XIII IL MOVIMENTO CISTERCENSE

L'insuccesso della seconda Crociata non deve far sottovalutare la incalcolabile azione spiegata da Bernardo in tutta la vita spirituale ed ecclesiastica del suo tempo.

È per lui che la riforma di Cistercio lascia un'orma indelebile in tutta la storia europea, ed è per lui che sotto l'ègida di questa resurrezione monastica si trasformano in Europa gli stessi criteri direttivi, non solamente di tutta la vita religiosa, ma di tutta la vita economica, culturale ed artistica. In realtà, poche figure nella storia del cristianesimo sembrano avere concretato più fedelmente e letteralmente quella legge della realizzazione attraverso le antitesi, in che sembra consistere l'economia dell'azione sociale del cristianesimo stesso.

Nato a Fontaines les-Dijon, terzo figlio di una cospicua famiglia dell'aristocrazia feudale borgognona, rivelò per tempo la sua vocazione «religiosa» che, nel Medioevo, è sinonimo di vocazione «monastica». Nell'aprile del 1112 egli si presentava, con trenta fra amici e parenti, alla porta di Citeaux, la casa madre dell'Ordine cistercense, chiedendo l'ammissione. Solo due anni dopo dodici monaci, dovevano essere distaccati, per andare a fondare un altro cenobio. E il loro abbate era Bernardo. Nasceva cosí la Badia di Clairvaux, dove il grande mistico moriva, sessantatreenne, nel 1153. Per un trentennio egli, il contemplante e il solitario, era stato il disciplinatore supremo della Cristianità occidentale, l'arbitro delle piú spinose controversie politiche, il giudice delle piú sottili disquisizioni teologiche, il propulsore dei piú vasti movimenti sociali. E pure egli aveva toccato questa eccezionale misura di efficienza pubblica, attraverso la rinunzia piú aspra e la professione piú intransigente di indifferenza e di disprezzo per il mondo.

La riforma cistercense, che deve precipuamente a lui il suo successo e il suo ideale, era stata un tentativo riuscito di riportare l'istituto monastico benedettino alla rigida interpretazione delle sue primitive costituzioni. Con questo, il monachismo occidentale aveva trovato nuove improvvise risorse e nuove capacità sociali. Lo spirito che aveva avvivato la riforma cluniacense si era andato affievolendo, sotto l'azione corrosiva dei suoi stessi successi ecclesiastici e civili. Dopo aver dato alla gerarchia pastori di forza e di tenacia adamantine, la rinascita monastica cluniacense, inquinata dalla contaminante floridezza della sua saturazione feudale, si era stilizzata nella pratica arida ed esteriore della sua disciplina liturgica. Occorreva rianimarla col soffio di un grande programma democratico e di un bruciante spirito di abnegazione.

Il 21 marzo 1098 un abbate di Molesme, Roberto, con un piccolo stuolo di fedeli, andava ad inaugurare, con propositi di intransigente rigidezza, una nuova Badia nei dintorni di Digione. Un legato pontificio aveva autorizzato la secessione. I transfughi di Molesme, una ventina in tutto, istituivano Citeaux con l'intento di praticare nella sua interezza la legge della rinuncia e del distacco monastico, nella solitudine piú scrupolosa, nella povertà piú appariscente del costume e del regime alimentare, nell'opera ininterrotta e salutifera della cultura agraria, là dove le condizioni igieniche si offrivano piú aspre e perigliose. Cosí legiferarono i primi disciplinatori del nuovo istituto, Alberico, successo a Roberto, e Stefano Harding. Ma difficilmente il nuovo tipo di pratica benedettina avrebbe superato gli ostacoli e le iatture esteriori delle sue prime origini, se con la vocazione di Bernardo tutta la società feudale della Borgogna non fosse stata colpita dall'inattesa reviviscenza mistica. I novizi affluivano rapidamente in massa e già nel 1113 quattro nuove Badie dovevano essere costituite: La Ferté, Pontigny, Clairvaux, Morimond. Alla fine del secolo le Badie ascendevano ad un numero ingentissimo.

Di fronte alla Regola benedettina, letteralmente interpretata, che non conosceva federazione e unità disciplinare di cenobi, ma lasciava ogni Badia alla clausura autonoma del suo singolo recinto; di fronte alla rigida organizzazione cluniacense che aveva stretto tutte le Badie, associate nell'identico movimento di riforma, in un vincolo strettissimo di sudditanza all'abbate della prima Badia riformata; Citeaux tentò una forma media di federazione, che evitasse i pericoli dell'isolamento e gli eccessi dell'accentramento. Ad ogni casa fu lasciata la sua capacità autonoma di sviluppo e di espansione: ma tutte furono sottoposte ad un potere stabile e potente.

In una assemblea del 1119, con la partecipazione degli abbati dei dieci monasteri esistenti, Stefano Harding emanava la «charta charitatis», che fu lo statuto fondamentale dell'Ordine. Essa stabiliva e poneva, al di sopra delle singole autorità abbaziali, la sorveglianza dell'abbate della Badia madre. D'altro canto lo stesso abbate di Citeaux, come padre universale della congregazione, vigila su tutte le sue case, ma è in pari tempo soggetto al controllo dei quattro abbati delle prime quattro case che Citeaux ha generato. Il potere supremo, con una geniale applicazione del principio rappresentativo, è demandato al capitolo generale degli abbati.

Ma la costituzione gerarchica e disciplinare non era che uno degli aspetti della rinnovazione profonda che la riforma cistercense introduceva nella pratica ormai secolare della Regola benedettina. E non era l'aspetto piú importante. Infinitamente piú ricche di conseguenze religiose e sociali dovevano essere le forme concrete del lavoro associato nella comunità, le prescrizioni imposte allo spiegamento della vita liturgica, l'ordinamento interiore delle case cenobiali. La riforma cistercense sopprimeva recisamente ogni compromesso ed ogni acquiescenza alle consuetudini lassistiche insinuatesi attraverso i secoli nella disciplina benedettina, tornava alla rigida pratica della povertà nell'assolvimento del lavoro manuale quotidiano, riconduceva alla piú schietta e disadorna semplicità la celebrazione degli uffici liturgici, rivestiti nella pratica cluniacense di cosí pomposo fasto; tagliava, fuori dalla spiritualità cenobiale ogni lusso di ricercatezza culturale. Questo spirito di solidarietà nel lavoro, nella abnegazione e nella preghiera, questo affratellamento spontaneo nello spiegamento semplice e povero del rito; questa comunanza nell'assolvimento delle mansioni varie, e pure equivalenti, dovevano non solamente generare una reviviscenza di genuine esperienze evangeliche, nel chiuso dei cenobi cistercensi, ma anche suscitare le ripercussioni piú imponenti nel mondo della cultura, dell'arte e della politica. Citeaux non accettava nuove fondazioni monastiche se non nei luoghi piú solitari, piú inospitali, piú malsani, per guadagnare alla salubrità e alla fecondità, cosí materiale come spirituale, le zone abbandonate dall'uomo sotto la minaccia delle forze ostili della natura. Ancor oggi le Badie cistercensi, con i loro edifici caratteristici, carichi di memorie e di meriti, si levano solitarie nelle località piú fieramente battute dal flagello della malaria e dello spopolamento. In quelle zone, chiuse naturalmente ai contatti contaminanti del mondo, è fiorita una delle forme piú alte dell'ascesi mistica medioevale.

E da quella forma di ascesi associata non poteva scaturire altra esperienza contemplativa che quella formulata, con cosí abbondante facondia, dallo spirito ardente di San Bernardo. Tutto in lui tradisce la particolare conformazione che le sue attitudini naturali hanno acquistato attraverso il tirocinio della pratica fraterna del monachismo riformato. Le sue forze fisiche erano fragili e precarie: ma le sue energie psichiche indomite ed infrangibili. Il suo senso del divino si era progressivamente amalgamato col senso del «numinoso» che è nella vita spirituale associata. In uno dei suoi piú squisiti sermoni sulla Cantica egli proclama solennemente che le dolcezze della contemplazione individuale debbono essere interrotte per l'onere dell'allattamento ai pargoli: ché anzi è una maledizione convertire a profitto e soddisfazione individuale quel che è destinato all'erogazione pubblica. E in virtú di questa eccezionale trasfusione della personale pienezza di Dio nella letificante partecipazione dei carismi associati, l'oratoria e la capacità espositiva del monaco si fanno diafane e trasparenti, semplici e disadorne, e insieme incisive e impressionanti, come le alte volte e i luminosi rosoni delle chiese cistercensi, aperti verso il tramonto. Bernardo non raccomanda l'efficacia del suo monito e del suo proselitismo alla ricercatezza e alla raffinatezza esteriori. II suo fascino è fatto di impalpabilità e sembra comunicare all'ascoltatore e al lettore un brivido, che è nel presentimento di verità nazionalmente appena intraviste. E per questo l'opera duratura sua è affidata all'insieme dei Sermoni, nei quali si è fissata, nei suoi connotati specifici, la concezione religiosa germinata dall'esistenza quotidiana del cenobio.

Ed è una concezione essenzialmente predialettica, nella quale il «numinoso» traspare potente nei suoi molteplici aspetti e momenti, senza che mai si irrigidisca o si cristallizzi negli schemi di una raffigurazione aridamente razionale. Tutti i coefficienti sono da Bernardo chiamati a raccolta, quelli che possono offrire spunto od alimento alla intuizione oscura e all'esperimento vivente del divino nella vita e nell'universo. Il senso acuto della complessità del reale e dell'inadeguatezza inguaribile del linguaggio umano a tradurlo efficacemente; l'ammirazione fervorosa per la natura, avvertita come un insieme di connotazioni etiche, oltre che fisiche, manifestazione non di sola bellezza, ma anche della volontà mirabile di un potere trascendente e paterno; entrano parimenti nella elaborazione di quella religiosità, che Bernardo sente cosí concretamente e insieme in foggia cosí ineffabile, ch'egli, a designarla, non può adoperare altri vocaboli che quelli di experientia e di experimentum.

A differenza degli atteggiamenti concettuali, che la religione assume nella riflessione delle sistemazioni dogmatiche e speculative, l'atteggiamento mistico non ha bisogno di essere inquadrato nelle circostanze esteriori, quasi queste riescano di volta in volta a modificarne sensibilmente i connotati e la natura, o di essere subordinato ad una maturazione cronologica ed esteriore di avvenimenti empirici. La mistica è un'espressione religiosa che tende a oltrepassare la sfera degli accadimenti effimeri della esistenza sensibile, per attingere solo dagli spiriti; e dai loro ideali ultra terreni l'alimento della propria ascensione verso l'Assoluto. Per quanto mescolato al suo tempo, Bernardo ricava le forme della sua esperienza dai motivi familiari e dagli spunti quotidiani della associazione spirituale che è nella pratica monastica. Lo stesso tornare frequente della sua oratoria sui significati etimologici dei vocaboli religiosi e biblici, su cui si intessono i suoi moniti e le sue sottili speculazioni esegetiche; lo stesso sforzo assiduo e faticoso, sostenuto per conguagliare i propri abiti spirituali alle capacità e alle esigenze della comunità ascoltante; rivelano la legge che presiede allo sviluppo di questa eccezionale natura di mistico cristiano, che attinge dalla associazione monastica le energie di tutta la sua attività pubblica.

Il contrasto aspro e ostinato con Abelardo, il precursore dell'apologetica razionale scolastica, pone di fronte i due metodi possibili nell'attingimento e nella esplicazione del senso religioso: il metodo nudamente dialettico-speculativo, che finisce automaticamente col soffocare la ineffabilità del «numinoso», attraverso le formule delle traduzioni e delle schematizzazioni concettuali, e il metodo intuitivo-sentimentale, che afferra il prodigio dell'universo e avverte il mirum della spiritualità aggregata in virtú di una spontanea e primigenia capacità dello spirito umano. Il tentativo di superare rationem ratione, in che è l'essenza di ogni indagine razionale applicata alle realtà della fede, e in cui Abelardo si incaponisce, presago dei nuovi orientamenti verso cui si avvia la cultura scolastica europea agli inizi del secolo duodecimo, appare a Bernardo folle e scandaloso. Ai suoi occhi esistono, è vero, tre modi, mediante i quali, come mediante altrettanti sentieri, è possibile alla nostra considerazione procedere al raggiungimento di Dio e delle realtà spirituali: l'opinione, la fede e l'intelletto. «La fede è una certa volontaria pregustazione, sicura, di una verità non ancora dispiegata. L'intelletto è una nozione sicura e aperta di una qualsiasi realtà invisibile. Opinione è invece reputar per vero qualcosa, di cui non si sappia che è falso. La fede pertanto non consente tergiversazioni o ambiguità: se ne abbia, non è piú fede, ma opinione. In che cosa dunque si diversifica dall'intelletto? In questo, che pur nulla avendo di incerto in sé, piú che non ne abbia l'intelletto, pure è avvolta in un'atmosfera, che non è quella della attività cogitante. In questa atmosfera lo spirito religioso attinge quelle realtà e quei valori che, inaccessibili al procedimento dialettico, si concedono alla contemplazione, alla preghiera, all'azione, alla purezza».

Si comprende come, con l'occhio fisso al raggiungimento di questo superiore mondo di realtà «numinose», la pedagogia del Santo si ispirasse a canoni pragmatici e puramente edificativi. Una sua lettera tradisce perfino la sua sdegnosa noncuranza al cospetto di tutto ciò che rappresentasse interesse erudito e letterario per i testi sacri. «Se una sola volta tu avessi gustato la saporosa polpa di quella spiga onde si satolla la Gerusalemme dei santi, quanto volentieri lasceresti alla faticosa corrosione dei letterati la sua corteccia! Lascia pure le vane esplorazioni concettuali. Presta fiducia a chi ne ha fatto la esperienza. Troverai qualcosa nei boschi che non avrai trovato nei libri. I tronchi e le pietre possono insegnarti cose che nessun maestro ti dirà mai. Credi tu di non poter succhiare il miele dai macigni e l'olio dalla roccia piú compatta? O che forse i monti non sanno stillare dolcezze misteriose, le colline non sanno spandere latte e miele, le valli non sono ricolme di frumento?».

Un'anima cosí squisitamente aperta al fascino captivante del «numinoso» che è nella natura universa, doveva essere generosa di amabilità e di condiscendenza ai propri compagni. Uno dei biografi racconta come un monaco non si avvicinasse piú da lungo tempo alla partecipazione eucaristica. Alcuni confratelli, a norma della Regola che impone la correzione fraterna, lo interrogano segretamente al riguardo. Il monaco confessa la sua repugnanza al rito, e allora viene condotto all'abbate. A Bernardo il monaco rivela i suoi dubbi profondi sulla presenza reale. Bernardo ne è trafitto: «Sarà mai che un mio monaco sia condannato all'inferno? Giammai. Se tu non hai in te sufficiente fede, ti comando, in nome della obbedienza, di comunicare al Sacramento con la mia fede!». Costretto per tanto dal vincolo della obbedienza, il monaco si avvicina all'altare, privo di fede, a quanto gli sembra, si comunica, e immediatamente, per merito del Santo, è inondato dalla fede.

Ecco come, praticamente, nel cenobio cistercense, sotto l'azione corroborante di Bernardo, la lex orandi si trasformava in legem credendi. È questa intima interdipendenza fra la solidarietà carismatica della comunità monastica e gli orientamenti della mistica bernardiana, che è sfuggita di solito ai valutatori della posizione dell'abbate di Chiaravalle nel cristianesimo medioevale. E pure essa traspare eloquentemente dalla prima parola all'ultima di quei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici, che sono il monumento piú espressivo della sua esperienza mistica. Il sermone è per Bernardo un colloquio. Sembra che di inciso in inciso l'oratore attenda la risposta dal suo piccolo manipolo di fratelli, che lo ascoltano e lo amano; la spia nel lampeggiare dei loro occhi, nei movimenti dei loro volti, nel gesto della loro figura. Bernardo mira a stabilire fra sé e i suoi uditori una comunione perfetta di idee e di sentimenti e per questo chiama costantemente, a testimone della propria esperienza, la loro, e a suffragio del proprio dire, l'intima voce della loro coscienza. Il sermone cessa pertanto sulle labbra di Bernardo di essere la nuda ed esteriore allocuzione, per divenire sempre piú simile ad una forma di meditazione compiuta in comune.

Interpella direttamente Bernardo: «Figliolini miei, siate miei imitatori. Non lo dico per l'esercizio della virtú, per la disciplina dei costumi, per la gloria della santità (non oserei davvero di arrogarmi temerariamente alcun merito, degno di imitazione, su questo terreno): voglio piuttosto che non perdoniate a voi stessi, ma che al contrario vi accusiate, ogni qual volta vi capiti di scoprire in voi un intiepidirsi della grazia, un illanguidirsi del virtuoso operare. Anch'io faccio il consimile... Ho bene appreso questo: che nulla val meglio per meritare, per conservare la grazia, quanto il costituirsi in permanenza al cospetto del Signore, non sapiente, bensí timoroso... Trema quando la grazia ti abbia circonfuso, trema quando si sia allontanata, trema quando se ne torni».

Nel senso della comunità, maestro e padre, Bernardo trasfonde, appropriandosi la terminologia paolina, la pienezza dei suoi doni carismatici. La vita associata è per lui il terreno della gioia spirituale e il solco della sua piú eletta seminagione: anche se il mistero della vita interiore è inspiegabile: «Tollerate qualcosa della mia insipienza. Confesso che piú volte è sopravvenuto in me il Verbo. Piú di una volta non avvertii il suo arrivo e il suo ingresso. Lo sentii presente; mi ricordo della sua presenza; talora potei presentire, mai però sentii il suo avvento, e né pure il suo esito. Confesso anche adesso di ignorare donde mai si dipartisse per introdursi nell'anima mia; dove si raccogliesse, dipartendosi da me; da qual parte fosse entrato e quale scegliesse per uscirsene... Non mi domandate pertanto quali siano le sue vie, dimostratesi così ininvestigabili. È realtà viva ed efficace: non a pena sia ospite nell'anima, desta la dormiente anima; commuove, addolcisce, trapassa il mio cuore, che era duro come sasso e malsano... Veramente non mi si manifesta attraverso i suoi movimenti; non si fa noto ai miei sensi; lo avverto soltanto mercè la commozione del cuore e il dileguare rapido dei vizi, dal dominio sovrano che spiega sulle affezioni carnali e dal rinnovamento che opera dell'uomo interiore... Ma mi si domanderà ancora che cosa sia precisamente godere del Verbo. Rispondo: si cerchi piú tosto chi ne abbia viva l'esperienza. Del resto, quando io ne abbia fatto l'esperienza, credi tu che io possa dare una formulazione qualsiasi a ciò che è ineffabile? Ascolta piú tosto chi veramente ne sapeva qualcosa: – Sia, dice, che siamo fuori di mente, siamo a Dio; sia che siamo coscienti di noi, lo siamo per voi – (II Cor. V, 13). Vale a dire: altra cosa sono i rapporti con Dio, sotto l'arbitrio unico di Dio stesso, altra cosa i miei rapporti con voi. I primi è lecito sperimentarli, ma non formularli, i secondi implicano che io mi conformi a voi, sicché io possa parlare e voi comprendere. Chiunque tu sia che vuoi sapere che cosa mai significhi godere del Verbo, appresta a lui, non il tuo orecchio, ma il tuo spirito: perché non ammaestra attraverso la voce, bensí attraverso la grazia. E i suoi allievi, sono i pargoli. Ché sublime virtú è l'umiltà».

Umiltà e carità sono i due fochi intorno a cui Bernardo svolge l'ellissi della sua raffigurazione dell'esperienza mistica. Ché, veramente, per il piú strano degli infiniti paradossi e per la piú sorprendente delle innumerevoli antinomie onde si intesse la vita dello spirito, i piú eccelsi carismi sono il retaggio dell'umile sentire di sé e le piú sottili elevazioni interiori sono la ripercussione della volonterosa e dimessa dedizione ai fratelli. Nella concorde solidarietà dei fratelli, nel pronto reciproco abbandonarsi nel servizio e nella modestia, nell'ilare assunzione degli altrui oneri, il Dio cristiano celebra il poema delle sue benedizioni. Bernardo chiede a ciascuno di attestarlo... «Oggi», comincia egli il suo sermone terzo della Cantica, «leggeremo nel libro della esperienza comune. Ciascuno pertanto si sforzi di entrare in se stesso e ciascuno ascolti il monito della propria coscienza a proposito di quel che siamo per dire. Vorrei indagare se ad alcuno di voi sia stato mai concesso di dire con la frase biblica: – Mi baci col bacio della sua bocca. – Non è infatti da tutti pronunciare ciò, di cuore: ma se alcuno una sola volta ricevette dalle labbra del Cristo il bacio spirituale, non desidera altro che ripetere l'esperimento. Penso veramente che nessuno ne sappia alcunché, se non chi l'ha ricevuto. È una manna misteriosa: chi ne gusta, ne ha piú fame di prima». Ma Bernardo non vuole dare a credere che la vita della spiritualità sia agevole e spedita a seguirsi: prima di aspirare al bacio delle labbra di Cristo, il tirocinio dell'anima penitente si eserciterà nel duplice bacio dei piedi e della mano: «Col primo sono sigillati gli inizi della nostra conversione, col secondo sono sanzionati i passi dei progredienti: il terzo, il bacio della bocca, è la consumazione dell'esperienza perfetta».

Il fiammante linguaggio della Cantica è da San Bernardo assunto in pieno per la delineazione degli stati mistici; per la schematizzazione ideogrammatica dell'ineffabile vita della grazia. Ma, come è postulato dell'economia essenziale ed immanente della religiosità cristiana, nella quale la disciplina etica e il sacrificio concreto appaiono come elementi indispensabili di ogni realizzazione del divino, gli ideogrammi bernardiani, desunti dal linguaggio biblico, sono costantemente accoppiati ad una applicazione pratica e ad una interpretazione pragmatica. Canta la sposa: «Introduxit me rex in cellaria sua». San Bernardo espone i possibili modi di intendere le «dispense» dello scopo; ed uno sembra preferirne fra tutti: «La prima, è quella della disciplina; la seconda della natura, la terza ed ultima della grazia. Nella prima, a norma della ragione morale, impàri ad essere inferiore; nella seconda, acquisti la coscienza della parità; nella terza attingi la superiorità; impàri cioè ad essere sotto l'altro, con l'altro, sopra l'altro; vale a dire, a sottostare, a coesistere, a sopravanzare, a essere discepolo, compagno, maestro. Ché in realtà la natura generò gli uomini tutti sostanzialmente uguali. Ma poiché le manifestazioni della natura furono contraffatte e deformate nei costumi della superbia, gli uomini divennero insofferenti della uguaglianza, e si diedero a contendere per una superiorità sugli altri, avidi di sopraffarsi, cupidi di gloria, inclini ad invidiarsi e a provocarsi. Per questo è necessario innanzi tutto domare nella prima stanza l'insolenza dei costumi mercè la disciplina, finché la pervicace indocilità non sia umiliata e sanata attraverso la macerazione operata dalle dure e tenaci regole degli antichi, e l'obbedienza faccia riacquistare quel che la superbia aveva fatto smarrire. Passerà poi nella sfera dei tranquilli rapporti associati. Dalle consuetudini disciplinate infatti si espande, come da essenze triturate, l'olio della gioia, la bontà naturale. Cosí unto, l'uomo diviene mite e amabile».

Cosí, nella pienezza della esperienza mistica, Bernardo ricapitola, schematicamente, i momenti e i coefficienti dell'etica e della religiosità cristiane. Nelle sue enunciazioni, tutte sempre di intonazione edificativa, sono in embrione i postulati antropologici e soteriologici dell'insegnamento tradizionale ecclesiastico. La vita associata è dagli inizi contaminata e deformata dall'esplosione dell'umana volontà di sopraffazione. Per ripristinare la pace, la mitezza, la gioia, occorre che il re della abnegazione, lo sposo celeste, introduca gli uomini nei «cellaria» della disciplina e della rinuncia, insegnando che nella dedizione è la vita, e nel sacrificio la conquista. San Bernardo sente con tutta l'anima il significato e l'efficacia della redenzione cristiana nel corso storico dell'umana sofferenza e dell'umana aspirazione alla requie e alla giustizia. E tutta la sua commossa celebrazione del sacrificio di Cristo è una consumata ricerca della soluzione che il problema del male esige, per non apparire come una blasfema impugnazione ed accusa contro Dio.

Il mistero della salvezza si innesta pertanto, in San Bernardo, sulla sua raffigurazione generale del mondo e della vita, pervade tutte le sue definizioni e tutte le sue speculazioni teologiche. Le quali infatti non rivestono mai la forma stilizzata dell'argomentazione dialettica, ma si tramutano in asseverazioni solenni e patetiche dell'economia provvidenziale nell'universo delle realtà sensibili e dei fini morali. «Probabilmente» premette egli, indirizzandosi ad Eugenio III, «sei tratto a provar fastidio se continuiamo a domandare che cosa sia Dio, sia perché già troppe volte ce lo siamo domandato, sia perché dubiti molto che lo si possa trovare. Ti rispondo che proprio Dio è il solo che mai può ricercarsi invano, che mai può non ritrovarsi. Faccio appello alla tua stessa esperienza. O, se vuoi, credi a chi l'ha fatta, non a me, ma a quel santo che esclamò: – Tu sei amabile, o Signore, per coloro che sperano in Te; per l'anima che ti cerca. – Che cosa è mai dunque Dio? Al cospetto dell'universo, è il fine; in rapporto all'elezione, è la salvezza; in sé, Egli solo sa che sia. Che cosa è Dio? Volontà onnipotente; virtú superlativamente benevola, luce eterna, ragione inalterabile, beatitudine somma, che crea anime destinate a partecipare di Lui, che le avviva affinché possano sentire, le stimola affinché possano desiderare, le dilata affinché possano accogliere, le giustifica affinché possano meritare, le accende affinché possano concepire zelo, le feconda affinché possano partorire, le dirige verso la equità, le inclina alla mitezza, le atteggia a sapienza, le rassoda nella virtú, le visita per c

onforto, le illumina per farle assurgere alla cognizione, le perpetua per l'immortalità, le ricolma di felicità, le avvolge nella sicurezza... Dio è un certo orientamento ragionevole ispirato ad equità, non, trasmutabile, non evitabile, che tutto raggiunge e tutto dirige. Ogni malvagità occorre che si scomponga, imbattendosi in esso».

Nulla, in questa definizione del divino, che ricordi le categorie aristoteliche o preannunci la dimostrazione di San Tommaso. Il divino, per San Bernardo, è la norma assoluta del bene nel cosmo. Una rectitudo anselmiana, tutta impregnata e soffusa di preoccupazioni etiche e di valutazioni sentimentali. Nel misticismo bernardiano la verità è un valore morale, e la via per raggiungerla è la esplorazione delle esigenze dello spirito in sé e nella vita associata. La verità anzi è nulla, senza l'esercizio ed il controllo dell'azione. Ché il conoscere la verità, l'avvertire le leggi assolute della vita costituisce un amarissimo cruccio, quando la vita non sia informata alle idealità scoperte dalla cultura.

Avvivata da un cosí pungente e assiduo senso della interdipendenza che lega nella esperienza religiosa il momento soggettivo e quello oggettivo; l'aspetto individuale e quello associato; il pensare, il credere e l'agire; il misticismo bernardiano riproduce gli atteggiamenti fondamentali del vivere cristiano primitivo. Ogni cristiano è come Lazzaro, destinato al fetore quatriduano del sepolcro, prima della sua palingenesi spirituale. Il primo dí della sua sepoltura simbolica è la morte alla colpa e la deposizione nelle intime latebre della coscienza. Il secondo segna l'aspra contesa contro il brulichio inquieto delle vecchie passioni rinascenti. Il terzo inizia la prova del dolore. Il quarto porta con sé il pudore timoroso dei trascorsi. Alla fine, il «convertito» è scosso dalla chiamata del Signore: – Schiudi gli occhi alla luce delle misericordie divine! Da quel dí ha inizio la nuova «milizia». E la genuina, fedele milizia è nel chiostro. Dove i fratelli, associati al medesimo ideale, costituiscono di scorcio la comunità totale dei credenti, e, come nucleo privilegiato, debbono realizzare a pieno quell'amore di Dio, in cui è la celebrazione assoluta della metànoia.

E a quest'amore di Dio, Bernardo dedica un trattato apposito, nel quale sono indagate, nella pienezza della esperienza mistica, le ragioni e la misura, le manifestazioni ed i gradi dell'amore religioso. «La causa per amar Dio, è Dio; la misura dell'amarlo, è nell'amarlo senza misura». Ma anche qui il monaco della riforma cistercense, che nello stesso tirocinio della solitudine sembra aver piú profondamente scorto, per una misteriosa legge di compensazioni antitetiche, l'indissolubilità dei due precetti in cui Gesù disse consistere tutta la rivelazione, abbina l'amore di Dio all'amore del prossimo, come alla propria concreta ed adeguata rivelazione. «Amare il prossimo degnamente non può chi non ama Dio. E in Dio non l'ama, chi Dio non ama».

Cosí il contemplante borgognone, attraverso l'experimentum della nuova forma di vita monastica inaugurata da Cistercio, raggiungeva le vette di quella ebbrezza estatica che gli avrebbe meritato, a distanza di meno che duecento anni, di essere scelto da Dante come interprete della preghiera piú alta a Maria Vergine, a Maria che l'Ordine cistercense aveva scelto come sua tutelatrice e di cui la liturgia dell'Ordine aveva fatto suo centro devozionale.

Realizzando in pieno quella che è la originalissima tecnica della pedagogia sociale cristiana, Bernardo e il suo Ordine mostravano di attingere dalle forme piú rigide dell'ascesi e del rinnegamento del mondo le forze capaci di introdurre nel mondo le piú insigni e vaste riforme.

Il feudalesimo, lo abbiamo visto, era stato una specie di monachismo laicizzato, con la sua autarchia economica, con la sua clausura giuridica, con la sua casta di coloni, legata indissolubilmente alla terra. Ora, un signore feudale come Bernardo usciva dalla clausura del feudo per rompere, anche nel chiostro, i sigilli della clausura. L'Ordine cistercense, chiamando alla vocazione religiosa, affrancava i servi della gleba e creava delle cooperative di produzione e di consumo, che non potevano a meno di far sentire le ripercussioni grandiose della loro tecnica agraria su tutta l'economia pubblica.

Il feudalesimo era stato irresistibilmente corroso e minato dall'ingente sviluppo demografico, determinatosi dopo il Mille. Quasi a premunirsi dai rischi che sono naturalmente insiti nel fatto stesso della sovrapopolazione (ché gli uomini non sembra possano trovare una soluzione equilibrata fra le competizioni cruente che nascono dalle necessità della espansione etnica, e le forme cosí spesso paradossali e innaturali della ascesi organizzata, che non è altro che una disciplina mistica delle nascite), quella stessa rivoluzione cistercense, che rappresentava in certo modo l'esodo dal feudalesimo, insisteva piú che mai e celebrava quell'ideale della continenza, che il piú alto interprete della nuova età storica, Gioacchino da Fiore, avrebbe fatto condizione preliminare della veniente economia dello Spirito.

I progressi della organizzazione cistercense in tutta Europa ebbero qualche cosa di prodigioso. Sarebbe impossibile rendersene conto qualora non vi si scorgessero in opera fattori economici e sociali.

Sul terreno della pura ed esclusiva disciplina religiosa ed ecclesiastica si sarebbe detto che la riforma cistercense non avesse fatto altro che riportare l'osservanza della Regola alla piú dura e scrupolosa rigidezza primitiva. La vita claustrale, lo spiegamento del culto divino, la tecnica quotidiana della contemplazione sembrava fossero i medesimi criteri ispiratori che avevano accompagnato la prima genesi dell'istituto monastico in Occidente.

In realtà, all'ombra della riforma di Cistercio, tutta una nuova pratica, si potrebbe dire, della vita cristiana, veniva a convogliare sotto di sé i bisogni e le esigenze dell'economia e della socialità europee, sollecitate dai nuovi impulsi demografici e dai nuovi bisogni collettivi. Di contro all'autonomia monastica cluniacense, che supponeva il cenobio libero ed affrancato al cospetto dell'autorità vescovile e, fedele al primitivo spirito benedettino, faceva della Badia un organismo chiuso ed invalicabile in se stesso, Cistercio non solamente stabilisce contatti e rapporti di dipendenza di fronte all'autorità vescovile, quasi col proposito inconsapevole di porre il misticismo monastico nella piena circolazione della totalitaria vita cristiana, ma instaura vincoli di fraterna solidarietà tra le Badie, considerate come propaggini di una medesima comunità madre. Esso si leva energicamente contro il lusso e la floridezza del monachismo cluniacense. Quel lusso e quella ricchezza terrena avevano rappresentato una funesta causa di deperimento e dissipazione morale. Abbati, nominati od eletti sotto la pressione di principi feudali e di famiglie nobiliari, sospinti verso il chiostro dall'ambizione o dall'interesse, credevano di dover raccomandare al fasto esteriore il prestigio che la loro dignità avrebbe dovuto piuttosto cercar di trarre dalla loro virtú personale e dalle loro qualità di disciplinatori della famiglia religiosa. La patina feudale incrostatasi sull'istituto abbaziale aveva del resto gradualmente corroso e annullato la semplicità richiesta dalla Regola.

Ma la grande novità dell'istituto cistercense, la novità che fa di esso uno dei fenomeni capitali nella trasformazione della vita medioevale, trasformazione che troppo angustamente e unilateralmente noi siamo stati abituati a vedere circoscritta nel profilarsi della vita comunale, è costituita dal suo regime economico, dalle sue finalità bonificatrici, dalla costituzione di quelle masse di conversi laici che l'Abbazia manda, durante il corso della settimana, a dissodare le plaghe incolte marginali sul territorio dell'Abbazia e la domenica raccoglie per la celebrazione solidale della liturgia.

Per norma fissa e inviolabile, Cistercio non accetta fondazioni che nelle solitudini piú inospitali e nelle plaghe piú battute dal flagello della malaria. La Regola cistercense vieta l'acquisto di proprietà che non siano fondi suscettibili di sfruttamento diretto per opera della comunità monastica. Difformemente dalla maggior parte delle comunità benedettine fino allora esistenti, la riforma cistercense pone a base della nuova costituzione monastica il principio solenne che il lavoro manuale rappresenta la vera e genuina applicazione del labor imposto dalla Regola di San Benedetto.

La vecchia tradizione benedettina aveva seguìto una concezione del tutto diversa del lavoro monacale. Fondati per la maggior parte in un'epoca in cui la congregazione monastica era sinonimo di clericato, in vista di un'opera di raccoglimento spirituale e di evangelizzazione del mondo barbarico, i monasteri benedettini dell'alto Medioevo, in genere riccamente dotati, avevano rappresentato centri di cultura e di arte.

Il cenobio, vera curtis chiusa in se stessa, non concepiva un lavoro qualsiasi lontano dal territorio abbaziale, e d'altro canto i monaci innalzati all'ordinazione sacerdotale, tutti dediti alla trascrizione dei manoscritti, all'attività artistica, alla riflessione teologica, non potevano fare altro che lasciare ai coloni quel lavoro della terra che pur era indispensabile al sostentamento della vita monastica.

Intanto la ricchezza monastica aveva assunto proporzioni grandiose. Durante i secoli i cenobi avevano ricevuto in donazione castelli e villaggi intieri, con tutta la loro famiglia di coloni e di servi della gleba. Appaiatosi al regime feudale, che del resto non poco aveva preso dalla tecnica economica della vita cenobitica, il monachismo aveva subìto tutti gli oneri, tutti gli obblighi e tutte le deformazioni imposti dalla feudalità. Le decime, i censi, le rendite terriere, costituivano il cespite capitale dell'organizzazione monastica. Il che portava una serie di correlazioni col mondo che non potevano non andare a detrimento della purezza e della castigatezza della disciplina monastica. Qui veramente Cistercio sta a segnare l'alba di una nuova età.

Non per nulla la riforma nuova, cui San Bernando offre il contributo mirabile della sua attività prodigiosa, della sua sensibilità raffinata, della sua operosità instancabile, si schiera di fronte a Cluny in un atteggiamento di insurrezione e di rivoluzione radicali, che prendono forma concreta anche nei minimi dettagli del comportamento esteriore e delle forme di vita quotidiane.

Alla nera divisa del vecchio monachismo benedettino, Cistercio sostituisce la nuova divisa candida. Al lusso delle vecchie costruzioni monastiche romaniche, con la fosforescente sua decorazione, Cistercio contrappone la nudità delle sue candide costruzioni, con l'abside orientata verso il sole nascente e la porta con i suoi rosoni, simbolico occhio della massa, aperti verso il sole che tramonta, con la semplicità della sua suppellettile sacra. Perfino le devozioni cistercensi hanno qualche cosa di nuovo e di caratteristico. Il culto di Maria assume un rilievo inconsueto nella pratica quotidiana della pietà cistercense, quasi a simbolo della nuova e ricelebrata funzione che la donna viene ad assumere nella società rinnovata, di cui Cistercio sembra essere la rocca spirituale e la simbolica avanguardia.

E come tutte le grandi rivoluzioni religiose, anche Cistercio crea uno stile architettonico nuovo, lo stile gotico.

Per Cistercio la prima base delle rendite necessarie al sostentamento delle numerosissime comunità è lo sfruttamento agricolo diretto. I beni abbaziali sono posti in valore dalla comunità stessa, non da famiglie di coloni. La parte piú vicina all'Abbazia è coltivata direttamente e personalmente dai monaci. Le zone piú lontane, ripartite in «grange» o colonie rurali, sono dissodate, sotto l'alta sorveglianza del Cellarario, dai conversi. Sono questi religiosi contadini unicamente volti alla coltura terriera che creano la prosperità materiale dell'Ordine. Cistercio non vuole la cura di chiese parrocchiali; non vuole percepire decime; non vuole in retaggio il possesso di borgate, di mulini, di servi della gleba. Ogni monaco è libero ed ogni monaco reca, come in una grande cooperativa, il contributo del suo lavoro alla prosperità comunitaria.

Si tratta veramente di due concezioni e di due forme pratiche della vita monacale che si trovano di fronte: la vecchia, che aveva trovato a Cluny la sua disciplina canonizzata, rispecchiante nell'ambito della vita ecclesiastica quella ripartizione feudale che si era instaurata in armonia con le concezioni unitarie dell'Impero carolingico e teutonico; la nuova, su cui preme la profonda rivoluzione demografica operatasi dopo il Mille, che apre le vie a tutto un nuovo mondo europeo.

Nel giro di meno che un quarantennio, prima che San Bernardo morisse, Chiaravalle, inizialmente riparo di animali selvatici, si era trasformata in un centro monastico floridissimo, venerato e riguardato con devozione da tutti i cenobi che si erano venuti propagando sul territorio europeo, con un portentoso processo di prolificazione.

Secondo un vecchio cronista dell'Ordine, la riforma cistercense a mezzo il XII secolo, a cinquant'anni cioè di distanza dalle sue origini, avrebbe contato cinquecento case. La cifra è senza dubbio esagerata. Detraendone le «grange», che possono essere state facilmente confuse con le Abbadie, noi possiamo ritenere per sicuro che il numero dei cenobi cistercensi toccava già in quell'epoca l'imponente cifra di trecentocinquanta. «Omnia Cistercium erat», diceva un adagio popolare; e si rimane veramente interdetti a pensare quale enorme contingente di monaci questa cifra rappresentava, quando si riflette che parecchie di queste case contavano da sole monaci a centinaia e che Chiaravalle aveva toccato a volte la cifra di settecento membri della comunità, fra professi, novizi e conversi.

La disseminazione di questi cenobi rappresenta in Europa il primo grandioso programma di bonifica agricola. Ancora oggi, dalle piaghe calabresi alle pianure della Prussia orientale e dal territorio franco fino ai confini della Norvegia, quelle colossali opere di bonifica da cui si traggono opimi frutti, sono la traccia portentosa della riforma di Cistercio.

Se si considera Cistercio solo da questo punto di vista economico, già si è colpiti fino allo stupore dalla grandezza dei risultati ottenuti. L'Italia conobbe anch'essa molto presto la installazione di comunità cistercensi nel proprio territorio. Chiaravalle alle porte di Milano fu fondata nel 1135. Casamari, nel territorio di Veroli, nel 1140. San Paolo alle Tre Fontane di Roma, a pochi mesi di distanza da Casamari. Seguirono poi le fondazioni dell'Italia meridionale e quelle delle paludi Pontine.

Ancora oggi là, sui margini di queste paludi, trasformate ora da un altro programma di bonifica che ricorda per la sua grandiosità e per la sua vastità di attrezzatura la vecchia bonifica cistercense, le sopravvissute Badie cistercensi di Fossanova e Valvisciolo stanno a testimoniare quale meravigliosa fioritura di coltura terriera e di rinnovamento artistico la riforma iniziata da Roberto di Molesme, patrocinata da Bernardo di Chiaravalle, avesse disseminato sul suo cammino in Europa.

Ma nella sua multiforme anima di signore feudale passato improvvisamente alla mortificazione del chiostro, Bernardo aveva troppo sincretisticamente avvicinato e fuso insieme le preoccupazioni della politica esteriore della Chiesa e gli ideali della vocazione monastica. Noi l'abbiamo visto predicatore della Crociata e teorico apologeta della sacra milizia. Noi l'abbiamo veduto tenere a battesimo l'Ordine dei Templari e l'abbiamo udito a Vézelay convocare la Cristianità europea alla nuova impresa di Terra Santa.

Questa stessa eterogeneità di propositi, questa stessa molteplicità di intenti, si sono trasformate per Bernardo in un insuccesso che ha gettato un'ombra sulla sua spiritualità e sulla sua missione. Egli ha avuto partita vinta nel patrocinio da lui offerto ad Innocenzo II di contro ad Anacleto II. Ha veduto la riconciliazione del Papato coi Normanni ed ha veduto ascendere al soglio pontificio un allievo del suo tirocinio, Eugenio III. Ma non è riuscito ad assicurare la pace e la tranquillità alla Sede romana, come non è riuscito a salvare il mondo cristiano dalla catastrofe della seconda Crociata.

L'Ordine cistercense, travolto esso stesso dalla floridezza politica a cui lo fa salire la sua tecnica economica rinnovata, subisce ben presto quelle medesime contaminazioni che avevano deformato e maculato la tradizione di Cluny.

Perché tutto quel che vi era di innovatore nello spirito cistercense potesse apparire chiaramente alla luce e potesse portare i suoi strepitosi risultati morali, occorreva che un'anima di profeta, vivente in pieno la drammatica crisi della nuova età, risuscitasse dalla tradizione cristiana il primitivo spirito apocalittico, e si affisasse sull'alba di una nuova età, che non poteva essere altro che l'alba della nuova età dello Spirito.

Il cristianesimo primitivo era vissuto sotto la malìa del fascino irraggiato dalla sicura aspettativa del veniente Regno di Dio. La nuova età cristiana doveva levare lo sguardo sulla veniente rivelazione dello Spirito, quella rivelazione dello Spirito che già il Vangelo giovanneo aveva pronunciato, e che di fronte alla tradizione ecclesiastica avrebbe avuto il significato e la portata di una definitiva realizzazione di quel che nella economia ecclesiastica che era stata l'economia del Figlio, aveva avuto valore soltanto di simbolo e di preparazione.

Sicché possiamo dire che se San Bernardo è il corifeo della riforma cistercense, questa riforma ha avuto il suo vero interprete e il suo ispirato cantore in Gioacchino da Fiore.

Share on Twitter Share on Facebook