XIV IL CONCILIO VATICANO

Ogni vita associata umana è, per definizione, rappresentativa e costituzionale. La creatura ragionevole non può non essere cellula vivente e responsabile, in una collettività che rispetti l'insindacabile autonomia di ogni spiritualità operante. Questo è doppiamente vero della vita associata religiosa, quando, al di là e al di sopra della naturale spiritualità inerente alla personalità umana, si spiega, in una federazione di anime, l'atmosfera di una superiore assistenza carismatica. Le memorie del cristianesimo primitivo parlano già, fin dalle origini, di una adunanza gerosolimitana, chiamata e convocata a risolvere il problema che si era profilato agli inizi stessi del proselitismo evangelico, sulla necessità e sulla convenienza di mantenere rapporti rigidi o elastici con la tradizione legale da cui il cristianesimo si distaccava, e sulla misura in cui la nuova comunità si sarebbe dovuta sentire associata e vincolata alla precedente economia della tradizione mosaica. E nel momento in cui l' adunanza gerosolimitana credé di poter adottare un provvedimento disciplinare in materia e si accinse a formulare la sua decisione, fu tratta istintivamente a usare la formula: «È parso allo Spirito Santo e a noi».

Lo Spirito Santo sarebbe stato costantemente il viatico e la garanzia della peregrinazione della Chiesa nel mondo e delle sue decisioni costituzionali nelle ore di trapasso del suo magistero.

La storia dei Concilî nella Chiesa è la storia delle espressioni ascendenti o discendenti della spiritualità e della idealità pura, nell'organismo visibile della comunità cristiana.

E in questa storia dei Concilî sono ritratte di scorcio e in embrione le fattezze dell'organismo ecclesiastico da momento a momento. Sono venti i Concilî che la tradizione ecclesiastica cattolica riconosce come ecumenici. Per tutto il primo millennio della storia ecclesiastica, essi, dal Concilio niceno, primo ecumenico, al sinodo di Costantinopoli dell'869, ottavo ecumenico, tenuti tutti in Oriente, riflettono le complesse vicende fra la potestà spirituale cattolica della sede primaziale romana e le aspirazioni ecumeniche della potestà politica romana, trasferita da Costantino a Bisanzio.

Consumatasi la rottura definitiva fra Roma e Bisanzio, la ecumenicità dei Concili comincia ad avere una portata ridotta: è l'Occidente che si raccoglie sotto l'egida della Chiesa romana, come già all'epoca di Leone III il Pontificato era riuscito a ricostituire in Europa un'unità continentale europea, surrogato di quella unità mediterranea, che la irruzione islamica aveva lacrimevolmente lacerato nel secolo settimo.

Solo il Concilio fiorentino del 1439 aveva riveduto affratellate la Chiesa d'Occidente e la Chiesa d'Oriente, in una ecumenicità paragonabile a quella dell'epoca di Efeso e di Calcedonia. Ma si era trattato di un incontro effimero e di una riconciliazione soltanto apparente. Gli eventi politici europei avevano seguìto la loro fatale traiettoria e l'ecumenicità romana aveva nuovamente dovuto ripiegare le insegne della sua ritentata conquista sulla Chiesa orientale.

Il Concilio ecumenico di Trento aveva dovuto prendere atto di una scissione cristiana piú propinqua e piú minacciosa. Il nord-est europeo si era staccato da Roma. E nella preoccupazione di contrapporre al messaggio della giustizia imputata una dottrina sacramentale ecclesiastica tanto piú rigida e tanto piú burocraticamente definita, l'ortodossia tridentina aveva aperto il varco, con le sue definizioni in materia di antropologia e di soteriologia, a sconfinamenti tendenzialmente pelagiani, di cui tutto il processo di laicizzazione della nostra spiritualità moderna avrebbe inesorabilmente sentito le ripercussioni e le conseguenze.

Dopo Trento, non si erano piú avuti Concilî ecumenici. Le grandi controversie suscitate nell'orizzonte della speculazione religiosa cattolica dalla comparsa del giansenismo e dal suo implicito tentativo di rivendicazione dei principî agostiniani, erano state bruscamente, ma non senza oscillazioni e tergiversazioni, risolte e tacitate da sentenze curiali, che venivano automaticamente a sacrificare e ad ottundere quel senso e quella esigenza di costituzionalità e di prassi rappresentativa, che avevano accompagnato per secoli la esplicazione delle necessità definitorie, nel laborioso processo della chiarificazione dottrinale nel cattolicesimo.

Pio IX sentí il bisogno di chiedere alla comunità ecumenica dei fedeli e alla sua rappresentanza gerarchica un parere o un consenso a definizioni dottrinali che determinassero una certa unità di orientamenti o di posizioni, in un mondo caotico quale quello germinato in Europa, sul terreno della cultura, dalle grandi crisi morali e intellettuali rappresentate dall'Illuminismo francese e dall'idealismo germanico.

Sarebbe molto difficile dire in quale proporzione le incertezze problematiche della situazione politica europea, specialmente riguardo al dominio territoriale del Papa, entrarono nei propositi di Pio IX, quando al tramonto del 1864 espresse per la prima volta, al Sacro Collegio, il progetto della convocazione conciliare. Sta di fatto che i cardinali approvarono all'unanimità il proposito papale, sicché Pio IX poté procedere senz'altro alla designazione di una commissione centrale, composta prima di cinque e poi di nove cardinali, con sei sottocommissioni, per la preparazione del progettato concilio. A ciascuna di queste fu assegnata una zona speciale della materia da trattare. E furono: la dogmatica, la sezione politico-religiosa, la disciplina, gli ordini religiosi, le Chiese orientali e le missioni, le cerimonie. Cosí ci si avviava, attraverso questi organi burocratici, alla convocazione della rappresentanza ecclesiastica universale che, strano paradosso, avrebbe questa volta, con la definizione della infallibilità pontificia, portato alla soppressione stessa del concetto di rappresentanza globale della comunità cristiana, in materia solenne di fede e di costumi.

Con l'enciclica Aeterni Patris del 29 giugno 1868, Pio IX fissava l'apertura del Concilio per la festa dell'Immacolata dell'anno successivo. Le commissioni avevano già allestito, per le prospettate discussioni dei vescovi e dei dignitari ecclesiastici che vi avrebbero partecipato, cinquantuno schemi dottrinali, raggruppati sotto i seguenti titoli: Circa fidem, De Ecclesia Christi, De matrimonio cristiano, Circa disciplinam ecclesiasticam, Circa ordines regulares, Circa res Ritus orientalis et Apostolicas Missiones.

Frattanto un articolo della rivista gesuitica romana Civiltà cattolica, del 6 febbraio 1869, aveva fatto comprendere chiarissimamente che il Concilio sarebbe addivenuto, si presagiva per acclamazione, alla definizione della infallibilità pontificia. L'annuncio veniva sufficientemente in anticipo per porre allo scoperto quale fosse l'atteggiamento dell'opinione cattolica universale dinanzi a questa prospettiva. Le polemiche arsero violente in materia. E in verità si comprende come dal punto di vista della normale economia della disciplina spirituale in un grande organismo religioso, come anche dal punto di vista della tradizione millenaria del cristianesimo organizzato, questa virtú definitoria accentrata nelle mani della Curia romana dovesse lasciare perplessi ed esitanti. Ché là dove lo Spirito di Dio interviene a sostenere e a premunire da ogni possibile deviazione il corso e la circolazione della esperienza carismatica, si sia al sicuro da qualsiasi errore e da qualsiasi irreparabile deviazione, è assiomatico. Ma in diciannove secoli di storia cristiana le vere espressioni dell'assistenza dello Spirito non si erano esplicate quando il corpo mistico di Cristo aveva avuto modo di ottenere una concreta e riconoscibile manifestazione attraverso l'adunata plenaria dei rappresentanti gerarchici del governo cristiano?

In Germama il Doellinger, decano dell'Università di Monaco di Baviera, aprí il fuoco con una pubblicazione clamorosa contro la prospettata definizione dell'infallibilità pontificia. In Austria-Ungheria, come in Francia e in Inghilterra, forti correnti di opposizione si delinearono. Il giorno in cui il Concilio fu inaugurato, i vescovi intervenuti erano divisi palesemente in due schiere: i fautori dell'infallibilità pontificia e gli avversari di essa. Pubblicazioni recenti hanno dimostrato quanto la corrente degli antiinfallibilisti fosse numerosa e pugnace. Essa però fu sopraffatta dalla corrente favorevole all'infallibilità papale, e il dogma dell'infallibilità papale uscí dal Concilio vaticano definito in questi termini: «Insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato, che il romano Pontefice, quando parla ex cathedra, quando cioè parla nell'esercizio del suo ufficio di Pastore e di Maestro di tutta la famiglia cristiana e in tale qualità definisce, in virtú della sua suprema autorità apostolica, una dottrina relativa alla fede o ai costumi che debba essere accettata da tutta la Chiesa, mercè l'assistenza divina a lui promessa attraverso il beato Pietro, gode di quell'infallibilità di cui il Divin Salvatore volle che fosse insignita la sua Chiesa, nel definire dottrine concernenti la fede e i costumi; insegniamo e definiamo perciò che queste definizioni del romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non già in virtú del consenso ecclesiastico».

Tutto bene ponderato e considerato, la definizione può essere anche suscettibile di una interpretazione che non lede e non annulla il carattere, diciamo cosí, corporativo dell'infallibilità dottrinale nella Chiesa visibile. Quando il Papa parli, secondo la formula ufficiale, ex cathedra, egli praticamente ed effettivamente non è che il portavoce e l'interprete sensibile di quella soprannaturale assistenza dello Spirito, che è dote inerente e inalienabile del corpo mistico di Cristo. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il Pontefice, vescovo di Roma, non è che la voce e la parola sensibilizzata dell'anima collettiva della Chiesa, che è il Paracleto stesso, Spirito inerrante e inerrabile. Si aggiunga che, per consenso dei commentatori piú scrupolosi delle definizioni conciliari, le occasioni nelle quali il Pontefice parla come maestro supremo dei fedeli, e come capo e disciplinatore visibile della Chiesa universale, sono pochissime. Il numero strabocchevole dei pronunciamenti pontifici romani rientra nel novero delle pratiche di ordinaria amministrazione, che non possono in alcuna maniera pretendere alla dignità di solenni definizioni infallibili. Il pericolo, caso mai, insito, dal punto di vista della costituzionalità e della corporatività nella vita spirituale del cattolicesimo, poteva nascere dal fatto che la genericità della formula adoperata dal Concilio poteva offrire il destro, ad apologisti sconsigliati, di far passare per definizioni infallibili decreti in realtà rivedibili e soggetti a cauzione. L'intransigenza gesuitica si sarebbe largamente avvalsa, dal '70 in poi, di questa ambiguità e di questa incertezza.

Comunque, noi riteniamo che nell'economia generale della vita cristiana moderna la grande importanza del Concilio vaticano, piú che nella definizione dell'infallibilità pontificia, sia piuttosto nei decreti concernenti i rapporti fra ragione e fede, fra natura e grazia, fra vita spirituale e vita carismatica.

Il Concilio vaticano emanava al riguardo due Costituzioni. La prima, De Fide Catholica, detta anche Dei Filius; la seconda, Constitutio dogmatica prima de Ecclesia Christi, denominata anche Pastor aeternus. La discussione della prima occupò ventitré congregazioni generali e, votata all'unanimità, fu promulgata nella sessione terza del Concilio, il 24 aprile 1870. Si suddivide in quattro capitoli e diciotto canoni. Il capitolo primo, che consta di cinque canoni, tratta di Dio, per condannare formalmente l'ateismo, il materialismo e il panteismo. Il capitolo secondo, dedicato alla rivelazione, definisce, in quattro canoni, la dottrina ufficiale circa la conoscenza naturale e quella soprannaturale di Dio, condannando cosí il tradizionalismo, e riaffermando l'origine divina e l'ispirazione soprannaturale della Bibbia. Il capo terzo, in sei canoni, delinea la dottrina ufficiale relativa alla fede, alla sua soprannaturalità, ai suoi collegamenti col magistero ecclesiastico. Infine il capo quarto, in tre canoni, tratta delle relazioni esistenti fra la fede e la ragione.

La Costituzione Pastor aeternus, tutta impegnata e diretta sulla definizione della infallibità pontificia, ne accenna i presupposti, rivendicando il primato giurisdizionale di Pietro e dei suoi successori.

Le ripercussioni politiche del Concilio vaticano e delle sue definizioni, alla vigilia dell'ingresso delle truppe italiane a Roma, furono in tutta Europa vaste e profonde. Quando il Concilio venne sospeso, il 20 ottobre del 1870, Roma era già diventata italiana da un mese. Due mesi prima, il 20 luglio, era stata da Pio IX concessa la facoltà a i vescovi presenti di tornarsene alle loro sedi. La media dei Padri presenti alle singole sedute si era mantenuta su un totale di settecento. La solennità dunque non era mancata al grande convegno. Che l'adunata avesse avuto anche carattere politico, lo si sarebbe potuto agevolmente constatare attraverso il fatto che truppe francesi erano presenti a Roma e attraverso l'altra circostanza che alla imponente inaugurazione del sinodo erano stati presenti gli ex-sovrani di Napoli, di Parma e della Toscana, tuttora riconosciuti come legittimi dalla Corte papale.

Non è arbitrario osservare che la proclamazione dell'infallibilità e il conseguente scisma dei «vecchi cattolici» dovettero essere per qualcosa nella politica religiosa di Bismarck. L'Austria, ad ogni modo, ne approfittò per denunciare il concordato del 1855.

Non è neppure arbitrario pensare che alla definizione del dogma dell'infallibilità non furono estranee preoccupazioni politiche collegate alle sorti pericolanti, anzi, ormai tramontate, della potenza territoriale della Santa Sede. Di questa scomparsa del potere temporale, apparso per tanti secoli come il palladio e il baluardo della spirituale autonomia del Papato, quali sarebbero state le conseguenze, le ripercussioni morali e religiose, richiedenti, quando che fosse, sanazione e riparazione?

Ma, lo ripetiamo, a noi preme piuttosto, qui nel piano di questa nostra valutativa rievocazione delle vicende cristiane nel mondo e nella storia, tentare di stabilire in quale misura le definizioni conciliari, sui dati capitali della conoscenza razionale e della adesione religiosa, rispondono alle postulazioni centrali del messaggio cristiano o se e in quale misura piuttosto non se ne discostano irrimediabilmente.

Quando il cristianesimo aveva preso l'aire della sua vittoriosa espansione lungo vie tracciate da Roma intorno al bacino del Mediterraneo, un maestro della nuova rivelazione aveva proclamato che la fede è «sostruzione e fondamento di realtà sperate, è argomentazione apodittica di realtà non percepite sensibilmente», ma avvertite da quel senso della numinosità e del mistero, che lo spirito umano reca in se stesso, come attitudine e capacità che lo distinguono da ogni altro essere vivente nel mondo. A poco piú di un secolo di distanza, un altro maestro cristiano aveva, dal canto suo, proclamato che i nuovi credenti si diversificavano dal resto degli uomini non per un loro comportamento eccentrico e abnorme, non per un loro atteggiamento di resistenza e di opposizione agli istituti vigenti intorno, non per un isolamento materiale e ostentato dal mondo circostante, ma unicamente sulla base di una loro intima disposizione spirituale al cospetto dei valori onde si intesse l'esistenza empirica di ogni giorno . Questo maestro cristiano, volendo graficamente disegnare la posizione tipica del fedele cristiano, aveva detto che questi può aver l'aria di camminare come gli altri sulla terra, ma ha invece la sua anima protesa verso il cielo. La ragione poteva essere lo strumento della sua comunicazione col mondo materiale e con la costituzione ufficiale della vita aggregata: la virtú di un collegamento soprannaturale con gli interessi eterni di Dio gli veniva unicamente dalla fede. E a qualche decennio di distanza il piú grande rappresentante dell'apologia cristiana gridava a tutta la cultura ufficiale e a tutta la politica legalizzata che il cristiano non faceva alcun affidamento sulle potenzialità della ragione, ma credeva l'inverosimile, professava l'assurdo, condivideva le speranze piú temerarie, sfidava, senza compromessi e senza tergiversazioni, tutte le dottrine delle scuole culturali umane, tutte le opere della legalità mondana.

Aderendo strettamente a simili postulazioni preliminari e adottando senza esitazione una pedagogia cosí paradossalmente audace, il cristianesimo delle origini aveva vinto il mondo. Ora, in un mondo tutto pervaso da aspirazioni razionalistiche e da fiducia illuministica nelle possibilità dell'umano progresso, la Chiesa romana, invece di risollevare il vessillo della sua inconfondibile dialettica, che è la realizzazione del bene e del vero attraverso la negazione della ragione, si acconciava alla moda comune e alle tendenze generali, per fare della ragione il preambolo della fede e la sua salvaguardia. Era un votarsi al suicidio.

Occorre esaminare minutamente le definizioni del Concilio vaticano. Le quali non si può dire che, anche nella loro formulazione esteriore, siano felici, chiare, organiche. Questa volta, il Concilio vaticano non aveva piú bisogno, come il precedente concilio ecumenico, quello di Trento, di affrontare i problemi dell'antropologia, dal punto di vista religioso e cristiano. Ormai, i problemi che erano stati posti sul terreno della insurrezione della riforma, relativi all'entità della colpa di origine e al mistero della salvezza, sembravano aver perduto ogni attualità. Il formularli ex novo avrebbe avuto sentore e sapore di anacronismo. Tutta la rapida evoluzione della cultura e della spiritualità degli ultimi secoli aveva nettamente spostato i termini della polemica religiosa verso il problema centrale del rapporto tra fede e ragione. Ma anche qui sarebbe stato anacronistico porre di fronte tali termini nel modo in cui li aveva visti la vecchia e sovrana apologetica cristiana. Del resto, il problema stesso dei rapporti tra fede e ragione non è in funzione del problema del peccato originale e delle sue ripercussioni sulla costituzione e sulla funzione attuale dell'essere umano? Alla luce della presupposta contaminazione e del riconosciuto depauperamento delle facoltà umane, in séguito alla caduta iniziale del vivere aggregato umano, i rapporti tra fede e ragione non possono esser quelli concentrici e gerarchicamente distribuiti di due capacità sovrapposte : sono piuttosto quelli di due forze rivali e di due elementi irreconciliabilmente ostili. Nel suo pessimismo originario, tendenzialmente dualista, il cristianesimo non poteva vedere e non aveva veduto di fatto la ragione e la fede come energie subordinate automaticamente l'una all'altra: al contrario, le aveva viste come due energie in atteggiamento di permanente rivalità e di irriducibile contrasto. La ragione non può offrire altro servizio alla fede che quello di rinunciare, per lei, alle sue deboli possibilità e alle sue fragili vedute.

Il Concilio vaticano invece mandava innanzi, nel primo capitolo della sua costituzione dogmatica De Fide Catholica, una professione di credenza in Dio come principio e fine di tutte le cose, riconoscibile in maniera indubbia mercè l'uso della ragione, e attraverso una irrevocabile deduzione dalla esperienza delle cose create, rimandando a quel versetto della Lettera ai Romani, nel capo I, dove l'Apostolo Paolo aveva proclamato che «le cose invisibili di Dio, dall'istante della prima creazione del mondo, possono intravvedersi, in quanto sono percepite attraverso le cose fatte».

In verità, era quanto mai arrischiato ricavare, dall'inciso paolino, un riconoscimento della validità di quello che nella filosofia tomistica era divenuto l'argomento cosmologico dell'esistenza di Dio. Paolo non è mai un dialettico puro. E la sua visione del mondo, una visione del mondo tutta dominata dal senso dell'imprevisto e dell'extralegale, dal momento che, come Paolo stesso dice nei capitoli finali della prima Lettera ai fedeli di Corinto, è effetto di un immediato e sempre rinnovato intervento di Dio che dalla seminagione del frumento nasca frumento, non è mai una visione che presti il fianco ad una argomentazione sillogistica e basata sulla nozione di causa, per giungere a Dio come a causa prima. Basta pensare, per convincersene, a quell'altro capitolo della Lettera ai Romani, dove San Paolo coglie la realtà del mondo come la realtà di un organismo vivente e strettamente solidale con gli uomini, che spia all'orizzonte l'istante in cui sia per apparire la gloria dei figli di Dio, sapendo che quell'istante segnerà anche per la creazione universa l'ora della propria reintegrazione e del proprio affrancamento da quella legge della sofferenza e della morte a cui l'ha sottoposta il peccato dell'uomo.

Ma a parte questa interpretazione arbitraria e arrischiata dell'inciso paolino, la definizione conciliare mancava di chiarezza e di correttezza nel modo stesso di associare la conoscenza naturale e la conoscenza soprannaturale di Dio. Per cui gli interpreti piú accreditati e ortodossi della definizione vaticana rimangono perplessi di fronte alle asserzioni conciliari, che appaiono a prima vista irreconciliabili ed incompatibili fra loro.

C'è un problema infatti che il Concilio vaticano sembra aver complicato anziché risolto. Ed il problema è questo: «Com'è possibile una naturale conoscenza del soprannaturale e in pari tempo come è possibile una soprannaturale conoscenza del naturale?».

I due oggetti di conoscenza infatti e le due forme di conoscenza si intersecano nelle definizioni conciliari in maniera sconcertante. Ecco il testo delle definizioni che qui ci interessano:

«La santa, cattolica e apostolica Chiesa romana crede e professa che uno è l'Iddio vero e vivo, Creatore Signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito per intelligenza e per volontà e in ogni perfezione. Ed essendo questo Dio una sostanza spirituale singolare, semplice del tutto e immutabile, deve essere riconosciuto e proclamato distinto dal mondo, in realtà e per essenza, beatissimo in sé e per sé, costituito ineffabilmente eccelso sopra tutte le cose che sono e possono essere concepite fuori di Lui. Questo solo vero Dio nella Sua bontà e nella Sua onnipotente virtú, non per aumentare la propria beatitudine e non per acquistare la propria perfezione, ma unicamente per manifestarla attraverso ai beni elargiti alle creature, con liberissima Sua determinazione, d'un tratto, agli inizi del tempo, creò dal nulla la duplice sfera di creature, la spirituale e la corporale, vale a dire l'angelica e la cosmica, e quindi l'umana, quasi fusione di entrambe, costituita di anima e di corpo. Tutto che Dio creò, Dio tutela e governa con la sua provvidenza, toccando da termine a termine, fortemente e tutto disponendo soavemente. Poiché tutte le cose sono nude e aperte agli occhi di Lui, anche quelle che son per essere in virtú della libera azione delle creature. La medesima Santa Madre Chiesa ritiene ed insegna che Dio, principio e fine delle cose tutte, può essere con certezza conosciuto in virtú del naturale lume dell'umana ragione di su le cose create, dicendo l'Apostolo: – Le cose invisibili di Lui, intravviste dalla creazione del mondo attraverso ciò che è stato fatto, si veggono. – Che tuttavia piacque alla di Lui sapienza e bontà rivelare se stesso e gli eterni decreti della propria volontà all'uman genere mediante un'altra via, soprannaturale, attestando l'Apostolo: – Dopo aver parlato molte volte e in molti modi ai nostri Padri, attraverso i Profeti, Dio, infine, in questi giorni, ci ha parlato nel Suo Figlio. – È da attribuirsi a questa divina rivelazione che quelle cose che nelle realtà divine non sono di per sé impervie e inaccessibili alla ragione umana possano essere conosciute, pure nell'attuale condizione del genere umano, da tutti in maniera spedita, con certezza salda e senza alcuna commissione di errore. Non per questo è da dirsi tuttavia che la rivelazione sia assolutamente necessaria: ma lo è solo perché Dio, nella sua infinita bontà, drizzò l'uomo ad un fine soprannaturale, a partecipare cioè ai beni divini, che superano del tutto la intelligenza della mente umana, dappoiché occhio non vide, orecchio non ascoltò, cuore umano non accolse quel che Dio ha preparato a coloro che lo amano.

«Questa soprannaturale rivelazione, a norma della fede della Chiesa universale, espressa e dichiarata dal sacro sinodo tridentino, è racchiusa nei libri scritti e, al di fuori dello scritto, in quelle tradizioni che, ricevute dagli Apostoli dalle labbra stesse del Cristo, o dagli stessi Apostoli sotto la dettatura dello Spirito Santo quasi da mano a mano trasmesse, pervennero fino a noi. I quali libri cosí del Vecchio come del Nuovo Testamento, integri e genuini in tutte le loro parti, quali furono enumerati nel decreto del medesimo Concilio e si hanno nella vecchia edizione della Volgata latina, debbono essere accolti come sacri e canonici. E la Chiesa ritiene questi libri per sacri e canonici, non per il fatto che, compilati mercè una pura e nuda industria umana, siano stati poi approvati dalla sua autorità, né per il fatto soltanto che racchiudano senza errore la rivelazione, ma per il fatto che, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e, come tali libri, sono stati alla Chiesa stessa affidati... Poiché l'uomo dipende integralmente da Dio come suo Creatore e Signore e poiché la ragione creata è del tutto sottomessa alla verità increata, noi siamo tenuti a prestare a Dio rivelante il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà nella fede. E questa fede, che è principio dell'umana salvezza, la Chiesa cattolica professa essere una virtú soprannaturale, mercè la quale, ispirando e aiutando la grazia di Dio, riteniamo vere le cose rivelate da Lui, non a causa di una intrinseca verità delle cose percepite nella luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità dello stesso Dio rivelante, il quale non può né ingannarsi né ingannare. Affinché però l'ossequio della nostra fede fosse commisurato alla ragione, volle Dio che agli aiuti interni dello Spirito Santo si abbinassero gli argomenti esterni della sua rivelazione, quei fatti cioè divini e innanzi tutto quei miracoli e quelle profezie, che, condimostrando riccamente l'onnipotenza e l'infinita scienza di Dio, risultassero segni indubitabili della divina rivelazione, conguagliati alle capacità intellettive di tutti. Sebbene l'adesione della fede non sia affatto un movimento cieco dello spirito, nessuno tuttavia può aderire e consentire alla predicazione evangelica, come è necessario per conseguire la salvezza, senza una illuminazione ed una ispirazione dello Spirito Santo, che impartisce a tutti una speciale dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Per cui la fede stessa in sé, anche se non operi attraverso la carità, è un dono di Dio, e il suo atto è opera pertinente alla salvezza, in cui l'uomo presta allo stesso Dio obbedienza, consentendo e cooperando alla sua grazia cui sarebbe in grado di resistere... Perché poi all'onere di abbracciare la vera fede e di perseverare in essa costantemente noi potessimo soddisfare, Dio, attraverso il suo Figlio unigenito, istituí la Chiesa, e alla istituzione di essa accompagnò palesi note, perché da tutti potesse essere riconosciuta quale custode e maestra della parola rivelata. Poiché alla sola Chiesa cattolica appartengono tutte quelle realtà che furono divinamente disposte, cosí copiose e cosí mirabili, a favore della credibilità evidente della fede cristiana. Ché la Chiesa stessa di per sé, e per la sua mirabile propagazione e per la sua fecondità inesauribile in ogni bene e per la sua eccelsa santità e per la sua universale unità, e per la sua invitta stabilità, rappresenta un insigne e perpetuo motivo di credibilità e una testimonianza invulnerabile della sua funzione di divina messaggera.

«L'ininterrotto consenso della Chiesa cattolica ha ritenuto sempre e ritiene tuttora esistere un duplice ordine di cognizione, distinto non solamente per il suo principio, bensí anche per il suo oggetto. Per il suo principio, perché nell'uno conosciamo in virtú di naturale ragione, nell'altro in virtú di una fede divina. Per il suo oggetto, perché al di là di tutto ciò che noi possiamo con la nostra ragione naturale raggiungere, ci vengono proposti, perché noi li crediamo, misteri nascosti in Dio, che non potrebbero essere noti se non fossero divinamente rivelati. Ma la ragione, illuminata dalla fede, quando assiduamente, piamente e sobriamente cerca, consegue, Dio favorendo, qualche intelligenza dei misteri, intelligenza fruttuosissima, e in virtú di analogia dalle cose che naturalmente conosce, e dai collegamenti scambievoli dei misteri stessi fra loro, e dal loro collegamento con l'ultimo fine dell'uomo. Giammai però è fatta capace di coglierli in profondità, a simiglianza delle verità che si costituiscono l'oggetto proprio e specifico della ragione. Poiché i divini misteri, nella stessa loro struttura naturale, travalicano in tale misura l'intelligenza creata, che anche quando sono discoperti dalla rivelazione e accolti dalla fede rimangono velati dallo stesso velame della fede e avvolti in una forma di caligine, finché noi peregriniamo lontani dal Signore, in questa vita mortale. Sebbene però la fede sia al di sopra della ragione, nessun contrasto tuttavia vero può esservi mai fra la fede e la ragione, essendo il medesimo Dio che discopre misteri e infonde la fede quegli che infuse nell'animo umano il lume della ragione. E Dio non può negare se stesso, né contraddire mai alla verità. La fatua apparenza di questa contraddizione sgorga principalmente dal fatto o che i dogmi della fede non siano stati intesi ed esposti a norma della interpretazione scolastica o dal fatto che le fluttuanti dilucidazioni delle opinioni private siano state prese per pronunciamenti della ragione. Per cui definiamo del tutto falsa qualsiasi asserzione contraria alla verità illuminata della fede. E la Chiesa che con l'ufficio apostolico di insegnare ricevette anche il comandamento di custodire il deposito della fede, possiede evidentemente il diritto e il còmpito divinamente conferitile di proscrivere una scienza che usurpa mentitamente il nome, affinché nessuno sia tratto in inganno dalla filosofia e dai vani sofismi. Ragione per la quale ai cristiani fedeli non solamente è fatto divieto di difendere come conclusioni legittime di scienza quelle tali opinioni che sono riconosciute come contrarie alla dottrina della fede, specialmente quando siano state condannate dalla Chiesa, ma sono tenuti inoltre a ritenerle per errori anche quando rechino la fallace appariscenza della verità. E non soltanto fede e ragione non possono mai venire fra loro a conflitto, ma sono in grado di attribuirsi a vicenda soccorso, ché la retta ragione dimostra i fondamenti della fede e illuminata dalla sua luce è in grado di apprestare la scienza delle cose divine e la fede libera e premunisce la ragione dagli errori e la arricchisce di molteplici cognizioni. Per cui non solamente la Chiesa non ostacola lo sviluppo delle arti e delle discipline umane, bensí al contrario le aiuta e le promuove nei piú vari modi. Non solamente non ignora e non tiene in non cale i vantaggi che dalle arti umane e dalle discipline della cultura promanano a favore della vita degli uomini, ma riconosce che esse, promanando da quell'Iddio che è Signore delle scienze, qualora siano legittimamente coltivate, possono condurre e conducono a Dio con l'aiuto della Sua grazia. Per cui la Chiesa non vieta affatto che queste discipline, ciascuna nel proprio ambito, facciano ricorso ai propri principî e al proprio metodo. Ma, riconosciuta tale libertà, di una cosa sola prende cura, che cioè non accolgano in sé errori, ponendosi in conflitto con la dottrina divina e al di là dei propri confini non invadano e non perturbino tutto quello che è di spettanza della fede. Poiché la dottrina della fede che Dio rivelò, non fu proposta agli ingegni umani perché fosse perfezionata a modo di una escogitazione filosofica, ma fu affidata alla sposa di Cristo, da custodire fedelmente, da interpretare infallibilmente, come un divino deposito. Per cui quel medesimo senso dei sacri dogmi si deve in perpetuo conservare che la Santa Madre Chiesa dichiarò una volta, né da tal senso ci si deve mai allontanare sotto la parvenza e sotto il nome di una piú alta intelligenza».

Che tutto questo offra il fianco a parecchi dubbi ed aporie è stato riconosciuto da esegeti ortodossi di scrupoloso senso religioso e di alto scrupolo filosofico.

Il pensiero del Concilio vaticano in queste enunciazioni è stato con molta chiarezza riassunto cosí da interpreti ortodossi: «Si dànno due ordini distinti di conoscenza: l'uno avente per principio la ragione naturale e per oggetto le verità alle quali appunto la ragione naturale può giungere; l'altro avente come principio la fede divina, e come oggetto la rivelazione di quei misteri nascosti in Dio, che, appunto in quanto tali, sono fuori delle verità alle quali la ragione naturale può giungere. L'ordine di conoscenza avente come principio la fede divina e come oggetto la rivelazione, è appunto quella via soprannaturale, mediante la quale piacque a Dio di rivelare Se stesso e gli eterni decreti della Sua volontà. Ma la Chiesa apprezza e favorisce anche l'ordine di conoscenze proprio alla ragione naturale ed anzi riconosce alla ragione naturale la giusta libertà di valersi nelle sue indagini dei principî e dei metodi che le sono propri, purché essa rimanga nei limiti degli ambiti di sua competenza. E quando la ragione umana coltiva la scienza delle cose divine, può farlo soltanto se illuminata dalla fede e sostenuta dal dono della grazia di Dio; ma anche allora la ragione riuscirà a conoscere i misteri divini soltanto velatamente e per analogia con gli oggetti della sua conoscenza naturale. Pertanto: chiara distinzione fra la ragione intesa come naturale principio della conoscenza degli oggetti naturali e la fede intesa come principio soprannaturale della conoscenza della obiettiva e suprema verità soprannaturale, ma anche armonia fra questi due ordini di conoscenza; quindi si potrebbe dire: una gnoseologica armonia di distinti. La questione diventa piú complicata quando si tratta di distinguere e di distribuire gli oggetti e le verità tra questi due ordini di conoscenze. Si direbbe anzi che tale distinzione e distribuzione costituiscono una delle principali fonti di incertezze e di perplessità, non soltanto per quegli uomini del Novecento che, pur sentendo attrattiva per la Chiesa cattolica, stentano a riconoscerla come colei che sola può assolvere la missione di condurre l'uomo a realizzare il suo ideale, ma anche è motivo di imprecisione e di turbamento per uomini che si professano apertamente cattolici».

E, in verità, si direbbe che definizioni piú intrinsecamente contraddittorie e disorganicamente giustapposte non si sarebbero potute emanare, a proposito di questo centralissimo problema di ogni vita spirituale, e in particolar modo della nostra tradizione spirituale mediterranea, che è il problema dei rapporti fra vita naturale della ragione e vita sovrannaturale della fede e della grazia.

Evidentemente, per volere troppo abbracciare, il Concilio vaticano ha finito col non stringer nulla e con l'esporre il magistero cattolico e piú genericamente l'efficienza della didattica pubblica e della pedagogia del cristianesimo al piú disperato degli insuccessi, alla piú inguaribile delle impotenze.

Se questa nostra lunga esposizione delle sorti che hanno accompagnato il cammino del cristianesimo nella storia ha una lezione da impartire e un significato da rivelare, questa lezione e questo significato sono tutti espressi nella seguente formula: la virtú pubblica e la capacità pedagogica del messaggio cristiano sono stati sempre e invariabilmente in ragione inversa della importanza assegnata e della fiducia riposta dagli organi ufficiali della tradizione cattolica e in genere dai maestri della società credente, nelle possibilità della umana ragione, nella logica della storia, nelle forze della civiltà empirica, nella giustizia degli istituti politici terreni. Il cristianesimo ha vinto e signoreggiato il mondo, solo quando ha detto e operato partendo dal presupposto che la ragione tende sempre a giustificare le umane aberrazioni, che gli istituti umani sono l'espressione di volontà brutali di predominio e di vendetta, che se l'uomo non dirige i suoi sguardi in un mondo di realtà superiori, il cui conseguimento è elargizione di Dio, la vita aggregata umana si trasforma o meglio si riduce ad essere automaticamente, secondo il memorabile inciso agostiniano, un latrocinio organizzato e uno scatenamento di egoismi belluini.

Noi abbiamo visto come la funzione del cristianesimo nella storia si sia andata progressivamente affievolendo, fino a scomparire del tutto, mano mano che l'ufficiale tradizione cristiana veniva a compromessi e ad adattamenti con tutto quello che era empirico, terreno, angusto, circoscritto, razionale, intorno ad essa.

Noi abbiamo visto come quell'Illuminismo che aveva presieduto nel secolo XVIII allo scatenamento di tante forze rivoluzionarie e sovvertitrici in Europa, non era altro che l'estrema applicazione e il conseguente epilogo di presupposti latentemente e potenzialmente antievangelici, posti già da quella filosofia che, entrata dopo il Mille nel dominio della speculazione teologale, aveva creduto di poter fare dell'atto di fede la conclusione di un sillogismo, e della vita carismatica il risultato indeclinabile di un procedimento dialettico.

Ora, in pieno periodo di visione storicistica e panlogistica dell'universo, il Concilio vaticano, anziché tornare ad una riaffermazione integrale ed intransigente della trascendenza assoluta del patrimonio cristiano, della radicale soluzione di continuità fra il mondo del pensiero e il mondo della fede, riaffermazione che sola avrebbe potuto dare al cristianesimo la sua smarrita efficienza, emanava una serie di proposizioni mal giustapponibili, nelle quali i limiti confinali tra pensiero e credenza religiosa, anzi che essere nettamente, ruvidamente indicati, venivano nebulosamente confusi.

È vero che il Concilio vaticano, citando male a proposito incisi neotestamentari e altre vecchie definizioni conciliari, si sforzava di mantenere intatta la distinzione tra proposizioni razionali e misteri rivelati. Ma poi autorizzava la ragione a illuminare il mistero e abbassava il mistero a garanzia avallante l'umana dialettica.

Non era questo il modo di garantire la virtú della fede religiosa che è valida solo quando fa a meno e ripudia la ragione. Il vecchio aforisma paolino non esserci fede e speranza che delle cose non viste è, esso solo, la tessera di riconoscimento di chi procede nel mondo, traendo luce e conforto solo dall'invisibile.

Verrebbe fatto di pensare che conferendo alla ragione poteri negatile sempre dalla sana tradizione del cristianesimo, l'ortodossia curiale fosse istintivamente tratta a poggiare tanto maggiormente sulla capacità correttiva, attribuita in pari tempo all'insegnamento infallibile del Pontificato, quanto piú aveva lasciato campo libero alle elucubrazioni dell'umano pensiero.

Non bisogna mai dimenticare che tutto, al concilio vaticano, fu dominato dalla prospettiva della definizione dell'infallibilità pontificia. Si poteva pur largheggiare con la ragione, quando le si poneva a fianco questa infallibile virtú del magistero ecclesiastico. Ma non si avvertiva che, in quell'economia complicata e sottile che regge la vita associata degli uomini, quando si concede qualcosa alla ragione, diventa poi completamente superfluo metterle a fianco una specie di sospettoso gendarme istituzionale. La ragione non la si disciplina che fondamentalmente negandola o additandola aperta al dominio di Satana.

Alla Costituzione De Fide Catholica il Concilio vaticano faceva ad ogni modo seguire, il 18 luglio 1870, nella sua sessione IV, la Costituzione dogmatica De Ecclesia Christi: «L'eterno Pastore e il vescovo delle nostre anime, onde rendere perenne l'opera della salutifera redenzione, decise di edificare la santa Chiesa, dove i fedeli tutti potessero essere ospitati, stretti vicendevolmente dal vincolo della fede e della carità, quasi nelle mura della casa del Dio vivente. Per questo, prima di essere esaltato in cielo, Egli invocò il Padre non solamente a favore dei suoi Apostoli, bensí anche a favore di tutti coloro che sarebbero stati per credere in Lui attraverso la loro parola, e chiese che tutti fossero una cosa sola, quali lo stesso Figlio e il Padre una cosa sola sono. Come pertanto inviò gli Apostoli, che aveva prescelto di mezzo al mondo, per aggregarli a sé, non diversamente da come Egli era stato mandato dal Padre, cosi: Egli volle che nella Sua Chiesa ci fossero pastori e dottori, fino alla consumazione del tempo. E affinché l'episcopato fosse uno ed indiviso e affinché la moltitudine universa dei credenti si conservasse nell'unità della comunione e della fede, in virtú di sacerdoti strettamente aderenti l'uno all'altro, preponendo il beato Pietro a tutti gli altri Apostoli instituí in lui un perpetuo principio ed un visibile fondamento della duplice unità. E poiché le porte dell'Inferno insorgono d'ogni parte con una furia ogni giorno crescente contro tal fondamento divinamente posto, col proposito, se possibile, di sovvertire e disgregare la Chiesa, noi, in vista della custodia, dell'incolumità e incremento del cattolico gregge reputiamo necessario, con la approvazione del sacro Concilio, proporre la conveniente dottrina circa la istituzione, la perpetuità e la natura del sacro primato apostolico, in che è tutta la forza e la solidità della Chiesa ecumenica, al cospetto di tutti i fedeli, perché la credano e la professino, a norma dell'antica e costante fede della Chiesa universale, proscrivendo e condannando nel medesimo tempo gli errori contrari, cosí pregiudizievoli al gregge del Signore».

L'esordio è solenne ed eloquente. Il Concilio sembra avere la sensazione precisa dello scompaginamento profondo che si è effettuato negli ultimi secoli sotto la pressione dei movimenti nazionali nella struttura e nella sostruzione delle concezioni ecumeniche del cattolicesimo tradizionale.

Ma a questa sensazione precisa e a questa consapevolezza lucida del logorìo e dell'affievolimento, cui sono venute soggiacendo le tradizioni universali del romanesimo cattolico, tiene adeguatamente dietro la sagace e appropriata valutazione dei mezzi occorrenti alla bisogna, per restaurare e per rafforzare nel mondo cattolico la pienezza della fede nei carismi e nella superiore anagrafe della grazia?

Noi abbiamo veduto come nelle precedenti definizioni conciliari circa i rapporti tra conoscenza razionale e conoscenza di fede si era venuti a stabilire poco chiaramente una gerarchia ed una compartecipazione che lasciavano funestamente nell'ombra e nella indistinzione i limiti nettamente divisori fra la pura dialettica razionale e la superiore esperienza del dominio in cui si realizza e si celebra il mistero della salvezza religiosa e cristiana. Orbene: si direbbe, come già abbiamo accennato, che solo per il fatto che non si erano nettamente distinte le zone della ragione e della fede, ora, di rimbalzo, nell'additare i mezzi della solidarietà religiosa e dell'universale fraternità nella vita sacramentale, si faceva meno appello alle auguste realtà sacramentali della vita ecclesiastica, per puntare e circoscrivere tutta la forza del magistero e della disciplina cattolici, nell'esercizio infallibile dell'autorità pontificale.

La Costituzione dogmatica, relativa alla Chiesa di Cristo, continuava col ribadire l'istituzione del primato apostolico in Pietro, con riferimento alle parole pronunciate da Gesù a Pietro, secondo la testimonianza del capo XVI del Vangelo di Matteo, dopo la professione di fede di Pietro stesso nel territorio di Cesarea di Filippo. Dopo di che la Costituzione continuava con l'asserire la perpetuità e la continuazione di questo primato di Pietro nella successione dei romani Pontefici, e sulla base di questa perpetuità ininterrotta definiva solennemente la forza e la ragione del primato pontificale romano. Ci si avvicinava cosí alla definizione memoranda della pontificia infallibilità:

«Per cui insegniamo e dichiariamo che la Chiesa romana, per disposizione del Signore, gode di una preminenza di potestà ordinaria sopra tutte le altre chiese; che questa potestà giurisdizionale del Pontefice romano, che è vera potestà episcopale, è immediata, al cospetto della quale i pastori e i fedeli di qualsiasi rito, di qualsiasi dignità, cosí singolarmente presi come nel loro complesso, son tenuti da un vero obbligo di subordinazione e di obbedienza gerarchica, non solamente in tutto ciò che riguarda la fede e i costumi, bensi anche per tutto ciò che si riferisce alla disciplina e al governo della Chiesa, disseminata in tutto l'universo. Di modo che, mantenutasi questa unità di comunione e di professione della stessa fede col Pontefice romano, la Chiesa di Cristo sia veramente quel che deve essere: unico gregge sotto un solo sommo pastore... Da tale suprema potestà di reggere e di governare la Chiesa universa, di cui fruisce il romano Pontefice, consegue che questi abbia il diritto, nell'esercizio delle sue mansioni, di comunicare liberamente con i pastori e con le greggi di tutta la Chiesa, affinché pastori e greggi possano da lui essere ammaestrati e diretti sulla via della salvezza, per cui condanniamo e riproviamo l'opinione di coloro i quali sostengono che si possa lecitamente impedire questa comunicazione del Capo Supremo con i pastori e con le greggi disseminati nel mondo, o tale comunicazione riguardano e ritengono sottoposta alla potestà laica, sicché quanto è statuito dalla Sede Apostolica o sotto la sua autorità in vista del governo ecclesiastico, non possa aver valore ed efficienza se non quando riceva conferma dal beneplacito della potestà laica».

Le trasformazioni politiche e diciamo pure territoriali in Europa, ma soprattutto in Italia, sembrano pesare sulle progressive enunciazioni del Concilio vaticano, in relazione all'esercizio della potestà pontificia. Ed eccoci pertanto alla definizione suprema del Concilio:

«Che poi nel primato apostolico, quale il romano Pontefice riveste ed esercita su tutta la Chiesa in quanto successore di Pietro Principe degli Apostoli, sia compresa anche la suprema potestà di magistero, fu sempre ritenuto da questa Santa Sede, e comprovato dall'uso ininterrotto della Chiesa; è stato dichiarato dagli stessi Concili ecumenici, da quelli innanzi tutto nei quali l'Oriente si trovò concorde con l'Occidente nella unione della fede e della carità... Per soddisfare a simile ufficio pastorale i Nostri predecessori spiegavano la piú indefessa azione perché la salutare dottrina di Cristo si propagasse presso tutti i popoli della terra e con pari cura vigilarono affinché si conservasse sincera e pura là dove era stata accolta. Per cui i presuli di tutto il mondo o individualmente presi, o adunati in locali sinodi, conformandosi alla tradizionale consuetudine delle chiese e alla forma della mai smentita Regola, quei pericoli che si profilavano in materia di fede trasmisero, secondo la frase di San Bernardo, a questa Sede Apostolica, affinché ivi soprattutto fossero reintegrate le falle della fede, dove la fede stessa non può soffrire defezione o lacuna. E i Pontefici romani dal canto loro, a seconda delle circostanze di tempo e a seconda del variare delle situazioni, a volte convocando Concili ecumenici, a volte interpellando l'opinione della Chiesa disseminata nel mondo, a volte mercè la convocazione di sinodi particolari, a volte adottando quei sussidi che la Provvidenza divina suggeriva e apprestava, definirono si dovesse ritenere quel che conobbero, con l'aiuto di Dio, in armonia con le Sacre Scritture e le tradizioni apostoliche. Lo Spirito Santo però non fu promesso ai successori di Pietro perché nella luce della Sua rivelazione divulgassero una nuova dottrina, ma affinché, sotto la sua assistenza, custodissero santamente ed esponessero fedelmente la rivelazione trasmessa attraverso gli Apostoli, vale a dire il deposito della fede. È questa dottrina apostolica che tutti i venerabili Padri hanno abbracciato e tutti i santi Dottori ortodossi hanno venerato e hanno seguìto, sapendo senza ombra di dubbio che questa Sede del Santo Pietro rimane sempre illibatamente immune da qualsiasi errore, a norma della divina promessa consegnata dal Signor nostro Salvatore al Principe dei Suoi discepoli: – Io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno, e tu una volta convertito conferma i tuoi fratelli. – Questo carisma indefettibile di verità e di fede è stato divinamente elargito a Pietro e ai suoi successori in questa Sede affinché potesse assolvere il suo eccelso còmpito a beneficio salutare di tutti, affinché l'ecumenico gregge del Cristo, immunizzato per virtú loro dal velenoso pascolo dell'errore, si nutrisse del pascolo della celeste dottrina, affinché eliminata qualsiasi possibilità di scisma, la Chiesa universa potesse conservarsi una e poggiata sul suo fondamento potesse saldamente resistere alle porte dell'Inferno. E da poi che in questa nostra età quando l'azione salutare del ministero apostolico si richiede piú che mai, non siano rari coloro che detraggono alla efficienza dell'apostolica autorità. Noi riteniamo assolutamente e indeclinabilmente necessario proclamare solennemente al cospetto del mondo il privilegio che il Figlio unigenito dì Dio si è degnato di annettere al supremo Ufficio pastorale della Sede romana. Noi pertanto, aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta dagli inizi della fede cristiana, a gloria del nostro Dio Salvatore, ad esaltazione della religione cattolica, a salvezza dei popoli cristiani, con la approvazione del sacro Concilio insegniamo e definiamo come dogma divinamente rivelato che: Il romano Pontefice, quando parla dalla cattedra, quando cioè in qualità di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani spiega la sua suprema autorità apostolica e definisce una dottrina relativa alla fede e ai costumi come dottrina da professarsi dalla Chiesa universale, in virtú dell'assistenza divina promessa a lui nella persona del beato Pietro, usufruisce di quella infallibilità di cui il Divin Redentore volle che fosse insignita la Sua Chiesa nel definire una dottrina relativa appunto alla fede e ai costumi, per cui tali definizioni del romano Pontefice sono di per sé irreformabili e non in virtú del consenso della Chiesà».

Cosí, a distanza di millesettecento anni, giungeva al suo epilogo il ciclo storico che si era iniziato a Roma nel 180 con la prima affermazione del primato romano mercè l'azione di un Papa africano, Vittore, e mercè quella sottile e industre introduzione nel Vangelo di Matteo di una speciale investitura elargita da Cristo a Pietro. Ancora una volta la definizione ufficiale veniva a tentare di corroborare in ritardo una potenza spirituale che si era già affievolita e dispersa nella realtà della disciplina ecumenica della Chiesa.

In fondo, che la Chiesa, corpo mistico di Cristo, goda di un indefettibile privilegio, quello dell'aderenza costante alle esigenze della spiritualità associata vivente nei carismi e dei carismi, è dogma assiomatico. Diciamo meglio, è presupposto implicito nel concetto stesso della Chiesa mistica, la quale non è altro che il messaggio della salvezza cristiana, trasmettentesi e perpetuantesi nella collettività dei riscattati che sono anche per definizione predestinati alla partecipazione al reame glorioso del Cristo trionfatore, quando sia per essere instaurato per volere e per atto di Dio. Il problema che aveva sollecitato e diciamo pure inquietato la coscienza della comunità cristiana nei secoli era stato quello dei rapporti concreti tra questa infallibilità astratta, questa aderenza immanente del corpo mistico di Cristo alla verità eterna di Dio, e l'esplicazione del magistero visibile e gerarchico nella Chiesa stessa.

Come noi abbiamo visto, Sant'Agostino aveva mantenuto nel suo De Civitate Dei in una certa ondeggiante e oscillante indeterminatezza il collegamento fra la Città di Dio e la Chiesa. Aveva anzi perentoriamente ammonito di non circoscrivere troppo rigidamente e di non identificare troppo esteriormente i confini dell'una e i confini dell'altra; potendosi benissimo dare il caso che individui, apparentemente appartenenti a Gerusalemme, vale a dire alla Città di Dio e alla Chiesa, appartenessero di fatto piuttosto, nell'intimità della loro coscienza e nell'orientamento delle loro aspirazioni, a Babilonia, vale a dire alla città del mondo, che è la città di Satana. Aveva detto anche di piú: aveva asserito che si sarebbero potuti verificare casi in cui esercitanti il potere nella Gerusalemme che è la Città di Dio, fossero poi in pratica semplicemente strumenti e gerarchi della città di Babilonia che è la città di Satana. Nella sua sensazione tutta mistica degli impalpabili rapporti che sono i rapporti nell'anagrafe dei carismi e delle realtà spirituali, Sant'Agostino aveva affermato che l'unica cernita possibile fra gli uomini è quella sentita e rivelata dall'appello che ciascuno può fare alla propria coscienza, interpellandola ed interrogandola sulla direzione verso cui vada il suo intimo amore. E sulla base di questa presupposizione tipicamente mistica e trascendentale, Sant'Agostino aveva tratto la seguente conclusione: si può dare il caso che una malintesa intransigenza dottrinale possa indurre gerarchi apparenti della città di Gerusalemme a cacciare dal recinto della Città Santa individui che portino in cuore effettivamente quell'amore di Dio piú forte dell'amore di sé, unica tessera di riconoscimento fra i cittadini della Città di Dio.

Ora, a quattordici secoli di distanza dalla filosofia della storia di Sant'Agostino, il Pontificato, logorato da cosí lungo periodo di mescolamento irriflesso alle competizioni di scuola e di politica terrena, che ne avevano consumato la virtú di disciplina e la capacità di fascino che sono tanto piú effettive quanto meno hanno bisogno di riconoscimenti conciliari e di definizioni solenni, tendeva a fare delle formule esteriori del suo magistero altrettanti decreti infallibili, e quindi superiori e immuni da qualsiasi possibile controllo di quella anonima coscienza cristiana che, se veramente tale, sa di istinto dove sia la luce di Cristo e dove sia la direttiva del Regno di Dio. Che Roma avesse sempre rappresentato nella storia il centro verso cui andavano spontaneamente ed istintivamente le coscienze credenti, non era cosa che aveva avuto bisogno di essere definita all'epoca di un Gregorio Magno o di un Gregorio VII. Potevano esserci discussioni su chi personificasse Roma in un momento di controversia politica come all'epoca di Papa Anacleto od all'epoca dello scisma di Occidente. Ma che Roma fosse il faro di luce acceso dalla tradizione del Vangelo per la illuminazione e la guida di tutti i fedeli non aveva mai avuto bisogno di essere chiarito e proclamato.

Il cristianesimo vivente è romano o non è. Ma d'altro canto Roma, per essere centro della Cristianità, deve essere per prima cristiana, altrimenti non è Roma.

E questa, come tutte le grandi realtà spirituali, destinate ad avere una virtú efficiente nella vita aggregata degli uomini, non ha bisogno di essere definita se non quando ha cessato di essere una realtà.

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