto il repentaglio della sua speranza, del suo pericolo, del suo eroico sacrificio.

L'altezza di un'esperienza spirituale non si misura dal suo successo empirico. Queste sono misure che spettano alla città del mondo. La città di Dio in formazione, il corpo mistico del Cristo che si viene organando nella storia, non vivono di successi empirici, vivono e fruttificano solo in virtú dell'altezza del loro sogno. Perché ha detto San Paolo, con parola profondamente aderente alla piú misteriosa ed intima dialettica della vita spirituale, che la speranza, per essere corroborante e fruttifera, deve essere speranza di cose che non si vedono, perché la cosa veduta, per la contraddizione che non consente, non può essere piú sperata.

Mentre, un secolo e mezzo prima di Gioacchino, Anselmo di Aosta, con la sua dimostrazione dell'esistenza di Dio, chiudeva il periodo della fede cieca nell'opera di Dio, presumendo di chiudere l'esistenza di Dio nell'ambito delle capacità raziocinanti dell'uomo, Gioacchino da Fiore riapre, spalancandole, le porte della cieca speranza, dischiudendo, mercè tutti i calcoli pitagorici che vogliono apparire a lor modo argomenti, la visuale di una nuova economia religiosa, che avrebbe sostituito, ai simboli dell'epoca del Figlio, le realtà dell'epoca del Paracleto.

Mentre nelle mani di un Ambrogio, di un Agostino, di un Cassiodoro, e poi piú tardi dei mistici di San Vittore e possiamo dire di quel San Bernardo stesso che è il genio tutelare dell'Ordine di cui Gioacchino è il rampollo nel medesimo tempo ribelle e genuino, il simbolismo e l'allegoria sono praticati con intenti prevalentemente teologici, disciplinari e morali, nelle mani di Gioacchino divengono tutt'altra cosa. La interpretazione cioè simbolistica ed allegorica è per lui strumento e mezzo di annuncio profetico. Assume pertanto valore di metodo per la segnalazione delle figure escatologiche.

Se Gioacchino ha in comune con tutte le espressioni storiche della esperienza mistica il senso profondo del collegamento ineffabile, quale si stabilisce tra lo spirito contemplante e Dio, e quindi la coscienza viva della immediata propinquità carismatica dell'azione divina all'anima credente; se, come i mistici di ogni tempo e di ogni luogo, Gioacchino proclama la necessità di chiudere gli occhi sensibili al panorama dissipatore del mondo, qualora si vogliano aguzzare gli sguardi delle pupille interiori sul mondo delle realtà trascendenti; per altro verso egli si discosta di molto dal tipo consueto del mistico cristiano. Se ne discosta a causa della sua consapevolezza sempre presente del vincolo che lega il destino spirituale dell'individuo a quello della massa; se ne discosta con la sua inclinazione invincibile a scorgere il problema della salvezza proiettato sullo schermo di una palingenesi universale, attraverso la quale la spiritualità collettiva potrà e dovrà essere elevata ad una altezza mai raggiunta, anzi, se vogliamo parlare propriamente, dovrà essere portata alla sua consumazione beata.

Sicché noi vediamo che Gioacchino non scrive mai per effondere la gioia della sua anima irrorata dalla grazia. Egli scrive sempre e solamente per tener desta e viva nei fratelli, che non sono piú soltanto i confratelli del cenobio come per San Bernardo, ma i fratelli di tutta la famiglia cristiana, il senso estatico della trasfigurazione imminente di tutti i valori su cui hanno poggiato, nei secoli, la tradizione del Vangelo e la organizzazione della Chiesa.

Egli annuncia la nuova Apocalissi, e si immagina di essere, come Elia, in atto di sovrapporre, con le sue Concordie, l'acqua del Nuovo Testamento sull'altare del Vecchio, in attesa della discesa di quel fuoco dello Spirito, che avrebbe divorato e consumato ogni materialità crassa, cosí nella intelligenza come nella pratica. Non esita a paragonare l'alba del terzo stato, quale sta illuminando le sue pupille ansiose, all'apparizione del Cristo e agli inizi della predicazione evangelica. Si direbbe anzi a volte che nello sforzo sostenuto, con pertinacia·imperturbabile, per ricollegare gli eventi preliminari della nuova economia dello Spirito ai simboli racchiusi nei primordi della seconda età, l'età del Verbo incarnato, ormai moritura, Gioacchino sacrifichi la realtà concreta dell'iniziale epoca cristiana per scoprirvi solamente tipi, prefigurazioni, sacramenti, misteri. Proteso verso la veniente libertà dello Spirito, Gioacchino intende e spiega il passato, storico e rivelato, come una immensa parabola, di cui occorre cogliere i significati riposti e i valori tipici. Tutto, nella Scrittura, dal racconto genesiaco della creazione al ricordo scritto delle primissime origini evangeliche, va inteso come una tessitura mirabile di simboli e di Sacramenti, la realtà dei quali, rimasta finora oscura e indecifrata, sarà posseduta, fuori di ogni velo, unicamente nel nuovo Regno dello Spirito. Ché la storia morale e sociale degli uomini rassomiglia a una sin fonia in tre tempi, ciascuno dei quali ripete motivi analoghi, in una stupenda simmetria, la quale procede lentamente verso la suprema rivelazione dello Spirito Santo, sinonimo di luce, di amore, di quiete e di contemplazione.

Chi è inviato da Dio a illuminare la via dei successivi trapassi, attenderà a individuare nei tempi passati i «motivi» da ripetersi, compiutamente sviluppati, nell'avvenire. Ecco perché, all'inizio del terzo stato, la esegesi ha il còmpito di scoprire la concordia, la «somiglianza cioè equamente proporzionata», fra il Nuovo e il Vecchio Testamento e, in linea parallela, quello di individuare i significati «allegorici» – «allegoria è la rassomiglianza di una cosa piccola a un'altra grande» – cosí dei personaggi e degli eventi del Vecchio Testamento in rapporto ai personaggi e agli eventi del Nuovo, come dei personaggi e degli eventi del Nuovo in rapporto ai personaggi e agli eventi del terzo stato, di imminente inaugurazione.

La segnalazione dei valori allegorici nei documenti della rivelazione è còmpito complesso e arduo per la natura stessa molteplice dell'allegoria. Gioacchino ne enumera e definisce sulla scorta della tradizione esegetica ecclesiastica, ripetute volte, i vari tipi. L'enumerazione piú matura appare quella contenuta in un passo del De articulis fidei. «Come l'amore rappresenta la consumazione della legge, cosí l'intelligenza anagogica rappresenta l'apice e la consumazione delle cinque intelligenze. La prima intelligenza, quella storica, ebbe i suoi simboli in Tare, non pervenuto alla terra promessa, ma morto in Aran. La seconda, l'intelligenza morale, è simboleggiata nelle due mogli di Abramo, il quale giunse alla terra promessa; da questa intelligenza prendono inizio le forme della intelligenza spirituale. La terza intelligenza, quella tropologica, è simboleggiata nei due figli di Isacco, il minore dei quali si accaparrò la benedizione del maggiore. La intelligenza contemplativa è simboleggiata nelle due mogli di Giacobbe, la prima delle quali designa la vita dei cenobiti, la seconda la vita eremitica. Infine l'intelligenza anagogica è simboleggiata nei due figli di Giuseppe... L'intelligenza tipica, a sua volta, ha sette fogge diverse. A norma della prima, Abramo simboleggia i Pontefici degli Ebrei, Agar il popolo israelitico, Sara la tribú di Levi. A norma della seconda, Abramo significa i vescovi, Agar la Chiesa dei laici, Sara quella dei chierici. A norma della terza Abramo simboleggia i superiori dei cenobi, Agar la Chiesa dei conversi, Sara quella dei monaci. A norma della quarta, Abramo designa i Pontefici degli Ebrei e i vescovi dei Greci, Agar la sinagoga degli israeliti, Sara la Chiesa dei Greci. A norma della quinta, Abramo designa i Pontefici degli Ebrei e i vescovi dei Latini, Agar la sinagoga, e Sara la Chiesa dei Latini. A norma della sesta, Abramo designa i prelati del secondo e del terzo stato, Agar la Chiesa dei lavoratori, l'attuale, Sara la Chiesa dei riposantisi, quella che sarà nel terzo stato, quando alla plebe di Dio sarà elargito il suo anno sabbatico».

Altrove egli poi definisce piú direttamente, additandone applicazioni diverse, l'àmbito delle singole forme di «intelligenza». Intelligenza storica è definita quella che mostra come un istituto è concepito su un modello storico, come quando, a somiglianza di Cristo e dei suoi dodici Apostoli, un abbate è mandato con dodici monaci a inaugurare un nuovo cenobio. L'intelligenza morale è quella che mira alla istituzione dei costumi. L'intelligenza tropologica è quella che tratta spiritualmente dei diversi tipi della parola divina. La contemplativa educa al disprezzo del mondo e dei suoi valori, per indurre ad assurgere unicamente al possesso delle realtà appartenenti allo spirito di Dio. E ancora altrove: «Esistono cinque intelligenze generali e sette spirituali. Le prime cinque sono: la storica (somiglianza di una cosa visibile con una invisibile); la morale (somiglianza parziale di una cosa visibile con una invisibile); la tropologica (appartenente alla dottrina); la contemplativa (appartenente ai doni dello Spirito Santo); la anagogica (appartenente alla suprema patria). Le sette intelligenze tipiche si riferiscono invece alle varie condizioni e ai successivi stati del mondo».

Con questo complesso e raffinato armamentario esegetico Gioacchino era perfettamente in grado di procedere alla risoluzione mistica della tradizione biblica ed ecclesiastica, per piazzare poi la sua concezione apocalittica. In epoca di incompiuta metodologia storica, l'esegesi allegoristica era il mezzo infallibile per dimostrare la contingenza e la precarietà delle tradizioni ufficiali e per giustificare l'annuncio delle nuove rivelazioni. Quel che oggi insegna la critica storica, dimostrando le circostanze esteriori ed empiriche che hanno condizionato i grandi fatti della rivelazione religiosa, poteva insinuarlo nel Medioevo la discoperta dei motivi tipici e simbolici profondi, che sono racchiusi nelle figure e negli episodi dei testi canonici. Avendo a propria disposizione cosí vasta gamma di criteri interpretativi, Gioacchino non si sarebbe neppure sentito astretto a una uniforme e costante forma di traduzione mistica della storia biblica. La fecondità della sua fantasia, l'impeto cogente della sua fede nell'avvenire dello Spirito, lo avrebbero condotto a proporre, dei medesimi dati scritturali, spiegazioni eterogenee. Non importava a lui. La sua esegesi e la sua storia erano mezzo, non fine. E il fine era unico e grande: contrapporre alla lettera della Cristianità ufficiale la veniente libertà e spiritualità del Regno dello Spirito.

Come nell'antichità cristiana Tertulliano ed Ippolito, anche Gioacchino professa, del dogma trinitario, una concezione «economica, vale a dire pensa che si debba salire alla raffigurazione di una molteplice virtú operativa in Dio, dalla constatazione e dalla convinzione che la vita associata degli uomini soggiace a molteplici, successive epifanie dell'azione divina. Anche Gioacchino, come i vecchi rappresentanti occidentali della teologia economica, subordina, cosi, senza rendersene neppure conto, la sua raffigurazione del dogma trinitario alla sua tripartizione delle epoche storiche dell'umanità. La successione simmetrica delle quali nello spazio e nel tempo costituisce ai suoi occhi, per dir cosi, la corrisposta empirica all'eterna tripartizione delle ipostasi trascendenti nel cielo. L'insurrezione di Gioacchino, a quanto è dato arguire dalla condanna del sinodo lateranense e da tutte le enunciazioni teologiche disseminate nei suoi scritti e particolarmente nello Psalterium, contro la teologia di Pietro Lombardo, è provocata soprattutto dal fatto che questa teologia rende impossibile la saldatura armonica fra il mistero intimo della vita divina e il mistero intimo della storia umana. È pertanto assolutamente arbitrario e ingiustificato considerare Gioacchino come un teologo di professione e un formale eretico trinitario. La preoccupazione nettamente dominante negli scritti di Gioacchino non è mai una preoccupazione teologica, bensi un puro intento morale ed escatologico. Anche là dove egli muove guerra contro i sistemi teologici del suo tempo, tutti polarizzati verso una interpretazione gnoseologico-razionale del mistero trinitario, egli non è mai sospinto dal proposito di contrapporre un proprio sistema agli altri, bensí unicamente dal bisogno, piú o meno consapevole, di eliminare le interpretazioni che possono fare risultare i dettami della fede incompatibili con le visioni panoramiche della sua filosofia della storia. Le allusioni, i riferimenti, le spiegazioni di cui riboccano gli scritti gioachimiti suffragano inappellabilmente questa conclusione.

«Udendo sempre», scrive il contemplatore di Celico, «parlare della divina sostanza e di Dio trino, non ti dare a credere che essa sia cosí divisa nelle tre persone, come son divisi un olivo, un mirto o una palma, diversi nella natura e nel genere: o neppure come tre olivi, che sono della stessa natura, per quanto l'uno dell'altro separati per la proprietà circoscritta del rispettivo corpo; o né pure come tre rami collegati alla medesima radice sicché ti appaia, come vuole la perfidia di alcuni che introducono di soppiatto una quaternità, la sostanza analoga alla radice e le ipostasi a tre rami. Ché se, costretti da necessità, dobbiamo assolutamente fare ricorso a una immagine sensibile, prendiamo quel che è; piú nobile nella sfera delle realtà irragionevoli, prendiamo la luce, che sappiamo essere un simbolo, a suo modo, di quella genuina luce, la quale non illumina tanto gli occhi esterni dei malvagi, quanto i cuori degli eletti, e dalla quale promana ininterrottamente quella luce che recinge e riveste ogni creatura umana nascente al mondo. Da quella luce si irradia il calore che tutto vivifica. Appunto da questa grande fonte di luce, che chiamiamo sole, sgorga incessantemente il raggio e procede instancabilmente il calore, che attingono la terra senza abbandonare la loro fonte. Precisamente come il Figlio, il quale scende a illuminare noi, non dipartendosi dal Padre che lo ha mandato; e come lo Spirito Santo, che ci è stato conferito con Lui, affinché tutti, sciolti dal torpore del gelo, fossero infiammati nella carità. Ecco dunque come il mistero trinitario è stupendamente adombrato nell'azione del sole».

Dal che appare ben chiaro che per Gioacchino quel che preme di salvare nel mistero trinitario è l'unità dell'azione divina, in una con la molteplicità delle sue manifestazioni nell'anima dei credenti e degli illuminati. Sicché, nella sua intima valutazione e nella sua spirituale esperienza, il dogma trinitario allora appare nettamente interpretato, quando sia una trascrizione fedele e felice del mistero della vita e della storia, che è un instancabile progredire verso il dominio, unico, reale, della carità e della pace. A Gioacchino preme innanzi tutto mostrare, nell'ineffabile pienezza del mistero trinitario, ricapitolato e simboleggiato di scorcio, il mistero cosí della redenzione dell'uomo nell'amore, come dell'umanità nel Vangelo. La sua teologia è condizionata direttamente dalla sua antropologia e dalla sua filosofia della storia, e le sue riflessioni ed elucubrazioni dogmatiche obbediscono costantemente, con un'uniformità lineare , a motivi edificativi e a propositi morali. È cosí evidente e cosí tenace in Gioacchino questa interdipendenza fra i misteri simbolici della vita divina, e l'economia concreta delle manifestazioni carismatiche nell'uomo singolo e associato, che, sempre e dovunque, egli manda innanzi, con lo spiegamento dell'azione ad extra delle tre divine ipostasi, l'evocazione dei momenti attraverso ai quali è passata e va passando la rivelazione, dal Vecchio al Nuovo Testamento, e da entrambi, all'imminente, già iniziatasi, manifestazione completa dello Spirito.

«La Santa Madre Chiesa», riconosce Gioacchino, «ritiene essere due le persone della Divinità, delle quali una è ingenita, l'altra unigenita. Ritiene inoltre esservi una terza persona, la quale procede da entrambi. E per questo e a norma di questa realtà trascendente, si può mostrare come dalla lettera del Primo Testamento è nata la lettera del Nuovo, e da entrambi procede la unica intelligenza spirituale. Per cui, quando vogliamo scoprire in qualche particolare biblico il valore simbolico, dobbiamo arrestarci innanzi tutto alla processione dello Spirito Santo dal Padre, sulla base della quale, nel primo stato del mondo, deve riconoscersi l'analogia del Padre, e l'analogia dello Spirito Santo nel secondo; di poi dobbiamo arrestarci alla processione dello Spirito Santo dal Figlio, sulla base della quale l'analogia del Figlio è da individuarsi nel secondo stato e quella dello Spirito Santo nel terzo. Sebbene infatti uno solo sia lo Spirito Santo e simultaneamente proceda dal Padre e dal Figlio, pur tuttavia, affinché chiara apparisse la processione sua da entrambi, in un primo momento discese, sotto forma di colomba, su Cristo, accompagnato dalla esplicita testimonianza del Padre, e in un secondo momento si manifestò procedente dalla bocca del Cristo, quando il Signore stesso soffiò sui discepoli dicendo: – Ricevete lo Spirito Santo: i peccati saranno perdonati a coloro cui li avrete voi rimessi. – Questo a spiegare la duplicità della interpretazione spirituale quale di frequente capita nel Nuovo Testamento, specialmente là dove convergono nel medesimo mistero due donne e due uomini, destinati a una determinata designazione spirituale. Poiché, mentre il Figlio deriva unicamente dal Padre, e quando c'imbattiamo in qualcosa attinente alla sua azione, troviamo il simbolo racchiuso in un singolo significato simbolico; quando ci imbattiamo in qualcosa attinente alla felicità contemplativa dello Spirito, dobbiamo aspettarci una doppia interpretazione, perché lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. E poiché nel primo stato del mondo, iniziatosi, secondo la prima istruzione di Dio e secondo il comando generale di Dio, con Mosè, secondo la circoncisione, con Abramo, Dio Padre manifestò la sua gloria; nel secondo, iniziatosi con Giovanni Battista, il Figlio si manifestò al popolo cristiano con una rivelazione destinata ad esaurirsi alla venuta di Elia. I termini della intelligenza simbolica si dispongono a norma dei confini cronologici delle medesime età. Ed ecco la sterilità di Elisabetta coinvolge il primo stato, iniziatosi in Abramo, chiusosi in Giovanni Battista. Il periodo della sua fecondità coincide con Giovanni Battista. Il suo parto simboleggia la fine del secondo stato, vale a dire l'avvento di Elia. Elisabetta designa infatti la sinagoga della progenie di Levi, a cui è stato dato, come figlio, la gerarchia ecclesiastica. Il terzo stato, destinato a cominciare con Elia, appartiene propriamente allo Spirito Santo, perché in esso lo Spirito Santo è chiamato appunto a rivelare completamente la sua gloria, come il Padre manifestò la sua gloria nel primo, e il Figlio manifestò la sua gloria nel secondo. Orbene: poiché lo Spirito Santo non procede solamente dal Figlio, ma, come dicono i santi Dottori, principalmente dal Padre, perché appunto apparisse chiara questa sua processione da entrambi, presentandosi col Figlio stesso agli inizi del secondo stato, anche allora fece sfolgorare in parte quella gloria che deve rilucere in pieno alla venuta di Elia. Per cui se, nella sfera della lettera, si è compiuta, dopo la risurrezione del Signore, la promessa fatta dal Signore, del dono dello Spirito Santo, pur tuttavia, se teniamo lo sguardo fisso su quella pienezza di effusione carismatica che il Figlio è chiamato a effondere quando sarà glorificato anche dal ribelle popolo degli Israeliti alfine convertito da Elia e dai suoi compagni, possiamo ben dire ancora oggi che lo Spirito Santo non è stato dato, perché il Figlio non è stato ancora pienamente glorificato».

È per questa intima e salda convinzione della propinquità del compimento integrale dei simboli racchiusi nel dogma trinitario, per questa sicurezza infrangibile della prossima definitiva manifestazione dello Spirito, che Gioacchino può asseverare come solamente alla sua generazione, alla decrepitezza dei tempi, cioè, poteva essere concesso di comprendere a fondo il mistero piú augusto e piú arduo della fede cristiana. Poiché solamente alla pienezza dei tempi è concesso il discoprimento dei significati reconditi e simbolici delle credenze e dei riti del passato.

«Secondo il Vangelo di Luca», osserva Gioacchino, «l'angelo Gabriele fu spiccato a Maria nel mese sesto della gravidanza di Elisabetta. Il primo mese della gravidanza di Elisabetta simboleggia il tempo degli Apostoli; il secondo, il tempo dei Martiri; il terzo, il tempo dei Dottori; il quarto, il tempo delle Vergini; il quinto, il tempo dei Monaci di Occidente. Orbene: il mese sesto, nel quale Gabriele fu spiccato alla Vergine, simboleggia il sesto tempo della Chiesa, il tempo cioè in cui viene dischiuso il sesto sigillo, secondo l'Apocalissi, nel quale tempo la Vergine deve concepire, e poco dopo deve partorire la Vecchia. Credi, o lettore, di aver capito bene quel che io dico, proclamando la necessità che la Vergine concepisca e fiorisca, e che la Vecchia partorisca? Lo capirà bene chi, almeno in parte, sappia perché mai, nella medesima linea di simboli misteriosi, al vecchio Pietro fu detto dal Signore: – Seguimi – e a Giovanni invece fu detto da Lui: – Cosí voglio che egli rimanga, finché io venga. – Ecco dunque. Nella sesta età, in quella età gli albori della quale illuminano già i nostri occhi, occorre che la Chiesa verginale, continente, contemplativa, concepisca e generi nell'utero della sua professione quel popolo di santi a cui, secondo la profezia di Daniele, è riservato il Regno sotto ogni cielo».

I dati centrali della enunciazione dogmatica trinitaria, la molteplicità cioè delle ipostasi nella unità di sostanza e il collegamento delle tre persone mercè un vincolo di figliuolanza tra la prima e la seconda e un vincolo di processione tra le due prime e la terza, sono quelli sui quali s'indugia unicamente Gioacchino, come quelli che sono sufficienti al suo scopo: individuare il simbolo e il prototipo che la storia della spiritualità umana trova, adeguatamente, nel mistero della intima vita divina: «In ciascuno dei due stadi precedenti (quello dei coniugati e quello dei chierici) si riflette luminosamente fin da principio un'analogia della Trinità. Nessun dubbio pertanto è possibile per ciò che concerne il terzo stato: in esso deve consumarsi la trina similitudine. Ma in particolare la proprietà specifica della somiglianza col Padre si manifestò nel primo stato; quella della somiglianza specifica col Figlio, nel secondo; quella della somiglianza specifica con lo Spirito Santo, nel terzo... Non si deve dimenticare che quando parliamo dello Spirito Santo ci si offrono alla considerazione due aspetti secondo che parliamo dello Spirito Santo, puramente e semplicemente, o dei suoi doni. Quanto si riferisce alla semplicità della divina Persona, è simboleggiato nella tribú di Levi, congiunta a Giuda e a Beniamino. Quanto invece si riferisce ai suoi doni è simboleggiato nelle dieci tribú, in grembo alle quali furono trovati giusti Elia, Eliseo, i figli dei profeti. Qualcosa di simile si riscontra nel Nuovo Testamento. Che dunque nel Vecchio Testamento abbiano fiorito sotto Eliseo i figli dei profeti, segregati di mezzo al popolo giudaico, e, alla fine, i Farisei, che vuol dire divisi; che analogamente nel Nuovo siano fioriti i monaci sotto il beato abbate Benedetto, e, testè, alcuni che risuscitano la purezza delle tradizioni avite (l'allusione è ai riformatori cistercensi); appartiene tutto alla ripartizione delle grazie. Effuse grazie il Padre: effuse grazie il Figlio... Ma lo Spirito Santo è Spirito di entrambi e quindi coopera con l'uno e con l'altro. E perché anche Egli in se stesso è Dio vero, come il Padre e il Figlio, occorre che anch'Egli compia qualcosa a immagine e somiglianza propria, a norma di quel che ha operato il Padre e di quel che ha operato il Figlio... Nel secondo stato lo Spirito ha cooperato col Figlio, col quale deriva dal Padre, simboleggiando quel che è destinato a compiere nel terzo stato, onde appaia che procede anche dal Figlio. Per cui nell'anno o, meglio, nel tempo nel quale debbono sopraggiungere, secondo la fede della Chiesa, Enoch ed Elia, si dovranno scegliere dodici individui, simili ai patriarchi e agli Apostoli, perché vadano a predicare agli Israeliti. Vi saranno allora dodici insignissimi cenobi, simili alle dodici tribú e alle dodici chiese. Se pure, per il fatto che cinque tribú ricevettero per prime la eredità e le cinque principali chiese appartenenti a Pietro precedettero le altre sette edificate da Giovanni, non ci si debba domandare se le cinque principali Abbazie cistercensi, madri di tutte le altre e cosí insigni nella Chiesa di Dio ai nostri tempi, non debbano appartenere al grande mistero di Dio, quantunque non si veda ancora procedere quel che deve procedere. A meno che non debba supporsi qualche commutazione dello Spirito, affinché i primi siano gli ultimi e viceversa».

Quando le enunciazioni e le contemplazioni relative al dogma trinitario formulate da Gioacchino si pongano a confronto con le disquisizioni trinitarie care a tutta la incipiente speculazione scolastica della teologia del secolo duodecimo, o con le elucubrazioni della mistica germanica di poco piú di un secolo piú tardi, se ne colgono immediatamente i tratti differenziali. La speculazione di un Abelardo, dei Vittorini o di Pier Lombardo tratta il mistero trinitario come una esemplificazione tipica e perfetta del problema gnoseologico degli universali, che è il problema della possibile coesistenza del molteplice nell'unità. I mistici germanici domenicani additano nella moltiplicazione ineffabile delle Persone nell'una sostanza divina la genesi misteriosa del pullulare della vita al di fuori dell'essenza trascendente. L'attitudine del mistico calabrese è tutt'altra. Impazientemente proteso verso la veniente libertà dello Spirito, Gioacchino intende cosí il mondo delle realtà trascendentali come il passato rivelato e storico, quali immense e dense parabole, di cui occorre cogliere i significati riposti e i valori tipici.

Naturalmente non si vuol dire con questo che Gioacchino, che pure ha parole di sdegnosa noncuranza per le scuole teologiche del suo tempo e per le loro esercitazioni teoretiche, non ami talvolta indugiarsi in sottili analisi concettuali, che mirano a sviscerare nelle sue implicazioni astratte il dato centrale del dogma trinitario. Ma lo fa sempre con gli immancabili riferimenti alle esemplificazioni e alle applicazioni di cui è ricca la storia della rivelazione e con evidente rispondenza alle vitali esigenze del suo sogno mistico. Sogno mistico, quello di Gioacchino, che tradisce caratteri peculiari. Senza dubbio nessuno potrebbe legittimamente contestare il carattere genuinamente mistico della sua esperienza religiosa, quando per misticismo si intenda, come si deve intendere, lo sforzo ascensionale verso Dio attraverso le vie della intuizione e dell'attingimento arazionale e il tentativo di cogliere direttamente i procedimenti misteriosi della sua azione salvifera nelle anime. Gli scritti di Gioacchino abbondano di pagine traversate dai medesimi bagliori che illuminano la notte interiore della contemplazione e dalle stesse fiamme della passione trasfigurata per cui comunicano tuttora brividi i sermoni di Eckehart, di Täuler, di Seuse. D'altro canto Gioacchino ha, permanente, il senso della assistenza carismatica nello sviluppo della sua opera. Egli confessa, ad esempio, di avere atteso pazientemente un anno intiero prima che Dio gli rivelasse prodigiosamente il significato di un passo oscuro dell'Apocalissi che doveva costituire la chiave di volta di tutta la sua interpretazione del libro misterioso, e in genere, con altri pochi passi biblici, di tutta la storia cristiana.

Ma le qualità che contraddistinguono il suo temperamento religioso e che si riflettono stupendamente nella sua esegesi e nella sua speculazione dogmatica sono una predilezione spiccata per i simboli e le allegorie, e una costante preoccupazione per i valori morali: l'una e l'altra sopraffanno decisamente ogni virtú specificamente speculativa. Lo Psalterium decem cordarum rispecchia meglio che tutti gli scritti del «profeta» queste sue doti specifiche. Inteso a difendere quella che appare a lui come la piú corretta interpretazione del dogma trinitario, contro le insidie di una spiegazione razionale che minaccia di manomettere del dogma il valore normativa, prende lo spunto da simboli sensibili, familiari alla vita liturgica del monaco, e fatti per appagare la fantasia, e si chiude, costantemente, con una parafrasi morale. Il salterio e la cetra sono i simboli che Gioacchino chiama in soccorso. E i simboli della verità dogmatica sono in pari tempo per lui i simboli della superiore morale umana. «Eccellente tra tutti gli strumenti musicali il salterio, al quale però, nei divini misteri, viene costantemente abbinata la cetra. Un altissimo posto occupa il salterio dalle dieci corde fra le opere di Dio che suggeriscono il mistero della Trinità. È infatti uno strumento musicale unitario. Può essere diviso in parti, perché fatto di materia, ma non può esserlo rimanendo salterio. Come strumento è uno: ma è triangolare e mirabilmente collegato nei suoi tre lati. Cosí strettamente l'unità indivisa vincola i tre lati, che questi sembrano uno solo e uno solo si rifrange nei tre. Cantiamo dunque al Signore: non solamente nel salterio dalle dieci corde, in cui è il decalogo dei comandamenti e la sintesi di tutta la fede, bensí anche nella cetra, celebrata pur essa nelle pagine della rivelazione. La cetra designa l'uomo nuovo, creato a sembianza di Dio, in una col suo corpo, che è la Chiesa. La sintesi del suo mistero è nella concavità, su cui sono tese le tre corde. Quando tu, con la rinuncia, sia entrato nel novero degli eletti, potrai cantare al Signore sulle tre corde spirituali del cuore: l'azione, la lettura, la salmodia; o meglio, la fede, la speranza, l'amore. Ecco dunque la correlazione dei due strumenti musicali: il salterio simboleggia la giustizia attinente all'amore di Dio, la cetra, la giustizia pertinente all'amore del prossimo».

Analogamente, nella interpretazione del mistero trinitario, l'ardente aspettativa escatologica subordina alle proprie esigenze le enunciazioni e le prospettive. Se in Dio non sussistesse la molteplicità delle ipostasi, la storia non avrebbe né significato né corpo, e alla speranza umana della spiritualità e della giustizia mancherebbero assolutamente l'orientamento e l'alimento. Tra i dati del dogma trinitario e i periodi in cui è ripartito il cammino morale dell'umanità verso la libertà e la carità, corre un perfetto parallelismo: ed è la speranza del pieno loro trionfo nel veniente stato che deve aiutare la formulazione della fede circa il passato, e il suo riflesso simbolico nella divinità.

«Il primo dei tre stati è quello che si svolse sotto il dominio della Legge, quando il popolo del Signore, ancora un po' infante, serviva sotto il controllo degli elementi di questo mondo, incapace di raggiungere quella libertà dello Spirito, destinata a sfolgorare quando fosse apparso quegli che disse: – Se il Figlio vi avrà liberato, liberi veramente sarete. – Il secondo dei tre stati è quello iniziatosi col Vangelo e tuttora perdurante, in libertà senza dubbio, se si confronta con lo stato precedente, ma non in libertà, se si pensa all'avvenire. Poiché dice l'Apostolo: – Conosciamo ora in parte e soltanto in parte profetiamo: ma quando sia venuta la perfezione, tutto quello che è parziale, sarà annullato... Il terzo stato si inizierà verso la fine del secolo, non piú sotto l'opaco velame della lettera, bensí nella piena libertà dello Spirito, quando, annullato e distrutto lo pseudovangelo del figlio della perdizione e dei suoi profeti, coloro che inculcano nelle masse il senso della giustizia saranno simili allo splendore del firmamento e alle stelle eterne. Il primo stato, fiorito nella legge e nella circoncisione, cominciò con Adamo. Il secondo, giunto a maturità nel Vangelo, ebbe i suoi primi sentori con Ozia. Il terzo, per quanto è lecito arguire dal numero delle generazioni, iniziato con San Benedetto, raggiungerà la sua pienezza verso la fine, quando Elia si manifesterà e il popolo giudaico si convertirà al Signore... Come la lettera del primo Testamento, in virtú di una certa analogia, sembra appartenere al Padre, e la lettera del Nuovo al Figlio, cosí l'intelligenza spirituale che procede dall'una e dall'altra appartiene allo Spirito Santo. E come l'Ordine dei Coniugati, in virtú di una analogia evidente, appartiene al Padre; e come l'Ordine dei Predicatori, al Figlio; cosí l'Ordine dei Monaci (Gioacchino deve pensare alla disseminazione prodigiosa del monachismo cistercense per tutta l'Europa), al quale sono stati assegnati i grandi tempi finali, appartiene allo Spirito Santo».

Come alle origini del cristianesimo la potente esperienza escatologica, di cui sono saturi la predicazione evangelica e il messaggio paolino, aveva operato quale reagente irresistibile su tutta la tradizione del mosaismo cosí l'esperienza escatologica di Gioacchino opera come un reagente su tutta la tradizione, concettuale e disciplinare, della Chiesa. L'impeto di rinnovamento sociale, che urge alle sue spalle attraverso la marea della organizzazione cistercense, lo induce alle piú audaci aspettative. E il dogma trinitario si scompone e si dispone nella sua mente, come la trasposizione trascendentale della legge di progresso che regge la storia degli uomini. Nella profezia del veniente Spirito trovava posto l'aspirazione alla giustizia, alla libertà, alla pace.

Il profeta è sempre il poeta della religiosità. I mezzi ordinari della sua espressione sono, anziché idee astratte e categorie metafisiche, immagini sensibili e formule concrete. Gli elementi psicologici che reggono e alimentano la sua esperienza e il suo ideale sono la fantasia e il sentimento, a preferenza della speculazione e del raziocinio. E le finalità della sua predicazione assumono automaticamente quella colorazione morale che è il risultato logico e l'accompagnamento immancabile di ogni emozione, provocata dai contrasti e dai commovimenti cui lo spirito dell'uomo è esposto nel quotidiano contatto con i propri simili.

Gioacchino è stato profeta, nel piú squisito senso della parola. Confortatore perché veggente, egli assegna un piú alto valore carismatico e una piú alta virtú salutifera alla speranza e alla fiducia nella contemplazione e nella letizia, anziché alla disciplina e al magistero gerarchico. Egli confida agli iniziati che Pietro scomparirà dinanzi a Giovanni, perché il Regno dello Spirito Santo sarà il Regno dei puri contemplatori e quindi dei liberi. Un messaggio di tal genere, non affidato all'arida elucubrazione di un sistema teologico, ma alla subitanea ispirazione dell'ardore profetico, sarà còmpito del monaco. Poiché appunto il monaco che, acceso di zelo, esce dalla pensosa solitudine per scendere in mezzo al popolo e scuoterne l'anima, non piú edificata dalla fredda e consuetudinaria predicazione dei ministri ufficiali, è un destriero inquieto, al confronto di un ben domo cavallo da sella, piú decorativo che valido. Chi diede mai a un puledro la disciplina del cavallo addomesticato?

Il profeta di Celico non è un sistematico e un dialettico. La stessa sua simbologia non tradisce alcuna uniformità e alcuna costanza. Solamente la sua profonda certezza del rinnovamento imminente della società religiosa a cui appartiene, è una quantità costante nei suoi ravvicinamenti biblici e un motivo uniforme nelle variazioni della sua esegesi allegorica. Solamente la descrizione della veniente età strappa accenti, a volte veramente sublimi, alla sua vena poetica.

«In questi giorni sacri noi dobbiamo resistere nel lavoro e nel pianto, in attesa che si compia il ciclo quaresimale, si chiuda cioè il novero delle quarantadue generazioni del lutto e dell'afflizione, e noi possiamo essere introdotti nella sacra solennità dell'universale risurrezione per cantare al Signore quel cantico nuovo di gioia, che è l'alleluia. Nessuna meraviglia se tutto il significato profondo dei vecchi sacri misteri, fino a oggi celati sotto il velame, agli occhi nostri, di noi piú giovani e piú piccoli, si va dischiudendo. Dappoiché apparteniamo a quest'ultima generazione che è designata nell'ultimo sacro giorno della penitenziale Quaresima: il giorno in cui si toglie dagli occhi del popolo il velario che tiene l'altare in lutto. Affinché quella verità che il popolo vide finora in sullo specchio, in enigma, cominci a scorgere faccia a faccia, passando, secondo l'assicurazione dell'Apostolo, di chiarezza in chiarezza. Tutti i simboli sacramentali contenuti nelle pagine della rivelazione di Dio ci instillano la convinzione dei tre stati. Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il secondo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della grazia; il terzo è quello che noi attendiamo da un giorno all'altro, nel quale ci investirà una piú ampia e generosa grazia. Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella plenitudine dell'intendimento. Nel primo regnò il servaggio servile; nel secondo la servitú filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato trascorse nei flagelli; il secondo nell'azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il primo visse nell'atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella carità. Il primo segnò l'età dei servi; il secondo l'età dei figli; il terzo non conoscerà che amici. Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di fanciulli. Il primo tremò sotto l'incerto chiarore delle stelle; il secondo contemplò la luce dell'aurora; solo nel terzo sfolgorerà il meriggio. Il primo fu un inverno; il secondo un palpitare di primavera; il terzo conoscerà la pinguedine dell'estate. Il primo non produsse che ortiche; il secondo diede le rose; solo al terzo appartengono i gigli. Il primo vide le erbe; il secondo lo spuntar delle spighe; il terzo raccoglierà il grano. Il primo ebbe in retaggio l'acqua; il secondo il vino; il terzo spremerà l'olio. Il primo stato fu tempo di Settuagesima; il secondo fu tempo di Quaresima; il terzo solo scioglierà le campane di Pasqua. In conclusione: il primo stato fu reame del Padre, che è il creatore dell'universo; il secondo fu reame del Figlio, che si umiliò ad assumere il nostro corpo di fango; il terzo sarà reame dello Spirito Santo, del quale dice l'Apostolo: dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà. E il primo stato è simboleggiato in quelle tre settimane che vanno innanzi al digiuno quaresimale; il secondo nella stessa Quaresima; il terzo nel tempo solenne di Pasqua. Per cui, se convenientemente interpretiamo il mistero del velo interposto tra il popolo e l'altare, comprendiamo come non è senza motivo che nel giorno di Quaresima, in cui si consacra il sacro crisma, quel velo è tolto di mezzo, affinché i fedeli non veggano piú l'altare quasi attraverso uno specchio, ma piuttosto faccia a faccia. Il che vuol dire che in questo nostro tempo, regnante la quarantesima generazione, occorre ritirare il velo della lettera dal cuore della massa. E questo accadrà al momento del dischiudimento del sesto sigillo, col sesto angelo discendente dal cielo, con in mano il libro spalancato. E allora sarà tempo di gioia per gli amatori di Dio, fino al giorno solenne della consumazione finale».

La fede nel prossimo manifestarsi integrale dello Spirito Santo è cosí profondamente radicata e cosí dominante nell'animo di Gioacchino, che nelle sue descrizioni dell'avvenire si attua quel medesimo sdoppiamento fra la «parusia» imminente e il giudizio finale, quale si incontra nella letteratura apocalittica del cristianesimo primitivo, e si ritrova la medesima previsione di quel successivo passaggio alla fede, dei recalcitranti, che a San Paolo era già apparso come l'evento preliminare del completo trionfo nel Regno. La Chiesa ufficiale non avrà da rammaricarsi del suo transito a una piú alta estrinsecazione della rivelazione: la sua storia è la storia di una gestazione dolorosa, e il momento drammatico del parto è imminente. E come nel cristianesimo primitivo, cosí nel messaggio di Gioacchino la bruciante esperienza escatologica si confonde con un'ecclesiologia concreta e realistica, a norma della quale la comunità visibile è un soprannaturale organismo carismatico, anziché un tessuto burocratico. Dai tempi di Paolo e di Agostino nessuno scrittore ecclesiastico aveva mai piú sentito ed espresso la continuità fra l'apparizione sensibile del Salvatore del mondo e la vita spirituale del corpo mistico di Cristo, la Chiesa nel tempo, con quella vivezza che traspare nelle contemplazioni di Gioacchino.

«Precede nel tempo la Legge: sovrasta la Grazia per dignità. Precorre Giovanni la venuta del Signore: e pure prima di lui, Cristo era. La Natività antecedette la Risurrezione, ma molto fu al di sopra la Risurrezione in dignità; fu anteriore il battesimo, nel quale il Salvatore fu battezzato da Giovanni, quando la Colomba comparve sopra di lui, ma pure l'avvento dello Spirito Santo, apparso in lingue di fuoco, è celebrato molto piú solennemente dalla Chiesa universale. Tutto quello è di una dignità inferiore: tutto ciò è insigne e superiore... Il Figlio unigenito di Dio, solo conoscitore delle vie della salvezza, per appagare le inquietudini degli uomini, a norma del divino volere, si annullò spontaneamente assumendo parvenza di schiavo, e rilasciando allo Spirito Santo tutto che fosse onorifico e glorioso. Volle costituirsi sotto la legge, nascere da donna, essere battezzato da Giovanni, servire i propri sudditi, fattosi schiavo, per affrancarli dalla schiavitú della legge. Nacque da donna, per costituire noi nati da Dio; scese nell'acqua battesimale, affinché noi rinascessimo dallo Spirito; uní a sé una carne sensibile, affinché noi fossimo uniti allo Spirito Santo. Si abbassò fino a terra, per sollevare noi fino al cielo; si consegnò alle zolle del sepolcro, per sospingere noi verso il Regno della vita; si fece uomo, per fare noi dèi. Col suo esilio ci riguadagnò la patria; nella passione strinse, si direbbe, la mano sinistra del Padre, perché la sua destra toccasse noi, innalzati alla virtú della passione. Fu cancellata la colpa, onde in noi erompesse il frutto della grazia. Venne a putrefazione il seme nel fango e nella terra, affinché noi sorgessimo dalla gleba, come messe della grazia... Precedette la nascita del Cristo nella carne; segui la nostra nascita spirituale: la prima divenne l'ultima, e l'ultima la prima... Perché se il Padre rimane nascosto, perché Signore, e il Figlio si rivela, perché fratello, quegli per incutere timore, questi per incutere fiducia, lo Spirito Santo, medio fra loro, non è né tutto nascosto col Padre, né tutto rivelato col Figlio, ma destinato al pieno discoprimento all'inizio della terza età... Molte cose sono registrate dal Signore nostro Gesù Cristo, le quali sono del tutto incomprensibili, se non siano riferite al suo corpo mistico, che siamo noi. Giustamente, del resto: ché non per sé, ma per noi uomini, il Figlio di Dio si degnò farsi uomo. Interpretiamo e scopriamo la capacità edificativa di quelle realtà che, sensibilmente e materialmente intese, sono insipide e ingannatrici. Giuseppe sposo di Maria significa il ceto apostolico, Maria invece la gentilità preordinata alla grazia; Gabriele, poi, gli ultimi Apostoli, vale a dire Paolo e i suoi compagni. Gabriele è mandato a una vergine non tocca da uomo. Paolo è mandato alla gentilità, ignara di profeti e di Apostoli. Tuttavia Maria era fidanzata a Giuseppe: e la Chiesa dei gentili era stata traversata dal vomero di Pietro facente le veci di Cristo. Ché già Pietro era stato accaparrato dalle genti, al momento della conversione di Cornelio e dei suoi... Dunque la Chiesa era fidanzata a Pietro, al quale dal Signore era stato detto: – Pasci le mie pecore, – ma non la conosceva ancora. È cosí spiccato un angelo alla Vergine: è mandato Paolo alla Chiesa. E prima che Pietro e la Chiesa gentile celebrassero il loro connubio, questa è stata fecondata dallo Spirito Santo, perché partorisse, non per la gloria umana, bensí per la giustizia divina... Ecco come si trasfigurano nella chiarezza dello Spirito le cose che apparivano impenetrabili nella durezza della lettera. – E non la conobbe – dice Matteo – finch'ella non ebbe partorito un figlio. – Tu pensi a Maria: lo Spirito Santo invece allude alla Chiesa. Tu pensi al capo: lo Spirito Santo intende il corpo e le membra. Onde tutto è vero ciò che è scritto: ma solamente se si interpreti a dovere. E perché quanti rinasciamo nello Spirito Santo, noi siamo il corpo di Cristo, nessuna meraviglia se Manasse, simbolo di Cristo, è figlio di Giuseppe. Poiché in Manasse non è designato solamente Cristo, che è il capo dei fedeli, ma una parte imponente del Suo corpo. Per cui si può proclamare bene a ragione che il Cristo è stato concepito ed è nato, non in un significato carnale, bensí spirituale, dallo Spirito Santo, perché quanti rinasciamo su dall'acqua e dallo Spirito Santo, assurgiamo alla dignità di figli della madre Chiesa e dello Spirito Santo... Qual mai grazia ci può conferire il Figlio di Dio in quanto è uomo? Poiché non si ha quel che non si è ricevuto. Anche lui dunque ricevette qualcosa da darci. È scritto del resto: – salisti in alto, menando teco una folla di prigioni: hai accettato doni negli uomini. – Bene disse: – hai accettato doni negli uomini – perché non li ricevette in sé ma in noi. Egli li ripartí attraverso a sé e per noi li accettò. Per questo salí in alto affinché, dal capo eretto, i carismi rifluissero per le membra. Fra le opere compiute dallo Spirito Santo a sua lode, due ve n'ha cui non poté aderire la pienezza, cosí insigni che nulla mai ha potuto o può uguagliarle in propinquità a Dio, in chiarezza al cospetto di Dio, in necessità per l'attuazione del destino degli uomini. Voglio dire la formazione del nuovo uomo e l'effusione dei carismi... Nella prima opera, il Verbo si fece figlio dell'uomo. Nella seconda, divengono gli uomini figli di Dio. Poiché noi diveniamo figli ricevendo lo Spirito Santo, e non si riceve lo Spirito Santo senza i suoi doni. Come è cura dello sposo adornare di monili la propria compagna, cosí fu cura del Cristo adornare di carismi la sua Chiesa immacolata. Qual mai sublime imeneo consumò il Signore Gesù con noi! Assunse la nostra fralezza e ci infuse la sua forza. Si chinò fino a noi, per innalzarci al di sopra di noi e costituirci suoi coeredi. Qual dono meraviglioso diede in cambio del poco e spregevole che prese da noi! Vide con i nostri occhi e aprí agli occhi della nostra mente la luce dello Spirito della sapienza. Udí col nostro udito e ci diede quello spirito dell'intelletto che dischiude le orecchie interiori. Odorò col nostro olfatto, e ci offrí in cambio lo spirito del consiglio, dal quale sgorga il discernimento spirituale. Parlò con la nostra lingua e ci elargí in cambio lo spirito della scienza, ché mercè la lingua, si raggiunge la perizia nella conoscenza delle leggi naturali. Assunse di noi le mani, e ci trasfuse in cambio lo spirito della forza, ché nel braccio è il segno della energia. Assunse i piedi e ci conferí lo spirito della pietà, poiché questo spirito è ben simboleggiato nel camminare dei piedi e chi vuole servire il prossimo, deve rassomigliare a Marta l'affaccendata. Si rivesti del nostro corpo mortale, e ci dié lo spirito del timore. Infine assunse quel che caratterizza l'uomo, l'anima vivente, e ci diede in cambio lo spirito vivificante, vale a dire la carità, quella carità con la quale amiamo Dio. Non già che esistano due amori e due spiriti, ma perché sono diversi gli affetti con i quali amiamo Dio e gli uomini, ché l'amore di Dio è sempre nell'esultanza, l'amore dell'uomo è spesso nella pietà, creatura com'è di dolore e di miserie. Dobbiamo obbedire sotto lo stimolo del timore, che è il Padre; dobbiamo leggere in vista della sapienza, che è il Cristo. Dobbiamo salmodiare e pregare sotto l'assillo della carità, che è lo Spirito Santo. Nel lavoro conviene temere; nel leggere, imparare; nel salmodiare, amare. Temendo, baciamo il piede; leggendo, la mano; cantando, baciamo le labbra. Buon inizio è il bacio dei piedi; soave perseveranza è nel bacio delle mani; perfetta consumazione è il bacio impresso sulle labbra... Se ti seduce la contemplazione di Dio e vuoi abbandonarti alla speculazione spirituale, prendi segretamente i1 salterio decacordo, penetra nei misteri arcani, nei recessi del tuo cuore, e là comincerai a gustare quel che occhio umano mai vide... Quali sono le corde ininterrottamente toccate dall'uomo giusto e puro? Fede, speranza e carità. Ecco le tre corde, da cui sgorga il canto della gioia. Ed esse costituiscono l'uomo nuovo. La concavità della cetra è la cristiana povertà».

Etica ed ecclesiologia, cristologia ed escatologia si fondono, come nelle migliori espressioni della primitiva esperienza cristiana, nel messaggio di Gioacchino da Fiore. Se la Chiesa è sentita intensamente come il corpo mistico del Cristo, vivente attraverso lo spazio e il tempo; se il suo destino è quello di apprestare, nella reviviscenza dei carismi e degli ideali evangelici, le condizioni necessarie alla perfetta epifania dello Spirito, della cui gloria imminente l'umiltà del Salvatore fu il volontario presagio simbolico; non c'è da rimanere in nessun modo pedissequamente legati alle tradizioni letterali della gerarchia burocratica. In ogni vir spiritualis si riproduce, misteriosamente, la vocazione del Cristo, come nel sacerdozio gerarchico si trasmette la vocazione del Battista. E l'ordine monastico sta, come Maria, per avere il suo ultimo parto.

Il presupposto immanente della fede gioachimita è la certezza di un piano divino nella natura e nella storia, il quale si viene svolgendo e attuando attraverso cicli similari. Bisogna tagliar via il prepuzio della lettera se si vuole scorgere spiritualmente la disciplina e la logica «sacramentali» di questo piano, il quale ha avuto due grandi periodi: quello del Vecchio e quello del Nuovo Testamento. Il terzo, l'ultimo, sta per cominciare. Lo dimostra la stessa intensità della vita culturale e teologica nella Chiesa latina, la quale non è altro che un prodromo, pallido e oscuro, di quel che sarà la diretta rivelazione dello Spirito, attraverso i suoi contemplatori. I quali, nel disinteresse e nell'umiltà, annunzieranno, come unica legge dello Spirito, l'amore. Entrare nella contemplazione e nella pratica di questa superiore giustizia; oltrepassare la scorza della rivelazione biblica e neo-testamentaria per cogliere in spirito la immanente legge della giustizia, che è tutta nella carità universale, equivale veramente a scorgere i cieli aperti sul proprio capo e attuare fin d'ora il presagio di Gesù.

Quando si sia penetrati nell'alone di luce di questa superiore rivelazione, quale ossequio, che non sia un ossequio provvisorio e transeunte, si può piú prestare alla disciplina letterale della burocrazia ecclesiastica? Gioacchino ne denuncia apertamente la caducità moribonda. Qui la grande originalità del «Veggente» calabrese, in comparazione con tutti gli altri «eretici» del Medioevo. Gioacchino non impugna alcun capo dottrinale dell'insegnamento ecclesiastico, non insorge contro alcuna istituzione della disciplina curiale. In cambio, è tutto l'insieme delle concezioni e delle pratiche in cui consiste la tradizione della ortodossia romana, che egli ritiene e proclama destinato a cedere il posto a una effusione dello Spirito, che soppianterà il passato, come i simboli cedono automaticamente il posto alle realtà raffigurate, quando scocchi l'ora del loro avvento. Le realtà piú sacre della vita religiosa, nel cattolicesimo, i Sacramenti cioè, sono anch'essi simboli provvisori delle dirette comunicazioni di cui lo Spirito si accinge a nutrire i suoi eletti. «Il Vangelo del Regno, bandito da Gesù, è chiamato da Giovanni Vangelo eterno, perché quanto ci è stato intimato dal Cristo e dagli Apostoli sotto forma sacramentale, è temporale e transitorio, per tutto che concerne le espressioni sacramentali stesse, mentre è eterno per ciò che concerne le realtà simboleggiate sacramentalmente».. Naturalmente questo non vuol dire che debbano essere trasandate e abbandonate anzi tempo. Esse posseggono una squisita virtú formativa e guai a tenerle indebitamente in non cale! Solo a Dio è riservato il còmpito dei superamenti prodigiosi nel cambio delle realtà spirituali. Sicché può dirsi che quanto piú è audace e innovatore, teoricamente; il messaggio da lui bandito, tanto piú l'atteggiamento di Gioacchino è in pratica ispirato a un profondo senso di venerazione e di deferenza verso la Chiesa.

«La madre di Giovanni», egli scrive, «simboleggia la Chiesa primitiva, il figlio della quale nella fede è il popolo detto gentile. E poiché la dignità della Chiesa primitiva, alla quale inizialmente fu preposto Pietro, col medesimo Pietro e il suo collega Paolo fu trasferita a Roma, onde ivi si riconoscesse e fosse la madre di tutte le Chiese, è a dirsi che Elisabetta simboleggia questa santa Chiesa latina che sussiste a Roma, ivi trapiantata da Gerusalemme, con Pietro. Ché se nella santa vecchia Elisabetta è da scorgersi designata la primitiva e principale Chiesa, che cosa mai diremo che debba scorgersi in Giovanni Battista, se non il popolo fedele che la Chiesa madre reca nelle sue sacre viscere? Che, appunto, la Chiesa madre è fino ad oggi, incessantemente, nelle doglie del parto, fino all'istante in cui, nella imminente distretta generi il popolo eletto e lo sollevi verso il cielo. Quando mai questo sarà? Quando il popolo incredulo, simboleggiato dal sacerdote Zaccaria, da cui fu questa santa donna fecondata, ricupererà la loquela perduta e intonerà l'inno della riconoscenza al suo onnipotente Signore e a voce spiegata canterà: – Benedetto il Signore di Israele, che visitò il suo popolo e ne compí il riscatto. – Ecco perché Elisabetta precedette nel concepimento, di cinque mesi, Maria; e poi nel sesto mese anche la Vergine concepí. Domanderai ora che cosa significhi la Vergine che l'ha seguìta nel concepimento e nel parto? Significa la Chiesa che non conosce uomo, che riposa nel silenzio dell'eremo, dove non attecchisce lo studio delle profane lettere e non si incontrano i dottoroni del giure ecclesiastico, ma albergano invece la semplicità della vita, la disciplina, la sobrietà, la carità sgorgante da un cuore puro e da una fede non menzognera. Quanto è simboleggiato in Elisabetta, è destinato a scomparire: quanto è simboleggiato in Maria, è destinato a rimanere in perpetuo. Elisabetta è simbolo di travaglio e di inquietudine; ma dove abbondò l'inquietudine, sovrabbonderà il riposo. Tramonteranno i giorni della Marta affaccendata; spunterà l'alba beata della Maria oziosa. La vecchia Elisabetta, logora e stanca, verrà meno: trarrà respiro e incremento nel suo Signore la Vergine sacra, portante nel grembo il concepimento dello Spirito Santo. E come la sinagoga carnale, simboleggiata in Agar, traversò, come sappiamo, due tempi, il tempo cioè della sterilità e il tempo della figliuolanza, il tempo cioè anteriore alla legge, e l'altro sotto alla legge; e come quel che là è designato in Sara, qui in Elisabetta, ebbe un duplice momento, quello sotto il dominio della Legge, e questo sotto il dominio della Grazia, fino a questi nostri giorni, nei quali il terzo stato del mondo è destinato a cominciare, o, diciamo meglio, a fiorire: cosí la Chiesa spirituale, simboleggiata in Maria, appare dover segnare il tempo della sua fecondità da oggi alla consumazione del tempo. Ebbe inizio la sinagoga sul principio del secolo originario; concepí nei giorni di Agar, che la simboleggia; partorí nei giorni di Antioco. Maria iniziò la Chiesa, dapprima simboleggiata da Sara, alla fine simboleggiata da Elisabetta. Concepí Maria analogamente nei giorni di Elisabetta; partorirà ben presto sotto la pressione tormentosa di quel re, a cui tante volte ho fatto allusione in quest'opera. La Chiesa spirituale, designata da Maria, cominciò con lei e sta per concepire, seppure già non ha concepito... Il tempo trascorso dal sesto mese del concepimento di Elisabetta alla fine del nono, nel quale questa diede alla luce il suo figlio, corrispondente al periodo di tempo fra il primo mese del concepimento di Maria e la fine del terzo, fu tempo passato in comune dalle due gestanti, con questa differenza, che, compiuto il periodo della gravidanza, il grembo della anziana si liberava dal durissimo gravame, mentre il grembo della novella si ricolmava sempre piú del frutto dello Spirito Santo. Per cui, non senza un profondissimo significato di mistero, attesta il Vangelo essere rimasta la giovane madre beata presso la decrepita prossima al parto, affinché impari la Chiesa privilegiata, la Chiesa dello Spirito, a nutrire deferenza e rispetto verso la Chiesa universale, verso la Chiesa della lettera, finché non sia conchiuso il tempo del suo preconizzato parto».

Naturalmente l'ossequio esteriore e la sudditanza consapevole all'ufficiale disciplina ecclesiastica non vuol dire indifferenza e inintelligenza al cospetto degli indizi eloquenti che annunciano la fatalità della palingenesi religiosa. Gioacchino sa di vivere in un'epoca che postula assolutamente l'abbandono delle vecchie forme e sulla quale Dio e il suo Spirito stanno per attuare la loro definitiva apocalissi. Sa di rappresentare una funzione ardua di messaggero per l'ora dell'imminente trapasso. E pronuncia il suo presagio con fermezza, ignaro di ogni esitazione e di ogni rispetto umano.

«Quando il Signore», egli scrive, «si propone di trasformare la condizione della Chiesa attraverso il ciclo dei tempi, affinché i momenti perituri si consumino l'uno dopo l'altro, secondo le previsioni canoniche, suol mandare innanzi le folgori dei miracoli, le voci delle esortazioni, i tuoni della eloquenza spirituale, che ridestino dal sonno della morte i dormienti e gli apatici, e facciano comprendere a tutti che qualcosa di nuovo sta Egli per produrre sulla terra. Tali segni si sono già manifestati ai nostri giorni. Non sono molti anni che dei santi vanno compiendo miracoli e con parole eloquenti di ammonimento hanno chiamato il popolo a penitenza, seppur vi fu chi prestò orecchio all'annunzio e fu capace di discernere il vero volto trasfigurantesi del cielo e della terra. Ma poiché i cuori duri e terreni degli uomini non si scuotono che ai colpi taglienti delle verghe, ecco, è caduto sul popolo malvagio un rovescio formidabile. Un immenso terremoto, che ha sconvolto le masse per tutto il territorio della Chiesa occidentale... L'epoca del sesto angelo è già cominciata in parte ed è destinata a concludersi con ogni celerità ed urgenza. Fino ad oggi la verità è rimasta ignorata nella terra d'Oriente, poiché finora ha cosí riposato nelle anime ardenti per devozione nel talamo dell'amore, da non aver voluto uscire per andare a meditare nel campo del Vecchio e del Nuovo Testamento, dove è situato il pozzo del Veggente e del Vivente, per assurgere cioè all'aperta loro comprensione. Non era ancora scoccato l'istante nel quale, dice la Scrittura: – chiusi e sigillati sono i sermoni fino al tempo stabilito, – che è propriamente l'epoca sesta. Ma al momento fissato Isacco esce dal campo traversando la via che conduce al pozzo del Veggente e del Vivente. Oramai, quanto è stato misteriosamente bisbigliato nelle tenebre, deve essere proclamato alla luce del sole. Deve giungere al suo integrale spiegamento quella intelligenza spirituale che era rimasta, fino ad oggi, sepolta, per la massima parte, nel pozzo, affinché doni vita ai beventi e scopra il volto di tutta la verità. C'è un velo sulla faccia di Mosè. Lo spirito lo discopre, affinché la verità appaia sulla sua nudità. E quando? Al declinare del giorno, come quando il Signore si fece riconoscere mediante la frazione del pane. A vendo veduto Isacco che si avvicinava, Rebecca domandò allo schiavo: – Chi è costui che traversando il campo viene verso di noi? – E lo schiavo rispose: – È il mio padrone. – Immediatamente Rebecca si coprí col pallio: il che vuol dire che la Chiesa scorgerà la verità, ma non la riconoscerà qual è, finché lo schiavo fedele e prudente, che il Signore ha costituito sopra la sua famiglia perché le distribuisca al momento opportuno la misura del grano, non le abbia dato ragione di tutto e la conduca mercè la interpretazione spirituale al raggiungimento della verità. E allora la Chiesa, discoperta la verità, si avvolgerà nel pallio della sua giustizia».

Profondamente convinto di possedere ormai la chiave di tutto il simbolismo della rivelazione biblica e cristiana, Gioacchino immagina di essere, al cospetto della Chiesa, quel che fu lo schiavo di Rebecca, al momento decisivo della vita della sua padrona: il discopritore della verità fatale. Egli annuncia alla Chiesa di Roma la trasmutazione definitiva dei simboli di cui le è stata affidata l'amministrazione. Non si dissimula la gravità del suo messaggio. Ma, come San Paolo, egli sembra dire: «Guai a me se non annuncio la buona novella».

«Ecco, siamo alla quarantesima generazione; il tempo cioè stabilito perché i discorsi sigillati siano dissigillati. Se la vedano coloro i quali si arrogano il diritto di giudicare del cuore e di proclamare impossibile quel che invece la verità ha promesso possibile. Che non accada piú tosto, tacendo tutti per mancanza di fede, che ci inco1ga repentinamente il giorno fatale e involga in una sola riprovazione reprobi ed eletti. Se v'è chi non vuole ascoltare, non debbo io tacere e dissimulare, reticente, quel che ho cominciato ad annunciare. Al contrario. Piú alcuni fanno i sordi, tanto piú alto sono costretto io a gridare, affinché, alla conclusione e alla resa dei conti, essi debbano arrossire, non io. Ebbene, o fedeli, questo vi annunzio in piena cognizione di causa. Il numero solenne si consumerà piú sollecitamente di quanto non si creda. Non aspettate oltre. Chiunque può, si rifugi nell'arca, prima che l'onda vorace del diluvio salga veemente dall'abisso, e, spalancatesi le cateratte del cielo, straripi la inondazione, e levando lo sguardo sbigottito, diciate: che cosa è mai?, e non vi sia chi sappia dare risposta: prima dunque che andiate cercando un impossibile ricovero e invocando dal Signore un'impossibile salvezza; prima che siate costretti a battere invano alla porta, a fuggire per i monti, trovando ostruito il passaggio. Non io adunque imporrò un termine al mio libro, ma il Signore stesso: un tempo, due tempi, la metà di un tempo (Dan. VII, 25) A questo termine sognammo di arrivare fin dal principio: ad esso siamo pervenuti. Procedere oltre non è necessario e non è lecito. È questo il tempo della Chiesa nel quale deve sopraggiungere la pienezza dei tempi e in cui quindi la partoriente un figlio maschio verrà al Tempio... Per mio conto una cosa dico con certezza: compiuti questi misteri, il settimo angelo suonerà la tromba e con lui tutti si compiranno i misteri e la età della pace si inaugurerà sulla terra».

La pace spirituale del mondo: il monaco sepolto nella solitudine della Sila non aveva altro miraggio in cuore. Riscattato dal suo servaggio economico mercè la vocazione monastica, Gioacchino aveva potuto nelle sue peregrinazioni aver sentore dappresso delle violenze e delle discordie da cui era pervasa l'Italia meridionale in quel burrascoso tramonto del secolo XII. Gli uomini facevano il piú crudele strazio del piú insigne dono dello Spirito: la gioia, la pace. Solo Dio avrebbe potuto imporre riparo al bestiale divampare degli odî e delle vendette. Tutto precipitava nel peggio, l'orizzonte era percorso da uno di quegli uragani rovinosi in cui l'occhio della fede scorge, senza esitazione, il presagio delle nuove rivelazioni. Con l'anima battuta dalla febbre della speranza, Gioacchino aveva ansiosamente interpellato i simboli delle precedenti economie della grazia. E aveva ad essi strappato il loro segreto. La nuova età stava per spuntare. Alla Chiesa dei simboli stava per succedere la Chiesa delle realtà spirituali.

La spiritualità francescana tentò di incorporare in sé e di trarre a compimento il vaticinio del Veggente di Celico. Ma le circostanze storiche dannarono il tentativo al fallimento. E da allora ebbe origine la decadenza dei grandi valori cristiani nel mondo.

In qualche fugace ora di esitazione e di tremore Gioacchino si era domandato quale sarebbe stata l'accoglienza fatta dalle autorità della Chiesa al suo annuncio di palingenesi e di rinnovazione universale. Si sarebbe mai acconciata la burocrazia ecclesiastica a quel subito spodestamento che avrebbe dovuto costringerla a trasmettere le insegne del suo magistero e del suo governo spirituale nelle mani della nuova gerarchia dei contemplanti? Essa, che amministrava i carismi dell'età del Figlio, si sarebbe rassegnata a cedere la liturgia dei suoi Sacramenti alle realtà spirituali che questi Sacramenti avevano semplicemente prefigurato? Gioacchino si era dovuto fermare parecchie volte, con l'animo in ansia, di fronte a questo inquietante quesito. Ma poi si era risollevato dalla sua trepidante incertezza. No. La Chiesa visibile, che aveva avuto per secoli l'amministrazione delle realtà sante e che vedeva ora profilarsi all'orizzonte una cosí nuova temperie spirituale, non avrebbe dovuto, sotto lo stimolo di sentimenti inferiori, rifiutarsi di cedere il posto a coloro che dovevano realizzare la piú alta economia morale degli uomini. E quel giorno in cui egli si trovò a commentare l'episodio evangelico del vecchio Simeone, che riceve sulle braccia l'infante Gesù e che, presago dell'imminente avvenire, intona il suo nunc dimittis, egli non poté fare a meno di respingere con sdegno l'ipotesi maleaugurata che la Chiesa facesse ed opponesse resistenza all'avvento dello Spirito, e scoprí anche qui un presagio infallibile. Come il vecchio Simeone della narrazione evangelica, la Chiesa del Figlio avrebbe accolto sulle sue braccia la pargola Chiesa dello Spirito, ed avrebbe intonato anch'essa il suo nunc dimittis.

La realtà fu ben diversa da quella che il contemplante silano aveva immaginato. Ma non importa. Il messaggio del Veggente calabrese non mancò per questo di produrre le sue immense conseguenze.

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