XIII PIO IX E IL NEWMAN

Nella storia della spiritualità cristiana al declinare del Medioevo domina, come episodio di inconguagliabile rilievo, l'incontro di San Francesco con Innocenzo III: l'incontro del «convertito» assisiate col Pontefice, nel governo del quale il magistero ecumenico e la potenza politica della Roma curiale avevano toccato il loro apogeo.

Nella storia del declinante fatto cristiano nell'età moderna domina l'incontro del «convertito» Giovanni Enrico Newman col Pontefice Pio IX.

L'avvicinamento non paia arrischiato e arbitrario. Ci sono scene che scolpiscono tutta un'età e simboleggiano i piú densi trapassi.

Nel momento in cui il Pontificato, all'alba del secolo XIII, sembrava voler assidersi per i secoli, anzi per i millenni, su un trono inattaccabile da cui sarebbe stato possibile reggere le redini di tutta la politica e di tutta la spiritualità europee, il figlio di Pietro Bernardone, uscito dalla sua drammatica crisi che lo aveva staccato dal mestiere delle armi e dalle allegre brigate prima, dalla famiglia poi, per chiedere a Roma il permesso di vivere nudamente e scheletricamente la pratica delle beatitudini evangeliche, aveva significato un monito e un presagio.

Francesco, in quell'atteggiamento umile e dimesso di cui abbiamo cercato nel nostro secondo volume di definire il valore nel quadro della rivoluzione spirituale preannunciata dal messaggio gioachimita, aveva voluto dire alla Chiesa romana che i destini del cristianesimo non sono affidati alla politica realistica e alla potenza terrena, ma all'attuazione intransigente delle idealità della rinuncia e della costante legge del processo cristiano nella storia, in virtú della quale solo il rinnegamento del mondo genera la prosperità non effimera e non brutale del mondo stesso.

A mezzo il secolo XIX, dopo che il Papato aveva subito, per opera di Napoleone, una umiliazione e un obbrobrio infinitamente piú gravi di quelli subìti dal Pontefice Bonifacio VIII, in cui la potenza ecumenica di Innocenzo III aveva tradito la sua irreparabile decadenza, un «convertito» veniva, con la sua opera, ad ammonire l'ufficiale magistero cattolico che per la riconquista della sfiorita efficienza spirituale del Vangelo nel mondo occorreva ritornare alle origini pure e semplici dell'esperienza religiosa, che è fede predialettica e abbandono a Dio, in virtú di un intimo senso di dedizione cieca ed integrale, reinterpretando, attraverso le vie del passato, l'esperienza ancestrale delle origini evangeliche.

Come noi abbiamo visto, sotto lo stimolo di ragioni fisiche e di fattori morali l'Inghilterra è stata la prima a costituirsi in Europa a nazione, a rompere cioè quella solidarietà totalitaria dei popoli, che è, inalienabilmente, nel programma della carismatica solidarietà cristiana.

Giovanni Enrico Newman sarebbe passato al cattolicesimo, traversando quel movimento «tractariano» che Giovanni Keble inaugurava, per dir cosí, col suo discorso del 14 luglio 1833 dal pulpito universitario di Oxford, sotto il titolo: L'apostasia nazionale. Che cos'era questo discorso se non una scesa in campo contro l'intervento dello Stato in materia religiosa, dopo che la riforma del ministro Grey aveva soppresso dieci vescovadi irlandesi? Il Keble, in quel sermone, aveva preso energicamente a partito il cosiddetto erastianismo, il sistema cioè di quel Tommaso Erastus, teologo svizzero del secolo XVI, che nelle settantacinque tesi della sua Explicatio, pubblicata postuma da Giacomo Castelvetri, aveva sostenuto che lo Stato ha sempre e dovunque il diritto di intervenire nelle cause ecclesiastiche, non potendosi immaginare nell'autorità della Chiesa alcun potere punitivo e alcun diritto di sanzioni coercitive. Da quel sermone del Keble fu appiccato il fuoco all'incendio che per parecchi decenni sconvolse le piú vive e profonde tradizioni dell'anglicanesimo. Il trentenne Newman dovette esserne profondamente colpito. Non è da pensare che fosse lí il principio della sua conversione. L'evoluzione della spiritualità del Newman è un romanzo delicato e sottile, per entro al quale non è facile leggere distintamente. Come tutti i grandi eventi simbolici, la maturazione spirituale del Newman è esilissimo processo intimo, che occorre accennare appena, per ricavarne luce e indicazione su quello che la sua esperienza e la sua opera hanno rappresentato e additato nell'evoluzione cattolica del secolo XIX.

Già dal suo albero genealogico si può arguire quanto complessi dovessero essere gli elementi entrati nella costituzione del suo carattere e della sua vocazione. Il padre di Giovanni Enrico, banchiere a Londra, discendeva da una famiglia israelita stabilita in Olanda poco dopo la morte di Spinoza. Sua madre, Jemima Fourdrinier, apparteneva ad una vecchia famiglia francese che aveva attraversato la Manica al momento della revoca dell'editto di Nantes. Nel fitto delle polemiche che la sua conversione avrebbe suscitato nel mondo anglicano, piú duramente gli avrebbero rimproverato questa esoterica mescolanza atavica, le cui espressioni non potevano non apparire abnormi ed eccentriche al compassato e rigido temperamento britannico. Musico, eccellente matematico, esperto uomo d'affari, rotto a tutte le finezze legali, e in pari tempo refrattario a qualsiasi arida curiosità metafisica, il Newman tradiva una natura ricca, duttile, prodigiosamente atta all'assimilazione, che doveva collocarlo nel mondo britannico del secolo XIX, giunto al suo meriggio, come una meteora luminosa, dalla traiettoria personale e dalle idealità nettamente supernazionali.

Ma il destino doveva segnare la sua impronta sulla missione di quest'uomo nella maniera e con i particolari piú sorprendenti e piú impressionanti.

L'Inghilterra era stata convertita al cristianesimo nei lontani giorni di Gregorio Magno da un manipolo di monaci usciti da quel cenobio del Celio, dove il Papa della gente Anicia aveva collocato il semenzaio della nuova attività proselitistica monastica.

E un monaco romano, proveniente anch'egli da un cenobio del Celio, dal cenobio cioè dei Padri della Passione, avrebbe ricevuto in un giorno solenne del 1845 l'abiura di Newman dall'anglicanesimo e l'adesione solenne del «convertito» al romanesimo.

Quella conversione del resto risaliva molto indietro nel tempo. Non vogliamo accennare soltanto all'influenza esercitata subcoscientemente sullo spirito del Newman dal suo viaggio italiano e mediterraneo fra il dicembre del 1832 e il luglio del 1843.

È stato osservato che il profilo stesso di Newman ha qualche cosa del caratteristico tipo romano. Qualcuno ha scritto che chi fra qualche migliaio d'anni scoprisse uno dei busti eretti al Newman a Londra, non esiterebbe a collocare la sua rude testa romana, austera e delicata, al fianco dei busti di Cicerone o di Cesare.

Noi vogliamo alludere piuttosto a certi rivolgimenti intimi che si sarebbero operati, per sua stessa confessione, nello spirito del Newman quindicenne. Ha raccontato egli stesso nella sua patetica Storia delle mie convinzioni religiose: «Fui foggiato fin dalla mia prima infanzia a sperimentare un profondo diletto nella lettura della Bibbia. Ma fino all'età di quindici anni non nutrii convinzioni religiose definite. Piú tardi, fatto uomo, venni fissando sulla carta i pensieri e i sentimenti coltivati nella mia età infantile su argomenti religiosi. Ed ecco due di questi ricordi che riferisco, e per la nitidezza con cui si son fissati nel mio spirito e perché non mancano di stretti collegamenti con le mie convinzioni posteriori. Molto spesso mi scoprivo a desiderare che le fiabe arabe si fossero effettivamente verificate. Misteriose, recondite, subcoscienti azioni, una istintiva credenza nei poteri magici e nei talismani, ossessionavano la mia fantasia. Io mi dicevo, a volte, se la vita non fosse un sogno, se non fossi un angelo, e tutto il mondo una immensa illusione. Pensavo cosí se gli angeli miei fratelli non si divertissero a far con me a rimpiattino, cercando di dissimularsi dietro le parvenze effimere di un mondo materiale. Leggendo nella primavera del 1816 (Newman non aveva allora che quattordici anni) una frase del Watts sui santi sconosciuti al mondo, dove si diceva che nulla distingue, all'aspetto o nel comportamento, i santi dagli altri uomini, mi abbandonai a fantasticare se l'autore non volesse parlare di angeli che vivevano in mezzo a noi, sotto una specie di mascheramento. Io ero allora molto superstizioso, e nel periodo che precedette la mia conversione non potevo traversare un luogo avvolto nelle tenebre, senza farmi il segno della croce».

Conversione! Newman stesso dunque ci è testimone che il giorno in cui abiurò ufficialmente la Chiesa della sua nascita, per rivolgersi a Roma, verso cui erano andate sempre d'istinto le sue naturali polarizzazioni, la conversione era già effettuata da trent'anni. In che modo? Ascoltiamo Newman stesso nel racconto di una sua lettera: «In questo profondo rivolgimento che segnò gli ultimi anni della mia infanzia, quattro dottrine entravano in azione: la Trinità, la Incarnazione, la predestinazione e il dogma luterano sull'appropriazione dei meriti del Cristo. Tutte e quattro apparivano come verità certe. Le prime tre sono cattoliche e come tali oggetto di una certezza reale e concreta, capace di signoreggiare per sempre l'intelligenza. E, in fondo, nessuna di queste tre verità è mai svaporata. Anglicano o cattolico, attraverso le evoluzioni del mio pensiero, sono rimasto ad esse indefettibilmente fedele. Per quanto concerne il dogma luterano, io lo credevo allora vero e ritenevo anzi che ne sarei stato sempre sicuro. Ma nessun errore può ingenerare una certezza seria e nessun errore racchiude promesse di eternità. E questo dogma luterano, al pari di una qualsiasi altra semplice opinione e di una credenza erronea, scomparve sollecitamente dal mio spirito, senza lasciarvi traccia. Per parlare piú esattamente, dirò che in sostanza non gli avevo mai attribuito il mio assenso. Ma in quel tempo, profondamente convinto delle tre prime dottrine, riversavo la loro evidenza sulla quarta, immaginando che tutte e quattro insieme avessero la medesima presa su di me».

Nell'Apologia, dettata nel 1864, quando il Newman era già piú che sessantenne, la pagina della confessione dedicata alla conversione ha un risalto degno di essere paragonato a quello delle pagine salienti delle Confessioni agostiniane: «Io avevo quindici anni. Un profondo rivolgimento si operò nelle mie idee. Cadevo sotto l'impulso decisivo di un credo definito, accogliendo nel mio spirito quelle prime impressioni dogmatiche che, la Dio mercè, nulla piú avrebbe potuto cancellare o affievolire. Come mezzi umani di tale imperiosa chiamata ad una fede divina, registrerò qui le conversazioni e i sermoni di un uomo eccellente e piú ancora i libri che costui mi diede perché li leggessi (vien fatto di pensare alle Enneadi plotiniane messe nelle mani di Agostino a Milano da un ignoto amico e collega). Questi libri erano calvinisti. Uno dei primi fra questi che mi furono consegnati spiegava e difendeva la dottrina della perseveranza finale. Io sottoscrissi di colpo a tale dottrina e con questo ero convertito. Ero sicuro di questo fatto e oggi ancora ne sono piú certo che della esistenza delle mie mani e dei miei piedi. Credetti dunque che simile conversione sarebbe durata fino all'altra vita e che io fossi eletto per la gloria eterna. Ignoro se simile convinzione abbia contribuito per qualche cosa a rendermi negligente nella pratica dei miei doveri. Essa mi accompagnò fino all'età di ventun anni e allora cominciò insensibilmente ad eclissarsi. Mi sembra che non fosse senza ripercussioni sulle mie idee di allora e che mi aiutasse a rimanere nella direttiva su cui le mie fantasie fanciullesche mi avevano condotto. Essa serví ad isolarmi dagli oggetti esterni e a confermarmi nella mia diffidenza istintiva, che mi portava a dubitare della realtà dei fenomeni materiali. Serví a fissarmi e a farmi riposare nella idea di due esseri entrambi unici, supremi, entrambi attestati da una evidenza sfolgorante: io e il mio Creatore».

Ecco in realtà la posizione irriducibile della primordiale esperienza religiosa. E tornare alle origini, per ogni istituto umano, come per ogni esperienza associata passata attraverso le millenarie elaborazioni collettive che sono sempre deformanti, non è precisamente un aprire il varco alle piú operose rivoluzioni?

Pochi decenni prima che Newman scrivesse, lo Schleiermacher in Germania aveva fatto consistere la base prima dell'esperienza religiosa in quel senso «creaturale», che è la consapevolezza nell'uomo della sua qualità di fragile e precaria creatura, quale egli è al cospetto di Dio. A quasi un secolo di distanza, Rodolfo Otto, scendendo ancora piú a fondo negli strati della consapevolezza umana del suo rapporto col non io, avrebbe additato la fonte prima e la qualifica specifica della religiosità nel senso tremante e sgomento del «numinoso».

Newman è perfettamente in questa linea filosofico-religiosa. Se noi avessimo ragione di dubitarne, basterebbe alla giustificazione del nostro asserto quel che, ancora ministro anglicano, Newman inculcava ripetutamente nei suoi sermoni: la necessità e la onnipresenza, nell'atteggiamento cristiano, di quell'elemento fascinans del «numinoso», che è l'elemento escatologico, il veniente Regno di Dio.

Vale la pena di citare qualcuno dei passi piú significativi al riguardo ricavati dai Sermoni parrocchiali del vicario Newman: «Voi mi dite che la visita imminente del Cristo è cosa poco probabile, e che quindi non avete alcuna possibilità di predisporre il vostro spirito a riceverlo. E io vi dico invece che questa possibilità è nelle vostre mani. Voi dovete saturarvi di questa idea: che c'è una probabilità all'orizzonte. Fissate le vostre pupille su questa probabilità. Perché non fate per essa come per le altre probabilità, il cui incubo a volte vi assilla, l'incubo di un incendio, l'incubo di un furto? Quando voi apprendete le malefatte di una banda di briganti, tremate, e non senza ragione: il rischio vi percuote. Noi dobbiamo sentirci inquieti alla prospettiva di un discoprimento possibile del giudizio del nostro Signore? Come è lamentevole l'imbestiarsi di coloro che non sanno essere vigilanti, perché nulla a loro manca. Ecco: mentre essi dormono, il corteggio nuziale dell'Agnello si prepara e si mette in cammino. La sposa è pronta da gran tempo. Mentre noi dormivamo, essa indossava la sua veste nuziale, aggiungendo gioielli a gioielli, e raccogliendo gli eletti da tutti gli angoli dell'orizzonte. Gli increduli, ammiccando, fan motteggi sulla inutile attesa. Quel Regno di Dio che ha impiegato già tanto tempo a venire, può tardare ancora lunghissimi secoli. Passi, l'ingenua speranza, per i primi cristiani. L'esperienza non aveva insegnato ad essi che la vita terrestre della Chiesa doveva essere tanto lunga. Ma noi non possiamo piú metter bende ai nostri occhi. Oggi non c'è ragione di attendere il Cristo piú di quanta non ce ne fosse in quelle età lontane, in cui noi sappiamo fin troppo che non è venuto. Poveri cristiani, sempre nell'attesa e sempre delusi ! Essi andavano interrogando i segni dei tempi e credevano di poter scoprire per tutto i sintomi della fine imminente. Che ci si mostri un secolo in cui i cristiani non si siano in qualche modo dati a credere che il giorno del Giudizio era prossimo. A che cosa mai han servito questi vani terrori, questa spirituale debolezza, se non ad alimentare l'indolenza e a generare la superstizione?».

Newman non si sgomenta di questa accusa di indolenza e di superstizione e risponde vittoriosamente: «Io osservo che se i cristiani han potuto far confusione e han potuto esser tratti in inganno nell'individuare i segni della venuta del Cristo, non si ingannavano affatto nell'esplorare avidamente tutto quel che poteva annunciarne la venuta. Erano creduli e ingenui, ma lo erano come lo sono tutti coloro che amano, al cospetto dell'oggetto amato. Per conto mio, fra un ignorante che per amore del Regno di Dio scambia una meteora o una cometa per il segno della Sua venuta, e un cotale che, piú sapiente ma meno amante, si prende beffa del suo inganno, la mia opzione non ha un istante di esitazione. I cristiani non solamente nell'attendere la catastrofe, ma molto piú nello spiare intorno i sintomi precorritori del grande evento, nei fenomeni della natura come negli avvenimenti del mondo morale, non facevano altro che obbedire tassativamente alla consegna del Cristo. Se erano poveri ed ignoranti, strane visioni nel cielo, rovinosi turbamenti tellurici, tempeste, epidemie, tutto quanto è anormale e mostruoso, faceva loro credere che l'attesa palingenesi fosse prossima. Se erano colti ed esperti, una nuova ragione di stare in vedetta la scoprivano nelle guerre e nei perturbamenti sociali. Ebbene: proprio il nostro Signore aveva loro detto di studiare il mondo intorno e aveva additato questi fenomeni come segni del proprio ritorno. Non dimentichiamolo: val molto meglio vivere di falsi allarmi, che il non vegliare affatto. Per un'anima religiosa non c'è niente di male e, molto meno, non c'è niente di ridicolo, nello scoprire sempre cose straordinarie sotto le apparenze dei piú banali fenomeni di ogni giorno. È la Scrittura, che ci ha insegnato ad interpretare in maniera religiosa tutto quel che noi vediamo in questo mondo e a considerare ogni cosa come una rivelazione del Cristo, della Sua provvidenza e della Sua volontà. Schiacciati quali siamo dall'immensità e dal mistero, noi sentiamo che quanto accade quaggiú è collegato a realtà invisibili, e che Dio si serve dei particolari piú banali per rivelarci il segreto delle Sue vie. E mano mano che ci si viene accostumando alla significazione divina dei fenomeni, ci si dispone a trar profitto dalla lezione recondita che questi offrono a chi sa intendere. Noi sappiamo che Dio ha fatto il novero dei nostri capelli, che tutto coopera al nostro bene e per questo ci sentiamo incoraggiati a rinvenire la presenza di Dio negli avvenimenti piú insignificanti e ad attribuire un valore profetico a tutto ciò che ci viene quotidianamente raccontando il mondo».

Si direbbe che in questo tardo rampollo di una vecchia famiglia ebraica rivivesse cosí, ancora nel tempo del suo ministero anglicano, l'anima dei vecchi profeti di Israele, che avevano sui fiumi della prigionia babilonese aperto il cuore alla speranza del recupero patrio. L'elemento fascinans del cristianesimo primitivo riaffiorava nell'anima sacerdotale del Newman e possiamo ben dire che lo portava istintivamente verso Roma, perché solo Roma, e proprio la Roma del nuovo farisaismo, per quello strano paradosso che si era già verificato con la conversione di Paolo nella sinagoga palestinese, poteva pensarsi che potesse ergere gli occhi e gli spiriti verso la rinascita spirituale del mondo.

Per questo, a considerar bene le cose, la conversione di Newman non è tanto un cambiamento di indirizzi ideali e uno spostamento di apologetica religiosa, quanto la ricerca dell'ambiente piú acconcio e della piattaforma piú autorevole alla disseminazione di quelle che sono le grandi tesi di Newman: l'adesione prerazionale ed extrarazionale alla fede religiosa e la dottrina dell'evoluzione della dogmatica cristiana nella storia.

Non per nulla il saggio di Newman sullo Sviluppo della dottrina cristiana non è che il riecheggiamento sistematico di un sermone oxfordiano. E non è senza significato che la Grammatica dell'adesione sia di tanti anni posteriore all'opera in cui Newman aveva tracciato la sua filosofia della storia del pensiero cristiano.

Eppure la Grammatica dell'adesione investe le basi stesse cosí della nostra vita conoscitiva come della nostra vita religiosa, mentre il saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana è il risultato di una minuta esplorazione storica, che ha dato al Newman la sensazione viva della fluida duttilità e della prodigiosa adattabilità del messaggio cristiano, attraverso i secoli della sua irradiazione nel mondo.

A mezzo secolo di distanza anche il modernismo sarebbe arrivato alla sua celebrazione del fatto religioso come fatto che sprofonda le radici nelle regioni piú oscure della subcosciente spiritualità umana, in séguito ad una esplorazione comparata della religiosità umana e ad una valutazione del posto che il cristianesimo occupa nel quadro globale della umana sensazione del sacro. E gli sarebbe stato rimproverato di partire e di muovere da presupposti e da concetti razionalistici ed 'immanentistici, mentre la sua genesi era puramente empirica e positiva. Anche il Newman, interprete dell'esperienza sacrale, era stato preceduto e preparato dal Newman storico della Cristianità e specialmente della Cristianità antica.

E bisogna essere molto superficiali o essere ispirati da astiose e cieche idiosincrasie teologali, per non vedere come certe posizioni apologetiche non siano altro che la conclusione di quell'atteggiamento di ossequio alla verità che è caratteristico e doveroso per un ricercatore erudito di fatti storici.

Sta di fatto che la Grammatica dell'adesione intellettuale è un egregio trattato di logica che si sdoppia in una mirabile psicologia della fede. Vi sono, secondo Newman, due vie per passare dal conosciuto allo sconosciuto, dal noto all'ignoto, come vi sono due modi di ragionare e due logiche: vi è anzitutto una logica formale o artificiale o metodica e vi è poi l'operazione spontanea di una facoltà che noi possiamo chiamare senso illativo o induzione naturale.

La logica formale comprende tutte quelle maniere di esporre e di ricercare la verità che sono suscettibili di espressioni verbali. Tali il sillogismo, le classificazioni scientifiche, le matematiche, lo stesso linguaggio. Piú genericamente possiamo dire che entra sotto l'etichetta della logica formale tutto ciò, mercè cui l'uomo riesce ad organare sistematicamente il fascio delle proprie conoscenze o tende, sistematicamente ad imporlo agli altri. Si tratta, in verità, di una eccellente ed ardua arte. E quando si applica al mondo delle astrazioni, vale a dire al mondo che è il meno possibile differenziato, tale logica è infallibile. L'aritmetica infatti come l'algebra, la geometria come la dialettica aristotelica, sono disciplinate da regole cieche, ma sicure. Ma quale mai è il rapporto di questo mondo di astrazioni con lo scenario vivente dell'universo, sul quale tutto ha forma e sagoma di concretezza? Sul terreno della concretezza la logica scientifica è incapace di dare la certezza. Essa si ferma necessariamente e per definizione alle premesse che essa stessa presuppone, non riuscendo giammai a toccare l'individuo, su cui la conclusione si pronuncia. Il generico e l'universale non hanno presa sul fenomeno particolare che violentandolo in qualche modo. Poiché ogni essere possiede la sua propria legge, la quale è un fatto inconguagliabile, come ogni essere vivente ha il suo protoplasma particolare. Nulla di tutto quello che è reale può essere decomposto e distribuito a norma delle idee generali, di cui sembra racchiudere in sé la semenza potenziale. Né nulla di reale potrebbe essere ricomposto e riazionato, in virtú di queste medesime idee universali. Chi di noi possiede la capacità di cogliere l'intima essenza delle miriadi di esseri che popolano l'universo, o di stendere il novero completo delle loro qualità? Noi affermiamo con piena consapevolezza che il Creatore rappresenta una ineffabile ed incomprensibile realtà trascendentale. Ma si può ugualmente dire che la piú minuscola ed esigua delle creature è altrettanto ineffabile e incomprensibile, poiché nessuno, al di fuori di Dio, può scandagliare esaurientemente l'abisso della sua essenza profonda. La logica pertanto è una registrazione degli aspetti effimeri e transitori delle cose periture. Ma è funzionalmente incapace di darci il discoprimento completo di una sola individualità, traversante lo spazio ed il tempo. Le leggi piú universali, ritenute piú infallibili, meritano tanto poco questo nome solenne ed augusto, quanto lo meritano le eccezioni piú straordinarie. Le individualità, afferma Newman non facendo che ripetere un aforistico assioma scolastico, sono l'una di fronte all'altra vincolate da una infrangibile consegna di scambievole incomunicabilità.

Se tutto questo è vero quando noi prendiamo a considerare un semplice ragionamento sillogistico, si immagini un po' che cosa mai non diventa la nostra capacità raziocinatrice, quando sottopone ad esame la sconfinata complicazione di un oggetto vivente, soggiacente alle piú varie ed eterogenee azioni esteriori, sprofondante le sue radici in un terreno composito e a varie stratificazioni. Allora succede che i sillogismi si accavallano gli uni sugli altri, fino a premesse cui lo spirito è incapace di risalire. Tali premesse possono suonare come certezze preliminari dal punto di vista della logica scientifica. Ma non sono certezze dal punto di vista della logica pratica. Da questo angolo visuale esse dovranno dirsi piuttosto postulati pregiudizialmente assunti ed incontrovertibili, vale a dire non saranno altro, in realtà, che principî che noi imponiamo a noi stessi. In altri termini, questi principî potranno variare da individuo a individuo, alterarsi in funzione delle disposizioni ambientali, cosí intellettuali come fisiche.

Ma è tutta qui, vale a dire tutta nella logica formale, tutta nella dialettica sillogistica, tutta nel nostro senso illativo l'attitudine umana alla conoscenza e al possesso della verità? Affideremo soltanto al pensiero puro il destino della nostra vita? Ci daremo veramente a credere che il logos e l'idea, la ragione e l'intendimento, la trasfigurazione del reale attraverso il nostro pensiero, siano tutti nella spiritualità umana, e diano il diritto di vedere nel mondo il poema incessante e rinascente dello Spirito?

Newman non leggeva il tedesco. Hanno riavvicinato la sua critica gnoseologica alla critica kantiana e al primato kantiano della ragion pratica. Pura illusione e tentativo da parte dell'idealismo di captare a proprio vantaggio una personalità e un pensiero cosí ricchi di originalità, come quelli dell'apologeta di oltre Manica. La posizione spirituale di Newman è cosa infinitamente piú complessa. Si dovrebbe dire piuttosto che, per una sùbita reviviscenza di tendenze e di posizioni di spirito ancestrali, Newman si pone nettamente dal punto di vista da cui si pone l'esperienza religiosa della Bibbia e del Nuovo Testamento di fronte al dramma misterico dell'universo. Aveva detto una volta San Paolo che tutto nel mondo è il risultato di un ininterrotto intervento di Dio. Che seminando grani di frumento venga frumento anziché orzo o avena, è cosa dovuta unicamente alla azione volontaria e paterna di Dio. Non esiste altra legge nella natura, che la non legge, determinata dal costante intervento provvidenziale del Padre. Come si conviene ad una intelligenza del secolo XIX, Newman afferma che ogni essere è in se stesso un mistero e una rivelazione di Dio. Sono soltanto le apparenze che la nostra logica legifera e la nostra esperienza costante disciplina. La profonda essenza della realtà sfugge ad ogni legiferazione scientifica e ad ogni discoprimento razionale. La realtà non si denuda e non si rivela che attraverso la luce di Dio che, disciogliendo gli involucri esteriori del mondo, apre alle nostre pupille sorprese e sbigottite il miracolo permanente dell'essere.

A questo miracolo noi arriviamo non mercè il nostro senso illativo, bensí mercè il nostro assenso e mercè la nostra adesione spirituali. Un fatto sul quale Newman richiama costantemente l'attenzione è che noi pensiamo anche senza il sussidio e il sostegno delle espressioni idiomatiche. Se Logos è nel medesimo tempo idea e parola, la parola è preconcepita nell'idea, come il suo nucleo potenziale. «Lo spirito, nella sua intima vitalità, non ha affatto bisogno, per l'attingimento dei suoi oggetti proporzionati, dei mezzi termini del ragionamento. Le premesse sono da esso sorvolate con una rapidità che oltrepassa di gran lunga la piú agile e rapida trascrizione verbale. La gestazione delle idee che ci vincolano e ci signoreggiano e che in conclusione guidano e reggono il nostro comportamento, può essere oscura e risalire, per vie misteriose, a innesti remoti e a fecondazioni impercettibili. Ma il brillare improvviso di quelle idee è come la luce del lampo. L'alpinista che scala un'ardua montagna, saggiando con le mani e con i piedi la roccia friabile e insidiosa, è nell'assoluta impossibilità, una volta pervenuto alla meta, di ritracciare gli istanti del suo periglioso cammino. Il pensiero è una incessante scalata di monti. I movimenti, attraverso cui esso giunge alla vetta luminosa vagheggiata, non consentono di essere giustificati e registrati in bilancio. Nulla di piú fatuo e di piú illusorio che ritenere il pensiero costretto nelle proposizioni di un sillogismo. Un cervello può elaborarne a migliaia e restare arido e smunto come la zolla disseccata e frantumata nella sabbia del Sahara. È dato di esperienza incontrovertibile che le idee piú care, piú personali, piú vitali, piú feconde, nascono, non da ragionamenti lambiccati, ma dal balenio di intuizioni viventi. Il nostro procedimento interiore non va da proposizioni a proposizioni, ma da cose a cose, dal concreto al concreto, da un tutto a un tutto».

Si deve concludere pertanto che la vera logica della creatura umana, la logica efficace, la logica aderente al complesso mondo della vita spirituale, non è la logica sillogistica e raziocinante. Questa l'idea fondamentale che Newman pone, sotto lo stimolo della sua straordinaria consapevolezza mistica, a base dell'apologetica. Il presupposto di questa apologetica newmaniana è che quando si parte alla ricerca di una fede cristiana che sia luce delle nostre tenebre, forza della nostra fragilità e della nostra debolezza, caposaldo della nostra precaria e tentennante insoddisfazione, non ci si deve attendere un libro mastro delle dimostrazioni della fede, ma l'avventurosa discoperta di una terra senza ponti e senza collegamenti.

Ecco alcune parole sintomatiche, nel preambolo stesso della terza parte della Grammatica dell'adesione: «Parlando della religione naturale, come se essa fosse di dominio dell'apprezzamento individuale, e parlandone cosí con il proposito di passare poi ciò nonostante dalla religione naturale al cristianesimo, io dò l'impressione di rinunciare a qualsiasi dimostrazione dell'una o dell'altra, e in realtà questa è la mia intenzione. Io non nego affatto che una dimostrazione sia possibile. Si tratta di vedere qual valore abbia simile dimostrazione. La verità, come tale, poggia su basi intrinsecamente, oggettivamente e teoricamente dimostrabili. Questo non vuoi dire però che gli argomenti su cui essa è installata siano irrefutabili e infallibili. Epiteti di questo genere si riferiscono unicamente a casi individuali e può capitare benissimo che le argomentazioni addotte non producano affatto il loro atteso risultato. Il fatto della rivelazione può benissimo dimostrarsi per vero, ma non si creda con ciò che la sua verità sia irresistibile ché, altrimenti, come sarebbe possibile in pratica resisterle? C'è un abisso fra quel che il fatto della rivelazione è in se stesso e quel che il fatto della rivelazione è per noi. O che forse la luce non è una qualità della materia, come la verità è una qualità del cristianesimo? Eppure, i ciechi non veggono il sole e non è colpa della verità se v'è gente che la nega. La realtà è che è impossibile convertire spiriti i quali mi neghino le presupposizioni che io loro domando, perché senza presupposizioni nulla è possibile provare a proposito di qualsiasi realtà e di qualsiasi problema... Diciamolo ben chiaro: la fede poggia molto meno su prove che su presupposizioni, sicché, sebbene essa rappresenti e costituisca un atto della ragione, i puri razionalisti avranno sempre qualche pretesto per dire che questo atto di ragione rispecchia una ragione debole, deviata, o insufficiente».

Quel che domina in questa preliminare apologetica religiosa del Newman è il presupposto che la fede è dedizione di disperati e convinzione di scettici. Sol quando si sia conquistata una conveniente e diffidente consapevolezza della fragilità di tutti i procedimenti razionali, la certezza religiosa colma i vuoti lasciati dalla edace critica razionale, per coronare quella nostra volontà di aderenza vivente alla realtà, che ha in sé qualcosa di indefinibile e di inesprimibile. Newman proclama esplicitamente che il còmpito dell'Apostolo religioso non è quello di coniare serie infinite di sillogismi, ma di destare inquietudini, sollecitare esigenze interiori, stimolare velleità indistinte, accumulare probabilità. «Il vero còmpito», egli scrive, «di qualsiasi maestro di spiritualità e di cultura è quello di suscitare e guidare forme di pensiero, in cui l'elemento principe è la disposizione spirituale, prima che una vera e propria operazione mentale».

Rodolfo Otto dirà nella sua dialettica dell'apprendimento della realtà «numinosa» e «sacra» che suscitare a fede non è altro che battere sapientemente sulla tastiera di uno strumento musicale, che già contiene in sé, in potenza, i motivi della religiosità e dell'adesione al Regno di Dio.

Ed ecco allora illuminato magistralmente dal Newman il paradosso di quell'augusto fatto della spiritualità umana che è la fede. Questa adesione spirituale, questo assenso a realtà non dimostrate, sulla base di presentimenti psichici e di atteggiamenti incoercibili di coscienza, è l'unica certezza e l'unica accettazione di verità non soggiacenti a condizioni.

Aveva scritto Locke con asserzioni che sono alle origini dell'illuminismo e dell'idealismo moderno: «Chi dà il suo assenso ad una opinione con maggiore asseveranza di quel che non gli sia consentito dalle prove sulle quali egli può poggiare questa opinione, mostra di non amare la verità. Bisogna conguagliare il proprio assenso alla forza dimostrativa di queste prove. Altrimenti si dà prova di non amare la verità di un puro amore».

Newman dice precisamente il contrario. Secondo lui chiedere alla argomentazione astratta che controlli e regga la nostra adesione spirituale, significa distruggere il concetto stesso e la realtà della vera spirituale adesione. Significa scambiare l'adesione per una illazione. È l'illazione che è obbligata per definizione a proporzionare il grado di probabilità delle proprie conclusioni alla forza piú o meno convincente degli argomenti addotti in loro favore. Se l'adesione fosse sottoposta alla medesima legge, l'adesione non sarebbe piú diversa dalla illazione. Tutta la nostra vita spirituale non è un complesso di adesioni che sopravvivono o fanno a meno di argomentazioni? La realtà della nostra vita spirituale è lí a dimostrare che nell'istante in cui io pronuncio, con la totalità della mia intima vita, un atto di fede, la certezza, la certezza viva, la certezza meritoria, la certezza adesiva, è del tutto sganciata e svincolata dalle ragioni che il mio cervello potrebbe raffigurarsi come quelle che han determinato il mio atto di fede. L'adesione è precisamente l'atto dello spirito che accetta senza esitare, senza invocare ragioni, una proposizione qualsiasi, mentre la illazione è l'atto dello spirito che trae da un ragionamento una conseguenza inevitabile e cogente.

La vera fede non è il risultato di una distribuzione sillogistica di premesse, è invece essa una premessa aperta sconfinatamente nel dominio di Dio. E la fede è presente cosí nella religione naturale come nella religione soprannaturale. E il passaggio dall'una all'altra non è che un approfondimento e una trasfigurazione dei medesimi motivi e delle medesime esigenze.

La rivelazione comincia là dove la religione naturale si arresta tremante e fatisciente. Essa non è che un preambolo: postula un complemento. E il complemento non può essere che uno solo: la rivelazione cristiana. La religione naturale è basata sul senso drammatico della colpa. Riconosce l'infezione, ne fa la diagnosi: ma cerca invano il rimedio. Questo rimedio, che è il rimedio al male commesso e alla nostra impotenza morale, ci è offerto dalla dottrina centrale del Cristo mediatore. Qui il segreto della misteriosa potenza della Chiesa. Essa sola cura e cicatrizza la profonda ferita dell'umanità decaduta. Ecco quel che assicura il suo trionfo molto piú di quel che non possano fare una immensa enciclopedia scientifica o una vasta biblioteca controversistica. Per questo durerà quanto l'uomo, perché racchiude una verità vivente e non conosce decadenza o impallidimento. «C'è chi parla della Chiesa come di un anacronistico ricordo storico, il quale non ha con il presente che relazioni lontane e fiacche. Io non potrò mai concedere a nessuno che il cristianesimo sia puramente e semplicemente una religione storica. Senza dubbio esso poggia sul passato e chiude nel proprio grembo ricordi gloriosi. Ma la sua vera potenza è nella preghiera. Non potrebbe mai costituire il retaggio della secca ed arida famiglia degli eruditi. L'immagine che noi ci facciamo di essa non erompe da documenti morti o da eventi trapassati, bensí scaturisce dalla fede sempre viva, sempre alimentata da un dono che si rinnova incessantemente, eternamente sicura di toccare una realtà viva e vibrante. Noi, mercè la Chiesa, comunichiamo nell'invisibile, non già in un passato disseccato. L'uomo d'oggidi è altrettanto vivo e attivo che nel passato. E il Cristo, nei simboli offerti alla nostra immaginazione, è altrettanto vivo che quando egli passò sensibilmente sulla terra. Il cristianesimo presenta le sue prove originali e la sua dottrina inconfondibile a spiriti che si trovano nella condizione normale della natura umana, vale a dire che credono nella esistenza di Dio Padre e nella sua finale reintegrazione del bene vilipeso. E a questi spiriti si rivolge, facendo contemporaneamente appello all'intelligenza e alla capacità immaginativa. Esso crea in questi spiriti una certezza mercè argomenti troppo vari e troppo originali perché se ne possa fare un novero sistematico, e troppo personali e troppo profondi perché possano essere formulati, ma nel medesimo tempo troppo stringenti e troppo convergenti, perché sia possibile farne la confutazione. Non chiedete mai che la ragione preceda e la fede segua. Questo sarebbe a norma del povero ordine logico umano. La realtà religiosa è nel medesimo tempo, nei suoi prismatici aspetti, oggetto e prova, in un atto spirituale cosí complesso, come quello dell'adesione religiosa e cristiana».

Cosí Newman tracciava con animo di profeta e di Apostolo le linee di una apologetica religiosa e cristiana che in un'epoca di dissolvimento della spiritualità europea non avrebbe mai dovuto fare appello ad argomenti sillogistici, a presunte dimostrazioni razionali, ma avrebbe dovuto far leva su tutto quello che c'è di tremantemente inappagato nello spirito umano, proprio nel momento della sua ebbrezza conquistatrice sul mondo, per farlo assurgere ad un attingimento di Dio su cui fosse possibile edificare il senso della universale solidarietà degli uomini, nei carismi e nella visione del Regno di Dio.

Non bisogna mai separare nella visione religiosa di Enrico Newman l'indirizzo apologetico della Grammatica dell'adesione dalla celebrazione del concetto tradizionale cattolico della tradizione vivente, quale è formulato nel saggio sullo Sviluppo della dottrina cristiana. Con questa seconda opera, che in ordine cronologico è invece anteriore, si può dire, come è stato da tutti universalmente riconosciuto, che Newman apriva veramente un'epoca nella storia del pensiero cristiano. Per rendersi conto dell'originalità e dell'importanza di questa dottrina basta ricordare, come è già stato fatto, quale era stato dall'età della scolastica fino a Bossuet l'atteggiamento dei teologi ortodossi al cospetto dei dogmi presi nel loro insieme. Per essi teologi, qualsiasi cambiamento e qualsiasi novità, ogni tratto nuovo, costituivano un segno incontestabile di errore.

Noi abbiamo visto come si era posto, al vero tramonto del Medioevo, all'ora cioè di Gioacchino da Fiore, il problema, sempre presente nella storia della spiritualità umana, della trasmissione di una eredità religiosa: il problema del trapasso dall'economia cristiana ed ecclesiastica medioevale alla nuova economia nello Spirito, voluta e vigilata dalla cura stessa dei valori evangelici. Gioacchino da Fiore aveva preconizzato la scomparsa dei simboli, per la instaurazione dei veri valori concreti, che l'Età del Figlio aveva semplicemente prefigurato, come l'Età del Padre, il Vecchio Testamento, aveva prefigurato l'Età del Nuovo Testamento.

Noi abbiamo d'altra parte visto come San Tommaso d'Aquino, pur tenendo a disdegno come illusorio e puerile il sogno del profeta di Celico, quando si era fatto a studiare la identità o meno della fede dei vecchi e della fede dei nuovi, il problema cioè della evoluzione della dottrina cristiana, aveva fatto una distinzione netta fra l'oggetto della fede e la fede stessa dei credenti, asserendo che, immutata restando la realtà concreta delle cose credute, poteva poi lasciarsi alle sue naturali variazioni il processo di ininterrotta assimilazione, da parte dei credenti, dell'immutabile patrimonio della fede.

Con una distinzione di questo genere, San Tommaso dava a divedere quanto profondo e dominante fosse, nella comunità cristiana del suo tempo, il senso della realtà oggettiva augusta e ineffabile della dogmatica tradizionale. In fondo, il problema della evoluzione dei dogmi si potrebbe dire che appare come il piú innocuo e niente affatto inquietante dei problemi, quando i dogmi sono avvertiti e vissuti come accenni schematici e simbolici della sempre presente azione di Dio nella vita dell'individuo, della storia, del cosmo. Solo quando questa oggettività concreta e veneranda dei reali valori contenuti nella dogmatica cristiana viene assottigliandosi dinanzi allo spirito della comunità credente, il problema della evoluzione dogmatica si fa minaccioso e scandalizzante, per l'ortodossia. Ma allora vuol dire che l'ortodossia è già il rivestimento mummificato di un cadavere. E i teologi, denunciando l'eresia nella dottrina dell'evoluzione dogmatica, non fanno altro che consegnare alla storia la loro qualifica anagrafica di necrofori.

Le controversie dogmatiche del secolo decimosesto e l'irrigidirsi dell'ortodossia cattolica al Concilio di Trento hanno fatto smarrire alla tradizione cattolica il senso fluido ed elastico della vitalità cristiana, che rinasce continuamente dalle sue ceneri, per trasformarsi e vivere nei superiori trionfi della sua adattabile ed efficiente virtú di rinnovamento. Sicché, pavoneggiandosi al cospetto delle confessioni riformate di una sua letterale immutabilità, l'ortodossia curiale si condannava inconsapevolmente ad un lento ed inesorabile esaurimento. Di questo irrigidimento si era reso interprete e insieme incauto apologista quel vescovo Bossuet che polemizzando contro le confessioni riformate aveva creduto di poter scoprire nei cambiamenti e nelle oscillazioni della religiosità non cattolica il segno di una inesorabile ed inevitabile dissoluzione. E anche da parte evangelica si era acceduto al punto di vista di Bossuet. Fra gli apologisti del protestantesimo solo o quasi il Jurieu aveva cercato di rispondere non, come di solito, attenuando fatti evidenti, ma al contrario tentando di trasfigurare le variazioni in prova e principio di fecondità e di progresso. L'anglicanesimo dal canto suo, accogliendo senza discussione la premessa di Bossuet, aveva preteso di sostenere che veramente la Chiesa romana era la Chiesa delle metamorfosi indefinite che proprio attraverso le modificazioni appariscenti e sostanziali subìte nei lunghi secoli della sua storia aveva finito col cancellare in sé la piú tenue e sbiadita immagine dell'esperienza cristiana primitiva.

Ed ecco che un maestro di Oxford, un rappresentante fra i piú insigni della cultura anglicana, già in procinto di uscire dal solco della sua Chiesa per la contaminazione che vedeva essersi effettuata nel suo paese fra politica e religione, e soprattutto scandalizzato al cospetto del tentativo palesemente scismatico del governo britannico accordatosi con quello prussiano per la creazione di un vescovado comune a Gerusalemme, si levava a rovesciare risolutamente le parti e arditamente faceva della dialettica dell'evoluzione e della trasformazione il principio basilare della vitalità cattolica, il segno inappellabile della sua validità, il crisma consacratore della sua incorruttibile durata.

«Le grandi idee», scriveva questo anglicano in cammino, «sono infallibilmente soggette all'evoluzione, sotto pena, altrimenti, di soggiacere alla piú irreparabile delle corruzioni. Nell'al di là, la dialettica della vita sarà diversa. Ma quaggiú essa è una sola: vivere è trasformarsi. Sicché una dottrina è tanto piú perfetta, quanto piú spesso essa ha sentito il bisogno ed ha avuto la capacità di cambiarsi».

Non si sarebbe potuto immaginare aforisma piú sorprendente e piú sconcertante. Aveva scritto Bossuet: «La verità cattolica, procedente da Dio, ha fin dagli inizi tutta la sua perfezione. La fede parla parole semplici e chiare. Lo Spirito Santo emette verdetti puri e la verità che esso impartisce è formulata in un linguaggio che non può non essere costante, uniforme, invariabile. Variare nella esposizione della fede significa, puramente e semplicemente, tradire, e palesare un sintomo incontrovertibile di falsità e di incoerenza. L'eresia è per se stessa sempre una novità. La Chiesa cattolica, al contrario, immutabilmente aderente ai decreti una volta pronunciati, senza che si possa in essi constatare la minima variazione dai tempi delle origini cristiane, si presenta come una Chiesa solidamente costituita sul masso, salda nei suoi principî, guidata da uno Spirito che non smentisce mai se stesso».

Cosí aveva parlato Bossuet. Ed ecco che un anglicano, a giustificazione si potrebbe dire storica e morale del suo trapasso al cattolicesimo, dà una confutazione delle tesi del Bossuet e, proclamando la variabilità delle dottrine religiose, in nome di tale rivendicazione, si costituisce apologeta confesso dei diritti esclusivi della Chiesa romana e dell'autorità suprema del magistero curiale e pontificio.

Quando nel 1843 Newman pronunciava ad Oxford il suo sermone, il giorno della Purificazione, esponendo la sua teoria «degli sviluppi nella dottrina religiosa», egli era ancora anglicano. Due anni dopo, pubblicando il suo grande saggio, egli era già aderente al cattolicesimo. Il suo trapasso è ufficialmente segnato il 9 ottobre 1845. In questa stessa coincidenza di date è un profondo significato simbolico. Proprio attraverso la esplorazione storica che finisce per essere, per il Newman, la documentazione vivente del principio sovrano della «tradizione» nel cristianesimo, il convertito trova la prova suprema della validità del cattolicesimo, purché riconosca questi due capisaldi che sono i capisaldi stessi di una fede concretamente operosa in una comunità spirituale, l'adesione consapevole ad un complesso di valori carismatici, e pregiudiziale sicurezza che un patrimonio di efficienti carismi segue docilmente e duttilmente il cammino dell'umanità adattandosi, ad ogni tappa, ai nuovi bisogni e alle nuove aspirazioni.

Il sermone di Oxford era un vero programma. Fin dal suo esordio Newman vi enunciava le sue finalità. Egli vuole rispondere a coloro che sogliano obiettare essere la teologia una scienza vana, pericolosamente parassitaria alla superficie della Chiesa e tendente ad assorbirla, minacciando di dissiparne il succo migliore attraverso le piú fatue e inconcludenti controversie. Newman vuol dimostrare che la dogmatica non è altro che la trascrizione prammatistica delle esigenze della vita cristiana associata. A distanza di poco piú di mezzo secolo il piú in vista degli apologeti modernisti non farà che riprendere un motivo del Newman sostenendo che la lex credendi non è altro che l'accompagnamento e il rivestimento della lex orandi.

Non c'è da rimanere sgomenti o scandalizzati dinanzi alla sproporzionata antinomia fra il vasto organismo della teologia e la semplicità nuda e scheletrica dell'esperienza cristiana. Senza dubbio i dogmi posseggono un valore solo in virtú dell'esperienza spirituale che essi presuppongono e racchiudono. Ma non è da credere che la teologia sia il parto fittizio e arbitrario della mentalità teologale, partita alla ricerca di formule scolastiche. Perché la fede e l'esperienza esigono ininterrottamente trascrizioni esplicite, formulazioni descrittive, commenti schematizzati.

«La Rivelazione», egli scrive, «pone sotto gli occhi del credente fatti ed azioni, esseri e principî soprannaturali, i quali suscitano in lui una determinata impressione, una grafica immagine. Tale impressione, tale immagine, divengono spontaneamente, diciamo meglio necessariamente, oggetto di riflessione per lo spirito che se ne appropri».

E scendendo all'analisi particolare e sottile del processo in virtú del quale il patrimonio spirituale della fede cristiana si accresce, si precisa e si moltiplica attraverso il lavorìo della riflessione dottrinale, il Newman dice nel suo sermone: «Quando l'intelligenza cristiana deduce una serie di asserzioni dogmatiche le une dalle altre, essa non mira soltanto al rapporto logico che lega vicendevolmente i termini di queste proposizioni. Essa non prescinde mai e non fa mai astrazione dal soggetto sacro di cui tratta. Al contrario, ogni termine delle sue promesse deve essere, per dir cosí, chiarificato e vivificato dalla idea sacra che esisteva nell'anima credente, ancor prima che questa si ponesse a ragionare. Questa idea è sempre presente per costituirsi ad assolvere il còmpito di principio regolatore e disciplinatore del ragionamento. Chi, non vivendo di fede, non possiede tale idea, non ha alcun diritto, e non ha alcuna capacità di porsi a ragionare su argomenti di tal genere. Frasi come queste – il Verbo era Dio – o – il Figlio unigenito prediletto che è nel grembo del Padre – o – il Verbo si fece carne – non sono già pure formulazioni verbali, affidateci perché noi ne trattiamo a nostro libito conforme alle regole dell'arte; sono invece augusti insegnamenti, concernenti i fatti piú semplici, piú ineffabili, piú adorabili, che possono essere serrati e conchiusi, come in uno scrigno, nell'anima del credente. Poiché sebbene sviluppare un'idea non sia altro che dedurre proposizioni da proposizioni, tali proposizioni sono sempre formate nell'ambito dell'idea o intorno all'idea, e non costituiscono in realtà ciascuna e tutte insieme che le facce prismatiche dell'idea medesima. Solo cosí può spiegarsi la maniera particolare a norma della quale si è argomentato su testi specifici e parole singole della Scrittura dei Padri dei primi secoli. Solo cosí si spiegano l'ardimento e la decisione con cui questi Padri assolsero il loro lavoro. La consapevolezza del trascendente oggetto che la loro fede offriva alla loro sacra speculazione, e nel quale essi vivevano, li metteva in grado di applicargli i passi singoli della Scrittura, costituendosi questa salvaguardia infallibile dalle possibili deduzioni deviatrici. Si suol rimproverare a questi Padri di essere fiacchi e fragili nelle loro capacità dialettiche. Poiché quando noi argomentiamo sotto l'azione prepotente e c.ontinua di una impressione di cui i nostri ascoltatori o i nostri lettori non hanno fatto la personale esperienza, facciamo sempre la figura di poverissimi e deficientissimi dialettici».

Con queste ultime parole Newman, ancora ministro anglicano, dava a divedere quale fosse la sorgente prima della sua vitalità religiosa, quali fossero i termini confinali della sua apologia.

Se nelle esplorazioni solo piú tardi formulate e pubblicate circa la natura specifica e caratteristica dell'adesione di fede, che è una specie di ragione assoluta e inconfondibile del nostro spirito vivente, Newman si era fermato su questa nostra capacità spirituale di aderire a realtà trascendenti, indipendentemente dall'effimero ed illusorio sostegno della ragione ragionante, qui, nella considerazione della trasmissione storica della fede religiosa, egli sentiva, analogamente, di dover porre l'insistenza della sua apologia sul fatto che le formule dogmatiche in tanto hanno valore e in tanto conservano la loro identità sostanziale, in quanto germogliano e scaturiscono da una permanente consapevolezza del valore soprannaturale e carismatico della rivelazione di Dio.

Quel che nel sermone del 1843 era stato appena accennato, diviene sistematica e coerente esposizione nel trattato del 1845. Qui Newman si fa a studiare minutamente il meccanismo mercè cui l'esperienza religiosa si traduce in terminologia dogmatica e ad additare i mezzi per controllare e raffigurarsi lo spiegamento di tale meccanismo.

Come si sa, la Chiesa anglicana aveva fatto fondamento basilare del suo edificio dottrinale ed ecclesiastico il presupposto che solo i Padri dei quattro primi secoli e solo i primi quattro Concili ecumenici abbiano tutelato l'indefettibile purezza della rivelazione cristiana. I secoli posteriori, col predominio della Chiesa romana, avrebbero finito col rappresentare tutta una serie di corruzioni e di aggiunte parassitarie. Newman accusa di contraddizione questa posizione anglicana. Le variazioni che si rimproverano alla Chiesa romana dopo il Concilio di Calcedonia possono bene riscontrarsi anche nella età precedente.

«I teologi anglicani» scrive il Newman, «ritengono che la storia della Chiesa d'Oriente e d'Occidente ci offra dapprima lo spettacolo di un cristianesimo puro, e poi quello di un cristianesimo corrotto e depauperato, donde per essi il dovere di tracciare una linea netta di demarcazione fra i due periodi, di circoscrivere le date a cui risalgono queste diverse corruzioni. E pensano di aver trovato la linea di demarcazione nel testo famoso di Vincenzo Lirinense. Ogni dogma è rivelato e ci viene dagli Apostoli: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus. Questo principio discerne infallibilmente attraverso tutta la storia quelle dottrine che posseggono autorità da quelle che appaiono come semplici opinioni. Esso offre il destro di ripudiare ogni errore nell'edificio di una salda e invulnerabile teologia. Appartiene al dogma cristiano cioè tutto quello che è stato ammesso, sempre, dappertutto, da tutti. Ecco senza dubbio una soluzione di tutte le difficoltà, una dilucidazione di tutte le aporie storiche. Ma chi può credere che sia agevole e piano applicare tale principio ad ogni caso particolare? Con esso si può piú facilmente determinare quel che il cristianesimo non è, che quel che il cristianesimo è. È un principio irrefutabile contro il protestantesimo (quando Newman parla di protestantesimo vuole additare le confessioni extracattoliche al di fuori dell'anglicanesimo) e fino a un certo punto contro Roma. Ma può divenire irrefutabile anche contro l'anglicanesimo, perché per andare a toccare Roma, deve toccare anche l'anglicanesimo. In sostanza la regola di Vincenzo Lirinense non possiede un carattere dimostrativo e matematico, ma soltanto un carattere morale. E per applicarla convenientemente, occorre una grande misura di buon senso».

Ancora una volta Newman poggia tutte le sue argomentazioni religiose sulla sua agguerritissima perizia storica. Chi può alla luce della documentazione storica riconoscere i caratteri della uniformità nello spazio e nel tempo del pensiero patristico dei primi secoli?

Il criterio della validità cattolica va cercato in un orizzonte piú vasto e piú largo. Bisogna applicare la teoria dello sviluppo agli scritti dei Padri come alla storia di tutte le controversie e di tutti i Concilî. E allora si vedrà che un rispettabile numero di pretesi corrompimenti dottrinari e pratici della Chiesa romana non sono che sviluppi coerenti ed esplicazioni indeclinabili.

La grande opera del Newman vuole essere appunto la ricostruzione di questo sviluppo e la determinazione delle note che possono e debbono contrassegnare lo sviluppo autentico, diversificandolo da quello che può e deve essere definito corrompimento.

La parte piú luminosa dell'opera è precisamente quella consacrata alla enumerazione di queste note.

Newman vi dà una dimostrazione veramente egregia e squisita della multanime sensibilità del suo spirito e della vastità della sua cultura. La piú consumata perizia psicologica e la piú vasta e signorile erudizione storica si dànno convegno in questa sezione del saggio sullo Sviluppo della Dottrina cristiana per contraddistinguere, in maniera che non siano piú possibili dubbio o confusione, quella che è la continuità vivente di un'esperienza religiosa associata, da tutte le fogge di deformazione e di adulterazione delle formulazioni dottrinali sempre esposte a smarrire il contatto con la dialettica profonda e cogente della vita, soprattutto carismatica.

La prima nota che il Newman definisce come contrassegnante l'autentico sviluppo vitale dalla contraffazione e dalla corruzione di una idea è fornita dall'analogia tratta dallo sviluppo fisico di un organismo. L'animale adulto non mantiene forse le medesime forme della sua nascita? L'aveva già detto Vincenzo Lirinense, adoperando la medesima comparazione: «La religione dell'anima si conforma alle leggi del corpo, il quale attraverso gli anni si sviluppa per raggiungere le sue proporzioni normali, pur rimanendo costantemente conforme e simile a quello che esso era alle origini. Anche la fede cristiana è un organismo vivente». Le sue alterazioni possono essere state e sono state di fatto profonde; radicali, Newman sembra quasi insinuare. Quel che conta è la conservazione gelosa del tipo iniziale. L'anglicano convertito trova modo di ricorrere, nella illustrazione del suo pensiero, ad analogie eccezionalmente audaci, che fan vedere quanto largo ed elastico fosse il suo modo di considerare le vicende e le modificazioni della fede cristiana nei secoli. «Il medesimo individuo», egli dice, «può passare dall'una all'altra filosofia, apparentemente irreconciliabili tra loro, senza per questo dar prova di incoerenza. In lui la successione delle dottrine non sta che a segnare l'adozione di strumenti accidentali e la espressione provvisoria di quel che egli è intimamente, dalle origini del suo essere consapevole fino alla fine. Il calvinismo, ad esempio, si è trasformato in unitarianismo. Probabilmente non si tratta di uno sviluppo nel senso piú rigoroso del termine, ma non è neppure un corrompimento. Già Harding, tre secoli fa, nella sua polemica con Jewell, aveva previsto una evoluzione di questo genere come necessaria. Eppure si tratta di un'evoluzione che si è effettuata in un solo paese. Si riguardi anche la storia del carattere proprio di ogni nazione. Premesso che si tratta di un'analogia piú che di un esempio rigoroso, non reputo intempestivo, «dice Newman», sevirmene, poiché il rapporto fra lo sviluppo delle idee e quello dei caratteri è piuttosto intimo. L'Inghilterra fu altra volta il sostegno piú leale e piú fervido del Papato romano: oggi ne è il nemico piú geloso. Un cambiamento analogo può riscontrarsi in Francia, in altri tempi figlia primogenita della Chiesa e fior fiore della cristiana cavalleria. Oggi essa è democratica e negli ultimi anni ha pencolato verso l'incredulità. Eppure né presso il popolo inglese né presso il popolo francese un cambiamento di questo genere potrebbe essere definito un corrompimento». Dopo di che Newman, passando ad un livello piú alto e piú significativo di reciproche analogie lancia l'asserzione finale: «Riflettete, se vi piace, alle vicende morali del popolo eletto. Quale contrasto tra la bassezza e la miseria degli ebrei servi in Egitto e lo spirito cavalleresco, se posso esprimermi cosí, dell'epoca di David o il fanatismo violento che sfidò Tito e Adriano! Deboli e impotenti, erano pronti a piegar le ginocchia dinanzi al primo idolo che fosse capitato dinanzi ai loro occhi. Ed ecco che divengono quei foschi iconoclasti e quei nazionalisti esaltati che ci rivelano gli ultimi tempi della loro storia. Durante tutto il lungo corso della loro missione soprannaturale, è cosa ben sorprendente vederli destituiti, all'apparenza, di tutto ciò che sogliamo chiamare genio, quando si pensa poi ai doni meravigliosi che molti rilevano oggi in essi. La vera causa di corrompimento per una forma religiosa associata, per quanto paradossale possa suonare l'aforisma, può ritrovarsi nel rifiuto da essa opposto a seguire il cammino inarrestabile della dottrina che si evolve, e di irrigidirsi ostinatamente nelle forme del passato. Cristo trovò il suo popolo strettamente fedele alla lettera, e lo condannò, perché non sapeva progredire fino al suo spirito, vale a dire fino al suo logico sviluppo. Il Vangelo non è che lo spiegamento della Legge, eppure non si potrebbe immaginare una differenza piú profonda di quella che noi possiamo osservare fra la regola implacabile di Mosè e la grazia e la verità venuteci da Gesù Cristo». Ai suoi tempi, Gioacchino da Fiore, con una sentenza memorabile, aveva proclamato che il transito da economia ad economia sul terreno religioso non è corruzione, ma esplicazione e trionfo della. Verità trascendente comunicata da Dio. Senza conoscere Gioacchino da Fiore, Newman ammetteva che le trasformazioni dottrinali non incidono sulla continuità del tipo vivente di una esperienza sacrale associata, fedele ai postulati e alla vocazione delle origini.

La seconda nota appunto che, a giudizio di Newman, contraddistingue l'evoluzione legittima dalle alterazioni corrompitrici in una tradizione sacra, è costituita dalla salda continuità dei principi. Perché questi principi sono al cospetto delle formulazioni dottrinarie quel che gli assiomi geometrici sono al cospetto delle definizioni scolastiche. I principî valgono piú delle trascrizioni concettuali e vivono negli strati profondi della coscienza credente, al sicuro dalle fluttuazioni di scuola e di sistema.

Di qui la terza nota dell'evoluzione legittima, rappresentata e costituita da una capacità feconda di assimilazione e di assorbimento, in virtú della quale la grande realtà cristiana ha potuto incorporarsi progressivamente tutte le forme culturali, tutti i principi filosofici compatibili in qualche modo con le realtà profonde dell'esperienza carismatica che è alle radici della permanente rivelazione evangelica nel mondo. «Ogni idea che riesce a dimostrare, vivendo, che possiede in sé indistruttibili capacità di sopravvivenza, ha assimilato qualche cosa da fonti estranee. Ora, lungi dal rappresentare un sintomo di corrompimento e di morte, simile incorporazione non è altro che un normale mezzo di sviluppo e di accrescimento vitali. Anzi, quanto piú l'idea è forte e viva, tanto piú può fare a meno di armarsi di cautele gelose e di farsi dominare dall'incubo di possibili deformazioni. Le membra robuste di un organismo giovane ed energetico amano i piú arditi esercizi di duttilità e di elasticità. Una fibra salda fa molto presto a debellare l'insidia di una malattia. Non diversamente, una scuola ricca di vitalità può anche permettersi il lusso di arditezze concettuali, di cui l'insito vigore correggerà l'audacia folle e temeraria. Al contrario, un sistema calcificato e vulnerato sarà tratto di istinto a trincerarsi in una clausura e in una rigidezza pronte agli inconsulti ostracismi. Formule di fede, giuramenti, articoli di credenza sono indispensabili soltanto ad una religione anemica. Per rimanere fedele a se stesso il presbiterianesimo scozzese ha bisogno di una tutela legale. Là dove questo appoggio gli manca, esso svapora in un arianesimo anacronistico o in un unitarianesimo razionalistico. Molto piú agilmente e abilmente che altri organismi confessionali, la Chiesa di Roma può trarre ispirazione dalle convenienze del momento. Essa sa molto bene che la tradizione vivente non le mancherà mai. Le si rimprovera talvolta di mancare di scrupoli morali e di trasandare e tenere in non cale i principî. Niente di tutto questo. Essa sa solamente prescindere dalle forme tradizionali, sicché, come i voti servono quale utile difesa e baluardo pragmatico ad una virtú tentennante, cosí le regole generali costituiscono il ricovero estremo di una autorità compromessa». Si direbbe che per una reviviscenza del vecchio spirito evangelico, portato dai messaggeri di Gregorio Magno oltre Manica in terra di Anglia, questo anglicano convertito avvertisse, nel periodo dominato dal Concilio vaticano, l'illimitata fluidità della genuina esperienza cattolica, nel piano di sviluppo della religiosità mediterranea. Sarebbe stata la Chiesa di Roma capace di ascoltare il monito solenne, contenuto in questa apologia dell'ex predicatore di Oxford?

Continuando l'enumerazione delle note che distinguono nettamente la normale evoluzione dogmatico-religiosa dalle deviazioni degli umani corrompimenti, il Newman segnala la coerenza logica che è organicità di pensiero e quindi garanzia di una trasmissione intellettuale regolare. «Un'idea si accresce e si rifrange in uno spirito, in virtú della stessa e sola propria presenza. Essa si fa sempre più familiare, si precisa e si delinea nei suoi contorni, scopre e mette a nudo i suoi tentacoli e le sue capillari infiltrazioni. Offre altri aspetti della sua prismatica intima ricchezza, tradisce e palesa elementi nascosti e sottili, conformandosi alla natura intellettuale e morale dello spirito in cui opera. Le circostanze esteriori favoriscono la formulazione sempre piú ricca delle idee che covano negli strati profondi dell'intelligenza. Per difenderle, occorre analizzarle, individuarne lo scambievole concatenamento. Non si penserà per questo che si tratti di un processo razionalista. Ci sono conoscenze senza parole che solo il processo lento dei secoli trasferisce nella zona della formulazione teologale».

Per questo, e qui il Newman individua la sesta nota del retto sviluppo religioso, c'è sempre in una fede profondamente vissuta una stupenda anticipazione dell'avvenire. E per questo, ed eccoci all'ultima nota, un vigore ed una vitalità congeniti, congeniali, al sicuro da ogni durevole eclissi, sono di per sé sintomo e argomento della inalterabile legittimità di una tradizione religiosa genuina.

Quando il Newman annoverava cosí le note caratteristiche della sana evoluzione cristiana, i suoi occhi erano stati educati, dal lungo e paziente tirocinio nello studio del cristianesimo antico, a contemplare nella sua lucentezza quella Chiesa dei Padri, quella comunità cristiano-primitiva di cui la lontananza fascinatrice di Roma gli dava a credere si conservassero laggiu l'immagine fedele e il nucleo inalterato.

«Ecco la Chiesa dei primi secoli», egli scrive. «Una comunione religiosa che presume di portare nel cuore l'appello indeclinabile ad una missione divina, e che chiama a sé tutti gli altri organismi religiosi eretici o infedeli. Si tratta di un organismo ben costituito e saldamente disciplinato. Si tratta di una specie di società segreta, che tiene avvinti scambievolmente i suoi membri mercè azioni mistiche e impegni trascendenti, che gli estranei sarebbero incapaci di definire. Questa comunione religiosa si stende su tutto il mondo conosciuto. Può apparire debole e insignificante in ogni località, ma è formidabile nel suo insieme. Può essere inferiore a tutti gli altri organismi religiosi presi insieme, ma è piú grande di ciascuno di essi preso separatamente. È l'avversaria naturale di tutti i governi che le sono estranei. È intollerante ed usurpatrice. Tende a formare la società su un nuovo modello. Vìola le leggi, scinde in sé le famiglie. È una superstizione grossolana. La si accusa dei delitti piú repellenti. È tenuta in non cale dalla cultura del tempo. Si presenta suscitando orrore e sdegno alla fantasia di molti. Non c'è in verità una comunione simile al mondo».

Cosí, con pochi tratti magistrali, Newman, dopo avere mirabilmente definito la dialettica vivente che ha presieduto allo sviluppo della società cristiana nei secoli, avvertiva d'istinto come questa comunità fosse stata alle origini lo scandalo della cultura borghese, della politica ufficiale, dell'onestà codificata e farisaica. Eppure era lí la vita spirituale del mondo.

Il cristianesimo, per essere vivente, deve essere, nella pienezza dei tempi, quel che è stato alle origini, fermento e sale, cioè, pronto a subire lo scherno, il disprezzo, la persecuzione.

Ed ecco come Newman concepisce il cristianesimo nella vita contemporanea: «Se c'è oggi al mondo una forma di cristianesimo accusata di superstizioni grossolane, di formule mutate dai riti e dai costumi del paganesimo, di attribuire alle proprie forme e alle proprie cerimonie una virtú occulta; se esiste una religione che sia considerata come pregiudizievole ai liberi movimenti dello spirito, fatta per anime deboli e ignoranti, sostenuta dalla sofistica e dall'impostura; che contraddica la ragione ed insegni una fede decisamente in contrasto con la ragione; una religione che imprima sulle anime idee spaventose sul peccato e le conseguenze del peccato; una religione che sia additata come tanto evidentemente malvagia da poter essere calunniata ad ogni libito; una religione tale che gli uomini considerino chi ad essa si converta con un sentimento di disdegno, di timore, di disgusto, pari a quello soltanto con cui si può riguardare l'adesione al giudaismo; una religione che i ben pensanti confondano con l'intrigo e la cospirazione; una religione il cui nome maledetto sia impiegato come un'ingiuria; se esiste al mondo una religione di questo genere, bisogna pur riconoscere che tale religione non è diversa da quel cristianesimo, che questo mondo vide quando il cristianesimo per la prima volta uscí dalle mani del suo divino fondatore».

Parlando cosí, non senza sferzante ironia, Newman voleva dipingere la situazione fatta in Inghilterra a chi si fosse convertito alla Chiesa romana. Egli vedeva nel cattolicesimo la vera continuazione del cristianesimo primitivo, solo perché il cattolicesimo era, nel momento in cui Newman scriveva, inviso e tenuto a disdegno dalla massa colta della borghesia britannica. La sua anima profondamente religiosa ed evangelica sentiva che per il vero cristiano non c'è al mondo che ripudio e magari disprezzo. Ma la Chiesa appunto per questo non avrebbe dovuto mai fare appello a forze terrene, a complicità politiche, a condiscendenze sociali per accaparrarsi le simpatie del mondo.

Quando Newman, egli stesso ce lo dice, vuol decidere per sé e per gli altri quali possano essere lo sbocco e il porto di un'anima andata alla ricerca della sua adesione alla rivelazione di Dio, egli si domanda che cosa avrebbero fatto Sant'Atanasio o Sant'Ambrogio. La scelta dei nomi è sintomatica: Atanasio, il perseguitato da Costantino, Ambrogio, il vescovo che getta in faccia a Teodosio la sua rampogna e il suo ostracismo. Cosí vede Newman l'unico termine di confronto possibile per la professione di fede di un vero credente nel Vangelo. La sua apologia cristiana, la sua apologia religiosa, sono in pieno secolo decimonono una riaffermazione agostiniana dell'autonomia della Città di Dio.

Il suo sguardo d'aquila aveva visto di colpo dove si racchiudesse la crisi della Cristianità nel mondo contemporaneo. Avrebbe voluto apprestare i mezzi per superare questa crisi. Roma lo creò cardinale. Leone XIII con la porpora conferita all'umile oratoriano d'oltre Manica, come con le porpore conferite al Pitra e all'Hergenroether, credé di aver dato il lustro piú eccelso ai suoi inizi pontificali. In realtà, non fece altro che chiudere in piú stretta clausura le capacità proselitistiche delle dottrine di Newman, che trent'anni piú tardi sarebbero state condannate in quell'orientamento che ne rappresentava l'esplicazione logica e fatale: il modernismo.

Non diversamente, settecentocinquant'anni prima, la Curia aveva mortificato il sogno di Francesco d'Assisi, rivestendolo dell'insegna addomesticata di disciplinatore di un nuovo Ordine religioso.

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