XVI IL MODERNISMO

Un espertissimo storico della Chiesa, Monslgnor Alberto Ehrhard, ebbe a dire, all'indomani dello scoppio della crisi modernistica e della condanna pronunciata dalla Sede romana su questo movimento con il decreto Lamentabili prima, con la enciclica Pascendi poi, che il modernismo era, dopo il movimento giansenista, il movimento piú serio e vasto di riforma che si fosse delineato nell'ambito della Chiesa cattolica, nell'età moderna.

A distanza di anni si può dire che l'apprezzamento dell'Ehrhard rispondesse a realtà, non solamente per la ampiezza degli echi e delle ripercussioni sollevati dall'uno e dall'altro movimento, bensí anche per una certa intima corrispondenza, che ad un esame oggettivo fa apparire i due movimenti idealmente collegati, piú di quanto a prima vista non si sarebbe indotti a pensare.

Noi abbiamo mandato innanzi a questo capitolo sul modernismo una rapida rassegna del movimento storico-scientifico che ha portato dalla metà del secolo XVIII a noi ad una revisione completa dei tradizionali modi di concepire cosí la rivelazione biblica fra gli antefatti e i presupposti del cristianesimo, come la stessa rivelazione cristiana nel quadro globale della religiosità umana.

L'enciclica Pascendi credette di poter ridurre ad un denominatore comune le molteplici forme della corrente modernistica facendone il derivato di una filosofia immanentistica e di un razionalismo mal dissimulato.

In realtà, il modernismo era una cosa molto piú vasta che non l'applicazione di alcuni principî filosofici, che avevano raggiunto un certo grado di diffusione nella cultura moderna. Ma si può benissimo ritenere che coloro che mossero alla costruzione di una apologetica religiosa, che portasse la teologia cattolica fuori dal marasma della sua sterile ufficialità, furono mossi soprattutto dalla consapevolezza della incompatibilità assoluta fra alcune, molte anzi, delle posizioni dell'ufficiale dogmatica cattolica quale era uscita dai Concili di Trento e del Vaticano, e i risultati della critica storica.

Il carattere distintivo del modernismo fu la stessa indeterminatezza del suo programma. Esso infatti non investí un punto particolare della dogmatica ufficiale e non insorse contro una particolare regola della disciplina cattolica.

Le eresie storiche ebbero sempre questo di peculiare: che su una zona speciale della dottrina ortodossa, su uno dei problemi della teologia o della soteriologia che costituiscono le basi del cristianesimo tradizionale, assunsero una conclusione e una teorema divergenti da quelli adottati dalla maggioranza ufficiale degli interpreti accreditati della fede.

Il modernismo non ebbe una «eresia» da difendere, un'opinione personale da bandire e da patrocinare su qualcuno dei dogmi cattolici. La stessa enciclica Pascendi dovette implicitamente riconoscergli questo singolarissimo carattere, che distingue il modernismo da tutti gli errori teologici di cui è disseminata la storia del cristianesimo. Anzi, credette di poter scoprire in questo singolare carattere una ragione piú impellente per condannarlo in blocco, definendolo «la sintesi di tutte le eresie».

In realtà la frase «sintesi di eresie» implica una vera e propria contraddizione in termini. Se infatti, etimologicamente e storicamente parlando, eresia non è altro che un'opinione speciale su un problema particolare di speculazione filosofico-religiosa, è evidente che non ci può essere una sintesi di una molteplicità di opinioni tutte in contrasto con la dogmatica ufficiale. Una sintesi d'eresie, se potesse esistere, sarebbe per questo stesso fuori da qualsiasi ambito dell'esperienza religiosa e cristiana.

In concreto il modernismo è stato altra cosa che una presa di posizione su un solo ed unico problema della dogmatica cattolica. Proprio per questo la sua importanza trascende le polemiche confessionali per inserirsi nel processo stesso del divenire nella cultura spirituale moderna.

A considerarlo nella sua multiforme comparsa e nel suo rapido tirocinio, bruscamente arrestato dai documenti di condanna della Inquisizione romana, il modernismo appare oggi effettivamente come un orientamento nuovo ed originale nella linea di sviluppo della spiritualità contemporanea, il quale volle trarre dalle diverse tendenze della speculazione e della cultura storica una raffigurazione piú oggettiva dell'esperienza religiosa, e volle far sorgere dalla crisi morale del nostro tempo un'adesione piú esplicita e piú primitiva al messaggio contenuto nella predicazione del Nuovo Testamento.

Il primo documento promulgato da Roma per colpire alcune delle tendenze piú note della critica modernistica fu il decreto emanato il 3 luglio 1907 dal Sant'Uffizio, Lamentabili sane exitu. Tale decreto condannava sessantacinque proposizioni, trentotto delle quali erano pure e semplici conclusioni di critica storica. Tali proposizioni erano ricavate, nella loro quasi totalità, dalle opere dell'insigne e infaticabile esegeta francese, Alfredo Loisy.

Il Loisy era sceso in campo, dopo lunghi anni di movimentata carriera ecclesiastico-teologica, contro i discorsi pronunciati da Adolfo Harnack all'Università di Berlino, nel 1900, sulla Essenza del cristianesimo. Ultimo rappresentante dell'individualismo, sussistente alle radici stesse dell'esperienza riformata, il professore della Università berlinese aveva cercato di fissare in termini di esperienza germanica contemporanea i dati della rivelazione evangelica. Ed aveva ridotto i principi basilari dell'insegnamento neotestamentario alla discoperta del concetto di Dio Padre e del correlativo concetto dell'infinita dignità dell'anima umana, e alla determinazione solenne dell'universale legge d'amore. Di rimbalzo, Harnack veniva automaticamente a definire lo sviluppo del cristianesimo nella storia, e soprattutto il suo progressivo atteggiarsi dogmatico e disciplinare nell'ambito della costituzione cattolica, come un progressivo deterioramento della primitiva luce evangelica.

Il cattolico francese Alfredo Loisy era insorto a dimostrare quanto sostanzialmente antistorica e arbitraria fosse questa raffigurazione harnackiana del processo cristiano nella storia. Il Loisy non faceva altro che rivendicare ed esaltare la validità ed il significato del concetto cattolico di tradizione, in virtú del quale una divina assistenza ed una dialettica infrangibile intimamente collegate da momento a momento, hanno presieduto alla evoluzione progressiva del fatto cristiano. Si sarebbe anche potuto dire che se nell'apologia del Loisy c'erano un difetto e una sezione vulnerabile, questo difetto e questa vulnerabilità erano tutti in una indeterminata genericità della nozione stessa di tradizione, alle cui formazioni e alle cui successive creazioni non si concedeva alcuna possibilità di controllo e alcuna pietra di saggio di infallibile virtú normativa. E allora si ebbe una paradossale situazione, alla luce della quale vanno giudicate e valutate tutte le vicende della vita cattolica nell'ultimo quarantennio.

Roma condannava uno spicilegio di proposizioni ricavate dai volumetti ai quali il Loisy aveva affidato la sua confutazione di Adolfo Harnack. Ma scegliendo per il novero da condannare le proposizioni loisyane, l'autorità inquisitoriale non si preoccupava affatto di indicare dove queste proposizioni fallissero ai bisogni della coscienza cristiana collettiva; non aveva alcuna cura di contrapporre al concetto, se si vuole lacunoso e imperfetto, di «tradizione», quale era patrocinato dal prete francese, una nozione valida e vivente di questo valore della tradizione nel processo di trasmissione della Cristianità, che è la molla concreta della vitalità cristiana nel mondo e la garanzia della sua incolumità spirituale.

Ecco alcune delle proposizioni che Roma denunciava e condannava: «La interpretazione dei libri santi fatta dalla Chiesa non è cosa che possa tenersi in non cale: essa però è sempre subordinata al giudizio approfondito e alla correzione sagace degli esegeti. Dai giudizi e dalle censure ecclesiastiche, emanati contro la esegesi libera e scientificamente agguerrita, si può arguire che la fede proposta dalla Chiesa è oggi in contraddizione con la storia e che i dogmi cattolici non sono suscettibili di conciliazione con le genuine origini della religione cristiana. Nelle definizioni dottrinali la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in cosí intima maniera che alla Chiesa docente non rimane altro che sanzionare le opinioni comuni della Chiesa discente. La Chiesa, quando proscrive errori, non può esigere dai fedeli che essi aderiscano ai decreti di condanna mercè un'adesione interiore alle sentenze che essa ha pronunciato. La rivelazione non è stata altra cosa che la coscienza acquisita dall'uomo dei rapporti intercorrenti tra Dio e lui. I dogmi che la Chiesa dichiara rivelati non sono verità discese dal cielo, ma rappresentano una determinata interpretazione di fatti religiosi, venutasi formando mercè un laborioso sforzo nell'orizzonte dello spirito umano. L'adesione dell'atto di fede poggia in linea definitiva su un cumulo di probabilità. I dogmi della fede debbono pertanto essere creduti a norma di una loro pratica significazione, vale a dire quali regole normative di condotta, piú che come regole di credenza. La dottrina cristologica di Paolo, di Giovanni, dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia, non è quella che Gesù ha insegnato, bensí quella che la coscienza cristiana ha concepito a proposito della figura del Cristo. Il Cristo non ha sempre avuto la medesima consapevolezza della sua dignità messianica. La risurrezione del Signore non è, propriamente parlando, un fatto di puro ordine storico, bensí un fatto di ordine puramente soprannaturale, non dimostrato e non dimostrabile, che la coscienza cristiana ha adagio adagio dedotto da altri fatti. La fede nella resurrezione del Cristo, originariamente, implicò molto meno il fatto stesso della resurrezione che la vita immortale del Cristo presso Dio. La dottrina della morte espiatrice del Cristo non è una dottrina evangelica, ma solamente una dottrina paolina. Non è stato affatto nei propositi di Gesù costituire la Chiesa come una società destinata a perdurare sulla terra lungo una interminata sede di secoli, ché, al contrario, nel pensiero del Cristo il Regno dei Cieli e la fine del mondo erano ugualmente imminenti. La verità non è piú immutabile dell'uomo, poiché si evolve con lui, in lui e attraverso lui. Il Cristo non ha affatto insegnato un insieme determinato di dottrine applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini: ha piuttosto inaugurato un certo movimento religioso adattato e adattabile alla diversità dei tempi e dei luoghi. La dottrina cristiana fu alle sue origini giudaica, divenendo poi, attraverso successive evoluzioni, paolina prima, giovannea poi, ellenica e universale alla fine. Il progresso delle scienze richiede oggi che siano riformate le concezioni della dottrina cristiana cosí su Dio e sulla creazione, come sulla rivelazione, sulla persona del Verbo incarnato e sulla redenzione».

Spigolando cosí dagli scritti di Alfredo Loisy un novero vago ed evanescente di proposizioni che, isolate dal loro contesto, non potevano far a meno di dare un suono falso e illusorio, senza di pari passo additare le proposizioni che avrebbero potuto meglio far intravvedere il mistero augusto della trasmissione del deposito cristiano nella storia, la Curia romana, piú che immunizzare l'ortodossia da rischi, creava confusioni pregiudizievoli e rischi deleteri. La cultura contemporanea chiedeva a gran voce una raffigurazione del deposito rivelato cristiano acconcia alle nuove situazioni della spiritualità mondiale, esposta ai piú seri repentagli, e la Curia si limitava invece a condannare all'ostracismo i primi tentativi diretti a rispondere all'ansia inquieta e angosciata degli spiriti. Non faceva cosí che aggravare la crisi e sollecitarla verso gli epiloghi piú impensati e piú catastrofici.

In realtà, il modernismo non si prestava affatto ad una figurazione schematica e ad una condanna sommaria. Vasto movimento collettivo e multiforme di coscienze credenti, il modernismo delle origini si presentava come una materia fluida e incandescente, che non avrebbe potuto essere foggiata nelle forme rigide della speculazione teologica senza perdere radicalmente i suoi connotati. Aspirazione confusa ancora ad una rinascita integrale dello spirito evangelico, si presentava come una forza di cui l'autorità avrebbe dovuto sorvegliare il corso e lo sviluppo, per convogliarne la virtú edificativa verso il superamento della tragedia che incombeva sulla tradizione del cristianesimo. E invece la Curia non conobbe che riprovazioni e condanne.

Al sillabo Lamentabili sane seguiva 1'8 settembre 1907 la enciclica Pascendi Dominici gregis. Questa volle essere una riduzione del modernismo a sistema e quindi una sua metodica e organica confutazione. Tesi principale della enciclica era che non esigenze critiche, non conclusioni storiche, non constatazioni inevitabili di divergenze fra le definizioni degli ultimi Concili e la realtà storica, ma un solo ed unico orientamento filosofico si nascondeva alla genesi prima dei molteplici orientamenti modernistici nell'ambito della cultura religiosa cattolica. «Alcuni modernisti», diceva testualmente l'enciclica, «che fanno professione di studi storici, hanno a fastidio che li si prenda per filosofi. A sentir loro, di filosofia non sanno nulla. Si tratta di un'astuzia profonda. Temono piuttosto che li si sospetti di portare nella storia idee già preconcepite di provenienza filosofica e che quindi non li si ritenga per sufficientemente obbiettivi, come oggi suol dirsi, e che pertanto la loro storia e la loro critica siano pura opera di filosofi. Eppure nulla di piú facilmente dimostrabile che questo fatto: che cioè le loro conclusioni critico-storiche derivino per via diretta dai loro principî filosofici. Le loro prime leggi infatti sono contenute in tre principî filosofici e precisamente nel principio dell'agnosticismo, nel principio della trasfigurazione delle cose in virtú della fede, nel principio che può essere detto il principio dello sfiguramento».

Dettato da uno scolastico consumato, il documento pontificio risentiva di quello stato di assoluta ed invalicabile incomprensione degli indirizzi centrali della cultura contemporanea che è il contrassegno paralizzante della teologia ufficiale negli ultimi secoli. Nulla di piú arbitrario e di piú difforme dalla realtà spirituale circostante che immaginare il modernismo come nato unicamente dal proposito di sottoporre l'augusto patrimonio della tradizione cristiana ai principî labili e circoscritti delle tendenze immanentistiche della filosofia moderna. Alle sue origini e nella sua essenza profonda, il modernismo era tutto il contrario: era il tentativo di sottrarre le realtà sacre del Vangelo allo stato di soggezione e di paralizzante decadenza in cui le avevano fatalmente cacciate, attraverso gli ultimi secoli, l'impoverimento e l'irrigidimento razionalistici dell'apologia teologale. Sicché, condannando il modernismo, la Curia mostrava veramente di essere complice e correa della cultura moderna, che ha fatto del pensiero il divino immanente nell'uomo.

E doveva esserci di peggio: perché se la Curia si fosse limitata ad una condanna teoretica, suscettibile poi di correttivi pratici e di attenuazioni disciplinari, il movimento, in quel che esso aveva di vitale e costruttivo, avrebbe potuto trovare il modo di riprendere la sua azione viva e la sua efficacia pedagogica. Invece al giovane clero fu bruscamente tolta qualsiasi possibilità di libera consacrazione agli studi religiosi, divenuti di per sé una professione infamata ed infamante, con il risultato che il giovane clero si gettò disperatamente, come in una via sussidiaria, nella politica e nei movimenti sociali, preparando alla Chiesa in Italia un avvenire carico di responsabilità e di malefizio.

L'8 settembre 1910 gli Acta Apostolicae Sedis pubblicavano un Motu proprio, le cui prime parole erano «Sacrorum antistitum». Con esso si prescriveva uno speciale giuramento che avrebbero dovuto pronunciare, al séguito della vecchia professione di fede nella formula di Pio IV, aumentata delle definizioni del Concilio vaticano, tutti i professori dei Seminari, delle Università e degli Istituti cattolici, tutti i preti nell'ora della loro sacra ordinazione, tutti i sacerdoti in cura d'anime e tutti i dignitari delle Congregazioni religiose. Il documento si iniziava con una invettiva violenta contro tutto quel che appariva di superstite modernismo nelle file del clero cattolico: «Nessun vescovo ignora che una genìa perniciosissima di uomini, i modernisti, anche dopo che la enciclica Pascendi Dominici gregis ebbe tolto loro la maschera di cui si coprivano il volto, non ha abbandonato il disegno di turbare e di sconvolgere la pace della Chiesa. Questi modernisti infatti non hanno mancato di andare alla ricerca di nuovi adepti, raggruppandoli in un'associazione segreta, inoculando cosí nelle vene della società cristiana il veleno delle loro opinioni, mercè la pubblicazione di libri e opuscoli, tacendo o dissimulando i nomi dei rispettivi autori. Se dopo avere riletto la nostra sunnominata lettera enciclica si considera con attenzione questa temeraria audacia, che ci ha procacciato tanto dolore, ci si convincerà facilmente che questi cotali sono quali noi li abbiamo nel summenzionato documento dipinti. Questi avversari sono tanto piú temibili, quanto piú ci toccano da presso. Essi abusano del loro ministero per apprestare l'apporto di un'alimentazione avvelenata, onde sorprendere la buona fede di coloro che non stanno sufficientemente sull'attenti e propagano intorno a sé una parvenza di dottrina che contiene la quintessenza di tutti gli errori». Rinnovando e ribadendo tutti i provvedimenti pratici adottati con la enciclica Pascendi al fine di strappare il giovane clero dalla passione per le indagini religiose e di toglierlo a qualsiasi propinquità con centri di studio che permettessero la libera informazione scientifica e la conoscenza diretta della letteratura critico-religiosa, il decreto Sacrorum antistitum imponeva piú che mai la consegna formale di circoscrivere la preparazione del clero al solo addestramento dialettico-scolastico. Proibiva perentoriamente la introduzione di qualsiasi periodico di carattere storico-scientifico nella clausura dei collegi ecclesiastici. Prescriveva che tutti i professori delle Facoltà filosofiche e teologiche dei Seminari presentassero all'inizio dell'anno accademico, ai loro legittimi superiori, il novero delle tesi che si proponevano di svolgere e di dimostrare. I provvedimenti parvero a tutti onerosissimi.

Nella nuova formula di fede sottoposta all'impegno giurato di tutti gli insegnanti ecclesiastici, figuravano proposizioni che investivano i punti piú sensibili e piú discussi del movimento generale del pensiero moderno, dalla possibilità di dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio, fino alle prove esteriori e controllabili della rivelazione nella storia; dal ripudio esplicito di qualsiasi idea di una evoluzione dogmatica, nel laborioso processo di crescita e di sviluppo della società cristiana nella storia, fino alla negazione di qualsiasi elaborazione prerazionale dell'ineffabile atto di fede; dalla condanna formale di qualsiasi finalità puramente scientifica nell'analisi dei testi sacri, fino alla rinuncia esplicita a qualsiasi programma di una costituzione della apologetica storica del cristianesimo.

Il Motu proprio era una di quelle decisioni che, apparentemente in armonia con i diritti e con i doveri di un magistero come quello cattolico, in realtà condannava la vita intima del mondo ecclesiastico ad una di quelle profonde involuzioni che sono, per una società religiosa, la fonte piú avvelenata di deformazioni e di aberrazioni.

Nessuno riuscirà mai a redigere un bilancio, per quanto approssimativo, della somma di sotterfugi mentali, di transazioni penose, di contorcimenti lamentevoli, che consegne di quel genere imposero alla coscienza del giovane clero. La Curia romana avrebbe espiato amaramente un cosí rude e anticristiano tentativo di soffocamento spirituale.

A considerare il modernismo nell'ancòra informe stadio di sviluppo in cui venne a colpirlo l'irrevocabile decreto romano di condanna, viene fatto di pensare che lo stroncamento del modernismo ebbe qualcosa di un infanticidio.

Non era ancora questo modernismo in una fase iniziale, che non rivelava affatto linearità di indirizzi, chiarezza univoca di direttive, concorde unità di orientamenti e di convinzioni? Per convincersene, basta disegnare in un rapido sguardo panoramico gli atteggiamenti diversi che da paese a paese il modernismo veniva ancora timidamente e tentativamente assumendo.

In Francia, per opera di Alfredo Loisy, il modernismo non aveva altra sagoma che quella di una tentata apologia storica del cattolicesimo. Le ultime pagine del suo primo libretto rosso L'Évangile et l'Église, costituivano, sotto questo punto di vista, una sintesi ricca di possibilità e di prospettive.

«Tutto lo sviluppo», scriveva l'abbate parigino, «della dottrina cristiana non è al di fuori della fede, ma è nella fede, che lo domina per intiero. Il principio tradizionale e il senso religioso hanno avuto sempre il sopravvento sul bisogno di adattamento scientifico, ed hanno salvato la originalità del cristianesimo. I vecchi dogmi hanno la loro radice nella predicazione e nel ministero del Cristo, come nelle esperienze della Chiesa, e spiegano il loro sviluppo nella storia del cristianesimo e nel pensiero teologico... La capacità di adattamento che si riconosce nella Chiesa romana costituisce il piú insigne titolo alla ammirazione dell'osservatore imparziale. Non ne risulta affatto che la Chiesa àlteri il Vangelo o la tradizione. Ne risulta soltanto che essa sa comprendere i bisogni dei tempi. Noi non ci stanchiamo di ripetere che il Vangelo non era una dottrina assoluta ed astratta direttamente applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini per virtú propria. Era invece una fede vivente, impegnata, da tutti i punti di vista, nel tempo e nello spazio dove nacque. Un lavoro di adattamento è stato nel passato, lo sarà sempre in perpetuo, necessario, perché tale fede si conservi e sopravviva nel mondo. Che la Chiesa cattolica abbia adattato questa fede e tuttora la adatti, che essa stessa si adatti continuamente alle esigenze dei nuovi tempi, non è affatto un argomento per ritenere che essa dimentichi il Vangelo o tenga in non cale la propria tradizione. Se ne può ricavare soltanto la conclusione che la Chiesa vuol far valere il Vangelo, come vuol far valere la propria tradizione, sentendo d'istinto quel che l'uno e l'altra racchiudono di flessibile e di progressivamente perfettibile».

Perché non si presero queste parole nel valore di atto di credente che esse recavano chiaro e luminoso? Può darsi che il Loisy non vedesse bene allora e non avvertisse quel che costituiva il fermento sempre vivo della fede evangelica. In fondo il Loisy oscillava visibilmente nel modo di raffigurarsi l'essenza del primitivo messaggio di Gesù. L'avere posto nel conveniente risalto la prevalenza incontestabile dell'elemento escatologico nel ministero del Cristo non lo avrebbe dovuto dispensare dal ricercare i motivi e i valori concreti che sgorgavano dalla fede nel Regno e che avrebbero permesso al cristianesimo nella storia una sconfinata fruttificazione, anche quando la fede nel Regno sarebbe venuta meno sotto il peso della quotidiana delusione. Comunque, il Loisy diceva abbastanza, perché si potessero rinvenire in lui le norme atte a scoprire la continuità che, senza soluzioni, riannoda il fatto cristiano, fino almeno ad un certo punto della sua trasmissione nei secoli, al contenuto sostanziale del suo primitivo programma.

Purtroppo il Loisy non fu all'altezza del còmpito spirituale cui il destino l'aveva chiamato. Sotto i colpi inquisitoriali egli si allontanò repentinamente dalle sue posizioni iniziali per abbandonarsi ad un razionalismo sempre piú arido e ad un nazionalismo sempre piú angusto. Nell'ex-sacerdote, perdutosi nelle astruse raffinatezze della sua critica testuale, si venne gradatamente smarrendo la fiducia nella sopravvivenza della tradizione cristiana e il senso religioso si rattrappí spiritualmente, in maniera cosí grave, da ripudiare, egli una volta scomunicato, la sua qualità di romano e da salutare, niente meno, nella Società delle Nazioni, un surrogato possibile della universale federazione carismatica nel nome del Cristo.

Se Alfredo Loisy rappresentò nel movimento modernista la corrente soprattutto critico-testuale, intesa alla ricostruzione delle origini e dello sviluppo della primitiva letteratura canonica, Edoardo Le Roy rappresentò la corrente filosofica intesa a scandagliare e a definire il valore concettuale delle sentenze dogmatiche. In un articolo della Quinzaine del 1905 riprodotto, poi, ampliato ed annotato, in un volume, egli aveva posto nettamente il quesito: «Che cos'è un dogma?», e aveva proposto una sua soluzione. Dopo avere rivendicato il diritto dei laici ad occuparsi di problemi religiosi con amore e assiduità, nella piena consapevolezza della loro responsabilità personale, il Le Roy tentava di fissare, alla luce di principî metodologici arditi e innovatori, il valore e la portata dei dogmi. Scienziato di riconosciuto valore, familiare con i procedimenti piú accurati delle scienze esatte, il Le Roy premetteva di voler intendere per dogma la proposizione dogmatica, la formula della credenza religiosa.

Constatando come la nozione stessa di dogma ripugnasse alla cultura scientifica e positiva, il Le Roy si proponeva innanzi tutto di individuare i motivi consueti di questa refrattaria ostilità all'accettazione delle proposizioni dogmatico-cattoliche. E questi motivi il Le Roy li riduceva a quattro.

«Un dogma è una proposizione che si offre di per sé come indimostrata e indimostrabile. Quelli stessi che la proclamano vera, dichiarano impossibile che si pervenga a coglierne le ragioni intime di verità. Ora il pensiero moderno, fedele al comandamento di Leibniz, si sforza sempre piú di dare la dimostrazione, perfino degli antichi assiomi. Quanto meno, vuole con Kant giustificarli mercè un'analisi critica che li dimostri condizioni necessarie della conoscenza, compresi a priori in ogni atto di ragione. Il pensiero moderno diffida di quelle pretese evidenze immediate, che altra volta si moltiplicavano con tanta disinvoltura. Si potrebbe osservare», continuava sempre il Le Roy, « che le proposizioni dogmatiche non sono affatto affermate senza prova. E in realtà una dimostrazione indiretta ne è stata numerose volte tentata. Sembra sussista qualche analogia fra questi tentativi di dimostrazione e il comportamento del matematico, che si limita a volte ad enunciare teoremi di semplice esistenza, o a quello del fisico, che accetta spesso fatti di cui è incapace di dare una spiegazione teorica, o a quello dello storico che attinge le sue conoscenze sulla semplice base della testimonianza. Ma una analogia di questo genere è puramente fittizia. Quando un matematico si contenta di stabilire un teorema di semplice esistenza, vale a dire un teorema affermante la esistenza di una soluzione inaccessibile in se stessa, questo matematico ragiona altrettanto rigorosamente in questo punto, come in tutti gli altri della sua scienza. Sul terreno dei dogmi siamo in tutt'altra atmosfera. Occorrerebbe aver dimostrato direttamente che Dio esiste, che Egli ha parlato, che Egli ha detto questo o quello, e che noi possediamo oggi il suo genuino insegnamento. Il che equivale a dire che bisognerebbe aver risolto, mercè un'analisi diretta, il problema di Dio, quello della rivelazione, quello dell'ispirazione biblica, quello dell'autorità della Chiesa. Ma tali questioni sono appunto del medesimo genere che le questioni propriamente dogmatiche, vale a dire questioni a proposito delle quali è letteralmente impossibile addurre ragionamenti comparabili a quelli del matematico. Similmente, quando un fisico accetta un fatto di cui non sa dare una spiegazione teorica, questo fatto corrisponde, almeno per lui, ad esperienze precise, a manipolazioni praticamente eseguibili. In una parola, a un gruppo di gesti di cui ha una conoscenza diretta. Nulla di simile invece sul terreno della dogmatica cristiana. Infine lo storico è nella disposizione di spirito che porta a ricevere la verità sulla base delle testimonianze pervenutegli, perché si tratta di fenomeni del medesimo genere cui appartengono i fenomeni di cui egli è, d'altro canto, spettatore diretto. Quando invece si tratta di dogmi, noi abbiamo a che fare con fatti misteriosi, singolari, sconcertanti, a cui non corrisponde nulla di analogo nella nostra esperienza umana. Non cerchiamo dunque analogie per attutire il senso di diffidenza che certa cultura moderna sembra provare al cospetto delle asserzioni dogmatiche. Diffidenza che è acuita e corroborata dal fatto che le formule dogmatiche appartengono molto spesso al linguaggio di un sistema filosofico particolare, che non si lascia sempre agevolmente decifrare e che spesso non si sottrae neppure al pericolo dell'equivoco, se non delle contraddizioni. C'è qui anzi la difficoltà piú grave che fa recalcitrare tanti al cospetto di dogmi a cui non riescono ad attribuire un significato pensabile. Infine sta di fatto che i dogmi costituiscono nel loro insieme un fascio di proposizioni inconguagliabile con l'insieme delle scienze positive. Né per il loro contenuto, né per la loro natura logica, le formule dogmatiche appartengono al medesimo piano di conoscenza cui appartengono le altre normali proposizioni dell'umano sapere».

Fissati cosí i motivi che secondo lui pongono lo spirito umano in un atteggiamento di recalcitrante ritrosia al cospetto del patrimonio dogmatico cattolico, il Le Roy si accinge ad offrire del dogma una valutazione che lo faccia entrare di nuovo nella circolazione della vita vissuta dall'individuo e dalla collettività umana. Quel che il Loisy aveva fatto sul terreno storico, tentando di dimostrare la logicità e la ineluttabilità del processo che ha portato alla costituzione della dogmatica e della disciplina nella Chiesa, il Le Roy lo fa sul terreno dell'esperienza vissuta.

È fondamentalmente errato, egli assevera, concepire il dogma in maniera intellettualistica. È strano osservare, egli dice, come, tanto presso la maggior parte dei cattolici, quanto presso la maggior parte dei loro avversari, si consideri secondario e derivato il valore pratico e morale del dogma, per collocare al primo posto il suo valore intellettuale, quasi questo costituisse effettivamente il dogma e l'altro ne rappresentasse una pura e semplice conseguenza. Secondo questa maniera volgare e abituale di raffigurarsi le singole proposizioni dogmatiche del patrimonio ecclesiastico, il dogma rassomiglia alla enunciazione di un teorema, enunciazione intangibile di un teorema indimostrabile, racchiudente un carattere speculativo e teorico e collegato pertanto, innanzi tutto, con la conoscenza pura. Qui, veramente sono il modo e il principio di tutte le difficoltà che si sollevano contro l'insieme dei dogmi cattolici. È infatti fatale che si finisca con il concludere alla illegittimità dei dogmi, dal momento che li si vuole definire come rivestiti di una raffigurazione teorica e in pari tempo attribuir loro caratteri difformi ed antitetici da quelli che fanno le enunciazioni corrette e accettabili.

Abituato ai ragionamenti matematici, dove non c'è nulla di residuale lasciato all'apprensione extrarazionale, dove non c'è nulla che assuma significazione misterica, e validità indefinita oltre la constatazione del calcolo, il Le Roy toccava veramente il punto saliente e dolente della intrinseca contraddizione in cui è venuta a gettarsi rovinosamente l'apologetica, che tenta in pari tempo di fare del divino una realtà suscettibile di trascrizione concettuale, pur volendone garantire la super-razionale inesplorabilità. Il Le Roy segnalava anche le conseguenze perniciose e le esagerazioni deplorevoli, eppure in realtà frequentissime, verso cui sospingeva la nozione intellettualistica del dogma. Egli mostrava cosí come nell'insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica si fosse finito molto spesso col confondere i dogmi propriamente detti con opinioni particolari o con particolari sistemi teologici, vale a dire con raffigurazioni intellettuali del tutto secondarie ed accessorie. Come si era finito anche con il disconoscere che il dogma, di per sé, non possiede alcuna significazione scientifica, e che il suo orizzonte è estraneo e superiore a qualsiasi orizzonte puramente empirico, puramente sperimentale, puramente meccanico. Che cosa è dunque un dogma? Ed ecco la tesi formulata dal Le Roy. Occorre dapprima sbarazzare il terreno da un fraintendimento preliminare. Si riconosca ben chiaro che un dogma ha un senso puramente negativo: condanna posizioni erronee piú che determinare la verità. Si prenda la certezza della resurrezione del Cristo. Il dogma che tocca questo fatto, capitale nella genesi e nello sviluppo della comunità cristiana, non vuole dire alcunché su quale sia stato il meccanismo di questo fatto prodigioso, né di quale specie sia la seconda vita del Cristo. In altre parole il dogma non ci offre una concezione: vuole piuttosto escludere alcune pseudoconcezioni, su cui noi potremmo essere tentati di poggiarci. Vale a dire, ci vuole assicurare che non è stato imposto alcun termine all'azione del Cristo sulle cose del mondo, che egli interviene ancora e vive in mezzo a noi, non già come un Maestro scomparso la cui azione rimanga feconda e viva e di cui l'opera continui a suscitare ripercussioni, ma è il nostro coetaneo perché la morte non è stata per lui, come per la comune degli uomini, la cessazione definitiva dell'attività pratica.

La storia conferma questo valore negativo delle formulazioni dogmatiche. Sta di fatto che il processo definitivo dei dogmi è subordinato ed è in funzione del lavorìo sottile delle posizioni ereticali. La definizione dogmatica mira costantemente a condannare tentativi di interpretazione, rivelatisi perniciosi ed ambigui; a colpire con la taccia di errori alcune delle concezioni filosofiche, vegetanti intorno al fatto dogmatico; ad eliminare e a ripudiare alcune di queste parassitarie trascrizioni intellettuali. Sicché, a volte, le formule dogmatiche ricorrono nelle loro trascrizioni esteriori a termini filosofici di diversa provenienza, senza preoccuparsi affatto di fondere insieme e di unificare incisi lessicali palesemente eterogenei. In sostanza, le definizioni dogmatiche si limitano a chiudere e a sbarrare false strade : niente piú di questo. Di modo che può dirsi che il vero ed unico metodo per studiare i dogmi, dal punto di vista intellettuale, è il metodo storico. Impossibile pertanto comprendere gli enunciati dogmatici e a piú forte ragione giustificarli, se non si comincia dal collocarli nel loro ambiente storico naturale, al di fuori del quale il loro senso genuino si dissolve adagio adagio nell'ambiguo e vago, se pure non svanisce del tutto.

Premesso ciò, il Le Roy procedeva alla sua tesi positiva. Sarebbe una angusta unilateralità scorgere nei dogmi unicamente una significazione negativa. Il dogma riveste soprattutto una significazione pratica. Enuncia in primo luogo una prescrizione di ordine pratico. È, piú che altro, la formula di una regola di condotta: qui il suo valore positivo. Questo non vuoi dire, s'intende, che esso sia senza rapporto con il pensiero, perché vi sono pure doveri che concernono l'attività pensante, ed è d'altra parte implicitamente affermato dal dogma stesso che la realtà contiene di che giustificare come ragionevole e salutare la condotta prescritta.

I dogmi, da questo angolo visuale, non appaiono piú come formule enigmatiche e tenebrose, che Dio avrebbe pronunciato in nome della Sua onnipotenza, per colpire e vulnerare l'orgoglio del nostro spirito. Essi posseggono un senso morale pratico e nascondono un'applicazione vitale, che ci può essere piú o meno accessibile, in proporzione del grado di spiritualità in cui noi ci troviamo.

Dovrebbe essere cosa, questa, riconosciuta da tutti. C'è forse qualcuno il quale non sappia che il cristianesimo non è un sistema di filosofia speculativa, bensí una fonte e una regola di vita, una disciplina d'azione morale e religiosa, in altri termini un insieme di mezzi pratici, onde conseguire la salvezza? Che meraviglia pertanto che i dogmi investano innanzi tutto la nostra linea di condotta, piú che la pura conoscenza riflessa?

Un principio di questo genere trae con sé conseguenze di rilevante importanza. È chiaro innanzi tutto che tale principio risolve una quantità di problemi e di difficoltà. Col dogma non si tratta di raggiungere un enunciato teorico, che è in condizioni radicalmente contrarie a quelle che prescrive il metodo della conoscenza astratta. Non ci si trova piú di fronte ad uno scandalo logico, bensí solamente ad un problema che investe i rapporti fra il pensiero e l'azione. Problema difficile senza dubbio, ma abbordabile, che non appare piú come assurdo fin dal momento della sua prima enunciazione. Certamente occorre sempre offrire una prova ed una giustificazione del dogma, e non è detto che tale còmpito sia agevole. Ad ogni modo uno dei piú grossi ostacoli è eliminato, perché le verità pratiche sono suscettibili di instaurazione e di consolidamento per vie completamente diverse da quelle battute dalle verità speculative. Il fare appello ad autorità, cosa radicalmente inaccettabile nell'ordine del pensiero puro, è perfettamente comprensibile e legittimo nell'ordine dell'azione, perché se l'autorità ha in qualche zona diritti irrecusabili, questa zona è indubbiamente il dominio della pratica.

Si dica altrettanto per ciò che concerne la intelligibilità delle formule dogmatiche. Queste, che risultano inguaribilmente oscure, diciamo meglio, inconcepibili, quando si pretende che esse offrano determinazioni positive della verità da un punto di vista speculativo e teorico, appaiono al contrario capaci di chiarezza, se si chiedono ad esse unicamente insegnamenti che investono la condotta pratica. Nessuna difficoltà, ad esempio, intendere, conformemente a tale pregiudiziale, i dogmi della personalità divina, della presenza reale o della resurrezione. Tali dogmi misteriosi, si direbbe anzi quasi refrattari a qualsiasi accettabilità per una intelligenza desiderosa di teorie esplicative, appaiono traducibili in enunciazioni perfettamente nette e precise, quando siano considerati nel loro valore di prescrizioni dettate alla nostra attività. Poiché allora il linguaggio del senso comune si trova perfettamente a posto, non difformemente dall'uso di simboli antropomorfici, di analogie o di metafore. Naturalmente bisogna bene intendersi sul significato del termine e del concetto di pratica. Va inteso nella sua accezione piú larga, nella quale cioè azione e vita appaiono sostanzialmente sinonimi. In tale significato pratico non è l'equivalente di cieco, di eterogeneo al pensiero, di spoglio di qualsiasi rapporto con la conoscenza, perché v'è pure un'azione pensante che accompagna tutte le nostre azioni concrete, una vita del pensiero che circola per entro a tutta la nostra vita. In altri termini, conoscere costituisce una funzione della vita e un atto pratico. Questa funzione e quest'atto pratico, abbinato e accoppiato alla nostra pratica operosa, costituiscono la pienezza dell'esperienza. Soltanto che il pensiero, applicandosi ai dogmi, non deve dimenticare e disconoscere la significazione primamente pratica di questi. Si tratta di realizzare una prova consapevole dell'esperienza vissuta, e non di applicare una dialettica intellettualistica alla realtà dell'esperienza vivente.

Il Le Roy fissava i risultati e le conseguenze della indagine in queste due tesi per lui inoppugnabili: «La concezione intellettualistica corrente del dogma rende insolubili le obbiezioni che l'idea stessa di dogma solleva; al contrario, una dottrina del primato dell'azione permette di risolvere l'arduo e cogente problema, senza nulla abbandonare per via, in fatto di diritti concettuali, né in fatto di esigenze dogmatiche».

L'azione! Si direbbe che a un decennio di distanza, Le Roy non avesse fatto altro che rivendicare il nuovo metodo apologetico che Maurizio Blondel aveva sostenuto nella sua tesi di laurea alla Sorbona, proprio col medesimo titolo: L'action. Di fronte allo scetticismo, al relativismo, alla formidabile corrosione esercitata dalla critica kantiana, il Blondel aveva cercato, con potente originalità, di riannodare l'esperienza religiosa in genere e l'esperienza cristiana in particolare alle esigenze piú intime e alla dialettica piú profonda dello spirito umano operante e ininterrottamente travalicante con la sua volontà volente, la volontà voluta.

Aveva scritto ai suoi tempi Tertulliano, appellandosi, in un tratto di ispirata genialità, alla testimonianza diretta dell'anima umana, per proclamare il valore inattaccabile della rivelazione evangelica: «Io invoco una nuova testimonianza, piú conosciuta di tutti i libri, piú sicura di tutte le dottrine, piú diffusa di qualsiasi editto, piú autorizzata dello stesso uomo, perché è questa testimonianza che costituisce l'uomo nella sua specifica natura. Ed ecco, dunque: presèntati al mio tribunale, o anima umana, e rispondimi. Io ti interpello. Ma bada bene. Chiamandoti al mio cospetto, io non ti voglio quale tu esci pedantesca e deformata dalle scuole o dalla lettura delle vecchie carte, pronta a recare al mio cospetto le fredde e aride formule che tu sei venuta meccanicamente e passivamente assorbendo dall'Accademia e dal Portico. No. Presèntati nella nuda rudezza della tua semplicità primitiva. Io ti voglio barbara e ignorante, quale ti posseggono quelli che non posseggono altro che te. Per questo ti vado a cercare nei crocicchi, in mezzo alla folla, perché tu, spontanea e schietta come sei uscita dalle mani del Creatore, mi dica, a chiare note, quel che il tuo Creatore ha nascosto sotto i velami del tuo essere e del tuo avvenire».

Nelle sue grandi età di conquista la fede cristiana non è stata mai il distillato laborioso e rarefatto di complessi lambicchi dialettici, e la solidificazione di esteriori norme burocratiche. Nell'età classiche sue, l'esperienza cristiana, per trionfare nel mondo, per costituirsi disciplinatrice della vita associata, non ha voluto essere raccomandata a pesanti costruzioni metafisiche e disciplinari. Ha voluto essere solo appello a speranze cieche dello spirito, attuazione di esigenze appena confessate dell'anima umana, sgomenta e attratta insieme dal mistero dell'universo e dalla inquietudine della universale salvezza nel bene e nella pace.

La tesi del 1895 di Maurizio Blondel si sarebbe potuta definire un tentativo meritorio di elaborare, in termini di modernità, l'argomentazione del vecchio apologista cartaginese. Saggiando ed esplorando mercè una analisi sottilissima le profondità piú riposte dello spirito umano che egli veniva cogliendo e scoprendo attraverso il processo indeclinabile dell'azione, il Blondel cercava di trarne, netto e perentorio, un appello al trascendente e alla sua rivelazione positiva. Egli mostrava cosí come dal primo destarsi della vita sensibile fino alle forme piú alte dell'attività sociale si svolge e si attua in noi un movimento senza soluziene di continuità di cui è possibile registrare il collegamento rigoroso e in pari tempo il carattere essenzialmente volontario.

«L'apparente necessità di ogni momento e di ogni tappa risulta da un volere implicito. Da una parte i termini successivi della azione sono vicendevolmente collegati in tale maniera che una specie di rigore scientifico si comunica di istante in istante a fasi che non l'hanno ancora ricevuto. D'altra parte, scoprendo come i nostri atti si susseguono irresistibilmente e determinando in virtú di quale impulso essi si superano permanentemente, come cerchi disegnati da un sasso caduto sulla superficie di un'acqua profonda, ci si verrà apprestando adagio adagio al quesito supremo: si o no, per chi si limiti all'ordine naturale, sussiste pareggiamento tra la volontà volente e la volontà voluta, e l'azione che rappresenta la sintesi di questa duplice volontà, trova essa forse in se stessa di che bastare a sé e di che definirsi? Sí o no, la vita dell'uomo la potremo circoscrivere e limitare a quel che è umano e naturale, senza sentire la necessità di fare appello a qualche cosa di trascendente?».

Seguendo attento ed implacabile le piste dell'uomo che vuole e che opera, Biondel lo accompagna fin sulla soglia del soprannaturale per mostrargli, al di là, il coronamento necessario e indispensabile delle sue aspirazioni e dei suoi sforzi. «Un conflitto necessario nasce nel nucleo piú centrale della volontà umana, per imporle di optare praticamente fra i termini di una alternativa inevitabile, di un'alternativa tale che l'uomo o cerca di restare padrone di sé per garantire avaramente tutto se stesso, o si abbandona all'ordine divino piú o meno oscuramente rivelato dalla coscienza».

Non c'era qui una parafrasi di quel che già in antico aveva detto Sant'Agostino, essere due gli amori che fermentano nel cuore dell'uomo: l'amore di sé soverchiante l'amore di Dio o l'amore di Dio soverchiante l'amore di sé? E non aveva detto anche Sant'Agostino che noi optiamo fatalmente e inevitabilmente fra questi due amori? Ma oggi, venendo dopo parecchi secoli di un'apologetica strettamente intellettualistica, tutta intenta a trarre il riconoscimento e l'affermazione di Dio mercè i principî dialettici della causalità applicati all'universo sensibile, questa apologetica del Blondel, traente il sentore del trascendente dall'attività umana e dalla dialettica intima del suo faticoso divenire («l'attività pratica reca sempre in se stessa la propria certezza e la propria pace») doveva esporlo fatalmente all'accusa di soggettivismo e di relativismo. Blondel non dové faticare a rispondere, rovesciando l'abbiezione contro i propri avversari. Poiché, qualunque sia il metodo della riflessione metafisica, è sempre vero che l'uomo conferisce i propri valori e le proprie raffigurazioni all'universo di cui è l'interprete designato. Tutto in lui riceve l'impronta e la colorazione della elaborazione soggettiva, cosí quel che filtra attraverso i movimenti della coscienza come quel che si inquadra negli schemi astratti della riflessione.

Caso mai, l'accusa piú seria che si sarebbe potuto fare ai metodi della esplorazione religiosa praticati da Maurizio Blondel, sarebbe stata la contraria. Non era essa troppo poco soggettiva, questa dimostrazione del trascendente che aspirava ad essere, paradossale contraddizione in termini!, una dialettica del misticismo, una summa sillogistica dell'adesione emozionale a Dio e al suo messaggio di salvezza redentrice? Normalmente, la esperienza mistica non ha che una via di dimostrazione, ed è la comunicazione dello stato estatico e la partecipazione associata ai doni dello spirito : forma per eccellenza di pura esperienza individuale. Blondel stesso mescolava ininterrottamente alla sua speculazione dialettica gli accenti di una vita religiosa profondamente vissuta. «Il grande sforzo del cuore», scriveva egli una volta, «è quello di credere all'amore di Dio per l'uomo. E chi ha compreso che l'uomo può e vuole essere divinamente amato, come se fosse l'iddio di Dio stesso, non si meraviglia piú che la via dell'annientamento e della mortificazione sia la strada del pieno amore».

Attraverso decenni di affannose polemiche religiose, Maurizio Blondel, mantenutosi costantemente in un atteggiamento di silenzioso riserbo, ha lasciato passare la bufera, tenacemente avvinto in cuor suo alla piú ossequiosa e sottomessa disciplina ortodossa. A distanza di un trentennio dalla prima divulgazione della sua tesi di laurea alla Sorbona, egli avrebbe cercato di saturare, per conformarsi sempre piú agli indirizzi ufficiali della teodicea e della apologetica, con elementi di pura speculazione gnoseologica, le iniziali posizioni della sua militante carriera. Ma il Blondel, che conta e che conterà nella storia dello spirito cristiano francese al tramonto del secolo decimonono, è il tentativo di trasportare la dimostrazione dell'intuizione divina, che è aspirazione insopprimibile dell'uomo, dall'atmosfera del pensiero astratto alle espressioni concrete della vita vissuta. E solo da questo punto di vista la comparsa de L'action va segnalata come uno dei momenti del risveglio modernistico della cultura cattolica in Francia.

Quel che si sarebbe potuto rimproverare al modernismo francese è, in complesso, la mancanza di una preoccupazione viva e presente per le necessità sociali del momento storico. Si era delineato in Francia, come si sarebbe delineato in Italia nel medesimo torno di tempo, il cosiddetto movimento democratico-cristiano, tendente a sottrarre alla propaganda laica ed irreligiosa del socialismo la tutela degli interessi delle masse operaie. Il problema della giustizia distributiva, dell'ascensione degli umili, del riconoscimento dei diritti ad una piú equa partecipazione di beni nel ceto dei lavoratori, era un problema di cui si faceva ogni giorno piú acuta la sensazione in vasti strati del mondo cattolico. Quel che non si vedeva bene e non si avvertiva convenientemente era il collegamento profondo ed inscindibile fra le idealità della democrazia e la crisi stessa della tradizione ufficiale. Si andava generando l'idea che, essendo stata ridotta la vita religiosa a puro fatto di coscienza individuale, la dialettica dei fatti sociali ed economici dovesse svolgersi in una temperie scissa ed avulsa recisamente da tutto il mondo dei valori morali e spirituali. Era ancora l'azione persistente del razionalismo illuminista che si faceva risentire nel modo di considerare in forma frammentaria e discontinua le serie incognite dell'ora storica che la civiltà europea si avviava a traversare.

Bisogna riconoscere che il modernismo italiano, in comparazione con il modernismo d'oltre confine, avvertí la necessità di non isolare dal complesso dei problemi spirituali e religiosi i problemi sociali. A poche settimane di distanza dalla divulgazione della enciclica Pascendi, compariva a Roma, anonimo, un Programma dei modernisti. Era una risposta diretta e minuta al documento pontificio, risposta nella quale erano denunciate, con gli accenti della piú disperata desolazione, la stesura insidiosa e ingannevole dell'enciclica, la sua maniera palese di deformare e di contraffare le idee condannate, la sua brusca violenza contro tutto ciò che aspirasse ad utilizzare con prudenza e con sagacia lo spirito della cultura moderna, in favore del cristianesimo cattolico, andando incontro a quelle che apparivano ormai come le tendenze irresistibili e provvidenziali insieme della civiltà contemporanea.

Gli autori anonimi facevano del loro meglio per dimostrare che le direttive generali e inappellabili degli odierni movimenti culturali postulavano d'urgenza una revisione integrale del patrimonio tradizionale del pensiero e della disciplina concettuale nel cattolicesimo. Esse accertavano come la continuità reale ed essenziale del cristianesimo nella storia non richiedeva affatto una identità astratta di principi e di norme razionali, ma solamente la coerenza intima delle medesime esperienze, delle identiche idealità, degli stessi invariabili valori. In realtà, tale programma, lo si può oggi riconoscere senza possibilità di smentita, offriva una sintesi serena e misurata dei risultati acquisiti dalla critica del Vecchio come del Nuovo Testamento e dall'apologetica storica. Esso additava sommariamente le condizioni nelle quali tali risultati potevano conciliarsi con il genuino patrimonio della predicazione cristiana, sbarazzata di tutto quel che si è sovrapposto ad essa attraverso la sua trasmissione nei secoli. Seguendo passo passo le enunciazioni della enciclica, il Programma modernista italiano tendeva a dimostrare come le formule prese di mira da essa non corrispondevano affatto alla realtà che si voleva combattere. Dimostrava quanto assurda e contraffatta fosse la raffigurazione che il documento aveva divulgato delle esigenze dello spirito moderno, in fatto di religiosità e di direttive intellettuali. Ma soprattutto quel che caratterizzava il Programma modernista italiano in rapporto e in confronto con altre forme di modernismo europeo era la assillante ed apertamente confessata preoccupazione di innestare i nuovi indirizzi della religiosità sul tronco delle aspettative e delle esperienze sociali.

Se c'è cosa che vulnerò e rese miserevolmente fragile e inane la propaganda socialista agli inizi del secolo ventesimo, fu la sua conclamata e grossolanamente ostentata tendenza anticlericale e antireligiosa. Sempre sulla base del principio che la religione sia fatto individuale e cosa privata, il socialismo si era dato a credere che il progresso sociale fosse solo problema meccanico e numerico di distribuzione della ricchezza e non fosse invece uno squisitissimo problema di valori morali applicati alle gerarchie della vita associata. Questa sordità sul terreno morale e spirituale fu una deficienza che avrebbe sinistramente pesato su tutto il movimento democratico del secolo incipiente. Il modernismo italiano sorse in particolare come rivendicazione delle connotazioni morali e spirituali di ogni conquista sociale e da questo punto di vista fu piú di qualsiasi altra forma di modernismo europeo presago e chiaroveggente. Quei medesimi che avevano partecipato alla compilazione del Programma avevano apertamente bandito e patrocinato una visuale di socialismo cristiano che fu, è vero, voce di chiamante nel deserto, ma che non cessò per questo di essere straordinariamente significativa ed ammonitrice.

L'atteggiamento della Germania durante lo svolgersi della crisi modernistica fu, per forza stessa di cose, peculiare. Non si deve dimenticare che le condizioni della spiritualità religiosa e della ricerca erudita nel dominio della religiosità umana presso i cattolici tedeschi, erano, agli inizi del secolo ventesimo, sostanzialmente diverse da quelle constatabili nelle nazioni cattoliche. La propinquità della confessione riformata; i contatti ininterrotti e profondi con una cultura religiosa saldamente nutrita di spirito scientifico e da lungo tempo guidata da metodi impeccabili; l'emulazione naturale con il movimento di pensiero e con i programmi apologetici degli altri Istituti di cultura protestante; tutto ciò aveva permesso ai cattolici tedeschi di assimilare senza sforzo e senza resistenze i criteri delle discipline storico-filologiche e i dettami della esegesi positiva. La produzione scientifica dei cattolici germanici sul terreno della critica biblica e della storia del cristianesimo si era sempre mantenuta ad un livello sensibilmente superiore a quello su cui si mantiene, senza possibilità di variazioni, la produzione cattolica degli altri paesi, dove la rigidezza sospettosa della clausura teologica e gli intenti banalmente edificativi regnano con incontestato esclusivismo. Si aggiunga che il movimento dei vecchi cattolici, insorto contro la definizione dell'infallibilità pontificia da essi reputata quale un'offesa e una defezione di fronte alla tradizione collettiva del cattolicesimo storico, aveva anch'esso straordinariamente favorito in Germania lo sviluppo degli studi storici, praticati con uno spirito di assoluta libertà. Infine l'isolamento della lingua germanica, quasi universalmente ignorata dalla burocrazia della Curia romana, e d'altro canto la potente unità disciplinare della Chiesa cattolica tedesca, sembravano dovessero risparmiare al clero cattolico colà, nel medesimo tempo, una pressione troppo dura del magistero romano e una insurrezione ecclesiastica di rilevante efficienza.

In pratica, la Germania cattolica conobbe, piú di altri paesi cattolici, forme critiche di resistenza alle prescrizioni disciplinari dei documenti antimodernistici emanati dalla suprema autorità ecclesiastica. Si ebbe cosí un'opposizione molto viva al giuramento antimodernista, specialmente da parte dei professori delle Facoltà teologiche dell'Università di Stato. Ma simili manifestazioni non rivelavano una volontà decisa di resistenza né costituivano o presupponevano un'adesione consapevole e pertinace alle proposizioni registrate, ad esempio, nel Sillabo. Si trattò puramente e semplicemente della protesta delle consuetudini scientifiche degli ambienti universitari, timorosi di vedere compromessa cosí quella originaria autonomia di spirito in cui e per cui il lavoro accademico e il prestigio pubblico delle Facoltà cattoliche erano riusciti ad imporsi e si proponevano di imporsi ancora al cospetto della cultura universitaria protestante.

Gli indirizzi culminanti del modernismo francese, consistenti soprattutto in un'apologetica del fatto religioso e cristiano ricavata dalle esigenze profonde della coscienza umana e in una interpretazione fondamentalmente prammatica dei dogmi e della tradizione, si può dire fossero estranei all'ufficiale cultura cattolica tedesca. Dopo il Doellinger e dopo Francesco Saverio Kraus, Ermanno Schell è stato senza dubbio il pensatore e l'apologista piú rimarchevole che abbia illustrato, al tramonto del secolo decimonono, la cultura cattolica tedesca. Nel 1897 egli pubblicava un saggio di grande significato, con questo titolo: «Il cattolicesimo come principio di progresso». In questo saggio lo Schell si era proposto arditamente di individuare le cause profonde di debolezza e di sterilità che il cattolicesimo portava ai nostri giorni in se stesso, e aveva additato dove questo intimo e funzionale male lo avrebbe fatalmente condotto. Di fronte ad un cattolicesimo che egli definiva «volgare e romanizzato» e che durante il percorso della sua trasmissione nella storia ha a proprio danno assorbito tanti elementi di deperimento e di deformazione, da finire col cristallizzarsi in formule teoriche e in una disciplina meccanica che sono in ritardo di parecchi secoli sull'andamento generale della civiltà europea, lo Schell tracciava le grandi linee di un cattolicesimo ideale, capace di assumere di nuovo nel mondo una funzione eminente di direzione e di elevazione, nella verità e nella giustizia. Lo Schell, scendendo a precisi particolari, additava i mezzi che secondo lui sarebbero stati capaci di strappare il cattolicesimo organizzato al marasma del suo inerte assenteismo e del suo torpore. E i mezzi erano i seguenti. Innanzi tutto una partecipazione piú larga e piú attiva dei laici all'azione religiosa della Chiesa. In secondo luogo maggiore autonomia e maggiore libertà nella ricerca scientifica, considerata come un elemento essenziale della formazione del clero. Tale formazione avrebbe dovuto essere tolta alle formule stereotipate della teologia seminaristica per essere affidata esclusivamente alla solida e disciplinata educazione universitaria. Maggiore condiscendenza e comprensione da parte delle sfere ufficiali al cospetto delle inquietudini e delle idealità del giovane clero. Le autorità del cattolicesimo si sarebbero dovute indurre una buona volta a riconoscere in ogni progresso mentale e in ogni evoluzione della tecnica sociale le espressioni di una Provvidenza che presiede al progresso della civiltà umana. Lo Schell infine stimolava i cattolici tedeschi ad assumere una parte sempre piú cospicua e sempre piú consapevole nella vita della nazione germanica, cercando di andare incontro alle tendenze e alle aspirazioni della spiritualità germanica protestante.

Lo Schell però non si limitava a riguardare da un punto di vista strettamente pratico la crisi sociale del cattolicesimo nella vita moderna e a suggerire i mezzi pratici per rialzarne le possibilità normative, nel fascio delle forze della civiltà europea. Si innalzava coraggiosamente ad un'analisi teorica dei principî religiosi che, rappresentando l'anima vivente del messaggio cristiano nella storia, conservano in sé forze intatte di proselitismo e di conquista. Segnalava cosí l'azione mortifera del gesuitismo nel cattolicesimo della controriforma, protestando contro tutte le forme antropomorfiche del culto e della devozione. Nelle sue critiche come nelle sue previsioni, alitava una consapevolezza nobilissima dello spirito che avviva il patrimonio religioso affidato alla custodia del magistero cattolico.

Un suo secondo libro, apparso a breve distanza dal precedente e intitolato I tempi nuovi e la vecchia fede, costituiva un vero e proprio programma di un cattolicesimo rinnovato. In realtà nulla, nell'apologetica dello Schell, avrebbe potuto essere designato come un attentato mosso al contenuto dogmatico del cattolicesimo tradizionale o come un'attenuazione rischiosa della sua disciplina. Lo Schell non toccava affatto le posizioni concettuali del magistero ortodosso. Non si mostrava neppure preoccupato di sapere in quale misura i risultati della ricerca storico-scientifica e della riflessione speculativa postkantiana potessero imporre una revisione generale dei dogmi ecclesiastici ed una restaurazione schematica e radicale dei puri valori evangelici nascosti sotto le formule scolastiche. Se la filosofia medioevale riscuoteva mediocremente la sua simpatia, egli non si sentiva affatto autorizzato per questo a fare ricorso ad un'apologetica metodicamente immanentista. Il suo punto di vista era piuttosto quello di uno spirito forte e lucido che, desolato per la constatazione fatta della inefficienza del cattolicesimo nel mondo, riteneva che sarebbe stato sufficiente, per ridonargli forza, ringiovanirne la milizia e addolcirne con sagacia i metodi pedagogici. Soltanto su alcuni punti dogmatici (eternità delle pene, mistero trinitario, ultimo Giudizio universale, concezione del peccato mortale, lo Schell si mostrava preoccupato di non attribuire, per il prestigio del cattolicesimo, troppa importanza a nozioni singolarmente ingrate ed ostiche, che potevano irritare la suscettibilità degli spiriti moderni. Tanto valse perché il Sant'Uffizio colpisse l'attività dell'apologista germanico. Nel 1907, quando scoppiò la crisi modernistica, lo Schell era morto da un anno. Il destino gli risparmiò di assistere allo scatenamento della persecuzione contro tutto ciò che nel cattolicesimo costituiva ed esprimeva anelito ad un rinnovamento culturale e di rimbalzo spirituale che potesse conferire al magistero tradizionale della Chiesa una efficienza pubblica di cui si presentiva tanto piú urgente la necessità, quanto piú l'edificio dell'Europa liberale si rivelava impari ad assicurare alla convivenza associata orientamenti che dessero agli sconfinati progressi tecnici una corrispondente consistenza morale.

Alla prima pubblicazione dei documenti curiali contro il modernismo, il cattolicesimo tedesco rispose in maniera discorde. Da una parte periodici ultraliberali come Die Renaissance, non senza ostentazione di indifferente sussiego, si diedero a far credere che la condanna pontificia non colpiva in alcuna maniera un aspetto qualsiasi del pensiero cattolico tedesco. Ma in pratica invece tutto il mondo dell'alta cultura universitaria si sentí commosso dalla minaccia lanciata contro la libertà della scienza, che la enciclica aveva troppo improvvidamente tentato di associare ad opinioni e ad indirizzi di cui si declinava ogni piú leggera responsabilità.

Taddeo Engers, che assumeva allora la direzione del periodico Das zwanzigste Jahrhundert, dichiarava che la enciclica colpiva l'apologetica cattolica in Francia, in Inghilterra, in Italia, in America, lasciando però completamente da parte i paesi di lingua tedesca, dove il metodo della immanenza era completamente ignorato e l'esegesi avventurosa di critici come Alfredo Loisy non aveva avuto che scarsissima presa.

Di diverso avviso era invece l'Ehrhard il quale, rispondendo ad un questionario proposto dalla Internationale Wochenschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik, denunciava il pericolo mortale che le condanne romane facevano correre alle discipline religiose nel cattolicesimo. L'Ehrhard si mostrava soprattutto preoccupato della situazione insostenibile in cui sarebbero venuti a trovarsi i docenti cattolici delle Università, di fronte ai loro colleghi protestanti.

«Noi ci troveremo ormai nell'impossibilità di rispondere validamente alle accuse dei nostri colleghi universitari, quando essi asseriscono che è ormai impossibile alla teologia cattolica di procedere a norma dei metodi storici e scientifici. L'enciclica, purtroppo, ha individuato e asserito un vincolo infrangibile fra il modernismo e i procedimenti della scienza. È singolarmente penoso constatare che imputazioni di questo genere sono formulate contro scrittori cattolici i quali non sono responsabili di altra colpa che di volere adottare, con le piú innocenti intenzioni del mondo, i metodi della indagine critica, che pure costituiscono il patrimonio comune e indeclinabile di tutto il mondo scientifico. Se l'enciclica avesse saputo fare una distinzione fra le sintesi della filosofia moderna e i metodi impeccabili dell'analisi filologica, noi non ci troveremmo in questa situazione falsa e compromettente. Tali metodi non rappresentano affatto la creazione arbitraria e soggettiva di pochi individui. Rappresentano piuttosto il risultato naturale e indeclinabile di tutto il precedente sviluppo della cultura e della spiritualità moderne. La teologia non può ripudiarle senza rendersi colpevole di un irremissibile peccato contro lo Spirito Santo. Perché, e bisogna dirlo ben alto, non è da ritenere che la filosofia e la teologia scolastiche abbiano risolto per sempre tutti i problemi. Come l'arte gotica, esse stanno a segnare la fioritura speculativa di una età scomparsa. La politica dello struzzo non può, neppure in teologia, servire a sopprimere il fatto che esiste una questione biblica come esiste una questione apostolica, e come esiste una questione di storia dei dogmi, ciascuna delle quali altre ne comprende in se stessa. Bisogna ben riconoscere che se la Chiesa cattolica possiede oggi l'unità dogmatica non possiede affatto una invalicabile unità di discipline storico-teologiche. Se i provvedimenti disciplinari emanati dall'enciclica Pascendi saranno applicati in Germania, le ricerche religiose ne riceveranno un colpo mortale. E allora si potranno rilevare anche fra noi quelle conseguenze funeste che il predominio assoluto e incontrastato della scolastica ha già determinato in Francia come in Italia, e le Facoltà cattoliche di teologia dovranno scomparire dalle Università germaniche, come sono scomparse dalle Università francesi e italiane».

Anche Giuseppe Schnitzer, a cui, come si sa, la scienza storica deve la piú completa monografia dedicata a Girolamo Savonarola, interveniva nel dibattito rispondendo al medesimo questionario e anch'egli, in termini ancora piú severi, si scagliava contro l'incauta unilateralità dei documenti pontifici, che avevano sottoposto alla medesima condanna i metodi delle scienze positive e le enunciazioni di provvisorie forme filosofiche di apologia e di interpretazione dogmatica.

«Il metodo filologico e storico-critico», egli diceva, «proscritto dall'enciclica Pascendi, non è un metodo di cui gli scrittori cattolici, sia pure modernisti, si siano fatto un monopolio o di cui essi siano gli scopritori. Si tratta, puramente e semplicemente, del metodo universalmente adottato dal mondo scientifico moderno, e a tale metodo gli studiosi cattolici non potrebbero rinunciare, senza esporsi al riso e al dispregio della scienza contemporanea. L'enciclica rivela palesemente la mentalità degli inquisitori, quando solleva dubbi e sospetti sulla lealtà e sulla purità di intenzioni di uomini generosi di cui pure deve riconoscere, di buono o di cattivo grado, i costumi irreprensibili e di cui deve esaltare l'instancabile zelo. Essa non trova altra ragione per darsi conto delle conclusioni del loro intenso travaglio che una curiosità presuntuosa ed un orgoglio biasimevole».

Lo Schnitzer concludeva la sua vivacissima diatriba esprimendo la propria fiducia nel comportamento dei vescovi tedeschi: «Noi siamo sicuri che i nostri vescovi, nelle mani dei quali l'enciclica ha posto il destino della Chiesa germanica, condividono nella loro maggioranza i nostri sentimenti e che nella loro qualità di rappresentanti della Chiesa tedesca porranno tutto il loro impegno d'onore a costituirsi i custodi della sana dottrina e in pari tempo i protettori naturalmente designati delle nostre Università e della ricerca scientifica veramente oggettiva».

E in Germania la resistenza ecclesiastica al giuramento antimodernista fu piú forte ed ebbe migliori risultati. La sollevazione fu cosí unanime e cosí insistente, che la Curia fu in qualche modo costretta a capitolare. Pio X autorizzò a non prestare il giuramento antimodernista tutti gli ecclesiastici che appartenevano alle Facoltà cattoliche delle Università statali in Germania, a condizione però che non godessero alcun beneficio ecclesiastico e non esercitassero funzioni parrocchiali. La clausola rappresentava un'insipida e intempestiva soddisfazione postuma alla Curia, visto che il fare emettere il giuramento antimodernista a professori universitari avrebbe dovuto rappresentare, ai fini inquisitoriali, l'unica consegna appropriata e rassicurante.

La floridissima scienza religiosa in Germania continuò trionfalmente il suo corso. Bisogna francamente riconoscere che una parte imponente, la piú imponente anzi di tutta la produzione scientifico-religiosa moderna, ci è venuta dalla Germania, vuoi cattolica vuoi protestante. E non per nulla due dei maestri piú insigni di scienze religiose negli anni piú vicini a noi, Rodolfo Otto e Federico Heiler, hanno parlato dalle aule di Marburgo.

Ma, dato il nostro modo di considerare la importanza e la significazione della comparsa del cardinale Newman sull'orizzonte culturale cattolico del secolo XIX; dato il nostro proposito di porre in luce, come abbiamo fatto in uno dei nostri precedenti capitoli, il contenuto principalmente innovatore degli storici saggi newmaniani sullo sviluppo del pensiero cristiano e sui caratteri della adesione spirituale ai valori religiosi; è perfettamente logico che noi poniamo in prima linea, nello sviluppo e nelle rivendicazioni del movimento modernista, la figura di Giorgio Tyrrell. Per lui e con lui, al séguito del barone von Hügel, il modernismo britannico rivelava una sagoma originale riconoscibilmente coerente alle posizioni basilari, accreditate e difese da Newman. Già appartenente alla Compagnia di Gesù, il Tyrrell ne era uscito per palese incompatibilità di carattere e di aspirazioni spirituali, rivelatasi attraverso la propalazione di un documento privato. La sua Lettera ad un professore di antropologia fu la scintilla, si può dire, che provocò il grande incendio nel mondo ecclesiastico nei primi anni del secolo. Come noi abbiamo visto, naturalmente formato a quel genere di apologetica soprannaturalista che l'anglicanesimo si era venuto foggiando nella sua polemica contro il deismo e che aveva avuto la sua piú alta espressione nel 1736 con la Analogia del Butler, Newman aveva portato nella sua nuova esperienza cattolica una disposizione di spirito e una tendenza nettamente prammatistiche, che dovevano corroborarsi nella elaborazione del concetto di tradizione. Tali predisposizioni l'avevano portato a fare appello alla coscienza intima della creatura ragionevole per dar valore e virtú edifi.cativa ad ogni tentativo di salire al Divino. Esse dovevano fargli scorgere la Rivelazione in atto di concretarsi nella storia, mercè l'attività spirituale mistica dell'anima credente. Il modernismo poteva indubbiamente accampare il diritto di porre i propri principi sotto l'egida della porpora newmaniana. Tyrrell fu veramente il continuatore incomparabile del Newman. Mentre il modernismo francese suddivideva, su linee parallele di lavoro, il suo sforzo chiarificatore, e il modernismo italiano tentava precocemente una sintesi a cui i tempi erano radicalmente refrattari, Tyrrell vide, con occhio squisitamente sagace, i còmpiti complessi che il modernismo doveva assolvere. Anima mirabile di mistico, egli portava nel suo temperamento di celta convertito al cattolicesimo una singolare facilità nel penetrare, fin nelle piú esili e segrete radici, nel fascio delle forze extrarazionali, che alimentano e sostengono l'esperienza religiosa.

Al professore di antropologia che additava nei risultati acquisiti dalle scienze sperimentali qualcosa di irriducibilmente incompatibile con l'idea corrente dei dogmi religiosi, il Tyrrell non riteneva affatto opportuno e convincente il tratteggiare un quadro artificiosamente concordista dei rapporti fra scienza e fede. Egli non esitava piuttosto a cercare coraggiosamente le prove della validità della religione in generale e del cattolicesimo in particolare in una raffigurazione prammatica del loro contenuto essenziale e dei loro rapporti con le aspirazioni spontanee e le esigenze istintive dello spirito.

«Conosco», ribatteva il Tyrrell al suo corrispondente, «i risultati decisivi della critica biblica, quando essa sia applicata specialmente ai Vangeli. Non mi dissimulo le sue conseguenze dirette o indirette per ciò che concerne le pretese della Chiesa romana alla infallibilità. Riconosco che non ci sono affatto due tendenze cattoliche, giunte, dopo avere esaminato le deduzioni dei critici, a due tipi di conclusioni contrarie, le une conservatrici, le altre radicali. Sta di fatto piuttosto che l'unanimità morale si effettua fra i cattolici, nella misura stessa in cui prendono contatto e si familiarizzano con queste deduzioni. Le posizioni conservatrici non possono essere mantenute che per opera dell'ignoranza, sistematica e consapevole o involontaria e in buona fede. Riconosco senza esitazione che la coscienziosa indagine storica intorno alle origini cristiane e intorno all'evoluzione ecclesiastica, vulnera in radice parecchi dei nostri principî fondamentali per tutto ciò che concerne i dogmi e le istituzioni. Riconosco senza esitazione che il dominio del miracolo si restringe ogni giorno di piu, data la possibilità sempre piú vasta di ridurne le proporzioni a cause naturali constatabili. Io so e sento sempre piú il valore di queste obbiezioni, il quale potrebbe però cadere se potessimo in compenso appellare trionfalmente all'ethos cristiano della Chiesa, ad un incomparabile spirito religioso in essa e da essa alimentato, e se invece noi non trovassimo negli scritti approvati dei suoi maestri di ascesi e di morale, nelle pratiche abituali dei suoi confessori e dei direttori di coscienza, nelle biografie liturgicamente adoperate dei suoi santi canonizzati, nei principî del suo governo e nei metodi della sua pedagogia, molte cose che ripugnano a quel nostro senso morale e religioso, a cui essa dovrebbe invece innanzi tutto rivolgersi per chiedere autorevolmente la nostra sottomissione e la nostra devozione... Ma bisogna ben ricordare che cos'è nella sua essenza la fede. Fede non è adesione intellettuale ad un sistema di costruzioni spirituali. Il cattolicesimo non è innanzi tutto una teologia e meno ancora un corpo sistematico di prescrizioni pratiche, sostenuto da tale teologia. Il cattolicesimo è innanzi tutto vita, e la Chiesa è un organismo spirituale, alla vitalità del quale noi partecipiamo. Nella esplicazione della sua efficienza la teologia non rappresenta altro che un tentativo compiuto da questa intima, circolante vitalità, per formulare e comprendere se stessa. Tentativo che può mancare completamente o parzialmente al suo scopo, senza che per questo ne siano diminuiti il valore o la realtà della medesima vita profonda. Per questo la fede sopravanza e soverchia le deficienze della teologia. Noi siamo oggi tutti consapevoli della differenza che sussiste fra la coscienza e la subcoscienza dell'individuo. Ancor piú lo siamo della distinzione fra l'idea che un individuo si fa di sé e quel che egli è realmente per se stesso: uno sconosciuto. Noi siamo accostumati a distinguere da una parte la somma dei ricordi e delle idee, dei fini e dei propositi riflessi, delle intenzioni di cui l'individuo possiede o può possedere la consapevolezza: e d'altra parte quella massa infinitamente piú considerevole di esperienze personali e ancestrali, scese nell'oblio o sfuggite alla registrazione, massa che costituisce l'io sconosciuto e inespresso. Di questo io incosciente l'io riflesso consapevole, trascritto e formulato, non è che il vertice, emergente dalle acque, di una montagna inghiottita, le cui radici scendono fino a toccare il cuore della terra. Ebbene, se questo vale per la psicologia dell'individuo, vale ancor di piú per gli Stati, le società e le collettività umane. Un buon governo rappresentativo non fa altro che esprimere lo spirito, la volontà, i sentimenti delle masse governate, per tradurre tutto ciò in consapevolezza. Sicché esso rappresenta lo strumento dell'ascensione delle masse medesime nella misura in cui assolve correttamente tale dovere. Saremo in torto se applicheremo tutto ciò alla società cristiana, alla Chiesa cattolica? Non dobbiamo anche qui noi distinguere fra il subcosciente collettivo del popolo di Dio, e lo spirito e la volontà consapevolmente formulati da parte della Chiesa docente? Non possiamo noi nutrire una fede molto debole in questa seconda e in pari tempo nutrire una fede solidissima e incrollabile nella prima? Dopo tutto, la Chiesa non è altro se non lo sviluppo di quel che fu all'origine un programma di apostolato e di proselitismo di missionari, chiamati a predicare e a preparare il Regno di Dio. La Chiesa è pertanto essa stessa un Regno di Dio, ma solamente in un significato subalterno e secondario. Quel che la religione personale dovrebbe essere nel piano dei fattori della nostra vita interiore, questo la Chiesa cattolica dovrebbe essere fra gli altri fattori della nostra civiltà collettiva. Io parlo di un cattolicesimo che sia una società spirituale, organizzata nell'interesse della religiosità e della moralità. Appartenere a questa società cristiana, mondiale, autentica, originale; appropriarsene nei limiti del possibile la vita universale, per bruciare dei suoi piú puri entusiasmi, per consacrarsi al suo servizio, dedicarsi alle sue finalità, significa puramente e semplicemente evadere dagli angusti confini della vita individuale per entrare nella vita collettiva di quei milioni di uomini che hanno portato, portano e porteranno il nome di cattolici e che hanno vissuto, ad un livello qualsiasi, una vita degna di questo nome».

Quando il Tyrrell evocava con tanta luminosa finezza le profondità in cui si opera misteriosamente l'unione dell'anima credente con la Chiesa, che è il Corpo mistico del Cristo proiettato nello spazio e nel tempo; quando svelava con sí feconda sagacia quel «numinoso» prerazionale in cui si celebra la comunione mistica della esperienza cattolica, al di qua delle formule effimere della dogmatica canonizzata e delle decisioni caduche della disciplina curiale, il suo modernismo era già maturo e cosciente. La divulgazione indiscreta della sua Lettera a un professore di antropologia determinava la sua uscita dalla Compagnia di Gesù ed egli l'abbandonava indirizzando al Generale dei gesuiti una lettera di congedo mordente e inequivocabile. «Io sono stato testimone», egli vi diceva, «di cosí numerosi e di cosí dolorosi risvegli, seguiti da domani cosí penosi per la vita e per la stima pubbliche, che questa sola esperienza mi conferisce il diritto di considerare la Compagnia come un crudele trabocchetto, come un appostamento insidioso, che cerca di cogliere giovani anime al varco per consumare la rovina disperata della loro gioia e della loro salute spirituale».

L'esodo dalla Compagnia non fu che il preludio della insurrezione contro l'enciclica Pascendi. Della causa modernistica il Tyrrell fu l'araldo piú ardimentoso, piú coerente, piú intimamente pervaso di fede e di entusiasmo. Egli si prodigò allora con tutte le sue energie, e con tutto il suo ardimento, non rifuggendo dall'intervenire dovunque la polemica si annunciasse piú fruttifera, anche se piú rischiosa.

Avendo il cardinale Mercier riecheggiato la condanna della Pascendi, il Tyrrell gli contrappose, col suo volume Medievalism, una memoria defensionale modernistica piena di dignità, di fierezza e nel medesimo tempo di patetica commozione.

La conclusione di questo memoriale defensionale merita di essere registrata. Il Tyrrell vi interpellava direttamente il cardinale di Malines e, al di là di lui, tutta la gerarchia ufficiale della Chiesa: «Non addolcirete mai, o Eminenza, la vostra intransigente rigidezza, e non aprirete mai le porte e le finestre della vostra immensa cattedrale medioevale, per farvi circolare per entro la luce della nuova aurora, l'aria fresca del cielo? Malgrado il responso della mia ragione e, aggiungo pure, quello del senso comune, non riesco a capacitarmi che sia troppo tardi. Non posso rassegnarmi a pensare che un edificio innalzato grado a grado, mercè il lavorìo assiduo e anonimo di tanti secoli, a prezzo di tante inaudite sofferenze e di tante sottili inquietudini, sia fatalmente condannato alla demolizione come un vecchio rudero ingombrante ed inutile. Non riesco neppure a raffigurarmi come l'esperienza tanto ricca e tanto multanime cosí nel bene come nel male di una parte tanto cospicua dell'umanità, esperienza che l'edificio ha pietrificato nelle sue mura, possa dissiparsi come un corso d'acqua nella terra o una colonna di vapore nell'atmosfera. Chi può figurarsi la Chiesa caduta dalla sua qualità di religione universale sconfinata ed immensa quanto il cuore stesso di Cristo, ridotta alle proporzioni di una setta irascibile e puntigliosa, di null'altro capace che di pavoneggiarsi del suo rigore e del suo esclusivismo? Avrebbe essa cessato di essere la religione di tutta l'umanità e di tutto l'uomo delle alte classi e delle moltitudini, del greco e del barbaro, dell'Università e della capanna, non inaccessibile all'intelligenza piú umile, non insufficiente alla piú alta, non schiacciante per il debole, e non ostile al forte; la religione non già di tutti gli uomini sensibili, poiché non tutti gli uomini sono sensibili, bensí di tutti gli uomini onesti; una religione non ingombrata e non appesantita da valori contingenti e transitori, libera come una libera freccia scagliata a volo verso la coscienza universale dell'umanità? È questa la religione che noi avevamo il diritto e avevamo sognato di trovare nella Chiesa di Roma, madre della civiltà europea, e invece che cosa mai troviamo in essa? La sua sensibilità si è affievolita? Le sue mani si sono vuotate? Nulla dunque, assolutamente nulla può essa piú fare per noi? Io lo so eppure non lo credo. La mia fede nella Chiesa, Eminenza, per quanto differente dalla vostra sia, è altrettanto cieca. Essa fa parte della mia fede nell'umanità la cui condizione non appare allo sguardo umano meno disperata. Il solo vocabolo di cattolico è una musica alle mie orecchie. Esso evoca dinanzi ai miei occhi le braccia stesse di Colui che morí per tutto l'orbis terrarum. Se la Chiesa romana mi attira, ciò avviene perché nonostante lo spirito strettamente settario che l'ha per cosí lungo tempo dominata, non può rinnegare i suoi principi fondamentali; perché essa è di fatto la piú antica e la piú vasta associazione in cui sia concretata l'esperienza cristiana, ed è sempre l'istituto storico che si approssima di piú all'ideale ancora lontano di una religione cattolica».

Cosí l'anima esuberante dell'apologista modernista formulava la pienezza della sua fiducia nella ecumenicità romana. Il credente e il mistico in cui riviveva cosí mirabilmente lo spirito di Newman, doveva disseminare in tutti i suoi scritti, in tono sempre caldissimo, analoghe proteste e analoghe visuali per l'avvenire. Roma non gliene tenne conto.

Il Tyrrell non era un critico, non era un esegeta, non era uno storico. Ma nella sua duttilissima sensibilità, nella sua squisita capacità di assimilazione, era pronto a cogliere a volo tutto quello che vi potesse essere di solido e di acquisito in tutti i campi della scienza storico-religiosa contemporanea. Per questo egli poteva con una facilità sorprendente mettersi all'unissono con storici e con esegeti, traendo da tutto e da tutti gli elementi atti ad entrare in maniera proficua nella sua vivente sintesi religiosa. Alla quale presiedeva e dava l'ispirazione una consapevolezza profonda e sempre presente dell'apporto insurrogabile che dà alla formazione della coscienza cristiana credente la partecipazione infallibile della collettività spirituale.

Se questa nostra Storia ha avuto una linea direttiva, se questa nostra paziente rievocazione ha una logica conclusione, la direttiva e la conclusione consistono tutte nel ritenere e nel far vedere come il senso mistico della vita associata, la sacralità dell'esperienza collettiva attraverso il rito e la partecipazione carismatica, sono alla base stessa della tradizione cristiano-cattolica. Ora è qui probabilmente la pietra di paragone su cui saggiare la connotazione cattolica di una qualsiasi professione cristiana. Commisurato a questa stregua, l'atteggiamento religioso del Tyrrell si rivela di una cattolicità inoppugnabile e inconfondibile. Nelle due opere complementari Lex orandi e Lex credendi, il Tyrrell lo mostrò in pieno. Nella prima egli aveva cercato di mostrare come il simbolo cristiano di fede fosse, se non compiutamente, senza dubbio principalmente foggiato dalle esigenze della vita devota. Aveva cercato di mostrare – e in questo si congiungeva al Le Roy – che tale simbolo dovesse quindi essere innanzi tutto considerato come una legge di preghiera o di devozione pratica, e solamente in linea secondaria e sussidiaria come una teologia. Secondo questa prima opera, il sistema dottrinale del cristianesimo è il risultato dei tentativi sempre nuovi e sempre indeclinabili di fissare e di formulare il contenuto implicito della spirituale vita ecclesiastica. La «vitalità» della comunità credente è l'unica e irrevocabile garanzia della verità. In sostanza, secondo il Tyrrell, il Credo non è altro che l'espressione di quella concezione di Dio e del Suo Regno che è la luce della nostra vita spirituale, una concezione costitutiva di quella indivisibile vita che è nel medesimo tempo visione, sentimento e volontà, secondo che è considerata dall'uno o dall'altro angolo visuale. In virtú di un solo e stesso atto noi infatti ci identifichiamo con Dio, il quale, considerato come verità, potenza o bontà, dà una sagoma a questo nostro atto, schematizzandolo sotto l'aspetto rispettivo della fede, della speranza o dell'amore. La fede non è che il giusto orientamento dello spirito, in rapporto ai suoi fini e alla sua azione: e il Credo è essenzialmente l'espressione verbale di questa adeguazione, il tentativo di tradurre in segni astratti la inesauribile pienezza e complessità di un concreto atto spirituale. Poiché qualcuno accusò Tyrrell di prammatismo, il Lex credendi volle essere la risposta. Prendendo ad esaminare la preghiera tipica del Cristo, il Pater noster, egli si sforzò di mostrarvi la presenza di una vera regola e di un genuino criterio di dottrina sana, quale vivente espressione di quello spirito cristiano in cui la fede in Dio e nel Suo Regno, insieme con la speranza e con l'amore, rappresenta il piú efficiente dei fattori. Il Tyrrell vi dimostrava ampiamente come, se ogni singolo articolo di fede è inintelligibile, qualora sia isolato da quel vivente organismo di verità che esso contribuisce a costituire, in analoga maniera la fede stessa è inintelligibile, qualora sia scissa ed avulsa dai suoi correlati, la speranza e l'amore che insieme costituiscono una sola e realmente indivisibile vita dello spirito. Il nostro inserirci nella fede è semplicemente incluso e innestato nel nostro inserirci in quella vita totale in Dio che è nel medesimo tempo e insieme l'oggetto della nostra fede, della nostra speranza e del nostro amore. Aderire al Credo cristiano non è un atto diverso da quello col quale noi ci protendiamo per aderire a Dio, perché non è altro che la forma e lo schema in cui il divino ci si presenta e con cui il divino è appreso da noi.

Questa sensibile apertura d'animo, che faceva cogliere in maniera cosí stupenda al Tyrrell le correlazioni indicibili fra il senso intimo della religiosità e le sue formulazioni, fra il contenuto sostanziale della professione cristiana e le trascrizioni concettuali della dogmatica, avrebbe segnato il momento di transizione fra l'apologetica modernista, nelle sue forme piú pronunciate, e quella nuova filosofia religiosa che l'Otto avrebbe cosí magistralmente sistemato nella sua opera capitale: Il Sacro.

Il modernismo aveva potuto essere condannato all'ostracismo e ridotto, con mezzi di una violenza inconsueta, alla impotenza, messo nella impossibilità di un fecondo e duraturo proselitismo; le conseguenze sarebbero state incalcolabilmente funeste nel mondo della vita cattolica, specialmente italiana. E lo scopo della repressione non sarebbe stato raggiunto. Lo spirito profondo del modernismo avrebbe avuto la sua rivincita.

Il Tyrrell, si potrebbe dire, aveva assicurato la vittoria con la sua immolazione. La sofferenza vinse la sua stessa resistenza fisica. Ed egli sulla sua tomba precoce volle fossero disegnati un'ostia ed un calice. C'è un collegamento con le realtà sacre della tradizione cattolica piú forte di ogni scomunica e di ogni rappresaglia, ed è la comunione nelle realtà sante. «Credo nella comunione delle cose sante!».

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