XVIII LA REVIVISCENZA CATTOLICA

A successore di Benedetto XV i cardinali adunati in Conclave designavano, dopo laboriosissimi scrutini, la mattina del 6 febbraio 1922, il cardinale Achille Ratti. Non era un cardinale di Curia e la sua ascesa nella gerarchia ecclesiastica era stata piuttosto tarda. La sua carriera era stata prevalentemente quella di paleografo e di bibliotecario. Per un venticinquennio, il Ratti era stato prefetto all'Ambrosiana di Milano, la famosa biblioteca fondata da Federico Borromeo. Nel 1911 era stato chiamato da Pio X quale viceprefetto della Vaticana, a fianco del padre gesuita Ehrle, al quale era successo nell'estate del 1914. Benedetto XV lo mandava, il 15 aprile 1918, visitatore apostolico della Polonia e della Lituania, occupate dalle Potenze centrali. Era un rivolgimento radicale nelle consuetudini e nelle mansioni del silenzioso studioso di biblioteca: fu ad ogni modo l'avviamento primo alla successione papale. Dopo la pace versagliese, riconosciuto dal Vaticano il nuovo Stato polacco, il Ratti vedeva trasformata la sua mansione di visitatore apostolico in quella di nunzio, profilandosi cosí ben piú palesemente il carattere politico della missione, carattere politico che ebbe occasione di spiegare tutta la sua ardua portata al momento del plebiscito dell'Alta Slesia, in occasione del quale si vociferò che l'azione del nunzio non si rivelasse improntata né a piena equità né ad oculata accortezza.

Nel marzo del 1921 il Ratti fu nominato, a scanso di ulteriori complicazioni, arcivescovo di Milano. Non prendeva possesso della sua sede che l'8 settembre. A cinque mesi di distanza era innalzato al seggio pontificio. Qualcuno, ricordando la lunga carriera paleografica ed archivistica del nuovo Pontefice, ebbe ad osservare che per il còmpito di risollevare su dalla coscienza alterata e contraffatta della cosiddetta civiltà cristiana contemporanea i caratteri spenti e i segni cancellati della vecchia tradizione evangelica, occorreva ben altra qualità che quella necessaria per risuscitare dai fogli di un palinsesto le forme della primitiva scrittura.

E in realtà la civiltà contemporanea, di fronte a quelle che furono le tradizioni primigenie della predicazione cristiana e della costituzione ecclesiastica della sua età aurea, può benissimo rassomigliarsi ad un palinsesto. Il cristianesimo ha per troppi secoli foggiato i nostri costumi, le nostre aspirazioni, i nostri orientamenti morali perché al fondo inesplorato della nostra spiritualità associata esso non abbia deposto germi mai isteriliti e sempre suscettibili di rinnovamento e di reviviscenza. Ma d'altro canto su questo strato profondo e inavvertito delle nostre norme ancestrali di vivere si sono venuti sovrapponendo, come noi ci siamo adoperati di dimostrare, nuove forme e nuovi criteri di valore, che non potevano fare a meno di seppellire ad una profondità si direbbe ormai irraggiungibile i segni e le tracce della prima pedagogia a norma del Vangelo. Noi abbiamo visto come di questa progressiva deformazione e di questa sempre piú radicale obliterazione si siano rese responsabili, nel corso dei secoli, quelle stesse istituzioni ecclesiastiche, cosí dal punto di vista culturale come da quello disciplinare, il còmpito delle quali avrebbe dovuto essere quello di mantenere intatto e inalterato il deposito ricevuto. Senza farne ad esse particolare addebito, ché la storia ha una sua logica infrangibile che è fatuo sottoporre a verdetto di condanna, noi abbiamo dovuto constatare come il fermento innovatore dei tempi iniziali è venuto col tempo illanguidendosi e smarrendo la sua virtú, a causa dello stesso processo di amplificazione e di costituzione unitaria della società puramente carismatica uscita dal bando del Cristo. Oggi il cristianesimo ha cessato di circolare alla superficie della vita associata degli uomini per perdersi e celarsi in un sottosuolo dove è arduo e oneroso andare a ricercarlo.

Il Pontificato di Pio XI si direbbe che continuasse ad essere un lavorìo assiduo e paziente di paleografo, intento a rintracciare a volte e a ripronunciare le parole soggiacenti del suo palinsesto, la cui scrittura superiore però troppo spesso e troppo imperiosamente deviava, quasi fraudolentemente, la sua buona ispirazione e il suo ardito proposito.

Si rievochi ad esempio la enciclica Quas primas dell'11 dicembre 1925 per l'istituzione della festa di Cristo Re. Quale intenzione piú nobile, quale ideale piú alto che quello di risollevare, su un mondo minato e corroso da sedimenti inestinguibili di reciproci odî e di mal dissimulati rancori, esposto quindi a competizioni e a rivalità che avrebbero prima o poi portato di nuovo il mondo alla lotta cruenta e ad una irreparabile catastrofe, il vessillo della regalità spirituale del Crocifisso? La celebrazione dell'Anno Santo aveva dato al Pontefice la sensazione sottile di un vasto movimento di popoli verso Cristo e la Chiesa. Le moltitudini accorse a Roma si erano, con questo stesso, professate fedelmente devote di Cristo, al cospetto del Papa, mentre la piena riuscita della Mostra Missionaria aveva fatto universalmente constatare l'imponente lavoro della Chiesa romana per la dilatazione del messaggio evangelico nell'universo. Pio XI prendeva con compiacimento atto di tutto questo e rivendicava al Cristo l'appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza sua nel fascio di tutte le cose create. Ma quali sono, a norma dell'insegnamento neotestamentario, a norma della primitiva esperienza cristiana, la regale maestà e la pubblica efficienza del Cristo vivo ed operante? Un vecchio apologista aveva proclamato, di fronte al mondo imperiale romano, che i cristiani, indiscriminatamente mescolati alla vita comune degli uomini, portavano il segno non visibile, ma non per questo non riconoscibile, della loro superiore anagrafe come cittadini del Regno di Dio, nell'intimo del loro cuore e nel segreto delle loro aspirazioni. Già l'autore della Lettera agli Ebrei aveva non senza disdegno asserito che i cristiani non riconoscono altra anagrafe e altro diritto di cittadinanza che quelli che li registrano e li prefigurano cittadini del veniente Regno di Dio. E Sant'Agostino aveva additato nel fondo del cuore umano la tessera di appartenenza alla società di Dio, quando il cuore preponga e faccia soverchiare l'amore di Dio sull'amore di sé. La regalità di Cristo pertanto è la regalità del veniente Regno di Dio, prefigurata e preattuata nella consapevolezza gioiosa e incrollabile che questo Regno di giustizia e di pace non potrà mancare un giorno di cancellare e di riparare tutte le inenarrabili nequizie di cui è disseminato il cammino delle regalità terrene. Nulla quindi di terreno, nulla quindi di empirico, nulla quindi di istituzionale nel significato esteriore e diciamo cosí forensico della parola, nella regalità onde Cristo è sovrano.

E invece Pio XI, dopo avere cosí tempestivamente, con l'occhio ai caratteri soggiacenti di questo compatto palinsesto che è la neopagana coscienza del mondo moderno, risollevato sul mondo il simbolo sovrano della croce cristiana, scendeva, si direbbe profanamente, a rivendicare a Cristo uomo il nome e il potere di Re nel vero e letterale senso della parola. Si attardava cosí a dimostrare che il Cristo uomo è dotato della triplice potestà legislativa, giudiziaria, esecutiva, e che se il suo Regno è, in un certo qual modo, supereminente, di natura spirituale, sarebbe un «turpe» errore negare a Cristo uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto e illimitato sulle cose create, di modo che tutte le cose sono poste nel suo arbitrio, sebbene egli ne permetta l'uso ai provvisori possessori. Tale sovranità del Cristo salvatore, continuava Pio Xl, comprende sotto di sé tutti gli uomini, non solamente i cattolici o i cristiani in genere, ma tutti gli appartenenti al genere umano. Essa non investe e non incide solamente sui singoli individui, bensí anche sugli uomini conglobati in ordinate collettività. Il Pontefice pertanto invitava e ammoniva i governi tutti a prestare riverenza e obbedienza al Cristo sovrano, ché dal riconoscimento della regale potestà del Salvatore essi avrebbero automaticamente ricevuto la consacrazione della loro autorità, esercitata per diretto mandato del Re divino. Infine Pio XI rilevava che solo in virtú di tale riconoscimento della regalità di Cristo il genere umano avrebbe avuto la possibilità di essere efficacemente affratellato e la pace avrebbe trovato la via per regnare indisturbata fra i popoli. La festa particolare che da allora in poi ogni anno avrebbe dovuto celebrare la regalità di Cristo, avrebbe dovuto servire di antidoto infallibile a quella peste dell'età nostra che è, secondo il verdetto pontificale, il «laicismo».

E anche qui, nel pronunciare tale verdetto, Pio XI andava a rintracciare e a rinvenire, con felice e trasparente intuizione, quella che era la scrittura primordiale della coscienza cristiana europea, quando la federazione dei popoli sotto le idee universali create e consacrate dal magistero romano viveva concretamente di normative realtà carismatiche, capaci di segnare irrevocabilmente, intorno al tracciato della convivenza collettiva, i limiti e le barriere di un'etica soprannaturale. Ma denunciando la concezione laica della vita come il vero tarlo corrosivo della nostra spiritualità associata, Pio XI avrebbe dovuto ricordare e confessare che la prima genesi di questa concezione laica era stata deposta nell'apologia razionale della fede cristiana, nella applicazione di una disciplina burocratica là dove avrebbe dovuto aver vigore soltanto la disciplina spontanea della comune solidarietà nella grazia e nei suoi doni, nella troppo assillante preoccupazione della gerarchia in conseguire successi terreni e posizioni di privilegio politico ed economico.

Cosí, quando a dodici anni di distanza, con la enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937, Pio XI si dié ad esaminare e a giudicare la situazione della Chiesa cattolica nel Reich germanico, le sue enunciazioni rappresentavano altrettante verità assiomatiche, che avrebbero dovuto far riflettere e meditare sulle ragioni che avevano portato la necessità di ribadirle nel momento attuale. In fondo l'enciclica non era che una diluita professione di fede cattolica.

Nel passo piú fervido e suggestivo del grande documento pontificio, non mancavano accenti di commosso e umile riconoscimento dei torti ecclesiastici. «La divina missione», diceva il Pontefice, «che la Chiesa compie tra gli uomini, e deve compiere per mezzo di uomini, può essere dolorosamente oscurata dall'umano, talvolta troppo umano, che in certi tempi ripullula quasi zizzania in mezzo al grano del Regno di Dio. Chi conosce la parola del Salvatore sopra gli scandali e coloro che li dànno, sa come la Chiesa e ciascun individuo deve giudicare su ciò che fu ed è peccato. Ma chi, fondandosi su questi lamentevoli contrasti tra fede e vita, tra parola e azione, tra contegno esteriore e l'interno sentire di alcuni – e fossero anche molti – pone in oblio, o coscientemente passa sotto silenzio, l'immenso capitale di genuino sforzo verso la virtú, lo spirito di sacrificio, l'amore fraterno, l'eroismo di santità in tanti membri della Chiesa, manifesta una cecità ingiusta e riprovevole. E quando poi si vede che quella rigida misura con cui egli giudica la odiata Chiesa viene messa da canto se si tratta di altre società a lui vicine per sentimento o interesse, allora riesce evidente che, ostentandosi colpito nel suo presunto senso di purezza, si appalesa simile a coloro i quali, secondo la tagliente parola del Salvatore, osservano la pagliuzza nell'occhio del fratello, ma non scorgono la trave nel proprio. Altrettanto men pura è la intenzione di coloro i quali pongono a scopo della loro vocazione proprio quel che vi è di umano nella Chiesa, talvolta facendone persino un losco affare: e sebbene la potestà di colui che è insignito della dignità ecclesiastica, posando in Dio, non sia dipendente dalla sua elevatezza umana e morale, non vi è però epoca alcuna, né individuo, né società che non debba esaminarsi onestamente la coscienza, purificarsi inesorabilmente, rinnovarsi profondamente nel sentire e nell'operare. Nella Nostra enciclica sopra il Sacerdozio, in quella sull'Azione Cattolica, abbiamo, con implorante insistenza, attirata l'attenzione di tutti gli appartenenti alla Chiesa, e soprattutto degli Ecclesiastici, dei Religiosi e dei Laici i quali collaborano nell'apostolato, al sacro dovere di mettere fede e condotta in quell'armonia richiesta dalla legge di Dio e domandata con instancabile insistenza dalla Chiesa. Anche oggi Noi ripetiamo con gravità profonda: non basta essere annoverati nella Chiesa di Cristo, bisogna essere in ispirito e verità membri vivi di questa Chiesa. E tali sono solamente coloro che stanno nella grazia del Signore, e continuamente camminano alla sua presenza, sia nell'innocenza sia nella penitenza sincera e operosa. Se l'Apostolo delle genti – il vaso di elezione teneva il suo corpo sotto la sferza della mortificazione affinché, dopo aver predicato agli altri, non venisse egli stesso riprovato, può darsi forse, per quelli nelle cui mani è posta la custodia e l'incremento del Regno di Dio, via diversa da quella dell'intima unione dell'apostolato e della santificazione propria? Solo cosí si mostrerà agli uomini di oggi e in prima linea agli oppositori della Chiesa, che il sale della terra e il lievito del cristianesimo non è diventato inefficace, ma è potente e pronto a portare rinnovamento spirituale e ringiovanimento a coloro che sono nel dubbio e nell'errore, nella indifferenza e nello smarrimento spirituale, nel rilassamento della fede e nella lontananza da Dio, di cui essi – l'ammettano o lo neghino – hanno piú bisogno che mai. Una Cristianità, in cui tutti i membri vigilino su se stessi, che espella ogni tendenza a ciò che è puramente esteriore e mondano, si attenga seriamente ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e si mantenga quindi nell'amore di Dio e nella solerte carità verso il prossimo, potrà e dovrà essere esempio e guida al mondo profondamente infermo, che cerca sostegno e direzione, se non si vuole che sopravvenga un immane disastro o un indescrivibile decadimento.

«Ogni riforma genuina e duratura ha avuto propriamente origine dal santuario, da uomini infiammati e mossi dall'amore di Dio e del prossimo; i quali, per la loro grande generosità nel rispondere ad ogni appello di Dio e nel metterlo in pratica anzitutto in se stessi, cresciuti in umiltà e con la sicurezza di chi è chiamato da Dio, hanno illuminato e rinnovato i loro tempi. Dove lo zelo di riforma non scaturí dalla pura sorgente dell'integrità personale ma fu effetto dell'esplosione di impulsi passionali, invece di illuminare, ottenebrò, invece di costruire, distrusse, e fu sovente punto di partenza di errori, ancora piú funesti dei danni a cui si volle o si pretese portare rimedio. Certamente lo spirito di Dio spira dove vuole; dalle pietre può suscitare esecutori della sua volontà secondo i suoi piani, non secondo quelli degli uomini. Ma Egli, che ha fondato la Chiesa e l'ha chiamata in vita nella Pentecoste, non spezza la struttura fondamentale della salutare istituzione, da Lui stesso voluta. Chi è mosso dallo spirito di Dio ha perciò stesso un contegno esteriore ed interiore rispettoso verso la Chiesa, nobile frutto dell'albero della Croce, dono dello Spirito della Pentecoste al mondo bisognoso di guida.

«Nelle vostre contrade, Venerabili Fratelli, si elevano voci in coro sempre piú forte, che incitano ad uscire dalla Chiesa, e sorgono banditori, i quali per la loro posizione ufficiale cercano di risvegliare l'impressione che tale distacco dalla Chiesa, e conseguentemente l'infedeltà verso Cristo Re, sia una testimonianza particolarmente persuasiva e meritoria della loro fedeltà al regime presente. Con pressioni occulte e palesi, con intimidazioni, con prospettive di vantaggi economici, professionali, civili o d'altra specie, l'attaccamento alla fede dei cattolici e specialmente di alcune classi di funzionari cattolici viene sottoposto ad una violenza tanto illegale quanto inumana. Con commozione paterna Noi sentiamo e soffriamo profondamente con coloro che hanno pagato a sí caro prezzo il loro attaccamento a Cristo e alla Chiesa; ma si è ormai giunti a un tal punto, che è in giuoco il fine ultimo e piú alto, la salvezza o la perdizione, e quindi unico cammino di salute per il credente resta la via di un generoso eroismo. Quando il tentatore o l'oppressore gli si accosterà con le insinuazioni traditrici di uscire dalla Chiesa, allora egli non potrà che contrapporgli, anche a prezzo dei piú gravi sacrifici terreni, la parola del Salvatore: – Allontànati da me, o Satana, perché sta scritto: adorerai il Signore Dio tuo e a Lui solo servirai. – Alla Chiesa invece rivolgerà queste parole: – O tu, che sei madre mia fin dai giorni della prima fanciullezza, mio conforto in vita, mia avvocata in morte, si attacchi la lingua al mio palato, se io, cedendo a terrene lusinghe o minacce, dovessi tradire il mio voto battesimale. A coloro poi, i quali si lusingassero di potere conciliare con l'esterno abbandono della Chiesa la fedeltà interiore ad essa, sia di monito severo la parola del Salvatore: – Chi mi rinnega davanti agli uomini, lo rinnegherò davanti al Padre mio, che è nei Cieli – ».

Parole coteste indubbiamente fra le piú alte e piú umanamente patetiche che siano state lanciate al mondo in questi ultimi tempi, dall'alto della rocca su cui si asside il millenario magistero della cattolicità romana. Ma d'altra parte parole che per essere effettivamente valide e operose, per non essere immediatamente dopo smentite e vulnerate dalla insufficienza dei mezzi invocati e praticati per attuarle, avrebbero dovuto tradursi in visuali elevatissime di palingenesi totalitaria della società, in nome di quei valori superiori che il Nuovo Testamento e la primitiva propaganda cristiana hanno racchiuso e sintetizzato nella nozione vivente del Regno di Dio. E invece, allo schietto ed edificante riconoscimento della molto spesso lamentata sproporzione fra le regole a cui la tradizione cristiana è per definizione astretta ad attenersi, e la pratica del magistero cattolico, non sembrava che dovesse tener dietro una precisa e coraggiosa volontà di ampliare la clausura dell'ormai irrigiditosi schema disciplinare ecclesiastico e di risuscitare su dalle fibre piú riposte della depressa società cristiana il vecchio alito della fede e della speranza rivoluzionaria nel Cristo.

Si comprendono perfettamente le ragioni che impedivano al senso doloroso di questa sproporzione di evadere e di trapiantarsi in un programma lungimirante di rinnovamento cristiano. Dalle varie confessioni cristiane, ad esempio, veniva l'appello ad un movimento pacificatore e riconciliatore, in cui e per virtú di cui le disperse frammentarie membra del corpo mistico di Cristo si ricoagulassero in vista di una rinascita religiosa del mondo. Sarebbe stato il caso di cogliere a volo queste voci trepidanti di una agognata nuova fraternità nei carismi e sceverare il grano dal loglio sul campo di questa spontanea fioritura neocristiana. Ma la Santa Sede è vincolata dalle sue stesse definizioni dogmatiche, che le vietano di accondiscendere a trattative di qualsiasi genere con i fratelli separati senza abdicare a quel suo titolo di privilegio e di primato che il Concilio vaticano ha canonizzato con la proclamata infallibilità del Pontefice. E un decreto del Santo Uffizio del1'8 luglio 1927 vietava ai cattolici, formalmente, di prender parte ai congressi banditi in varie città dell'Europa occidentale in vista della riconciliazione delle varie confessioni cristiane nel mondo. E perché il decreto del Santo Uffizio avesse sanzione anche piú solenne e perentoria, Roma emanava, il 6 gennaio 1928, l'enciclica Mortalium animos, pronunciandosi nettamente contro l'azione e l'organizzazione pancristiana e proclamando non esservi altra via possibile per raggiungere l'unità cristiana se non quella segnata dalla sottomissione pura e semplice al magistero romano. Visione puramente anacronistica.

Con l'enciclica Quadragesimo anno del 15 maggio 1931, diretta a commemorare il quarantesimo anniversario dell'enciclica Rerum Novarum, Pio XI si proponeva, per sua stessa esplicita dichiarazione, di spiegare e di completare, secondo le necessità dei tempi, quella che era apparsa come la Magna Charta dell'ordine sociale cattolico. «È in Noi», premetteva il Pontefice, «il diritto e il dovere di giudicare con suprema autorità intorno a siffatte questioni sociali ed economiche, dato il loro collegamento con la morale». E in pratica il Pontefice non avvertiva che la morale nella quale il magistero erede del Vangelo è maestro, non è la morale dei codici, non è la morale naturale, non è la morale dei rapporti esteriori e quotidiani fra gli uomini, ma è la morale retta, guidata e sanzionata da quelle realtà soprannaturali, che hanno le loro vie di comunicazione nei carismi, e da quei valori trascendenti, che sfuggono ad ogni codificazione trascritta in canoni e in articoli. E anche qui il Pontefice non faceva che rinnovare l'incauta e rischiosa illusione che alla Chiesa potesse spettare e potesse riconoscersi una funzione preminente, quando essa si ponga a giudicare e a legiferare in quella materia economica empirica e in quella disciplina burocratica dei problemi concreti del lavoro e del salario, al cospetto di cui la primitiva pedagogia cristiana si era chiusa salutarmente in un atteggiamento di assoluta scepsi e di radicale indifferentismo.

Pio XI ribadiva cosí il diritto di proprietà, tanto pubblico come privato, cercando di destreggiarsi, per non cadere né nell'individualismo né nel collettivismo. Ripeteva, sull'orma di Leone XIII, che del retto uso privato del diritto di proprietà non si può esigere l'adempimento per vie strettamente giuridiche, come non si può perderne la prerogativa in base al non retto uso che se ne sia fatto. Riconosceva che lo Stato possiede l'autorità di «specificare con maggior cura, considerata la vera necessità del bene comune e tenendo presente dinanzi agli occhi la legge naturale e divina, che cosa sia lecito ai possidenti, e che cosa no, nell'uso dei propri beni». E di questo riconoscimento dei poteri statali in fatto di legislazione sociale, Pio XI, citando una sua precedente allocuzione al Comitato della «Azione cattolica italiana», cercava di dare una dimostrazione, rimandando all'evoluzione storica della proprietà: «E invero», erano le sue parole, «come dalla storia si provi, al pari degli altri elementi della vita sociale, la proprietà non essere affatto immobile, Noi stessi già lo dichiarammo: – Quanto diverse forme concrete ha avuto la proprietà dalla primitiva forma dei popoli selvaggi, della quale ancora ai di nostri si può avere una certa esperienza, a quella proprietà nei tempi e nelle forme patriarcali e poi via via nelle diverse forme tiranniche (diciamo nel significato classico della parola), poi attraverso le forme feudali, poi in quelle monarchiche e in tutte le forme susseguenti dell'età moderna! – La pubblica autorità però», continuava Pio XI nella sua enciclica, «come è evidente, non può usare arbitrariamente di tale suo diritto, poiché bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché l'uomo è anteriore allo Stato e anche perché il domestico consorzio è storicamente e logicamente anteriore a quello civile».

Tratto cosí dalla logica della sua posizione, Pio XI scendeva ad allusioni trasparenti e precise al regime corporativo introdotto e instaurato dal fascismo in Italia:

«Recentemente», diceva l'enciclica, «venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa la quale, data la materia della Nostra enciclica, richiede da Noi e un qualche cenno e qualche opportuna considerazione.

«Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, cosí riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti ad una data categoria, siano essi operai o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non esclude l'esistenza di associazioni professionali di fatto.

«Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte o professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. Lo sciopero è vietato: se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l'azione moderatrice di una speciale magistratura.

«Per nulla negligere in argomento di tanta importanza e in armonia con i principî generali qui sopra richiamati, e con quello che subito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale.

«Noi crediamo che a raggiungere quest'altro nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessario innanzi e soprattutto la benedizione di Dio, e poi la collaborazione di tutte le buone volontà. Crediamo ancora e per necessaria conseguenza che l'intento sarà tanto piú sicuramente raggiunto quanto piú largo sarà il contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e piú ancora dei principi cattolici e della loro pratica, da parte non della Azione Cattolica (che non intende svolgere attività strettamente sindacali o politiche), ma da parte di quei figli Nostri che l'Azione Cattolica squisitamente forma a quei principi e al loro apostolato sotto la guida e il magistero della Chiesa: della Chiesa, la quale anche sul terreno piú sopra accennato, come ovunque si agitano e regolano questioni morali, non può dimenticare e negligere il mandato di custodia e di magistero divinamente conferitole».

Dove non si vede bene con quale diritto ideale e sulla base di quale presupposto religioso e cristiano si mescoli cosí disinvoltamente, senza alcuna soluzione di continuità, l'esame delle provvidenze organizzative escogitate in vista di una riconciliazione delle classi sociali a vantaggio della prosperità economica di una collettività nazionale, a un appello alla benedizione di Dio e al magistero ecclesiastico. In un mondo che, col piú palese naufragio della propria eredità spirituale, ha trasferito integralmente nei movimenti terreni ed effimeri delle rivendicazioni economico-sociali l'elemento fascinans dell'esperienza religiosa, che è per definizione visione di una economia trascendente instaurata e salvaguardata direttamente dalle mani di Dio, attardarsi nel discutere i programmi e le innovazioni, per poi ridursi a patrocinare in una trascurabile appendice le forze spirituali animatrici e preservatrici, veniva di fatto a rappresentare un abbandono irriflesso e inconsapevole della precisa consegna evangelica. Non ha infatti detto il Vangelo che l'unica cura del cristiano doveva essere quella della ricerca del Regno di Dio e dell'aspettativa della giustizia del Regno di Dio, da cui ogni altro perfezionamento umano avrebbe dovuto rifluire, come conseguenza inevitabile per quanto preterintenzionale?

Ed ecco allora l'impressione vaga e il sospetto amaro che in questa volontà di ripristinare di su il palinsesto dell'odierna vita associata gli obliati caratteri della primitiva mano cristiana, l'abbacinante propinquità della sovrapposta scrittura soverchiasse la capacità rievocatrice e l'abilità del paleografo.

E il sospetto amaro aveva ragione di farsi ancor piú assillante e preciso quando dal campo dei problemi sociali si fosse passati a quello dei problemi politici e statali, quali si erano venuti profilando all'indomani della pace versagliese.

Il Pontificato di Pio XI rimarrà contrassegnato nella storia dalla molteplicità inconsueta dei concordati stipulati. La cosa può a prima vista avere una spiegazione spontanea e logica nella molteplicità degli Stati sorti dalla pace seguìta alla prima guerra mondiale. Le Potenze uscite egemoniche e preponderanti dalla guerra avevano cercato a Versaglia di garantirsi la propria posizione di predominio all'ombra e sotto la tutela del principio di nazionalità, quale aveva potuto essere invocato, non sappiamo con quanto leale schiettezza, al séguito dello sfacelo di grandi organizzazioni statali come l'Impero austriaco, retto piú da esigenze amministrative che da fattori etnici armonicamente ed equamente associati.

Il Pontefice Pio XI si precipitò con zelo degno di miglior causa a stabilire relazioni concordatarie con tutto il pulviscolo di Stati lasciato in eredità da Versaglia, senza preoccuparsi affatto della consistenza e della capacità di durata delle configurazioni statali con le quali veniva a trattare.

Noi abbiamo visto nel secondo volume di questa storia che cosa avessero rappresentato al declinare del Medioevo le forme concordatarie. Abbiamo visto come il primo concordato di cui la storia del cristianesimo associato abbia fatto la registrazione è quello di Worms del 23 settembre 1122, noto anche con il qualificativo di Pacta Callistina, confermato poi dal primo Concilio del Laterano nel 1123, col quale ebbe termine la lunga lotta delle investiture fra imperatori e Papi. Quando le immense forze spirituali che avevano presieduto alla costituzione del Sacro Impero, e avevano disciplinato automaticamente e senza alcun bisogno di codificazione scritta le relazioni fra le due grandi potestà, in cui si era venuta polarizzando la società uscita dall'annuncio evangelico; vennero logorandosi e impoverendosi, fu fatale e perfettamente comprensibile che queste relazioni fossero affidate ad una norma giuridica in forma di patti scambievoli. Ma il primo concordato di Enrico V e di Callisto II era stato sempre una norma prevalentemente spirituale e religiosa, che, stabilita e legiferata sulla base di uno scambievole accordo delle due potestà ugualmente ecumeniche, la papale e l'imperiale, non implicava alcuna compromissione di quella nota universale che è inerente al fatto stesso del magistero e della disciplina carismatica nella vita associata cristiana. Altri importanti concordati nel Medioevo cadente, come quello stipulato nel 1288 fra i vescovi del Portogallo e il re Dionigi, e poi approvato da Niccolò IV, concordato venuto a chiudere foschi periodi di violente persecuzioni antiecclesiastiche, o come quelli di Costanza, conclusi nel 1418 sotto Martino V con le nazioni germanica, inglese e latina; piú che il carattere di convenzioni per il regolamento dei rapporti con i poteri secolari, avevano avuto la speciale caratteristica di convenzioni tra le Chiese nazionali e il Papa.

Nell'Evo Moderno aveva avuto speciale importanza il concordato stretto fra Leone X e il re di Francia nel 1516, sanzionante l'abolizione della Prammatica Sanzione di Bourges alla cui traduzione in pratica il clero nazionale si rivelò pertinacemente riluttante. Il concordato napoleonico del 1801 aveva voluto comporre l'asperrimo dissidio aperto dalla rivoluzione fra la religione e lo Stato.

Ora, alla distanza di quasi un secolo e mezzo, Pio XI, trascinato dalle sue velleità di successi politico-terreni di cui la precarietà della situazione generale avrebbe dovuto immediatamente fare avvertire la insicurezza e la disperata fragilità, si dava attorno per moltiplicare stipulazioni concordatarie, che mentre davano all'altra parte contraente la illusione di un rafforzamento diplomatico internazionale, avrebbero esposto il magistero papale alle piú lacrimevoli delusioni e alla piú mortificante constatazione di inefficienza.

Il primo concordato postbellico in ordine di tempo fu quello del 1922 con la Lettonia, uno dei nuovissimi organismi statali, sorto attraverso vicende agitatissime nel 1918.

A due anni di distanza seguiva il concordato con la Baviera, di ben piú rilevante significato. La Costituzione di Weimar, che aveva riconosciuto le Chiese come corporazioni pubbliche con i loro annessi privilegi, tra cui preminente quello di riscuotere attraverso lo Stato l'imposta di culto dai fedeli, compiutamente autonome nello spiegamento della loro vita interna, si sarebbe potuta giudicare sostanzialmente favorevole ai diritti della religione associata. Solo su un punto la Costituzione di Weimar aveva provocato la reazione dell'episcopato cattolico, sostenuto e fiancheggiato da Roma. Weimar cioè aveva autorizzato, di fianco alle scuole elementari confessionali, una scuola mista o simultanea destinata a diventare il tipo definitivo di scuola per la Germania, in cui l'insegnamento religioso sarebbe stato diviso secondo le confessioni.

L'opposizione della gerarchia a questo punto della Costituzione di Weimar riportò pieno successo nel concordato bavarese del 29 marzo 1924. In virtú di esso l'esercizio pubblico della religione cattolica sarebbe stato formalmente garantito. Di piú si assicurava agli ecclesiastici la protezione statale nell'assolvimento dei loro còmpiti religiosi, riconoscendosi alla Chiesa il diritto di emanare, nell'àmbito della propria competenza, leggi e decreti che venivano a rappresentare un obbligo tassativo per i membri di Chiesa. La nomina dei vescovi era esclusivamente demandata alla Santa Sede, che li avrebbe desunti da liste apprestate dalle autorità ecclesiastiche bavaresi, con la sola clausola che, antecedentemente alla nomina, Roma si sarebbe per via ufficiosa accertata che veti e obbiezioni non fossero mossi dalle autorità statali. Il concordato assicurava inoltre personalità giuridica agli Ordini e alle congregazioni religiose e, clausola fondamentale, l'istruzione religiosa era da esso dichiarata materia ordinaria in tutte le scuole elementari, facendosi obbligo a tutti i Comuni, dove i capi di famiglia lo richiedessero, di aprire scuole elementari cattoliche, affidate unicamente a maestri di sicura ortodossia, per la preparazione dei quali lo Stato si assumeva l'onere di mantenere approvati istituti magistrali. Infine era riconosciuto alla Chiesa il diritto di sorvegliare tutti gli ordini di scuole e di dirigere l'istruzione con la possibilità di formulare ricorsi contro le eventuali offese recate alla Chiesa e alla fede cattolica nelle aule scolastiche.

Attraverso difficoltà non indifferenti procedettero le relazioni fra Stato e Chiesa nella Polonia postbellica. Erano soprattutto le relazioni fra cattolici polacchi e ruteni, calcolati a non meno di sei milioni entro i confini polacchi, che rendevano ardua quanto mai una composizione soddisfacente per entrambe le parti. Quando, nello agosto del 1923, l'arcivescovo uniate di Leopoli, monsignor Szeptycki, volle di nuovo ritornare nella sua sede, autorizzato a ciò dal Papa, il Governo polacco lo fermò alla frontiera e lo confinò a Poznan. In linea subordinata, sensibili dissidi economici rendevano dure le trattative fra l'autorità politica e l'autorità ecclesiastica. Una legge agraria del 1920 aveva fissato che la parcellazione dei beni ecclesiastici in Polonia fosse attuata mercè un'intesa preventiva con la Santa Sede. Si erano nominate due commissioni, una governativa l'altra ecclesiastica, per lo studio e la sistemazione della materia. E l'allora nunzio Ratti aveva seguìto da presso la controversia. Poiché le due commissioni non riuscivano a trovare il terreno dell'accordo, il Governo del capo del partito contadino, Witos, prospettava, nel settembre del 1923, l'espropriazione totale dei beni di manomorta. Ma il Gabinetto Witos cadeva sul suo progetto e il concordato del febbraio 1925 dava una sistemazione ai complessi problemi politico-religiosi dello Stato polacco. Tale concordato garantiva alle persone giuridiche ecclesiastiche i loro possessi di fatto, rimandando a una sistemazione ulteriore la questione dei beni di cui la Chiesa era stata privata dalle tre Potenze che avevano avuto sotto di sé i territori polacchi e assicurando nel frattempo dotazioni annuali non inferiori a quelle versate già dai tre Governi. Esso tutelava per tutte le comunità cattoliche, senza differenza di lingua e di razza, polacche quindi come ucraine e tedesche, completa libertà di culto, incontrollato esercizio della giurisdizione ecclesiastica, libera gestione degli affari in conformità al diritto canonico, ammesso pertanto, in una certa misura, come legge dello Stato. Un complesso di disposizioni, accolto nel concordato, riproduceva le disposizioni adottate nel concordato bavarese, relativamente alla figura degli ecclesiastici nella esplicazione del loro ministero, assumendo però qui piú vaste applicazioni. Si riconosceva cioè il diritto alla Chiesa di percepire tasse destinate a scopi ecclesiastici, ma in piú si proibiva preventivamente di indossare la divisa ecclesiastica a chi fosse incorso nelle censure canoniche. Il clero poi era esentato dal servizio militare. Il vecchio «privilegium fori» era parzialmente mantenuto, stabilendosi che gli incartamenti contenenti la procedura contro ecclesiastici accusati di crimini sarebbero stati portati a conoscenza dei rispettivi vescovi, e che nel caso di arresto di preti non si sarebbero risparmiati speciali riguardi alla condizione clericale e al grado gerarchico, accogliendo i condannati in speciali luoghi di pena.

Un concordato vaticano con la Polonia non poteva non suscitare i sentimenti della piú viva rivalità e della piú vigile emulazione da parte della Lituania. Ed ecco la Santa Sede, vale a dire il magistero supremo dell'ecumenica società dei credenti nel Cristo e nel suo Vangelo, mescolata alle piú irriducibili e astiose competizioni nazionali, non solamente tratta dalla esigenza logica stessa della sua politica concordataria di fronte a una moltiplicazione effimera di organismi nazionali, bensí anche, per un singolare e funestò circolo vizioso, trascinata irresistibilmente a moltiplicare sempre piú i concordati con i singoli Stati, proprio per avere cominciato a cedere nello stipularne con uno qualsiasi di essi.

Il presidente del Consiglio Voldemaras firmò a Roma il concordato lituano con la Santa Sede il 27 settembre 1927. Come era da prevedersi il nuovo concordato con la Lituania arieggiava molto da presso quello stipulato con la Polonia. Soltanto, per battere in qualche modo la Polonia, con la quale era sempre vivo e acuto il dissenso per Wilna, il Governo lituano era anche sceso a piú vaste e concrete concessioni in favore della disciplina ecclesiastica. cosí in materia di controllo gerarchico episcopale sull'insegnamento scolastico, cosí per quanto riguardava la potestà da concedersi al clero di tenere registri di nascita e di morte validi agli effetti civili, cosí infine per ciò che riguardava il riconoscimento del matrimonio religioso come atto civile, il concordato stipulato con Kaunas andava molto piú in là del concordato con la Polonia. L'Azione Cattolica veniva ad essere riconosciuta nella Lituania in una pienissima libertà di organizzazione e di azione, pure dicendosi esplicitamente che essa avrebbe perseguito finalità «principalmente religiose», in piena subordinazione all'autorità ecclesiastica.

Pochi mesi prima un altro concordato era stato stipulato dal Vaticano con la Romania, il 10 maggio del medesimo anno 1927. In virtú di esso il libero e pubblico esercizio del culto cattolico romano era garantito in tutto il Paese ed era riconosciuta la piú incontrollata libertà di comunicazioni del clero con la Santa Sede in materia ecclesiastica. Ai vescovi veniva assicurata la piú ampia libertà nella loro azione religiosa, le funzioni didattiche comprese. Ai vari organi della Chiesa cattolica, vescovati, capitoli, parrocchie, monasteri, il concordato riconosceva la personalità giuridica, a norma del comune diritto vigente. Era formalmente stabilito che le circoscrizioni ecclesiastiche non avrebbero travalicato i confini politici del Regno. A norma del concordato, le dotazioni della Chiesa cattolica non avrebbero dovuto mai essere inferiori a quelle delle altre Chiese. I vescovi cattolici di rito greco e l'arcivescovo latino di Bucarest sarebbero stati sempre di diritto senatori. Ma i vescovi avrebbero sempre dovuto essere cittadini romeni, e la loro nomina avrebbe dovuto essere sempre fatta conoscere preliminarmente al Governo, onde di comune accordo constatare se non ostassero ragioni politiche. E tutti sarebbero stati tenuti a prestare giuramento di fedeltà al re e alla Costituzione. Gli Ordini religiosi ricevevano il riconoscimento della loro personalità giuridica, a norma delle leggi in vigore. La Chiesa infine sarebbe stata autorizzata a mantenere, a proprie spese, sempre però sotto il controllo governativo, scuole primarie e secondarie, che avrebbero potuto anche rivestire carattere pubblico ufficiale. Nei seminari sarebbe stato obbligatorio lo studio della lingua e della storia romena.

Si comprende come molto piú laboriose dovessero procedere le trattative per un concordato con la Prussia, paese protestante nella sua grande maggioranza, centro anzi eminente delle tradizioni protestanti e statali di tutta la Germania.

Ad ogni modo, anche con la Prussia, intermediario e diciamo cosí plenipotenziario l'allora nunzio a Berlino, Pacelli, un concordato fu stipulato il 14 giugno 1929. Come di consueto, anche qui, la prima clausola e il primo articolo consistevano interamente nel riconoscimento al culto cattolico della piena libertà di professione e di esercizio, senza però naturalmente alcuna peculiare protezione ai ministri del culto e alle decisioni e alle sentenze ecclesiastiche. Il concordato stabiliva dotazioni ecclesiastiche, mai però costituite da immobili. A norma della Costituzione del Reich, si concedeva una garanzia formale al patrimonio delle corporazioni ecclesiastiche, convalidate secondo il diritto pubblico. La nomina dei vescovi veniva sottoposta a un procedimento in base a cui l'episcopato prussiano sottoponeva alla Santa Sede due liste, da cui la Santa Sede stessa era autorizzata a prescegliere tre nomi, per designarli quindi al Capitolo della Chiesa vescovile vacante. Tra questi nomi il Capitolo era autorizzato ad eleggerne uno, previo avviso governativo che nessuna abbiezione politica potesse essere sollevata contro il candidato prescelto. Il concordato infine stabiliva che cosí i vescovi e i canonici delle cattedrali, come i funzionari curiali e gli insegnanti ecclesiastici, dovessero possedere tutti la cittadinanza germanica ed essere insigniti di determinati titoli di studio. Sulla scuola, il concordato taceva completamente. E si trattava di una lacuna appariscente e, dal punto di vista della disciplina romana, straordinariamente significativa. La cosa non avrebbe potuto passare senza rilievo e in data 5 agosto il nunzio Pacelli ne scriveva al presidente del Governo prussiano, deplorando l'assenza di provvidenze e di prescrizioni in materia tanto delicata e tanto sensibilmente vigilata dalla corrente legislazione canonica. Il presidente Braun rispondeva immediatamente che ad un concordato che fosse entrato a dettare norme sul terreno scolastico, sarebbe mancata sicuramente una maggioranza parlamentare. Sta di fatto che, pur con tali lacune, il concordato non fu approvato alla Camera prussiana che con 243 voti contro 172. A distanza di tre anni, un nuovo concordato veniva stipulato e sottoscritto fra la Santa Sede e il Baden. Come era da prevedersi, questo nuovo concordato si avvicinava molto piú a quello bavarese che non a quello prussiano. Contemplava infatti e sanzionava la professione legale del cattolicesimo, la libertà e la personalità giuridica degli Ordini religiosi, il riconoscimento dell'istruzione religiosa come materia ordinaria di insegnamento, la tutela della facoltà teologica di Freiburg, nei programmi della quale veniva ad introdurre cattedre cattoliche di filosofia e di storia. Il Parlamento del Baden diede il suo consenso al concordato con 44 voti contro 42. Frattanto maturava la rivoluzione nazista. Quando Hitler raccolse nelle proprie mani il potere e il nuovo Reichstag fu eletto, il Führer non mancò di pronunciare dichiarazioni nitide in favore del cristianesimo e delle due confessioni cristiane fra cui è da secoli ripartita la nazione germanica. Le additava come elementi essenziali dello spirito e della coscienza nazionali, promettendo di combattere strenuamente qualsiasi organizzazione ateistica, e di rispettare tutte le convenzioni pattuite fra le due confessioni da una parte e i Governi dei singoli paesi tedeschi dall'altra. Hitler asseriva di annettere la piú essenziale importanza alle relazioni amichevoli con la Sede romana. Conformandosi alla linea di condotta tracciata in precedenza dai governi dei singoli paesi tedeschi, anche Hitler si mostrò disposto a negoziare la conclusione di un nuovo concordato col nuovo Reich germanico. La lotta apertamente ingaggiata contro il bolscevismo dal nazismo pesò indubbiamente sulle disposizioni concilianti cosí dell'episcopato germanico come della Sede romana, la quale procedette con rapidità inconsueta alla stipulazione del concordato, firmato a Roma il 20 luglio 1933. Tale concordato riconosceva alla Chiesa cattolica il diritto incontestabile di amministrare la propria economia e di legiferare nei limiti della propria competenza, non superando l'àmbito delle leggi generali vigenti. Garantiva l'assoluta libertà di comunicazione fra Roma e la Chiesa cattolica tedesca e, nei confini di questa, fra la gerarchia e i fedeli. Sanzionava la conservazione del nunzio a Berlino e dell'ambasciatore germanico a Roma. Il diritto di possedere, e tutti gli altri diritti patrimoniali inerenti alle corporazioni di diritto pubblico, erano validamente riconosciuti alle istituzioni ecclesiastiche, come pure veniva sanzionata la continuazione dei contributi dello Stato alle singole Chiese. Era deferita alla Chiesa l'attribuzione degli uffici e dei benefici ecclesiastici, con l'esplicita clausola però che chi ne doveva essere investito possedesse la cittadinanza tedesca e fosse insignito di specificamente determinati titoli di studio. La nomina dei vescovi doveva essere preventivamente comunicata al Governo, cui il nuovo eletto doveva prestare giuramento di fedeltà. Nessuna peculiare restrizione era imposta alla esistenza e al funzionamento della vita religiosa e monastica. Unico particolare codificato, l'obbligo della cittadinanza tedesca per i superiori di Ordini religiosi che avessero la loro residenza nel Reich. Il nuovo concordato col Reich si distingueva da quello precedentemente stipulato con la Prussia in quanto accordava agli ecclesiastici privilegi di una certa entità. Li proteggeva cosí nell'esercizio del loro ministero, tutelava il segreto ecclesiastico, proibiva l'uso irregolare della divisa ecclesiastica. Non accordandosi al matrimonio religioso alcun effetto civile, in caso d'urgenza ne era però consentita la precedenza su quello civile. Una norma di massima attribuiva al diritto canonico in materie non disciplinate dal concordato validità riconosciuta. In fatto di regime scolastico, quel regime che ha in tutti i concordati un peculiare rilievo, il concordato sanzionava la conservazione delle Facoltà cattoliche di teologia nelle Università dello Stato, sotto il controllo diretto dell'autorità ecclesiastica. Si concedeva alla Chiesa in pari tempo il diritto di costituire e di mantenere speciali scuole per la educazione del giovane clero. All'insegnamento religioso cattolico si dava carattere di obbligatorietà nelle scuole elementari e medie, ammettendosi esplicitamente la sorveglianza delle autorità ecclesiastiche, cosí sui libri di testo come sulle persone degli insegnanti. Infine il concordato garantiva la conservazione delle scuole confessionali esistenti, impegnandosi in piú il Reich a istituirle dove esse non esistevano.

Un concordato di tal genere con il regime hitleriano non mancò di suscitare polemiche e discussioni, lasciando sul suo tracciato inquietudini che si fecero piú tardi sempre piú acute. Mentre da parte nazista si volle vedere nel concordato pontificio una approvazione solenne della Santa Sede, data alla rivoluzione del Führer, molti, da parte cattolica, si domandarono se il concordato non fosse venuto a invalidare quella opposizione radicale che molti scorgevano fra la dottrina nazionalsocialista e il cristianesimo. Dubbi di questo genere non avrebbero potuto essere risolti che dal decorso successivo dei fatti.

Frattanto le voci correnti sulla preparazione del concordato fra il Reich e la Santa Sede avevano stimolato il Governo austriaco a non farsi precedere in una sistemazione di tal genere dei rapporti fra lo Stato e la Curia romana. E il governo di Dollfuss si apprestò a stipularne un altro per conto suo, sicché ci fu una vera gara di rapidità su questo terreno fra Vienna e Berlino. A rigore anzi il concordato fra la Santa Sede e l'Austria precedette quello del Reich con Roma, perché poté essere firmato a Roma il 5 giugno 1933. Non se ne ebbe però la ratifica prima del 1° maggio 1934. E fu un concordato essenzialmente analogo a quello tedesco, per tutto ciò che riguardava il libero esercizio del culto cattolico e la incontrollata esplicazione dei poteri ecclesiastici, le relazioni tra Roma, i vescovi e i fedeli, la personalità del diritto pubblico riconosciuta agli istituti ecclesiastici, la conservazione delle assegnazioni finanziarie statali alla Chiesa. La nomina dei vescovi aveva però la sua speciale disciplina. Ad essa si sarebbe proceduto mercè la redazione di liste compilate dall'episcopato austriaco, non rivestite però di carattere obbligatorio per la Curia romana. Se ne sarebbe sempre dovuta dare comunicazione preventiva al Governo. Per ciò che concerneva l'insegnamento religioso nelle scuole elementari e medie, il concordato ne garantiva l'esistenza, assicurava che lo Stato ne avrebbe curato il mantenimento, prevedeva la possibilità che la Chiesa aprisse nuove scuole elementari e medie in conformità alle norme scolastiche generali e ai diritti degli istituti pubblici. Com'era naturale, trattandosi di un paese essenzialmente cattolico, il concordato con l'Austria garantiva al clero privilegi sensibilmente maggiori di quelli tributati dal concordato germanico. Il matrimonio religioso veniva cosí riconosciuto valido agli effetti civili, demandandosi qualsiasi verdetto sulla validità dei contratti matrimoniali ai tribunali ecclesiastici.

L'ultimo concordato stipulato sotto il Pontificato di Pio XI fu quello firmato il 25 luglio 1935 con la Jugoslavia sotto il Gabinetto Stoiadinovic. Era stabilito nel suo testo che lo scambio delle ratifiche si sarebbe effettuato nel periodo di tempo piú breve possibile. In realtà, le opposizioni suscitate dal concordato stesso furono cosí vive in mezzo al clero ortodosso che non se ne ebbe la approvazione parlamentare prima del luglio 1936 con 167 voti contro 129. Ma non si era giunti con questo all'ultima tappa. L'ortodossia serba non si diede per vinta e continuò a protestare anche con dimostrazioni di piazza. Il sinodo ortodosso di Belgrado giunse a lanciare la scomunica contro il Governo, reo di esser venuto a convenzione con la Chiesa di Roma, tanto che il Governo dovette rinunciare a sottoporre il testo del concordato all'approvazione del Senato e il concordato pertanto rimase sulla carta, simbolo stranamente significativo di quel che fossero nel vecchio bacino danubiano i secolari rancori religiosi fra la confessione che aveva per secoli rivolto lo sguardo verso Roma e quella che aveva sempre considerata sua Chiesa genitrice la Chiesa bizantina e, dopo la scomparsa politica di Bisanzio, le metropoli di Mosca e di Kiev.

Quale singolare e significativa vicenda questa dei numerosi concordati stipulati da Papa Ratti! Il medesimo Pontefice che aveva apposto la sua sovrana approvazione ai singoli concordati, stipulati con i singoli Stati della Germania postbellica, aveva veduto scomparire questi singoli Stati conglobati e rifusi nell'unità del nuovo Reich hitleriano.

Il 6 febbraio 1933, ad una settimana appena di distanza dal giorno in cui Hindenburg aveva chiamato Hitler, messosi precedentemente d'accordo con Von Papen, e gli aveva affidato l'incarico di formare quel nuovo ministero che segnava l'arrivo del movimento nazista all'assunzione del potere, un decreto presidenziale sostituiva al ministero prussiano il commissario del Reich, Von Papen. La Prussia cessava di esistere come Governo autonomo. A un mese di distanza, il 9 marzo, un commissario del Reich veniva nominato in Baviera. Negli altri paesi accadeva il medesimo. Infine la legge del 7 aprile portava a compimento, di un colpo, la centralizzazione e la uniformazione dei paesi germanici nell'unico Reich. Questa legge contemplava la nomina in ogni Land di un luogotenente del Reich, o, come si diceva, Statthalter, con l'incarico, di natura si direbbe burocratica, di sorvegliare sulla osservanza scrupolosa delle direttive politiche fissate dal cancelliere. A un anno di distanza la legge del 30 gennaio 1934 subordinava ancor piú le amministrazioni dei paesi al Governo del Reich, riducendo i luogotenenti a immediati subalterni del ministro dell'Interno del Reich, trasmettendo e trasferendo al Reich i diritti sovrani dei singoli paesi e sopprimendo definitivamente ogni e qualsiasi loro rappresentanza politica. Tale legge stabiliva che il Governo del Reich avrebbe avuto la capacità di emanare un nuovo diritto costituzionale senza le specifiche restrizioni contenute nella legge per i pieni poteri. Il 5 febbraio successivo veniva senz'altro soppressa la cittadinanza dei singoli paesi, lasciando unica e sola la cittadinanza del Reich. Dieci giorni piú tardi anche l'amministrazione della giustizia, ultima superstite traccia di quel che di federale c'era nel vecchio Reich, passava al Reich hitleriano.

Col Reich la Santa Sede veniva a stipulare il concordato che abbiamo registrato, data la naturale e fatale decadenza dei concordati stipulati coi singoli Stati, ormai assorbiti e annullati nell'unica organizzazione statale del nuovo Reich nazista. E ci fu qualche cosa di drammaticamente ironico in quella stipulazione del concordato con l'Austria, proprio contemporaneamente alla stipulazione del concordato col Reich, meno di cinque anni prima di quel 13 marzo 1938 in cui due leggi analoghe, proclamate l'una a Vienna, l'altra a Berlino, annunciavano al mondo l'annessione dell'Austria al Reich di Hitler.

«Le cose vedute, precarie, solo le non vedute, eterne». Cosí aveva sentenziato una volta San Paolo. Papa Ratti, il paleografo dell'Ambrosiana, aveva creduto di poter garantire, nell'Europa postbellica, il successo della causa spirituale cattolica, mercè stipulazioni moltiplicate di concordati. Aveva voluto vedere con i suoi occhi il rogito notarile, garantente la vita e la funzione della Chiesa nel mondo nuovo. La scrittura superficiale di questo logoro palinsesto che era il cosiddetto mondo cristiano moderno non nascondeva e non occultava la prima scrittura, la vecchia scrittura cristiana?

Qualcuno ha scritto una volta a proposito dell'apologetica di Pascal: «Ai nostri giorni come in altri tempi un miracolo materiale, supposto che se ne produca realmente uno, costituirebbe senza dubbio una prova innegabile dell'esistenza di Dio. Ma nella impossibilità di constatarlo in maniera da eliminare qualsiasi dubbio, esso susciterebbe poco profonda impressione negli spiriti, dappoiché si cercherebbe sempre di spiegarlo in nome di forze oscure della natura. Il vero miracolo in un momento in cui Mammona è il solo valore dinanzi a cui ciascuno si inchina, sarebbe piuttosto l'esistenza di uomini disinteressati, la cui vita tradisca ininterrottamente la realtà del mondo invisibile. Se la Chiesa e i cristiani non sono piú capaci di costituire questo miracolo, vuol dire che il cristianesimo ha concluso definitivamente il ciclo della sua vita e che l'apologetica di Pascal ne ha rappresentato il canto del cigno».

Share on Twitter Share on Facebook