XV LA CRITICA BIBLICA E LA ESEGESI DEL NUOVO TESTAMENTO

Che il cristianesimo si sia portato sempre dietro il problema dei suoi rapporti con la rivelazione biblica e con la tradizione religiosa del popolo d'Israele, ha ragioni molto piú profonde di quanto non si sarebbe indotti a pensare a prima vista. Il fatto che Gesù sia nato in Galilea e in Galilea abbia iniziato la sua predicazione; il fatto che Egli si sia continuamente riferito agli insegnamenti tradizionali del suo popolo, pur prendendo posizione contro i partiti ufficiali dell'ebraismo suo contemporaneo, e abbia nettamente contrapposto i suoi dettati a quelli dell'ufficiale legislazione mosaica; non si potrebbe dire che avrebbero dovuto essere ragioni sufficienti perché il cristianesimo rivendicasse a proprio vantaggio e come propria genesi i libri canonizzati, o in via di essere canonizzati, della vecchia alleanza. Anzi, a rigore, l'atteggiamento di Gesù al cospetto dell'ufficialità giudaica del suo tempo, atteggiamento insurrezionale e radicalmente sovvertitore, avrebbe dovuto spingere il cristianesimo, mano mano che si veniva organizzando come nuova società religiosa, a ripudiare qualsiasi collegamento e qualsiasi solidarietà con la vecchia economia.

E, di fatto, il primo personale interprete e infaticabile divulgatore della fede nel Cristo, quale inauguratore predestinato del Regno ed Essere preesistente nella forma del Padre, Paolo di Tarso, ha lucidamente avvertito l'incolmabile divario fra la vecchia e la nuova fede, e alla economia della legge ha contrapposto, senza possibilità di accomodamenti e di patteggiamenti, la nuova economia dello Spirito. E quando fra i suoi convertiti delle comunità galatiche si sono presentati gli emissari di Gerusalemme, per dare a credere che non si potesse dire perfetta professione cristiana quella che non si fosse sottoposta alla pratica legale delle prescrizioni mosaiche, Paolo è insorto vigorosamente, proclamando che qualsiasi concessione fatta alla legge avrebbe rappresentato una irriverente sottrazione di capacità salutifere all'opera reintegratrice del Cristo. E a distanza di un secolo da lui, il suo piú fedele continuatore

e celebratore, Marcione, ha visto tanto lucidamente l'incompatibilità ideale delle due economie, la biblica e la cristiana, da fare del cristianesimo la rivelazione impensata e sconcertante di un Dio buono, di cui la millenaria tradizione dell'ebraismo non aveva avvertito il piú lontano sentore.

Eppure, l'atteggiamento che ha avuto il successo nel cristianesimo nascente di fronte all'ebraismo non è stato quello di Paolo e non è stato quello di Marcione.

Paolo, in verità, piú legato per sangue al popolo di Israele di quanto non lo fosse l'armatore pontico, che circa cent'anni dopo di lui riprende il motivo della eterogenea inconguagliabilità delle due economie, era stato sempre costantemente assillato dall'istintivo bisogno di far rientrare in qualche modo gli ebrei nel quadro delle restauratrici sorti cosmiche, affidate all'opera del Cristo, predestinato inauguratore del Regno. E aveva immaginato che la conversione totale delle tribu israelitiche, disseminate nel mondo, avrebbe dovuto essere il prologo necessario della instaurazione futura del Regno. Frattanto, le tremende iatture piombate, dal punto di vista politico e nazionale, sul popolo d'Israele, dall'epoca di Vespasiano a quella di Adriano, dovevano far sentire il problema dei collegamenti fra la nascente comunità cristiana e il giudaismo in una maniera particolarmente impellente e amaramente difficile.

Il cristianesimo aveva pur bisogno di ricollegarsi ad una tradizione religiosa, e mano mano che la consapevolezza della sua assoluta verità e in pari tempo della sua inconfondibile originalità dava alla comunità cristiana, propagantesi rapidamente intorno al bacino del Mediterraneo, la visione netta della propria contemporaneità con le origini stesse del mondo, come nuovo popolo voluto da Dio, in pari tempo sorgeva nella coscienza cristiana il bisogno di accettare i libri della vecchia rivelazione come eredità propria e patrimonio non cedibile.

Proprio nel medesimo torno di tempo in cui questa coscienza si veniva sviluppando nel cristianesimo nascente, il concetto dell'ispirazione religiosa, che aveva assiduamente accompagnato il progressivo formarsi del patrimonio scritto della religiosità israelitica, giungeva alla sua definitiva e finale canonizzazione. Attraverso i secoli della sua movimentatissima storia, Israele era stato sempre accompagnato dalla coscienza di una divina ispirazione, che mirava allo stabilimento e al perfezionamento sempre piú alti della religione jahvista.

Nata gradatamente sotto lo stimolo di circostanze speciali e per opera di personaggi religiosi di prima grandezza, questa letteratura ispirata aveva risposto di momento in momento ad esigenze peculiari e ad aspirazioni largamente diffuse nelle raminganti tribú d'Israele. Il pullulare progressivo di opere che pretendevano di essere anch'esse soprannaturalmente ispirate, che presumevano anzi di dare agli Ebrei normative leggi di disciplina spirituale collettiva, destava sempre piú vivo il bisogno di istituire una cernita e un vaglio, che distinguessero le manifestazioni degne veramente di figurare come autoritative, da quelle che potevano rappresentare orientamenti e indirizzi abnormi ed eccentrici. Perché nel seno di una società religiosa una raccolta di libri sacri valga come orientamento sicuro per l'istruzione della massa, essa esige che sia determinata in modo non piú soggetto a variazioni di sorta. Questa esigenza, a cui i cristiani del quarto secolo risponderanno adottando il termine canone, che fino allora aveva indicato piuttosto regola della fede e della vita cristiana, e che poi viene ad assumere il significato di catalogo ufficiale dei libri ispirati costituenti la serie ufficiale e indefettibile delle fonti a cui raccomandare la garanzia e la sanzione delle verità professate, era stata già conclusivamente sperimentata dagli ebrei, proprio nel medesimo lasso di tempo che vedeva la nascita del cristianesimo. Nella sua polemica contro Apione, Giuseppe Flavio, in sostanza, parla anche egli, senza adoperare il termine, di una vera e propria canonicità ufficiale dei libri sacri, quando, dopo avere attestato che gli ebrei attribuiscono valore di parola di Dio a ventidue libri, soggiunge: «E da ciò appare in quale maniera noi ebrei ci comportiamo al cospetto delle nostre scritture, poiché essendo passato tanto lungo tempo dalla loro origine, nessuno mai ha osato aggiungere ad esse o togliere o mutare qualche cosa. A tutti i Giudei è quasi connaturale, fin dalla nascita, credere queste scritture quali decreti di Dio, aderendo loro, pronti anche a morire per esse, qualora sia necessario, con vera letizia spirituale». Naturalmente quando Giuseppe Flavio scriveva, questa progressiva disciplina, pubblicamente e solennemente riconosciuta, delle Scritture rivelate, aveva già una lunga storia alle sue spalle. La canonizzazione della legge, della Torah, già cominciata da Esdra nel 444 avanti Cristo, si era compiuta nella prima metà del secolo terzo quando la sua traduzione greca, ricevuta come canonica dagli ebrei di Alessandria, era diventata per essi testo ufficiale. Durante il secolo terzo al canone legale venne ad aggiungersi l'ufficiale riconoscimento dei profeti. La canonizzazione degli agiografi è cosa contemporanea si può dire alla stessa formazione canonica del novero dei libri sacri nella comunità cristiana. Perché, strana coincidenza, la medesima tendenza e il medesimo bisogno che stimolavano la comunità israelitica a redigere un novero ufficiale e definitivo della propria letteratura religiosa, quanto piú duro si faceva il suo incedere nel mondo e piú precarie correvano le sorti della sua costituzione unitaria e nazionale, stimolavano in pari tempo la diffondentesi società cristiana nel mondo mediterraneo a ricavare, dalla molteplicità degli scritti che venivano redigendosi sotto la pressione delle esigenze apostoliche proselitistiche, un canone ufficiale delle proprie fonti normative scritte. Ma la stessa autorità che i libri canonizzati del Vecchio Testamento avevano per la comunità d'Israele, essi l'avevano per i fedeli del Cristo. Probabilmente la ragione piú profonda che ha indotto la comunità cristiana primitiva ad accettare in pieno l'autorità dei libri santi d'Israele è data dall'istintivo proposito di ricollegare in qualche modo la propria origine predestinata alla genesi del mondo, su cui non esiste altra testimonianza che quella dei racconti biblici.

E in linea secondaria, ma forse altrettanto valida, ha influito sull'accettazione del canone biblico israelitico da parte della società cristiana la sensazione oscura e subcosciente, ma viva e impellente, che in realtà un non annullabile collegamento esisteva fra la predicazione di Gesù ed una parte almeno della tradizione letteraria e sacrale d'Israele: la parte profetica. Il Cristo non aveva egli detto di esser venuto, non a distruggere, ma a vivificare, non ad annullare, ma a reintegrare, non ad abrogare, ma a corroborare i dettati della vecchia tradizione? È un singolare destino quello di tutti gli innovatori religiosi, di essere, chissà da quale profondo istinto della coscienza sacrale, indotti a riappellarsi alle vecchie consuetudini e ai primordiali valori dell'umanità, nell'atto stesso in cui insorgono contro le consuetudini ufficiali e le liturgie pubblicamente sanzionate. Il mito di Anteo che riguadagna la forza, ogni volta che sembra smarrirla, toccando la terra genitrice, ha un profondo significato psicologico e storico. Le vere e durature rivoluzioni nel mondo dello spirito son quelle che attingono energia e traggono norma da un recupero improvviso e violento di smarrite e obliate esperienze ancestrali. Da questo punto di vista Cristo veramente sembrava essersi direttamente conformato e sembrava avere di colpo ripristinato e dissepolto di su le ceneri congelate il fuoco delle vecchie speranze cieche, che i profeti d' Israele avevano cantato ed esaltato. Le parole di Amos e di Isaia, di Ezechiele e di Daniele, erano state le sue parole, portate però ad una intensità di calore e ad una multanimità d'inflessioni e di toni, da acquistare una potenza di diffusione ed una capacità di applicazione mai sperimentate e mai prevedute per l'innanzi.

La Chiesa cristiana pertanto obbediva al bisogno presago di universalità e di invalicabile normatività, riallacciando la propria fede e i propri insegnamenti ad una preesistente economia religiosa, che risaliva alle origini stesse del mondo e che aveva per secoli e secoli guidato il popolo d'Israele sotto la luce e dietro le ombre che accompagnano costantemente l'esperienza religiosa di una massa associata nella storia; la luce dell'ispirazione profetica, che è il coefficiente fascinans della esperienza del sacro, e le ombre del coefficiente tremendum, che è la immolazione del singolo alla spiritualità della massa, nella dialettica di sviluppo di una vita collettiva.

Se laboriosa era stata la costituzione del canone biblico per gli ebrei, altrettanto laboriosa fu la costituzione del canone neotestamentario per la comunità cristiana. Mentre nella primitiva letteratura cristiana le formule solenni «dice la Scrittura», «dice Iddio», «sta scritto», vengono riservate alle citazioni del Vecchio Testamento, le parole di Cristo sono introdotte con la formula «Gesù ha detto». Cosí si esprimono Clemente, Ignazio e Policarpo. All'epoca di Ireneo però già si parla di un Vangelo quadriforme e l'apologista Giustino comincia ad usare per i Vangeli e per gli Atti le formule piú di frequente adoperate per il Vecchio Testamento: «sta scritto che», «come sta scritto». Al tramonto del secondo secolo la delineazione del canone neotestamentario si fa piú pronunciata nella Siria orientale. Il discepolo di Giustino, Taziano, siro di nascita, vissuto a Roma fra il 150 e il 160, compone, tornato in patria, una armonia dei Vangeli, che chiama Diatessaron, vale a dire «a norma dei quattro». L'espressione, che è un termine tecnico musicale, esprime accordo ed armonia. L'uso del termine per additare i quattro nostri attuali Vangeli canonici è pieno di significato.

Il cosiddetto frammento muratoriano scoperto nel 1740 da Ludovico A. Muratori in un palinsesto della Biblioteca Ambrosiana, redatto in un latino barbarico e vergato circa l'anno 700, copia o forse traduzione dal greco di un originale compilato non sappiamo precisamente dove, ma probabilmente a Roma, nell'epoca immediatamente successiva al Pontefice Vittore, ci dà alfine un vero e proprio canone formale del Nuovo Testamento. Si inizia col canone dei Vangeli. Essendo mutilo al principio, annovera soltanto Luca e Giovanni, ma non c'è ragione affatto di dubitare che abbia precedentemente registrato i Vangeli di Matteo e di Marco, al quale ultimo si riporta l'inciso monco con cui si inizia il frammento: «Quibus tamen interfuit et ita posuit». A questa canonizzazione dei Vangeli, con esclusione di quei Vangeli apocrifi, come il Vangelo secondo gli Ebrei, il Vangelo secondo gli Egiziani, il Vangelo secondo Pietro, che invano cercarono di far concorrenza ai quattro, segue di pari passo la canonizzazione dell'epistolario paolino, degli Atti, di altre lettere apostoliche, dell'Apocalissi giovannea. Il canone muratoriano annovera anche l'Apocalissi di Pietro, non dissimulando però l'opposizione di «alcuni»; e le sue parole allusive al Pastore di Erma fan supporre che qualcuno nella Chiesa accogliesse anche questo libro come degno di figurare a fianco dell'epistolario paolino. In complesso, alla fine del secondo secolo, la comunità cristiana ha il suo canone neotestamentario, che pone di fianco al canone del Vecchio Testamento. Verso il 170 Melitone di Sardi, su testimonianza di Eusebio, parla globalmente di «libri del Vecchio Testamento», lasciando intendere cosí anche l'esistenza di un complesso di libri neotestamentari. Tertulliano, sempre fedele al suo vocabolario giuridico, parla piuttosto di instrumentum, e nella sua polemica contro Prassea adopera esplicitamente un inciso pieno di significato: «Instrumentum utriusque Testamenti», strumento cioè dell'uno e dell'altro Testamento. E Clemente Alessandrino contrappone il Testamento Nuovo al Testamento Vecchio. Si comprende come l'esigenza della celebrazione liturgica e devozionale avesse fatto sentire il suo apporto, probabilmente decisivo, nella canonizzazione del testo sacro. La lettura e la celebrazione rituale avevano manodotto, con particolare efficienza, al riconoscimento ufficiale dei libri che meglio rispondevano alle finalità edificative della vita aggregata cristiana. Il periodo formativo della vita cristiana primitiva si chiudeva cosí. D'ora in poi la Chiesa avrebbe ricavato da questo novero di libri, ufficialmente definito, sanzionato e canonizzato, la regola costante del suo insegnamento dottrinale, della sua disciplina, del suo ministero.

È strano osservare come l'accettazione del canone vecchio testamentario da parte della comunità cristiana non doveva risparmiare i contrasti e le polemiche fra il giudaismo e il cristianesimo. Mentre il giudaismo, soprattutto sotto la ferula dell'implacabile persecuzione romana, si sarebbe chiuso sempre piú rigidamente nella intransigenza della sua ortodossia e nella arida delucidazione della Legge, di contro alla rivale professione cristiana, il cristianesimo avrebbe portato con sé ininterrottamente attraverso i secoli il bisogno di mantenere i contatti con quel popolo d'Israele da cui gli erano venute la luce e la salvezza, e la cui finale conversione era stata designata da Paolo come l'indispensabile atto preliminare dell'avvento del Regno di Dio.

Come già abbiamo visto nel primo volume, nella rievocazione delle manifestazioni salienti della piú antica letteratura cristiana, la polemica col giudaismo accompagna lo sviluppo del cristianesimo. E non solamente nei primi secoli. Attraverso tutto il Medioevo il destino spirituale d'Israele rappresenta una assillante preoccupazione del mondo cristiano. Si può anzi dire che nei momenti di reviviscenza dell'esperienza sacrale evangelica, da Gioacchino da Fiore al movimento giansenista, il destino israelitico costituisce uno dei punti centrali delle aspettative e delle ansie cristiane.

Ma se il giudaismo postcristiano si irrigidisce nella interpretazione e nella esegesi letterali del suo testo canonico, anche la teologia ufficiale del cristianesimo si irrigidisce sempre di piú nella utilizzazione puramente frammentaria e autoritativa della lettera canonica neotestamentaria. Non avrebbe potuto essere diversamente. Una Chiesa costituita ormai sulle assise del suo magistero puramente teologale, esclusivamente preoccupata della conservazione irreformabile della sua disciplina accentrata ed infallibile, non poteva non farsi incapace e refrattaria a qualsiasi sensibilità di tutto quello che c'era di vivente, di mutevole, di dinamicamente fluttuante, in una tradizione religiosa che aveva rappresentato un formidabile rivolgimento spirituale e un radicale rovesciamento di valori, molto piú che una visione dottrinalmente formulata del mondo, delle origini sue, del suo destino. Le Catenae Patrum, primo stadio delle Summae, non sono altro che fredde e inerti nomenclature di citazioni patristiche che debbono servire ai maestri della Scuola come armamentario e suppellettile per suffragare con riferimenti scritturali le asserzioni dell'insegnamento dogmatico. Da questo punto di vista si potrebbe dire che la riforma, sottraendo al magistero di Roma quel che era implicito nel concetto vivo di tradizione, e ripiegando sul testo biblico, celebrato come unica fonte mediatrice per risalire a Dio e alla Sua rivelazione, ha nella prima fase della sua esplosione reso ancor piú rigido e letterale il valore normativa della Bibbia, favorendone la interpretazione puramente esterioristica e formale. Ma la riforma portava con sé, su questo terreno, il principio del proprio riscatto, nel senso che un libro, per quanto sacro, affidato allo sforzo della indagine personale finisce sempre con il laicizzarsi, con il divenire cioè oggetto di pura e oggettiva esplorazione storica.

Se la cultura moderna è caratterizzata soprattutto dal suo aspetto storicista, lo storicismo moderno ha celebrato nella zona delle tradizioni sacre d'Israele e del cristianesimo il suo trionfo piú clamoroso e piú pedagogicamente normativa. E, singolarissima ma significativa coincidenza, come il cristianesimo primitivo credé legittimamente e validamente di potersi riportare alla tradizione del Vecchio Testamento perché in essa, di fianco all'elemento legale, aveva sempre esercitato la sua azione l'elemento profetico, l'elemento fascinans di contro all'elemento tremendum, cosí oggi la nuova critica del Vecchio e del Nuovo Testamento non è stata altro, e non è altro, nella sua essenza, che una ricelebrazione validissima dell'elemento profetico nello spiegamento e nello sviluppo dell'esperienza sacrale del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Tale fatto non ha semplicemente un significato nel quadro delle nostre conquiste erudite e della nostra evoluzione culturale. Se si potesse paragonare il panorama totale della religiosità umana ad un immenso anfiteatro spirituale, sui cui sistemi concentrici si è venuto distribuendo nel tempo e nello spazio il senso sacrale dell'umanità, si potrebbe dire che dai margini estremi delle tradizioni statiche del mondo asiatico e nord-europeo si scenda sempre piú gradatamente verso quel bacino del Mediterraneo che rappresenta, dal punto di vista della spiritualità umana in cammino, il cuore pulsante delle forme piú alte e originali, in cui si sia venuto concretando il senso ineffabile e inconfondibile del numinoso.

Si potrebbe dire che mentre il mondo asiatico è uscito dalle forme primordiali delle credenze politeistiche mercè una riduzione dell'atteggiamento religioso all'atteggiamento puro e semplice dell'etica pedestre della vita associata politicamente e civilmente intesa, nelle forme religiose che san venute affiorando attraverso il molteplice incrocio e lo scambievole innesto di popoli e di esperienze nel bacino del Mediterraneo, il grande fatto originale e specifico è l'esplosione della esperienza e della predicazione profetiche e messianiche, che fanno della vita empirica il prodromo dell'affermazione sovrana di una potenza superiore, avente il suo contrassegno nella bontà e nella giustizia, affermazione che rappresenterà il trionfo definitivo del bene sul male, della giustizia sulla ingiustizia, della bontà sulla forza.

Questo tipo di religiosità riformatrice ed innovatrice è veramente la caratteristica sovrana della tradizione religiosa mediterranea. Guidata, si potrebbe dire, da un istinto irresistibile, la critica biblica, come quella neotestamentaria, non hanno fatto che riscoprire nella letteratura e nella tradizione del Vecchio e del Nuovo Testamento il soggiacente elemento profetico, elemento capitale e determinante di tutta la religiosità mediterranea da tre millenni a questa parte.

La critica biblica ha le sue prime manifestazioni, a mezzo il secolo decimosettimo, nell'opera Leviathan di Tommaso Hobbes. Vi si sostiene infatti che il Pentateuco è posteriore a Mosè, ma ha incorporato tutto quel che si attribuiva al grande condottiero del popolo d'Israele, come per esempio la legge contenuta nei capitoli XI-XXVII del Deuteronomio, da identificarsi con quella tal legge smarrita che il Sommo Sacerdote Elcia avrebbe scoperta nel 621 a. C., sotto Giosia, nei ripostigli del tempio di Gerusalemme. Cosí, sempre secondo Hobbes, i libri storici debbono considerarsi molto posteriori alle storie da essi narrate. Il Salterio e il Libro dei Proverbi sarebbero nella loro attuale forma molto tardi, sebbene l'Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici possano ritenersi opera di Salomone. Tutto il Vecchio Testamento assunse la sua attuale forma parecchio dopo il ritorno dall'esilio.

Spinoza dal canto suo, nel Tractatus theologico- politicus del 1671, richiamava l'attenzione sul fatto che il Pentateuco tradisce una mescolanza confusa di parti narrative e di parti legali, con la presenza di inspiegabili duplicati e di palesi incongruenze cronologiche. A dieci anni di distanza l'oratoriano Simon nella sua Histoire critique du Vieux Testament sosteneva che il Pentateuco, i cinque libri cioè che portano il nome di Mosè nel vecchio canone biblico, Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio, è l'opera di molteplici autori. Il Simon stesso compiva passi molto notevoli nella via della sistematica analisi dei vecchi testi biblici mosaici, osservando che lo stile varia sensibilmente da parte a parte, a volte schematicissimo, a volte abbondantissimo, senza che la natura degli argomenti trattati esiga o spieghi simili alternative.

Ma il primo tentativo di una spiegazione organica e sistematica delle anomalie già riscontrate nella legislazione mosaica fu compiuto da un medico francese cattolico, Giovanni Astruc. Egli pubblicava anonima nel 1753 una poderosa opera con questo titolo: Conjectures sur les mémoires originaux dont il paroît que Moïse s'en servit pour composer le livre de la Genèse. In questo lavoro l'Astruc partiva dal fatto che nel Genesi e nell'Esodo si riscontrava un differente uso di nomi divini: Elohim e Jahvè. Da questo egli arguiva che Mosè aveva dovuto usare documenti diversi, di cui si poteva in qualche modo ricostruire la sagoma e la struttura. Il suo criterio differenziale era ancora troppo esiguo e circoscritto perché si potesse dare alla sua analisi un carattere qualsiasi di coerenza e sicurezza definitive. Ma il dato di fatto, da cui egli aveva preso le mosse, appariva incontrovertibile e doveva sortire conseguenze veramente imponenti. Nell'anno stesso in cui Astruc pubblicava il suo volume nasceva in Germania quegli che avrebbe per primo codificato i primi risultati della critica biblica e che avrebbe gettato le basi delle introduzioni «storico-critiche» al Vecchio Testamento: Giovanni Goffredo Eichhorn. Questi fece accettare in maniera definitiva da una gran parte almeno della scienza teologica ufficiale nella Germania protestante, l'origine relativamente recente del Deutero-Isaia, comprendente i capi XL-LVI del testo canonico di questo profeta, del Libro di Daniele, dell'Ecclesiaste, del Libro di Ester. Ma soprattutto nell'analisi in·tema dei libri mosaici l'Eichhorn segnò l'orma piú profonda. Egli dimostrò in maniera ormai inoppugnabile il carattere composito del Pentateuco, distinguendo nel Genesi la presenza dei due documenti intravvisti dall'Astruc, vale a dire quelli che furono piú tardi detti i Codici sacerdotali e il documento jahvista. Le tesi sostenute dall'Eichhorn dovevano subire un complesso processo di elaborazione attraverso la critica posteriore rappresentata soprattutto da Enrico Giorgio Ewald. A lui si deve la distribuzione del Pentateuco in quattro documenti: il primo Elohista o Codice sacerdotale, lo Jahvista, l'Anonimo che li avrebbe fusi e completati e infine il Deuteronomio. L'enumerazione cosí data dall'Ewald doveva subire rimaneggiamenti sostanziali per opera del De Wette, del George, del Vatke, specialmente sulla base di una considerazione piú profonda della evoluzione religiosa del popolo d'Israele. Sotto l'influsso di tali idee la critica vecchio-testamentaria inclinò sempre piú a considerare il contenuto del cosiddetto Codice sacerdotale o Primo Elohista come espressione di una teologia israelitica relativamente recente, e quindi a riportarne la composizione al periodo dell'esilio babilonese. Edoardo Reuss e il suo allievo Graf furono i primi a sostenere formalmente e decisamente l'origine postesiliaca del Codice sacerdotale, nelle sue parti legislative. Alle opinioni del Graf aderf Abramo Kuenen e dopo di lui il Kayser. Ci si avvicinava cosí alla entrata in scena di quegli che nella seconda metà del secolo decimonono doveva dare una forma, che non esitiamo a dire conclusiva, ad un secolo di indagini storico-testuali sulle fonti prime della rivelazione biblica: di Giulio Wellhausen. In una serie di articoli, raccolti in volume nel 1885 sotto il titolo La composizione dell'Esateuco, il Wellhausen non ci dava soltanto una sistemazione organica delle precedenti indagini documentarie compiute sui libri mosaici del Vecchio Testamento, ma poneva a base di una nuova visione dell'evoluzione religiosa di Israele un principio veramente rivoluzionario che, portato alle sue legittime conseguenze, ci consente ora di vedere la religiosità israelitica nelle sue genuine fattezze e nella sua dialettica concreta di sviluppo. Perché il Wellhausen non era soltanto un critico testuale e un filologo semitista del piú alto valore, ma aveva anche una singolarissima sensibilità agli elementi compositi e variamente polarizzati che entrano nell'elaborazione e nel processo formativo di una letteratura religiosa. D'altro canto si sarebbe detto che tutta .la temperie culturale intorno a lui lo portasse ad individuare il coefficiente piú valido che aveva contribuito a dirigere e a diversamente atteggiare l'esperienza religiosa delle tribú israelitiche giunte una volta nella terra di Canaan ed insediatesi lí stabilmente in una vita sedentaria che se non era piú il ramingare precario del deserto, era però un'altra forma di precarietà e d'inquietudine sotto la pressione contrastante dei due grandi Imperi: l'assiro-babilonese a levante, l'egiziano a sud-ovest. La fatica consacrata dal Wellhausen allo studio letterario sull'Esateuco fu infatti corroborata, fiancheggiata e illustrata da due grandi opere, Storia israelitica e giudaica e Prolegomeni alla storia d'Israele. Memoranda nella propagazione delle nuove idee sulla religiosità israelitica e sulla composizione progressiva dei libri mosaici fu la comparsa, per opera del Wellhausen, della voce Israel nella nona edizione della Enciclopedia Britannica.

La principale conclusione del grande critico fu quella che rovesciò completamente e radicalmente la successione cronologica dei libri legali e degli scritti profetici nel canone tradizionale del Vecchio Testamento. Mentre la tradizione pressoché unanime considerò i cinque libri di Mosè come i documenti piú antichi della letteratura ebraica, anteriori quindi agli scritti profetici, Wellhausen assegnò la promulgazione solenne della Legge all'epoca postesiliaca, facendo della composizione dei codici principali un evento determinato e condizionato dall'esplosione di quel grande movimento profetico che segnò la elevazione e la trasformazione della religiosità del popolo d'Israele fino allora perfettamente conguagliata a quella del circostante mondo cananeo. Soltanto il Libro dell'Alleanza e forse la piú antica redazione delle parti narrative cosí jahviste come elohiste potrebbero risalire piú indietro dell'ottavo secolo avanti Cristo. In altri termini noi siamo indotti ormai invincibilmente a ritenere che, lungi dall'apparire come i restauratori di un monoteismo preesistente, risalente, secondo la tradizione, alla grande predicazione mosaica, come l'attuale redazione della Torah vorrebbe farli ritenere, i profeti ne sarebbero stati i creatori e i primi predicatori. E solo in virtú di una temeraria finzione letteraria, di questa creazione si sarebbe fatto un merito di Mosè, divenuto nella grandeggiante leggenda del popolo ebraico l'insigne legislatore degli ebrei e il fondatore della religione monoteistica. Il profetismo avrebbe suscitato, esso solo, in mezzo al popolo israelitico, quella rivoluzione religiosa che (analogamente a ciò che in un lasso di tempo non straordinariamente lontano da quello della fioritura profetica accadeva in altri centri del mondo orientale, con riforme ugualmente tendenti a far uscire l'esperienza morale della vita associata dalla zona del politeismo grossolano e naturistico), portò il naturismo mitico israelitico ad una saturazione di preoccupazioni morali che trovava nel monoteismo intransigente e geloso la sua espressione dottrinale adeguata.

Il profetismo stesso rappresentava del resto una sublimazione etica di quel che era stato il magismo primitivo. Nella piú remota storia d'Israele noi troviamo simultaneamente una doppia forma di profezia. Nel primo Libro dei Re (IX, 9) si dice che quel che altra volta era stato il Veggente, ro' eh, ora era il nabhi. In realtà le due qualità sono profondamente diverse. Il Veggente è definito nel Libro dei Numeri (XXIV, 4) «quegli che ha gli occhi chiusi eppure aperti, atti a vedere le visioni dell'Onnipotente», sotto l'influsso dello spirito di Dio che, disceso su di lui, gli conferisce una visione sovrumana non dissimile da quella di Dio stesso, in modo da vedere e sentire quel che altri non possono né vedere né sentire, vale a dire cose lontane nello spazio e nel tempo. Il Veggente dimora nella vicinanza di qualche santuario dove talora spiega anche funzioni di sacerdote. E a lui accorre la gente per consultarlo circa interessi privati ed ottenere responsi autorevoli intorno a cose occulte avvenire. Cosí Samuele, sacerdote e Veggente in Rama, comunica a Saul le desiderate informazioni intorno alle perdute asine di suo padre e predice quanto gli sarebbe accaduto sulla via del ritorno. Anche tra le funzioni degli antichi sacerdoti ve ne sono di quelle che ricordano molto da presso quelle dei Veggenti. Però, differentemente dai Veggenti, i sacerdoti, per esplorare e indagare la divina volontà e i soprannaturali segreti, si servono di strumenti e di mezzi materiali: consultano l'efod, vale a dire probabilmente una specie di simulacro ricoperto d'oro, gettano le sorti dette urim e tummim, interpellano i terafim, immagini sacre anch'esse.

Ed ecco che vicino a Samuele, il Veggente, noi vediamo comparire i Nebiim alla fine dell'epoca dei Giudici. Compaiono a schiere nelle vicinanze anch'essi di un santuario, di un altare e per mezzo della musica si stimolano fino ad entrare in stato di eccitazione religiosa e di estasi per pronunciare sentenze che sembrano come il verdetto di esaltati e di energumeni. Adagio adagio queste schiere di Nebiim si trasformano in un tipo di corporazione religiosa i cui membri si considerano come figli di un maestro che è il Signore e il Padre. Le origini pertanto del profetismo israelitico non appaiono sostanzialmente diverse dalle espressioni della divinazione che noi troviamo, si potrebbe dire, in tutte le forme della religiosità popolare primitiva. Nell'ottavo secolo avanti Cristo la figura del profeta d'Israele appare improvvisamente trasformata. Amos di Tecoa, uscito dalla tribú di Giuda, iniziando la sua vocazione profetica col presentarsi al santuario di Bethel dove Jahvè era adorato sotto il simulacro di un vitello d'oro, in una festa autunnale, proclama senz'altro di essere animato da una ispirazione che non è quella del tradizionale profetismo volgare. La sua è parola di minaccia e di rampogna. Al cospetto del popolo sbigottito e irritato, Amos predice la rovina cosí della casa regnante di Geroboamo II, come di tutto il regno d'Israele, e al gran sacerdote Amasia che, prendendolo per un membro di una ordinaria comunità profetica, gli ingiunge di tornarsene nella Giudea a guadagnarsi il pane con le sue profezie, risponde: «Io non sono profeta o figlio di profeti, ma pastore e coltivatore di sicomori. Jahvè mi ha accolto dai miei armenti e mi ha detto: va' e profetizza contro il mio popolo d' Israele».

Che cosa mai ha spinto questo conduttore di greggi, che aveva trascorso fino allora la sua vita fra le alture gerosolimitane e le pianure giudaiche, a trasferirsi nel regno del Nord e ad iniziare cosí bruscamente un ministero di rampogna e di ammonizione violenta? È il mistero della vocazione religiosa. Il deserto rivive in qualche modo nell'anima del pastore randagio e di contro ad una civiltà che si materializza nel suo benessere e nella sua improntitudine irreligiosa, le forme primordiali del vivere associato fanno risentire improvvisamente l'espressione del contatto diretto con la «numinosità» che è istante per istante in tutte le espressioni della vita cosmica e della vita umana associate. Il profeta d'Israele d'ora in poi non sarà piú un professionista e un accomodante enunciatore di presagi addomesticati. Egli ricorderà al suo popolo che la legge di Dio vale piú della legge degli uomini; che la giustizia divina vale infinitamente piú della giustizia dei codici; che c'è una politica dei valori trascendenti di Dio e delle idealità ultraterrene che è piú fruttifera e piú redditizia della politica realistica, perché salva per l'eternità i valori centrali dell'associazione umana in sviluppo. Orbene, proprio questo spirito profetico che la tradizione ufficiale canonizzata d'Israele si compiace di designare come il tentativo fortunato della resurrezione del vecchio monoteismo mosaico, costituisce la temperie in cui il mosaismo ha trovato la sua espressione giuridica e letteraria.

Conviene pertanto studiare tutti insieme i primi sei libri della Bibbia e parlare non piú di Pentateuco ma di Esateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè). Poiché attraverso tutti i sei libri della Bibbia cosí insieme raggruppati noi possiamo riconoscere la presenza di quattro documenti scritti, perfettamente distinti e riconoscibili, sebbene strettamente fusi e innestati l'uno sull'altro, e precisamente il documento Jahvista, quello Elohista, il Deuteronomista e il Codice sacerdotale. Ciascuno di questi documenti deve aver compreso in se stesso dalle origini sezioni narrative insieme a sezioni legislative. La distribuzione cronologica di questi quattro documenti, secondo la teoria del Wellhausen e della sua scuola, può approssimativamente raffigurarsi cosí. Come punto di partenza deve considerarsi il cosiddetto Libro dell'Alleanza (Esodo XXV, 23 - XXXIII, 19), codice di leggi composte probabilmente verso l'870 avanti Cristo, forse nell'ambiente del santuario di Bethel. Seguono poi le sezioni narrative che comprendono le storie jahvista ed elohista delle origini israelitiche. Possono essere state compilate rispettivamente verso 1'850 e verso il 770. Sono dunque soggiacenti all'azione della piú antica predicazione profetica. Piú tardi, verso il 680 avanti Cristo, sotto il regno di Manasse, sarebbero state fuse insieme in una sola opera storica. Un cinquantennio piú tardi, verso il 630, dovrebbe collocarsi la composizione della seconda raccolta importante di leggi ebraiche e precisamente di quelle che costituiscono i capitoli XI-XXVI del Deuteronomio. Tali leggi nuove sortirono un successo eccezionalmente considerevole, mercè il sotterfugio con cui nel 621 i preti di Gerusalemme fecero credere al buon re Giosia, tutto tenero per Gerusalemme e il suo tempio, che le leggi fossero state prodigiosamente ritrovate negli ambulacri sotterranei del tempio. Il codice ad ogni modo fu accompagnato e impinguato dai corifei della riforma religiosa di prologhi ed epiloghi, che noi troviamo tuttora nel testo sacro; essi contemporaneamente acconciarono e conformarono gli annali jahvisti d'Israele alle loro idee religiose ed alla loro filosofia della storia.

Ma quando nel 587 sopraggiunse sul popolo d'Israele la tremenda iattura dell'esilio babilonese, vale a dire un trentennio circa dopo la riforma di Giosia, la legge dovette essere sottoposta ad una nuova revisione. Il profeta Ezechiele fu il primo annunciatore di tale nuova riforma. I suoi progetti, i suoi piani, le sue esperienze, sono alla genesi della legislazione sacerdotale, il cui punto di partenza può cogliersi nel piccolo codice di santità contenuto nel Levitico (XVII-XXVI) e il cui epilogo conclusivo noi registriamo nel 445 quando, mercè l'azione riformatrice di Neemia e di Esdra, si addivenne alla promulgazione della Torah.

Ed ecco come la legislazione mosaica ci dà il riflesso storico-documentario di tre fasi fondamentali di attività letterario-religiosa: quella delle scuole profetiche del nono e dell'ottavo secolo, quella dei riformatori deuteronomisti, quella degli ambienti sacerdotali dell'esilio e dell'epoca posteriore all'esilio di Babilonia. Anche i libri storici relativi alle origini del mondo e del popolo d'Israele tradiscono tre momenti di raffigurazione storica negli strati del popolo eletto: la piú antica storia profetica, la storia deuteronomica, la storia sacerdotale, l'ultima delle quali raggruppa i fatti e le date intorno alle quattro alleanze che avrebbero segnato in quattro successive tappe i rapporti di Dio con l'umanità: le alleanze di Elohim con Adamo, con Noè, con Abramo, con Mosè.

Naturalmente una visione cosí complessa, e nel medesimo tempo cosí aderente alla realtà e cosí ricca di verisimiglianza spirituale, dello sviluppo della religiosità e nel medesimo tempo della letteratura ebraica, non si può adattare a ricevere la stessa letteratura profetica, considerata come riflesso dell'esperienza stessa primitiva e tipica del popolo d' Israele nel momento del suo trapasso dal politeismo naturistico dell'ambiente cananeo al moralismo monoteistico, nella forma in cui tale letteratura profetica è data nel canone ufficiale del tardo giudaismo. La moderna critica storico-letteraria ha scoperto pure nella letteratura profetica del canone ebraico una progressiva elevazione del tono spirituale ed una sublimazione progressiva di quella ispirazione che, nata con Amos, tocca nel Deutero-Isaia una universalità spirituale che è il vero preannuncio del messaggio cristiano.

I capitoli XL-LV d'Isaia, il cosiddetto Libro della consolazione d'Israele, hanno ricevuto la loro degna celebrazione e il loro solenne riconoscimento. L'annuncio dell'affrancamento universale, la pittura del servo sofferente Jahvè, stanno effettivamente a segnare nella vita spirituale del Vicino Oriente e di rimbalzo in tutta la spiritualità mediterranea una data di cui non è possibile esagerare l'importanza nel processo di sviluppo e di trasformazione della nostra religiosità e della nostra morale. È difficile dire fino a che punto l'influsso della predicazione zarathustriana, scesa verso il Mediterraneo al séguito dell'impresa di Ciro, si sia esercitato sulla escatologia, sulla dottrina cioè degli ultimi eventi, del popolo d'Israele e di rimbalzo quindi sulla escatologia e sulla visione del Regno di Dio in grembo al mondo neotestamentario e all'esperienza cristiana primitiva. Nulla di piú della vita religiosa ignora le paratie dei compartimenti stagni e gli isolamenti ambientali. Tutta la nostra spiritualità mediterranea è fatta di incroci, di scambi, di innesti. E quel dualismo mazdeo che certamente ha esercitato le sue ripercussioni sulla prima comparsa della filosofia ionica, non è stato assente indubbiamente dall'elaborazione della religiosità israelitica nell'ora della liberazione dal servaggio babilonese. Dagli scambievoli contatti di questi mondi in formazione sono nate correnti nuove di idee e atteggiamenti originali di spirito che non sarebbero piú scomparsi dall'orizzonte della nostra civiltà. Cosí, attraverso una esplorazione critico-letteraria che nulla, si sarebbe detto, aveva in comune con le nostre inquietudini attuali e con le nostre crisi di spirito, l'erudizione storico-letteraria e religiosa del secolo decimonono veniva apprestando una visione della religione d'Israele che non avrebbe mancato di offrire moniti e indicazioni preziosi nell'ora del nostro trapasso ideale e morale.

Lo stesso dicasi per tutto ciò che concerne il mondo neotestamentario e le origini del cristianesimo: anche se, su questo terreno, come del resto è perfettamente comprensibile, il cammino è stato piú complesso e piú mo­vimentato.

Tre nomi vanno iscritti, alle sorgenti della scienza religiosa neotestamentaria contemporanea: quelli di Giovanni Augusto Ernesti, di Giovanni Salomone Semler e del Lessing. Il primo aprí le vie alla esegesi critica neotestamentaria e alla teologia biblica. La fede profonda nella ispirazione religiosa della Scrittura, che egli sentí in perfetta consonanza con la tradizione riformata, non gli impedí di affidare unicamente alla perizia filologica e all'analisi letteraria il còmpito di indagare e fissare il significato concreto dei documenti scritti della Rivelazione. La sua Institutio interpretis Novi Testamenti che fra il 1761 e il 1809 raggiunge le cinque edizioni, rappresenta effettivamente tutto un nuovo orientamento positivo ed oggettivo nello studio della letteratura neotestamentaria.

Il Semler dal canto suo inaugura l'esplorazione storica del fatto cristiano studiato nel secolare sviluppo del suo divenire episodico. Su molti punti di critica religiosa egli ha apertamente patrocinato conclusioni che gli meritano a buon diritto la qualifica di precursore. Se la immaturità adolescente della scienza sacra gli impedisce di assurgere ad una visione sinteticamente organica delle leggi che hanno presieduto alla formazione della religiosità umana e hanno disciplinato il corso storico del messaggio cristiano, egli è per questo stesso testimone del cammino percorso dalla dialettica del Vangelo luterano. Ché, al cospetto del turbinoso incrocio dei fattori che sono entrati di secolo in secolo nella elaborazione della tradizione cristiana, egli non sa fare altro che chiudersi gelosamente nei confini circoscritti della sua fede personale. La sua distinzione centrale fra religione e teologia è in lui sostanzialmente la trasposizione in sede metodologico-scientifica della distinzione fra fede pura e tradizione che Lutero aveva contrapposto all'attacco del sovrano d'Inghilterra Enrico VIII. Ed in questo sforzo assiduo tendente a salvare in qualche modo dal relativismo della critica il contenuto centrale della esperienza religiosa, il Semler si ricongiunge idealmente all'avversario col quale si trovò costantemente in polemica, il Lessing.

L'autore di Nathan il Saggio non va annoverato fra i patrocinatori razionalisti e illuministi della religione naturale. Un giudizio di tal genere, per quanto ripetutamente pronunciato, sarebbe unilaterale e non equo. Si deve dire piuttosto che la complessa e multiforme attività del suo spirito tradisce la incertezza degli indirizzi che nel suo modo di raffigurarsi la religiosità e il suo sviluppo sono a contrasto. Il Lessing ha sempre oscillato fra una concezione ancora soprannaturalistica della religione e una valutazione puramente storica. La larga visione che egli ha patrocinato della educazione religiosa del genere umano, rappresenta un tentativo grandioso di innestare e di inserire sulla trama dei mezzi simbolici, di cui dispongono le capacità di reciproca comunicazione fra gli uomini, la vecchia concezione ortodossa dei carismi divini. La si direbbe una traduzione laica della teologia sacramentale.

Il Lessing si raffigura un cristianesimo ideale che è un insieme mirabile di verità universali, in perenne conflitto con l'angusta variabilità della storia. Quelle verità sono raggiunte direttamente dalla coscienza e dalla ragione. La storia è incapace, nel suo fragile e superficiale empirismo, di conguagliarsi al mistero sovrano che è nella rivelazione dell'Assoluto all'animo umano. Nonostante il senso vivissimo che il Lessing possiede della evoluzione ascendente dello spirito nella storia, l'empirico e l'Assoluto non riescono effettivamente a toccarsi a vicenda e a fondersi nella sua filosofia religiosa. Profondamente imbevuto dello spirito tradizionale della riforma, il Lessing aspira, con inquietudine sempre desta, alla assimilazione vivente e personale della verità assoluta, al di là della opaca refrattarietà in cui sono irrigidite le formule ecclesiastiche. Saremmo tentati di dire che l'individuo e la collettività, come i due poli mutamente reagenti intorno ai quali si svolge l'esperienza sacra, combattono ancora in lui il loro duello: quel duello a cui, sull'estremo limite dell'evoluzione logica del messaggio riformato, l'idealismo dà tacitazione apparente, risolvendo l'empirismo della storia e la esteriorità dell'oggetto nella celebrazione interiore della spiritualità soggettiva.

Sul terreno della evoluzione culturale della critica neotestamentaria l'importanza del Lessing è precipuamente nella pubblicazione da lui fatta dei cosiddetti Frammenti dell'anonimo di Wolfenbüttel. Ne era autore Ermanno Samuele Reimarus, nato ad Amburgo il 22 dicembre 1624 e morto, professore di lingue semitiche nella Scuola Superiore della sua città natale, il primo marzo 1768.

Parecchie delle sue opere, sempre invariabilmente consacrate a rivendicare i diritti della religione naturale di contro alla canonizzata ed ufficiale fede ecclesiastica, furono pubblicate durante la sua vita. Notevole fra le altre l'opera consacrata alle Verità capitali della religione naturale. Ma l'opera principale del Reimarus, tutta cioè una serie di scritti polemici e di indagini critiche sul Vecchio e sul Nuovo Testamento, destinata a sovvertire tutti gli insegnamenti della fede tradizionale, rimase manoscritta ed è tuttora conservata in una raccolta di piú che quattromila pagine nella biblioteca municipale di Amburgo. Lessing ebbe l'audacia di sceglierne frammenti e di pubblicarli fra il 1774 e il 1778. Di questi frammenti pubblicati, il piú interessante è senza dubbio l'ultimo, sulle finalità che alimentarono l'opera di Gesù e dei suoi discepoli. Senza indugiare in una minuta analisi testuale; senza preannunciare e antivedere quelle che sarebbero le formidabili indagini critico-storiche intorno alla letteratura neotestamentaria durante il secolo decimonono; il Reimarus giungeva di colpo al cuore stesso del problema che investe le origini del cristianesimo e la efficienza del cristianesimo nella storia.

Lessing aveva ben mostrato di comprendere il valore dei frammenti amburghesi, quando aveva scritto che «le tradizioni cristiane dovevano essere ormai direttamente ed unicamente spiegate nella intima verità dell'esperienza cristiana, sicuri in anticipo che se una tradizione possiede in sé questa intima verità, la potrà ancora elargire e far fruttificare, ché solo le tradizioni morte hanno paura di mettere allo scoperto la loro intima essenza e la loro valida consistenza».

Con occhio presago di quelle che sarebbero state poi le conclusioni dell'esegesi neotestamentaria, condotta attraverso tutta una esplorazione minuta non solamente della letteratura neotestamentaria, ma di tutta la letteratura giudaica dell'epoca in cui Cristo apparve a predicare il suo Vangelo, Reimarus asseriva che tutta la parola cristiana iniziale era stata nell'annuncio e nella consegna pregiudiziali: «Convertitevi, ché il Regno di Dio è vicino; convertitevi, e credete nella buona novella». Quel che il Reimarus non vide e che del resto per molti decenni non si sarebbe visto ancora, era che se il Cristo degli Evangeli non aveva creduto necessario di spiegare il bando del Regno di Dio in cui si riassumeva tutta la sua predicazione, se quindi mostrava con questo stesso di non volersi dilungare dal mondo di esperienze e di concezioni familiare ai suoi ascoltatori e ai suoi discepoli, ciò non voleva dire affatto che il suo messaggio potesse essere indiscriminatamente conglobato, e, per dir cosí, dissipato nel quadro totale delle esperienze messianiche del suo popolo e del suo tempo.

Reimarus non vide, e molti altri non avrebbero visto dopo di lui, anche se piú agguerriti di lui sul terreno della critica storica e testuale, che la rivoluzione di Gesù è tutta e solo nella trasfigurazione implicita del concetto di Regno di Dio, trasportato dall'orizzonte delle aspettative politico-nazionali in quello delle esperienze intime e della spiritualità collettiva.

Si direbbe che dovesse contrassegnare la critica neotestamentaria moderna una funzionale incapacità di discoprire nella visione dell'uomo e dell'universo di Cristo gli elementi di natura antropologica e morale che facevano di questa opera illuminatrice di Cristo una vera e propria rivelazione originale e soprannaturale, in quanto, in funzione della sua particolare concezione del Regno di Dio, Gesù veniva ad illuminare la struttura intima della spiritualità umana, come nessuno, in nessun posto, aveva mai fatto e avrebbe mai potuto fare. Il concetto della vita guadagnata attraverso il suo rinnegamento, la visione del mondo, trasfigurato e incivilito mercè il suo pieno disdegno, la prospettiva del mondo tratto a sublimante palingenesi nella luce e nella giustizia, non già attraverso l'inefficiente operosità umana, ma attraverso un prodigioso intervento di Dio; tutti questi elementi originali della predicazione neotestamentaria straniavano radicalmente la parola di Gesù dalle consuetudinarie formulazioni della speranza di Israele e le garantivano una sconfinata possibilità di proselitismo e di azione.

Ad ogni modo, Reimarus ebbe l'insigne merito di scoprire e di proclamare che la speranza della venuta gloriosa di Cristo, della «parusia», fu il dato fondamentale della Cristianità primitiva. Fu merito insigne del Reimarus vedere come la genesi della primitiva dogmatica cristiana fosse in funzione del progressivo dilazionarsi della attesa realizzazione messianica.

Frattanto lo sviluppo della critica neotestamentaria cominciava ad offrire gli elementi per completare e rassodare le intuizioni felici, per quanto circoscritte e lacunose, del Reimarus.

La differenza fra la tessitura del quarto Vangelo e dei primi tre Vangeli canonici, era messa in una luce che non avrebbe potuto piú essere revocata in dubbio. Griesbach escogitava il termine di «sinossi» che vale colpo d'occhio d'insieme, per indicare il fatto palmare che i Vangeli di Matteo, di Marco e di Luca, distribuiti l'uno di fianco all'altro, a scambievole parallelismo e riscontro, tradiscono in pari tempo rassomiglianze e divergenze che impongono una loro valutazione simultanea e collegata. Schleiermacher dal canto suo, fondandosi sulla famosa testimonianza del vescovo anatolico Papia sulla redazione degli Evangeli e osservando che tale testimonianza non si conformava adeguatamente ai caratteri dei testi attuali di Matteo e di Luca, patrocinava la conclusione che Papia di Gerapoli avesse conosciuto soltanto una raccolta di Loghia, un proto-Matteo ed un proto-Marco. La tesi doveva avere un successo spettacoloso, analogo a quello che aveva avuto l'ipotesi delle varie fonti nella letteratura biblica che porta il nome di Mosè. È passato piú di un secolo e la critica neotestamentaria, non difformemente da quella vecchio-testamentaria, ha continuato, con rinnovati sforzi, a cercare di chiarire e di precisare il processo redazionale dei nostri Vangeli canonici. Si è andati molto innanzi nelle audacie temerarie della critica negativa e attraverso oscillazioni perfettamente comprensibili si è passati dalle ipotesi piú radicali a quelle piú conservatrici. Una cosa sembra potersi ormai dire che sia uscita definitivamente assodata da un secolo e mezzo di indagini neotestamentarie, ed è la natura sostanzialmente messianica ed escatologica, vale a dire attingente le ultime finalità della vita umana e dell'universo, della predicazione di Gesù. La quale è vista sempre piú figurativamente collegata al mondo delle esperienze e delle visuali care al popolo giudaico, fra l'epoca di Antioco Epifane e l'epoca dei Flavi. Questo mondo di visuali e di aspettative si è venuto sempre piú illuminando ai nostri occhi, mercè il recupero di testi letterari rinvenuti in versioni le piú eccentriche e le piú disparate. Ma si potrebbe dire che nell'atto stesso in cui questi ritrovamenti letterari, fiancheggianti la piú diretta e oggettiva valutazione delle fonti evangeliche, hanno portato a riavvicinare le formule e le immagini dell'insegnamento di Gesù al fascio degli atteggiamenti dei suoi contemporanei, la piú perspicace analisi dei dettami cristiani ha messo in luce sempre piú meridiana l'originalità inconguagliabile della rivelazione del Cristo.

Laborioso e tortuoso è stato il cammino della critica neotestamentaria nel secolo decimonono. Essa ha risentito delle condizioni ambientali, cosí sul terreno della cultura, come su quello della vita sociale e politica, rispecchiando dell'una e dell'altra l'andamento, le preoccupazioni, le tendenze. Basta pensare a quel che hanno significato, nel secolo decimonono, la Vita di Gesù di David Federico Strauss e quella di Ernesto Renan. L'opera dello Strauss, primo tentativo saldo e coerente di interpretare la genesi del fatto cristiano alla luce della filosofia hegeliana, finiva col sacrificare nella vita di Cristo tutto quello che fosse apparso incompatibile con la concezione idealistica della storia e piú genericamente della spiritualità nel mondo. Si suol dire che Strauss dissolve la vita di Gesù in un puro mito. Ma questa è una vera e grossolana assurdità ripetuta da chi non è andato al di là della superficie della grande opera, che poco piú di un secolo fa, in un migliaio e mezzo di pagine, rivoluzionava, si può dire, la coscienza religiosa della Germania protestante.

Mentre fino a lui la teologia critica aveva proceduto molto timidamente, e non senza preoccupazioni, a decidere che cosa della vita storica di Gesù sarebbe rimasto come indispensabile fondamento dell'esperienza religiosa collettiva, qualora ci si fosse abbandonati al metodo mitico nella interpretazione dei primi testi cristiani, Strauss proclama senz'altro di possedere, come innegabile vantaggio su tutto il mondo teologico del suo tempo, vantaggio mancando del quale si è nell'impossibilità di compiere qualsiasi cosa concreta nel dominio della storia, il privilegio di essere, cosí sentimentalmente come idealmente, emancipato da qualsiasi presupposizione dogmatica. La filosofia hegeliana, egli professava, lo aveva liberato integralmente dandogli un concetto chiaro del rapporto esistente fra idea e realtà e ponendolo quindi su un piano talmente alto, in fatto di speculazione cristologica, da indurlo ad avere sempre presente allo spirito la scambievole penetrazione nùstica del finito e dell'infinito, di Dio e dell'uomo. Se cosí ricreata la biografia di Gesù appariva come un poema mitico, questo poema mitico non era altro che una esemplificazione di quel permanente mito, che è del resto piena concretezza, per cui, a norma della filosofia hegeliana, si può scorgere nella natura e nella storia l'idea che, straniandosi da sé nel mondo naturale, si ritrova nel mondo storico. In fondo, alla concezione filosofica e religiosa di Strauss, come al suo modo di interpretare l'apparizione di Cristo nella storia, si ricongiungono idealmente tutti coloro che vedono oggi nel cristianesimo la discoperta di una presunta spiritualità del reale, e nel Cristo l'antesignano di tutti coloro che di questa spiritualità del reale fanno professione.

A trent'anni di distanza dalla comparsa della prima edizione della Vita di Gesù dello Strauss compariva a Parigi la Vita di Gesù di Ernesto Renan. Strauss aveva influito potentemente sull'ex-allievo di San Sulpizio. Piú tardi, nel 1870, nel pieno della guerra franco-germanica, Renan avrebbe scritto a Strauss, alludendo agli avvenimenti circostanti. Strauss ne avrebbe colto l'occasione per additargli, in una vivace lettera aperta del 12 agosto, quelle che a parer suo erano le giustificazioni ideali dell'entrata in campagna della Germania. E, a poco piú di un mese di distanza, replicando ad alcune osservazioni del Renan, Strauss avrebbe sostenuto i diritti tedeschi alla cessione dell'Alsazia, come difesa delle sue frontiere naturali.

Il dissidio politico veniva bene a porre in piú nitido risalto il dissenso ideale. Per quanto profondamente soggiacente all'efficacia delle idee straussiane nell'evoluzione del suo pensiero, la Vita di Gesù dell'ammaliante scrittore francese è cosa profondamente difforme dalla Vita di Gesù del filosofo germanico. E nella difformità delle due vite di Cristo era effettivamente la differenza dei due orientamenti spirituali, germanico l'uno, francese l'altro, che divideva e portava a superiori rinnovamenti tutta la cultura europea.

Lo Strauss non aveva visto altro nell'apparizione di Gesù e nel risonare della sua parola che uno dei momenti salienti di quel poema eterno, che è la consapevole attuazione della spiritualità nell'orizzonte della vita associata umana. Tutto imbevuto di filosofia hegeliana, egli aveva disdegnato, si potrebbe dire, il significato di qualsiasi episodio sensibile nella vita del Cristo per vedere soltanto nei quattro Vangeli l'eco di questa risonante spiritualità universale, che palpita e vive nella storia.

Renan era incapace di assurgere a simili epiche visioni. Per quanto consacrata da un plebiscitario successo internazionale, segno tremendamente ammonitore della decadenza della spiritualità cristiana nel secolo decimonono, la Vita di Gesù del Renan non è che una sdolcinata visione idilliaca del Cristo galileo, fatta per quell'Europa liberale che a mezzo il secolo decimonono credette di poter essa instaurare nel mondo, con la luce della ragione, il Regno di Dio. Era, né piú né meno, che Illuminismo enciclopedista, orpellato di decadentismo idilliaco. Nulla di drammatico e di potente in quest'opera che avrebbe voluto rappresentare l'ultima parola intorno al piú immane dramma che la storia abbia registrato: il discoprimento cioè del tremendum che è nella vita associata degli uomini, superabile soltanto dal fascinans di un Regno di Dio, che non sia millantato acquisto umano, ma pienezza vendicatrice della giustizia divina.

Tutto, in quest'opera melliflua e sdolcinata, è addomesticato, attenuato, affievolito. La perspicacia del Renan naturalmente coglie a volo le risultanze ormai inoppugnabilmente assodate dell'indagine critica neotestamentaria. Nessuno anzi meglio di lui le fissa in formule nitide e definitive. Ma, accettata e canonizzata la constatazione critico-letteraria, il Renan ne disperde e ne dissipa i risultati e le conseguenze per via. Ecco un esempio. In poche battute egli tratteggia il rapporto reciproco fra il Vangelo cosiddetto di Giovanni e i Vangeli sinottici: questi, narrazione episodica e sostanzialmente esatta anche se già atteggiata alle credenze che Paolo ha introdotto con la sua fortissima esperienza nella raffigurazione del Cristo, dell'itinerario percorso da Gesù nel suo transito dalla predicazione galilaica alla predestinata missione in Giudea e alla ineluttabile catastrofe gerosolimitana; quello, rielaborazione potente dell'apparizione del Cristo attraverso una concezione soggiacente alla filosofia mistica di Filone Alessandrino.

L'opzione fra il Vangelo mistico e i Vangeli storici è indeclinabile. Renan non la contesta. Ma poi si adopera con le arti piú sottili a togliere al contrasto fra le due raffigurazioni evangeliche ogni asprezza e ogni irriducibilità. Senza dubbio, egli riconosce, i discorsi giovannei del Verbo fatto carne non tradiscono segni di autenticità. Avrebbe mai potuto il Cristo storico parlare un linguaggio cosí filosoficamente elaborato? E pure il Vangelo deve potersi riportare in qualche modo al discepolo che Gesù predilesse. Ed ecco l'ipotesi abilmente insinuata.

Il discepolo prediletto, divenuto vecchio, dové poter leggere gli altri Vangeli e dové poter essere male impressionato da qualche inesattezza, capace in particolare di suscitare in lui speciali motivi di reazione; e poté cominciare a dettare cose che egli era in grado di conoscere meglio degli altri, sia col proposito di mostrare che in molti casi, nei quali soltanto la figura di Pietro era stata messa in luce, anch'egli aveva avuto la sua parte; sia col proposito di filtrare i ricordi genuini dell'apostolato del Maestro attraverso le nuove esperienze e le nuove figurazioni destate dagli eventi che avevano avuto nella distruzione di Gerusalemme del 70 il loro tragico epilogo.

Piú appariscente ancora questa tendenza renaniana a dolcificare e ad avvolgere in un ambiguo alone di sentimentalità vaporosa la drammatica carriera dell'annunciatore del Regno di Dio e del predicatore intransigente della metamorfosi spirituale e del rovesciamento dei valori, nella pittura della prima fase, della fase galilaica, della vita di Gesù. C'è da rimanere oggi sbalorditi nell'osservare come per decenni la media cultura europea sia andata tutta in solluchero dietro le pitture dell'artigianesca virtú pittorica dell'ex-allievo di San Sulpizio. Il quale si compiace nel descrivere quel manipolo di uomini e di donne, tutti contrassegnati dalla medesima gioiosa semplicità di cuore e dalla medesima istintiva ed inalterabile innocenza, che si adunano intorno al mite rabbi in atto costantemente di ripetere ai suoi piedi: – Tu sei il Messia. – Renan insinua discretamente che dal nucleo femminile dei suoi seguaci Gesù fosse ammirato e benvoluto piú di quanto Egli stesso non desiderasse. Ma la sua passione per la gloria del Padre faceva si che Egli si compiacesse di attrarre col suo fascino quelle «belles créatures» e tollerasse che servissero Lui e attraverso Lui servissero Dio. Renan si compiace di effondersi nell'evocare la perseverante devozione con cui tre o quattro donne galilee accompagnavano il Maestro e facevano a gara vicendevolmente per confortarlo nelle traversie del suo ministero. Si indugia con insistente attenzione a rilevare la devozione di Maria Maddalena, il cui spirito esaltato e disordinato era stato guarito «par la beauté pure et douce» del giovane Maestro. Il Gesù di Renan è appunto il Maestro che con la sua predicazione «suave et douce», con questa sua predicazione che non è altro che la «délicieuse théologie de l'amour», lascia costantemente dietro di sé una scia lattiginosa di sorriso e di beatitudine. Non è questa una raffigurazione liberalistica della piú drammatica rivelazione religiosa che sia stata bandita nel mondo?

Sicché, a conti fatti, la comparsa della Vita di Gesù di Renan, nello sviluppo della cultura europea a mezzo il secolo XIX, ha rappresentato nel medesimo tempo un sintomo dei piú inquietanti della enorme decadenza religiosa in cui si era caduti, e un coefficiente di ulteriore decadimento.

Da parte del cattolicesimo non ci fu altra reazione che quella di una serie innumerevole e mai esaurita di formalistiche e stereotipate trascrizioni armonistiche dei quattro Vangeli canonici, giustapposti l'un all'altro in un uniforme immutevole sforzo di dare dell'opera di Gesù una raffigurazione che fosse preventivamente e artificiosamente in armonia con la teologia ufficiale.

Da parte della critica extraconfessionale ci fu soltanto un progressivo inoltrarsi nella via del mito e del romanzo fino alla negazione aberrante e assurda della stessa esistenza storica del Cristo.

Solo la sconfinata crisi spirituale della civiltà in un conflitto bellico senza precedenti nella storia avrebbe un giorno condotto irresistibilmente ad avvertire che la critica neotestamentaria, con la discoperta del valore essenziale dell'elemento escatologico nella predicazione di Gesù, l'elemento fascinans, era stata una preparazione provvidenziale al recupero di quegli inconfondibili e inconguagliabili valori del Vangelo che la tradizione ortodossa aveva portato al progressivo deperimento e che pure sono gli unici che hanno illuminato di luce divina il problema della vita spirituale cosí nell'individuo come nella vita associata.

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