XVII LA GRANDE GUERRA

Quei tali, e sono legione, che quando, sul terreno della storia del cristianesimo antico, si parla di escatologia, di dottrina cioè concernente gli ultimi eventi finali del mondo e degli uomini, fanno i trasecolati, e domandano non senza un sorriso di sarcastico compatimento di che cosa si tratti; e che quando sentono affermare che il cristianesimo primitivo visse tutto nell'ansia dell'imminente venuta del Regno di Dio, ansia rivelatasi illusoria e ingannevole, si atteggiano a scandalizzati, per il fatto che il successo evangelico sarebbe stato cosí il risultato di una piú che ingenua illusione; non si accorgono che una qualsiasi escatologia, cioè una qualsiasi fede in imminenti e non smentibili rivolgimenti, nel senso della giustizia e del bene, è sempre indispensabile alla vita spirituale degli uomini.

Aveva detto Aristotele ai suoi tempi che la causa finale, cioè quel fine sotto lo stimolo e sotto la prefigurazione del quale i movimenti dell'essere si compiono, è l'ultima ad essere raggiunta, ma è sempre la prima a spiegare la propria efficienza. Con quel suo postulato metafisico Aristotele aveva anche enunciato un principio di filosofia della storia, in quanto le grandi correnti storiche operano costantemente in vista di un prossimo miraggio che legittima e sostiene l'azione. Soltanto si deve aggiungere che nelle varie epoche storiche si avvicendano finalità trascendenti a finalità empiriche, nel guidare e nel sorreggere lo sforzo collettivo verso un domani di reintegrazione e di pacificazione nel bene.

Si può dire pertanto che il livello di una spiritualità associata è segnato dalla natura degli ideali, delle speranze e delle prospettive che l'alimentano. La piú alta aspettativa che gli uomini abbiano vissuto fu quella segnata dall'Evangelo con l'annuncio del veniente Regno di Dio. E la forza di questa aspettativa fu quella che pervase di sé il proselitismo cristiano e lo costituí trionfante nel bacino del Mediterraneo. La durata dell'azione che un movimento può spiegare è in ragione diretta dell'altezza delle sue aspirazioni. E una civiltà spirituale tradisce la propria bassezza e la propria impotenza, quando crede di poter irridere, come ad illusioni infantili, ai sogni delle grandi aspettative religiose. E queste presunte civiltà che irridono ai sogni delle rivoluzionarie idealità religiose, sono quelle che si illudono, con vera infantilità e decrepitudine spirituale, di potere, con semplici accorgimenti umani, realizzare il bene e la pace.

I nostri tempi ne hanno fatto un'esperienza clamorosa. La prima guerra mondiale fu combattuta con la convinzione universale che essa sarebbe stata l'ultima guerra. Anzi, solo per questo fu accettata e volonterosamente combattuta. Si trattava di sbarrare una volta per sempre il passo ad ulteriori stragi umane. Ora, si era mai vista nella storia illusione piú illusoria di questa, escatologia piu fatua e ingenua? Si direbbe che gli uomini siano condannati a cadere nelle piú risibili ed evanescenti e sanguinose illusioni terrene, quando credono di poter prendere in beffa le grandi e superiori idealità dello spirito. Non c'è vita umana che non viva di prospettive future e di finalità ideali. Qualora siano abbandonate, rinnegate ed irrise le trascendenti finalità della grazia e le superiori prospettive della pace, della verità e della giustizia in Dio e nel suo Regno, l'uomo decade e intristisce nelle prospettive miserevoli e ingannevoli di un benessere materiale e terreno che si rivela costantemente fatuo e fallace, attraverso i piú tragici disinganni e le piú cruente iatture.

Non è nostro còmpito qui rievocare le notissime vicende attraverso cui è passata la vita internazionale europea durante la prima guerra mondiale e il periodo immediatamente seguìto alla pace di Versaglia. Si è combattuta la prima guerra mondiale con la certezza che fosse l'ultima guerra. E, al contrario, essa ha lasciato in eredità un'infinità funesta di nuovi conflitti. In nome del principio di nazionalità, che è stato il mito del secolo decimonono e l'idea forza della storia piú recente, si è creata a Versaglia un'artificiosa costituzione di piccoli e piccolissimi Stati europei, la cui funzione doveva essere esclusivamente quella di garantire in Europa un equilibrio di forze, tutto a vantaggio di una egemonia di Potenze che nell'atto stesso in cui credevano di assicurare il loro predominio in una effimera e superficiale colleganza politico-diplomatica, in realtà tendevano a neutralizzarsi, se non a sopraffarsi a vicenda. Da una tale situazione non poteva nascere altro che un nuovo conflitto, data soprattutto quella inguaribile psicosi di guerra lasciata in retaggio dalla vastissima conflagrazione che Benedetto XV definí «l'inutile strage», nuovo conflitto le cui proporzioni e le cui ripercussioni avrebbero di gran lunga sopravanzato e soverchiato quelle del precedente.

Noi dobbiamo vedere piuttosto in che modo, su quali direttive di marcia, con quali prospettive, con quale metodica, il cattolicesimo e la sua gerarchia curiale riguardarono gli avvenimenti, vi si inserirono, cercarono di trarne il loro pro.

Per una singolarissima, ma niente affatto arbitraria o illogica coincidenza, che sembra effettivamente racchiudere in sé uno sconfinato valore simbolico, la definizione del dogma dell'infallibilità pontificia era stata sanzionata nel 1870, proprio nel medesimo lasso di tempo in cui il processo unificatore della nazione italiana sboccava e toccava il suo epilogo nell'occupazione di Roma e nella costituzione di Roma capitale del regno d' Italia. In quale misura la preoccupazione per la conservazione del potere temporale della Chiesa romana era entrata nella definizione di quel dogma? Ecco un imponderabile, a cui è impossibile dare misura. Bisognerebbe poter entrare nel subcosciente di Pio IX e dei suoi ministri, per sapere fino a qual punto il desiderio di salvare in qualche modo il potere politico per tanti secoli esercitato, o di conservarne e di apprestarne qualche forma surrogata nell'avvenire, pesò nell'apprestamento della definizione dogmatica, che doveva dare al magistero di Roma l'aureola di una inerranza, dai limiti ambigui e dall'ambito indefinito. Sta di fatto ad ogni modo che quella coincidenza lasciò come suo strascico una pericolosa indeterminatezza, sui confini rispettivi di quel che fosse la portata del magistero religioso della Curia e di quel che poteva essere, nella nuova temperie, la rivendicazione politica della Santa Sede.

Tratta ormai da una esiziale commistione, durata secoli, fra potere politico e potere religioso, Roma sembrava dai rovesci stessi attraversati durante tutta la prima metà del secolo XIX, insistere piú sulle sue rivendicazioni politiche, che sulle possibili riaffermazioni dei principî cristiani. Il Pontificato sembrava sempre piú spingersi sulla riva degli armeggii diplomatici e delle piccole combinazioni concordatarie, in vista di un vagheggiato recupero di un'efficienza strettamente politica, anziché far leva sui valori nudamente evangelici e religiosi, per risollevare la validità della pedagogia cristiana nel mondo, avviatosi ormai verso una oscura e problematica deriva. E mentre sarebbe stato il caso di fare appello a tutte le energie recondite della comunità credente, per ridare all'affievolita virtú normativa delle realtà cristiane un'efficienza sovrana, si sarebbe detto che la gerarchia cattolico-romana non avesse altra preoccupazione che quella di riguadagnare nel mondo un certo decoro e un certo prestigio esteriori, a prezzo di combinazioni diplomatiche e di patteggiamenti politici.

Leone XIII aveva tipicamente personificato nel suo lungo governo questa ambivalente esigenza della Chiesa. Fu Pontefice dalle larghe visuali culturali e dalla squisita sensibilità umanistica. Con la enciclica Aeterni patris riportò in auge la filosofia tomistica, e in pari tempo, attraverso ripetute dichiarazioni, volle fosse riconosciuto alla scienza storica il piú largo diritto di indagine, anche sul terreno della vita religiosa e della tradizione cristiana. Ma in pari tempo cercò di insinuarsi nei contrasti mal dissimulati dei vari raggruppamenti europei, sotto l'ispirazione di sentimenti di rivalsa che sognavano una soluzione della questione romana in antitesi con quella offerta dallo Stato italiano con la Legge delle Guarentigie, mai accettata dal Vaticano.

Ai cattolici italiani pertanto fu data, senza sottintesi, la consegna di seguire una tattica di assenteismo e di sorda ostilità contro la vita nazionale, che pesò sinistramente su tutto il primo trentennio della nostra storia nazionale unificata. Ai cattolici fu pertanto inibita qualsiasi partecipazione alla vita parlamentare del paese, con una duplice conseguenza: che a questa vita parlamentare venne a mancare l'apporto di una sezione tanto cospicua e tanto moralmente sana del paese, e che il giorno in cui a questa sezione fosse stato concesso l'adito agli scrutini elettorali, l'equilibrio delle forze nel paese sarebbe stato violentemente scosso, con conseguenze che avrebbero potuto produrre tanto maggiore possibilità di risonanza, quanto piú fosse anormale il momento in cui tale improvvisa partecipazione si fosse effettuata.

La storia della cattolicità romana dal 1870 al 1903, anno dell'avvento al Pontificato di Pio X, è la storia di un'attitudine di ostilità mal celata, che spia tutte le occasioni e coglie tutti i pretesti per far dispetto all'Italia unita e per crearle in Europa imbarazzi da cui sia lecito arguire che possa ridondare qualche vantaggio alla politica terrenamente rivendicatrice della Curia.

Noi abbiamo veduto attraverso quali fortunose vicende si fosse venuto costituendo, lembo a lembo, e in virtú di una sottilissima rete di accorgimenti diplomatici, il potere politico della Sede romana. Abbiamo veduto come, mentre in Oriente un'autorità statale si era venuta addestrando allo sfruttamento e alla captazione dello spirituale magistero religioso, in Occidente il magistero religioso della Roma vescovile si era venuto adagio adagio rivestendo di un potere politico imposto si direbbe dalle circostanze a rivestimento, a garanzia e a salvaguardia dell'autorità spirituale. Abbiamo visto come nel lungo corso dei secoli questa potestà politica, alimentata e sorretta dalla gagliarda efficienza dei valori religiosi, si era venuta laicizzando fino a diventare puro potere politico, largamente sfruttato da caste nobiliari, impegnate in una rivalità profana e accentratrice.

Ora, in pieno secolo decimonono, costituitesi per tutto in Europa le autonomie nazionali, e costituitasi soprattutto, ultima venuta, la nazionalità italiana, con la sua capitale politica là dove da millenni vigeva la capitale religiosa del mondo cristiano, il problema della sopravvivenza e del recupero della potestà territoriale si poneva per la Santa Sede in una maniera del tutto nuova, carica di rischi e di incognite.

Roma papale rivendicava una qualsiasi sovranità territoriale, additandola come indispensabile appannaggio per una libertà di mosse religiose, che apparisse chiara, limpida, incontrovertibile e insospettabile agli occhi di tutta la società ecumenica credente. Ma tale rivendicazione Roma papale la levava di fronte ad uno Stato nazionale, nel cui ambito la Chiesa stessa romana veniva ad essere automaticamente compresa e conglobata, per il fatto che italiana nella sua strabocchevole maggioranza è la Curia e italico è il Papato. Come giustificare tale pretesa? In tempi di predominante normatività dei valori religiosi ed evangelici, il quesito sarebbe stato di facilissima soluzione. Perché la religione, quando è vivamente sentita, è la prima e la centrale fra tutte le attività dello spirito. Essa, quando vive inconfondibile nella sua concretezza, soverchia e condiziona ogni altra esplicazione dell'attività umana, cosí individuale come collettiva. Ma come poggiare su una incontrastabile prevalenza dei motivi e delle aspirazioni religiosi, quando, per colpa stessa del magistero cattolico, le altre attività dello spirito, la speculativa come la politica, la morale come la economica, erano venute ponendosi su un loro presunto tracciato autonomo e su una loro dialettica autosufficiente?

La Chiesa rivendicava una sovranità territoriale, giustificando la propria rivendicazione con un appello alle esigenze universali del suo magistero religioso. Ma nel medesimo tempo i mezzi e i sistemi adottati per la attuazione di simile rivendicazione non erano di natura esclusivamente spirituale e religiosa, bensí di natura diplomatica e politica. L'astioso Pontificato di Pio IX nell'ultimo suo periodo e poi quello di Leone XIII nei suoi primi lustri, furono costantemente guidati dal proposito di insidiare, di paralizzare, diciamo pure di sabotare, il funzionamento della vita nazionale italiana. Simile atteggiamento politico non avrebbe potuto durare a lungo senza un progressivo isterilimento della stessa azione religiosa del Pontificato in un paese che, risorto ad unità, seguiva ormai una sua infallibile e irresistibile logica di sviluppo e di ascensione. Alla morte di Leone XIII il Vaticano capí che era impossibile continuare su una via che aveva registrato in bilancio solamente delusioni, piú di una volta lesive della stessa dignità sacrale della tradizione ecclesiastica romana.

E cominciarono le flessioni della politica papale. Pio X, il Pontefice della fierissima campagna antimodernistica, fu invece straordinariamente transigente in politica. Se la tattica dell'assenteismo risultava ormai non solamente inefficace, ma deleteria e terribilmente problematica per l'avvenire, i piú lusinghieri auspici sembrarono sorridere alla iniziata politica condiscendente. Il rimedio in realtà si sarebbe rivelato piú funesto del male, ché, a norma degli invalicabili principi cristiani, il cristianesimo non conosce altra politica saggia che quella della rinuncia alla politica e della rivendicazione assoluta e totalitaria dei valori del Regno di Dio.

Salendo al Pontificato Pio X lanciava un formidabile programma, formulandolo con le parole paoline: «Tutto rinnovare e restaurare in Cristo». Non è un peccare di irriverenza ritenere che, alla resa dei conti, la restaurazione fu, per modo di dire, tutta e sola nel piano della politica pontificale di fronte alla nazione italiana. Pio X cominciava con l'invitare i cattolici italiani a rendere, come negli altri paesi, «efficace sotto ogni aspetto», cioè «proporzionata ai bisogni sociali moderni», la loro attività pubblica, valendosi di «tutti i diritti civili, fino a quello di partecipare attivamente alla vita pubblica». E pertanto, per ragioni gravissime tratte dal supremo bene della società, li dispensava da quel famigerato non expedit con cui le decisioni delle congregazioni romane avevano vietato ai cattolici romani di partecipare alle elezioni politiche e quindi di rimbalzo globalmente alla gestione della cosa pubblica. La Chiesa romana, con la sede del suo supremo magistero nella capitale del regno italiano, entrava cosí ufficialmente nelle competizioni politiche nazionali e nella amministrazione della cosa pubblica. Si veniva a consumare in definitiva quella commistione fra valori religiosi e valori politici che è la cosa contro cui, si direbbe, il cristianesimo è nato. Noi l'abbiamo veduto fin dalle origini di questa nostra storia: nelle sue ripercussioni sociali, nella sua disciplina esteriore, nei suoi contatti col secolo presente, il cristianesimo è per essenza divario reciso e incolmabile fra politica della terra e politica del Cielo, fra religiosità e civiltà, fra disciplina carismatica e disciplina politica. Non perché il cristianesimo, come già diceva Tertulliano ai suoi tempi, sia e debba essere allontanamento materiale dal mondo, ma perché il cristianesimo è essenzialmente programma di attività nel mondo, sulla base esclusiva ed intransigente dei valori del Regno di Dio. Tutta questa nostra storia ha voluto essere la dimostrazione, istante per istante, dell'azione spiegata dal cristianesimo nel mondo, proprio in virtú del suo implicito rinnegamento del mondo. Dopo diciannove secoli si direbbe che il ciclo completo della parabola storica percorsa dal messaggio di Cristo si sia compiuto e che l'epilogo finisca con l'essere un rinnegamento del presupposto cristiano, sostituito con una interferenza indiscriminata fra valori politici e valori religiosi.

La pertinace rivendicazione del potere temporale aveva esposto il magistero cattolico ai sospetti e alle diffidenze. Pio X mostrava di voler abbandonare la interpretazione materiale di tale rivendicazione per poggiare unicamente sulla necessità dell'indipendenza e della libertà del governo spirituale della Chiesa, quale fine da non confondere con i mezzi atti a garantirle.

Qui la essenziale «impostazione» data da Pio X alla questione romana. Egli volle innanzi tutto che i cattolici cessassero di dissertare e polemizzare in argomento, dividendosi nelle cosiddette correnti dei «temporalisti» e dei «non temporalisti». Nel 1911, al secondo congresso dei cattolici inglesi, il cardinale Bourne, evidentemente autorizzato da Roma, proclamava: «Non c'è desiderio alcuno da parte del Papato di un dominio temporale, come tale: non velleità di occupazioni territoriali; non aspirazione a rappresentare la parte di grande Potenza sulla terra in competizione con altre, onde raggiungere un maggiore possesso. – Il mio Regno non è di questo mondo. – La frase di Gesù nel Vangelo di Giovanni è una massima sempre presente a quelli che hanno un ministero spirituale da esercitare. Quando questo ministero sia pienamente, veramente, incontestabilmente salvaguardato, la ampiezza dell'indipendenza civile che lo garantisce è materia di facile accordo». È il medesimo postulato che ispirerà la politica della Santa Sede fino alla Conciliazione con lo Stato italiano. Ma come singolare il cammino che vi condusse!

Naturalmente l'opinione pubblica italiana non mancò di prendere atto, con un senso di sollievo, della nuova temperie verso cui andavano avviandosi le disposizioni vaticane, di fronte alla collettività nazionale, organizzata in Stato. E dei pubblici riconoscimenti delle nuove vie aperte ai rapporti cattolico-nazionali, i pronunciamenti ufficiali dell'organo accreditato dalla Santa Sede non mancarono, anch'essi, di dare atto e registrazione, con compiacimento e con piú precise definizioni. L'Osservatore Romano, il 25 ottobre 1912, ripeteva formalmente «l'invito, già in precedenza autorevolmente formulato, ad aprire la discussione, alla quale non ci si sarebbe rifiutati di partecipare, sulla possibilità di altre guarentigie della libertà e indipendenza pontificie, che avessero potuto eventualmente sostituire quella millenaria accordata dalla Provvidenza».

Conformandosi a tali direttive, la decima settimana sociale, adunatasi a Milano nel 1913, a celebrazione del decimosesto centenario della pace costantiniana, segnava un ulteriore passo innanzi. La settimana era stata dedicata a questo argomento: «Le libertà civili dei cattolici». Inaugurando le lezioni il 30 novembre il vescovo di Udine, Anastasio Rossi, si fermò di proposito, di ciò evidentemente incaricato, ad illustrare le caratteristiche della libertà necessaria alla Chiesa e alla Santa Sede. La Curia romana aveva sempre proclamato ai quattro venti che la posizione assunta dal Pontificato romano in séguito alla occupazione di Roma nel 1870 era disdicevole al decoro e all'assoluta autonomia dell'ecumenico magistero ecclesiastico. La Santa Sede aveva sempre proclamato che quel che conveniva indeclinabilmente al libero esercizio della suprema potestà religiosa nella società dei credenti dispersa nel mondo, era una posizione riconoscibilmente indipendente da qualsiasi reale o eventuale pressione e manomissione esteriore. E il vescovo Rossi, alla settimana milanese, spiegava che la libertà ecclesiastica deve essere «reale ed effettiva, manifesta, piena e completa, stabile e intangibile, suffragata da una malleveria internazionale», anche se praticamente realizzata in alcunché di sostanzialmente diverso dalla forma storicamente assunta negli antichi secoli del Medioevo. Il conte Della Torre dal canto suo, riassumendo, il 6 dicembre, tutto il decorso delle lezioni, diceva testualmente: «Se come fedeli non possiamo derogare da questo essenziale principio, il quale direttamente si ricollega con quello della libertà della nostra coscienza, come cittadini pensiamo che la pace fra lo Stato e la Chiesa, che l' equa soluzione di un sí esiziale contrasto, possa sempre avvenire per costituzionale volontà del paese da parte dello Stato, senza che la sua civile sovranità sia compromessa».

Le delucidazioni di monsignor Rossi, le perentorie enunciazioni del presidente Della Torre sortirono, com'era facile prevedere, larga risonanza. Qualcuno osservò che una certa contraddizione poteva cogliersi fra le parole dell'arcivescovo e le parole del presidente. Mentre si vide nella dichiarazione di monsignor Rossi una velata proposta di una internazionalizzazione della Legge delle Guarentigie, o comunque di una sua sostituzione con una garanzia internazionale, parve che il conte Della Torre avesse disdetto una simile tesi, implicante una vera e propria vulnerazione della sovranità dello Stato italiano. L'Osservatore Romano corse ai ripari, e in un articolo del 20 dicembre credeva opportuno avvertire che il prospettato contrasto non esisteva, avendo i due oratori toccato e investito il medesimo problema sotto un diverso punto di vista. Secondo le chiarificazioni del giornale vaticano, monsignor Rossi aveva voluto considerare la guarentigia della libertà e dell'indipendenza del Sommo Pontefice dal punto di vista dell'ecumenico interesse mondiale, cui pure occorreva dare risposta, mentre il conte Della Torre si era fatto a considerare unicamente il modo pratico per conseguire una simile guarentigia. Nessun dubbio che anche il discorso del Della Torre era stato autorizzato.

Queste pubbliche discussioni riuscirono facilmente a creare un'atmosfera di comprensione e di giustizia che senza dubbio ebbe la sua efficienza quando, allo scoppio della guerra mondiale e poi, dati i profondi rivolgimenti politici che ne derivarono nello spiegamento di tutta la vita nazionale italiana, la questione romana venne a trovarsi automaticamente compresa in un fascio di problemi interni ed esteri, ad affrontare i quali l'Italia si accinse con una complessità di fattori e con una intima molteplicità di indirizzi che dovevano avere nella storia del nostro Paese e del mondo ripercussioni di una portata imponente.

La guerra di Libia del 1911 aveva già scosso alle radici la compagine pacifica del mondo mediterraneo europeo. Lo scoppio della guerra mondiale fu tale evento da riecheggiare sinistramente anche in Vaticano. Non senza simbolo Pio X, il Papa della nuova politica verso l'Italia, il Papa della lotta di sterminio contro il modernismo, si spegneva repentinamente, in una specie di drammatico collasso morale. Benedetto XV ne prendeva il posto il 3 settembre 1914, per morire a otto anni di distanza, il 22 gennaio 1922, nell'ora intensa della preparazione della marcia su Roma delle squadre d'azione fasciste.

Papa Della Chiesa era stato ai suoi giovani anni un rappresentante sagace di quella scuola politica di Leone XIII e del cardinal Rampolla, che aveva costantemente mirato ad una riconquista della perduta potestà politica della Santa Sede, attraverso intese e armeggii diplomatici diretti sempre a neutralizzare la crescente potenza dell'Italia. Durante il conflitto mondiale la Santa Sede avrebbe pencolato a favore dell'Intesa? Lo avrebbero potuto pronosticare soltanto coloro che non conoscono la duttilissima sensibilità della diplomazia pontificia, anche se non sempre largamente chiaroveggente, circa l'entità e l'efficienza delle forze morali e sociali in giuoco. L'Intesa professava a destra e a manca di combattere contro il militarismo prussiano; di favorire dovunque il principio dell'autodecisione dei popoli; di voler tutelare, al cospetto dell'assolutismo dinastico, la superiorità dei regimi liberali democratici. La segreteria di Stato non avrebbe tenuto conto di simili pronunciamenti programmatici? In realtà la situazione era molto piú complessa di quanto lo si potesse immaginare a prima vista. Negli ultimi anni del suo diuturno pontificato, Leone XIII non aveva mancato di avvicinarsi alla Germania, per quanto alleata dell'Italia. Le relazioni con la Francia erano da un decennio interrotte. D'altro canto il Papato non poteva non avvertire quanto fosse pericoloso per le sorti del cattolicesimo in Europa e nel Vicino Oriente uno smantellamento dell'Impero austro-ungarico, che era ormai l'unico grande Impero cattolico in Europa, contrafforte saldo e provvidenziale di contro alla sempre minacciata espansione dell'ortodossia slava. In Germania stessa, nella Germania di Guglielmo II, il Centro cattolico, con tutta la sua formidabile compagine di organizzazioni culturali e sociali, costituiva una forza di cui sarebbe stato stolto immaginare che la Santa Sede non tenesse conto. Risulta d'altra parte che tutti gli organi diplomatici pontifici erano d'accordo nel valutare, fino all'esagerazione, l'invincibile efficienza bellica dei due Imperi associati, il germanico e l'austro-ungarico.

Roma cattolica pertanto si limitò a censure generali contro tutto quello che potesse rappresentare violazione del diritto delle genti e della morale cristiana, a indire preghiere in favore della pace, a proporre tregue d'armi in occasione delle piú grandi solennità liturgiche dell'anno, a svolgere una vasta azione di assistenza umanitaria.

Questo non vuol dire che mancassero i pronunciamenti ufficiali di rilievo. Nell'allocuzione pronunciata dal Papa nel Concistoro segreto del 4 dicembre 1916, Benedetto XV parlò di una «pace giusta e durevole», che non avrebbe dovuto essere stipulata col vantaggio esclusivo e pesante di una sola delle parti belligeranti. Lanciata cosí una generica prospettiva di pace, il Pontefice Della Chiesa cercò di impostare una possibile azione mediatrice: donde la sua nota ai belligeranti del primo agosto 1917. Il Pontefice vi patrocinava l'idea che al primo posto, nelle eventuali trattative pacifiche, fosse collocata la visuale di una sistemazione generale delle relazioni internazionali, mercè la diminuzione degli armamenti, l'organizzazione dell'arbitrato, la libertà dei mari, per collocare poi soltanto ad un posto subordinato le questioni territoriali, da risolvere d'accordo fra i belligeranti. Altro postulato preliminare che il Pontefice additava per le eventuali trattative pacifiche era quello che i contendenti fossero tutti considerati e valutati alla stessa stregua, per tutto ciò che concerneva le spese dei danni di guerra e l'evacuazione dei territori occupati. Naturalmente, la nota pontificia escludeva qualsiasi cospicua innovazione territoriale, come qualsiasi umiliazione di belligeranti. Si sarebbe trattato, in complesso, di una pace di compromesso. In questa nota del primo agosto 1917 Benedetto XV aveva lasciato cadere una frase dalla immensa portata morale, che suscitò larghissima e varia eco in milioni e milioni di spiriti. Il Pontefice, cioè, definí come una «inutile strage» lo sforzo bellico dei contendenti, diretto da ciascuna delle due parti ad abbattere radicalmente la parte avversa.

La nota non sortí alcun effetto diplomatico. Si potrebbe anzi dire che fu un vero insuccesso. Contribuí a far diminuire la popolarità della Santa Sede negli Imperi centrali, acuí il risentimento francese e italiano. D'altro canto l'Italia aveva già compiuto un gesto di improvvida tendenziosità antivaticanesca quando, nel Patto di Londra dell'aprile 1915, stabilente le condizioni alle quali l'Italia stipulava il suo intervento nella guerra con l'Intesa, aveva fatto inserire quel famigerato art. 15, venuto in luce con la pubblicazione del trattato operata dai rivoluzionari russi nell'ottobre 1917, in virtú del quale il Pontefice avrebbe dovuto essere tassativamente escluso dalle trattative di pace. Fu un bene per la Santa Sede che ad essa fosse cosí risparmiato di assumere correità nella pace versagliese, fu un male per tutto il mondo che al posto del Pontefice sedesse a Versaglia, arbitro angusto ed angoloso, nonostante i suoi quattordici punti, il presidente Wilson? Difficile rispondere. Sta di fatto ad ogni modo che la diplomazia pontificia diede la misura della sua inefficienza pubblica. Al cardinale Achille Ratti, allora prefetto della Biblioteca vaticana, Papa Della Chiesa ebbe a dire, dopo aver constatata la inefficienza della nota dell'agosto 1917: «Vogliono condannarmi al silenzio. Il vicario di Cristo non dovrebbe invocare la pace. Non riusciranno a sigillare il mio labbro. Nessuno potrà impedire al padre di gridare ai propri figli pace, pace, pace». In realtà, il decorso dei fatti avrebbe dovuto far constatare una volta di piú che, entrata nelle vie delle competizioni diplomatiche, delle azioni politiche, delle intese diciamo cosí strettamente burocratiche fra Potenze e Santa Sede, la linea di condotta della Curia ecclesiastica aveva finito con lo smarrire una qualsiasi concreta e sostanziale capacità di risultati. Ormai non ci si sarebbe dovuti fare piú illusioni sulla convenienza per la suprema gerarchia ecclesiastica di cercare la esplicazione del proprio mandato e la virtú di infondere nuovamente principî ed aspirazioni cristiani ad una palesemente degenere comunità pseudo-cristiana nel mondo, attraverso le modalità stesse di quella diplomazia terrena e di quella politica realistica, che stava fatalmente avviando l'universo morale degli uomini nel precipizio del piú disperato ed insanabile naufragio. Che la Santa Sede mirasse ad una partecipazione autorevolmente praticata alla conferenza della pace, non v'è dubbio. Ma l'esito della guerra, i preesistenti accordi fra i paesi dell'Intesa, frustrarono completamente i propositi della Santa Sede. La quale dovette contentarsi di agire sui margini della conferenza per la pace, facendosi guidare anche questa volta, piú forse di quanto non fosse consentito dalla gravità dell'ora e dalla imponenza delle conseguenze che stavano per uscire dalla pace versagliese, dall'assidua cura per profittare del momento onde risolvere l'ossessionante questione romana. Il 28 giugno 1915, a poche settimane di distanza dall'entrata in campagna dell'Italia, il cardinale segretario di Stato Gasparri aveva in una intervista pubblica solennemente dichiarato che «la Santa Sede attendeva la soluzione della questione romana non dalle armi straniere, bensí dal senso di giustizia del popolo italiano». Era cosí definitivamente eliminato il sospetto che la Santa Sede volesse in qualche modo trarre profitto dalle circostanze per richiamare sulla eventuale sistemazione dell'annosa controversia un intervento ed una garanzia internazionali, che avrebbero suonato irrimediabilmente offesa alla completa e insindacabile sovranità dello Stato italiano. Naturalmente la dichiarazione del cardinale Gasparri non escludeva la possibilità di un concorso diplomatico di altri Stati nella stipulazione di un compromesso pacifico fra Italia e Vaticano, ben tempestivo nel momento in cui si addiveniva ad una definizione generale della pace europea.

Nell'allocuzione concistoriale del 6 dicembre 1915 Benedetto XV poneva in luce gli inconvenienti derivati al Papato dalla partecipazione italiana alla guerra, pure esplicitamente e solennemente riconoscendo la buona volontà di cui il Governo italiano mostrava di voler dare prova.

Si disse che fin dalla fine del 1915 Papa Della Chiesa avesse demandato ad una commissione di cardinali e di prelati il còmpito di indagare e di fissare soluzioni possibili della questione romana, da sottoporre poi al congresso della pace. Si parlò anzi in Germania, in quel torno di tempo, di approcci diretti, intervenuti al riguardo fra Santa Sede e Governo italiano. Sta di fatto che una delibazione aperta della questione alla conferenza della pace sembrava dovesse essere esclusa a priori data la pattuita esclusione della Santa Sede dalla conferenza della pace stessa. Il 13 giugno 1918, pochi mesi prima dell'armistizio, il Governo inglese aveva detto senza sottintesi alla Camera dei Lords a Londra che la situazione del Pontefice era quella di un sovrano di Stato neutro, il rappresentante del quale non avrebbe potuto essere introdotto alla conferenza della pace, senza previo consenso di tutti i belligeranti.

Ed ecco allora le varie fasi dell'attività diplomatica della Santa Sede per acclimare in qualche modo, nella temperie delle discussioni versagliesi per la pace, la opportunità di una discussione sul problema che ormai da decenni sembrava pesare, come un incubo, su tutta l'attività politica e religiosa della Santa Sede. Il 4 gennaio 1919 il presidente Wilson partiva, derogando cosí da quella che era ormai la consuetudine ufficiale del protocollo pontificio, dal Quirinale, e si recava a visitare il Papa. Si disse che Benedetto XV avesse sottoposto al presidente americano la questione dell'internazionalismo della Legge delle Guarentigie. L'Osservatore Romano smenti la notizia.

Nel marzo successivo una nuova dichiarazione ufficiosa dell'organo pontificio smentiva la voce corrente che il Pontefice avesse molto desiderato di partecipare alle trattative di pace che si andavano laboriosamente svolgendo a Versaglia. L'Osservatore Romano aggiungeva che il Papa avrebbe potuto alimentare un simile desiderio solo nel caso che si fosse trattato di una pace serena di pacificazione anziché, com'era il caso, di una pace di rappresaglia e di sopraffazione.

A due mesi di distanza il medesimo giornale pontificio smentiva la notizia divulgata da alcune agenzie anglosassoni secondo cui la Santa Sede avrebbe spiegato un'intensa azione per mitigare la durezza delle condizioni di pace imposte alla Germania. La Santa Sede, timorosissima di fronte all'eventuale corso delle cose del periodo postbellico, di cui si poteva ben prevedere il carattere agitato e problematico, cercava di evitare qualsiasi posizione e qualsiasi enunciazione compromettenti.

Questo non vuol dire, lo ripetiamo, che la Segreteria di Stato non tentasse tutte le vie per insinuarsi e per far sentire la sua voce nelle adunanze della conferenza versagliese. Avrebbe potuto comportarsi diversamente dato tutto l'andamento ormai secolare della sua azione politica nel mondo europeo, lo avrebbe soprattutto potuto fare in una emergenza che si rivelava cosí carica di conseguenze oscure e difficilmente calcolabili? Certo, il verdetto duro e tagliente pronunciato da Benedetto XV nel 1917 con la frase storica «l'inutile strage», avrebbe avuto molto bisogno di essere commentato, ora che la «strage», giunta al suo epilogo, aveva portato al tavolo della pace una infinità di problemi le cui provvisorie soluzioni non avrebbero segnato altro che un inquieto intervallo preparatorio di nuovi catastrofici rivolgimenti. Sarebbe stato veramente il caso di far constatare al mondo come, secondo la mirabile parabola evangelica, gli uomini sono simili a fanciulli sventati, iracondi e irriducibili, che non sanno porsi bene d'accordo, né sul giuoco triste né sul giuoco lieto, né sulla pace né sulla guerra, amanti sempre di compromessi proditori, di rappresaglie violente, di vendette cieche e funeste. Ora, a Versaglia, ci si faceva belli del mito della nazionalità e della menzognera autodecisione dei popoli, per infrangere tradizioni statali che si erano venute lentamente, faticosamente formando in Europa, sotto la guida di un istinto mirante a creare equilibri tra gruppi etnici rivali e a sanare con la disciplina esteriore rinascenti squilibri economico-commerciali; per creare effimere forme statali, da servire unicamente a tutela, a salvaguardia e a corroboramento di predomini ormai logori e decrepiti nelle loro piú intime fibre.

Sarebbe stata veramente l'ora per il Pontificato romano, erede delle glorie di un Gregorio Magno e di un Gregorio VII, di annunciare solennemente al mondo che piccola è la sapienza degli uomini e che stolidi sono gli accorgimenti della diplomazia. Sarebbe stata l'ora adatta e acconcia perché l'autorità suprema del magistero religioso nel cattolicesimo, andando a ridestare dagli strati piú profondi della millenaria tradizione le voci genuine della sua vocazione evangelica, gridasse al mondo, avviato verso la rovina nell'istante stesso in cui credeva di dare assetto alla sua costituzione politica internazionale, la incapacità degli accorgimenti umani a costituire su solide basi la convivenza pubblica. Mai come dopo una prova cosí tragica quale fu quella sostenuta con l'ultima guerra mondiale, che gli uomini si erano illusi dovesse chiudere la serie dei conflitti armati nel mondo, il còmpito indeclinabile della Santa Sede avrebbe dovuto essere, unico e solo, quello di ricordare agli uomini che il cristianesimo aveva creato una civiltà solo predicando l'avvento del Regno di Dio, e che una visione della vita, basata sul satanico presupposto che essa fosse sufficiente a se stessa, non poteva approdare ad altro che a una universalizzazione irreparabile del fratricidio di Caino. E invece la Santa Sede non ebbe altre preoccupazioni che quella di non assumere responsabilità e in linea subordinata di trar vantaggio dalla conferenza per la pace, per la soluzione della cosiddetta questione romana.

Fra il maggio e il giugno del 1919 monsignor Cerretti, segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, fu spiccato a Parigi, si disse per portare le richieste pontificie a proposito delle missioni tedesche nelle ex-colonie germaniche, di cui si preparava la soppressione. Monsignor Cerretti non osò neppure, a nome del Papa, proporre la conservazione delle missioni tedesche, in conformità al memoriale che i vescovi cattolici della Germania avevano in anticipo trasmesso alla Santa Sede. Il messo papale non perorò, come del resto era logico, che a favore dei generici interessi missionari cattolici. E una nota di Balfour a monsignor Cerretti offrf garanzie formali per la libertà e per il carattere confessionale delle future missioni. Nell'allocuzione concistoriale del 3 luglio, Benedetto XV credette di poter dichiarare di avere ottenuto, in cospicua parte, soddisfazione. In pratica, gli articoli 122 e 438 del trattato di Versaglia sopprimevano le vecchie missioni tedesche, trasmettendone i beni alle nuove non germaniche. E in un'altra allocuzione, quella del 16 dicembre 1920, lo stesso Benedetto XV dovette disdirsi, riconoscendo che la sistemazione finale della faccenda non aveva lasciato tranquillo e soddisfatto il suo spirito. Fra le quinte della conferenza intanto la questione ro­mana, su cui la vecchia inquietudine pontificia sembrava essersi acuita, in vista, si diceva, soprattutto della nuova situazione internazionale europea, affiorava e suscitava discussioni ed era argomento di conversazioni ufficiose. Un alto ecclesiastico americano si costituf mediatore fra il presidente del Consiglio italiano Orlando e la segreteria di Stato. Monsignor Cerretti a Parigi non mancò di prendere contatto col ministro italiano, per saggiare il terreno e gettare le basi di un eventuale accordo. Si disse che al principio del giugno una certa convergenza di massima si fosse constatata, su un piano che contemplava la possibile cessione di un territorio qualsiasi al Pontefice. Il divario nasceva sulla estensione di tale territorio. Orlando si diceva disposto ad accordare solamente il Vaticano, mentre monsignor Cerretti chiedeva, a nome della Santa Sede, che tale territorio fosse prolungato fino al Tevere e chiedeva, in piu, che a garanzia del recuperato possesso il Pontefice fosse ammesso nella Lega delle Nazioni. Ma il ministero Orlando cadde a poco tempo di distanza, e il nuovo presidente del Consiglio dei ministri, Nitti, avrebbe ripreso dopo poco tempo, a Roma, le conversazioni personali col cardinal Gasparri.

Frattanto si addiveniva alla stipulazione del trattato versagliese, il 28 giugno 1 919, e fra gli ultimi mesi dell'anno e l'anno successivo si addiveniva alla stipulazione dei trattati miqori. Si iniziava per l'Europa un periodo cupo ed agitato di drammatica aspettativa. Non si direbbe che la Santa Sede avvertisse quanto gravidi di tragico avvenire fossero gli eventi. La grande guerra era stata una fatale prova per la vita europea. Si potrebbe dire che essa fosse venuta a provocare il definitivo, dissolvitore epilogo, in quel processo di pulviscolare frantumamento delle vecchie unità morali e politiche, su cui si era assisa nel Medioevo cristiano la famiglia dei popoli europei. L'abbattimento dell'Austria, ultimo residuo dell'idea cristiana imperiale, avrebbe fatalmente aperto il varco alla resurrezione di una quantità di istinti etnici e religiosi in conflitto, nell'Europa centro-orientale, cui l'unità statale degli Absburgo e la loro sapientissima amministrazione erano riuscite ad imporre un poderoso freno. La pace versagliese non fu altro che una costituzione posticcia e artificiosa, guidata dall'effimero e illusorio principio dell'autodecisione e della nazionalità, sotto la cui fragile ed epidermica superficie avrebbero covato, fino alla turbinosa riscossa, millenarie animosità etniche, fino allora mal represse e stentatamente contenute. D'altro canto la formidabile crisi sociale provocata e alimentata dalle rivendicazioni operaie in un mondo economico a cui la tecnica offriva portentose possibilità di sviluppo e di arricchimento, doveva, nella terra degli zar, appiccare il fuoco ad una delle piú vaste e logicamente terribili rivoluzioni che la storia umana ricordi.

Ma piú funesta di ogni altro fattore si sarebbe rivelata nell'Europa postbellica, in tutta la sua disgregatrice potenzialità, la mancanza di una cultura e di una concentrazione della vita che offrissero una direttiva e una guida allo svolgersi rapido e tormentoso degli eventi. Gli uomini non si disciplinano soltanto con norme canonizzate e con istituzioni repressive. La disciplina umana è fatta innanzi tutto di idee impalpabili e di valori trascendenti. Quando agli uomini sia tolta la convinzione preliminare di una realtà fuori di noi, di cui non siamo i creatori ma di cui siamo al contrario i sudditi e i servi; quando alla consapevolezza spirituale dell'uomo sia tolta la sensazione precisa e normativa di valori assoluti, sotto il cui controllo e nel cui riconoscimento e nella cui opzione sono tutta la consegna e tutto il dramma della nostra vita interiore, che è quotidiana milizia; si capisce perfettamente come, a dispetto di qualsiasi ingannevole formulazione filosofica e spirituale, l'uomo finisce col cedere automaticamente a questi istinti selvaggi e belluini che fermentano sempre sotto la corteccia del nostro convenzionale ed esteriore ben fare.

Ormai, all'indomani della grande guerra europea, i tradizionali valori cristiani sembravano avere smarrito, quasi completamente, una loro qualsiasi efficienza pubblica. L'idealismo germanico, col suo soggettivismo a oltranza della conoscenza – tale idealismo non era stato altro alle origini che sensismo britannico trapiantato su terreno luterano e pietista - con la sua presupposizione di una universale realtà spirituale, in cui lo spirito è l'unica fonte di sussistenza e di trasmigrazione storica, aveva sottratto al procedere umano ogni discriminazione di valori e ogni subordinazione a superiori controlli. La Germania, che era uscita disfatta dalla guerra, doveva avvertire oscuramente che, per conseguire una qualsiasi rivincita, per risollevarsi dalla sua depressiva disfatta, avrebbe dovuto superare decisamente ogni incrinatura della compagine interna, appellandosi a qualcosa che riunificasse, in una piú profonda consapevolezza delle proprie origini e del proprio destino, le membra sparse della vecchia patria germanica, in cui nel secolo decimosesto si era incisa, come una frattura lacrimevole, la divisione confessionale fra cattolici ed evangelici. La coscienza etnica non avrebbe potuto rappresentare il risanamento di questa sempre sanguinante frattura? Disgraziatamente, l'idealismo germanico, difforme da tutte le piú vecchie, piú solenni, piú sacrosante tradizioni della cultura mediterranea, poggiata sempre dall'epoca di Eraclito e di Pitagora su una visione realistica e oggettivistica del mondo, una visione in pari tempo religiosa e filosofica, codificata si può dire da Aristotele con le nozioni di atto e di potenza, di movimento e di causa, aveva dilagato anche in Italia. E in Italia si atteggiava ad ultima parola della speculazione umana, si da definire quali conati ritardatari gli sforzi di tutti coloro che, oscuramente presentendo il disfacimento latente di tutte le tradizioni della nostra spiritualità, si sforzavano, anche a prezzo di una lacerazione esteriore nella formalistica disciplina ormai fossilizzatasi dell'organismo della Chiesa cattolica, di portare alla superficie vecchi valori cristiani e vecchie posizioni speculative, caduti, nonostante certe rivendicazioni ufficiali della teologia ecclesiastica, in lacrimevole oblio.

Il magistero romano aveva creduto di avere provveduto sufficientemente alla incolumità e alla sopravvivenza dei propri dettami nel mondo, ricelebrando, per opera di Leone XIII, la speculazione scolastica e le Summae Theologicae di Tommaso d'Aquino. Ma si trattava di riesumazioni pedanti e letterarie. Le reintegrazioni, perché possano essere viventi ed operose, debbono invece essere resurrezioni saggiamente conguagliate alle nuove esigenze della spiritualità e alle nuove orientazioni della vita associata.

Roma parve impari alla nuova bisogna. È vero. La pace versagliese era stata stipulata senza che la Santa Sede vi avesse avuto la benché minima partecipazione. Era, in fondo, un privilegio. Ne era affrancata da qualsiasi responsabilità, ne era resa piú libera nei propri movimenti e nelle proprie aspirazioni. Ma quale atteggiamento assumere? Sarebbe stata necessaria una lucida consapevolezza della nuova drammatica storia che si preparava, per riportare questa povera Europa dissanguata e depauperata ad una convivenza retta non da quattordici punti, illusori e menzogneri, bensi da un unico salutare punto, quel punto che è stato fissato una volta per sempre dalla rivelazione cristiana. Secondo la quale la vita empirica degli uomini, la politica cioè di questa terra, può andare avanti pure per le sue vie, ispirandosi unicamente a motivi positivi e a valori contingenti. Perché la vita associata degli uomini non sia uno scatenamento di velleità selvagge di predominio e di aggressione, bisogna che, imperiosa e irresistibile, viga, nella coscienza di tutti, la visione ultraempirica di un insieme di valori spirituali e carismatici, che valgono, per la norma della vita associata, molto piú di tutte le codificazioni legali e di tutti gli istituti giuridici. L'Illuminismo liberale, facendo della storia la progressiva realizzazione dello Spirito, aveva invece dato l'illusione di una possibile pace perfetta, quanto meno di un'età di progresso ordinato, nel momento stesso in cui poneva i germi piú nefasti della rivalità e della esaurientesi competizione delle forze brute.

Sarebbe stato necessario da parte del supremo magistero cristiano il bando puro e semplice di un rinnovamento evangelico, basato sulla ricerca del Regno di Dio, di quella ricerca al séguito della quale, secondo l'aforisma solenne di Cristo, tutto il resto viene da sé. E la Santa Sede invece credette di non dover fare altro che guadagnare in Italia una posizione di prepotere politico e in Europa un modus vivendi di patteggiamento e di condiscendenza con tutti. Il mondo si avviava piú rapidamente che mai al suo naufragio. Solo dopo di questo sarebbe sorta all'orizzonte la possibilità di una universale rinascita.

Se la diplomazia pontificia aveva creduto ciecamente in un successo immancabile degli Imperi centrali, seppe abilmente e rapidissimamente ridestarsi dal suo fantastico miraggio. La pace versagliese non ebbe dalla Santa Sede né un biasimo esplicito né una esplicita approvazione. L'allocuzione concistoriale del 3 luglio 1919, a cinque soli giorni di distanza dalla sottoscrizione della pace versagliese, si limitava a formulare voti perché, una volta cessate le ostilità, si passasse senz'altro all'abolizione del blocco, alla restituzione dei prigionieri, al ristabilimento, diciamo cosí, dei vincoli della carità cristiana fra i popoli. Scrivendo il 15 dello stesso mese ai vescovi della Germania, Benedetto XV accennava alla pace sottoscritta a Versaglia senza emettere in merito alcun giudizio. Il Papa si limitava a formulare voti che le nazioni civili prestassero soccorso al popolo tedesco, ridotto nella piú dura delle necessità.

Il 23 maggio dell'anno successivo Benedetto XV emanava l'enciclica Pacem Dei munus. Anche qui semplici accenni generici alla pace conclusa e raccomandazioni calde perché il senso della carità cristiana tornasse a lenire le piaghe aperte dal conflitto e a ristabilire la mutua concordanza dei popoli. Alla Società delle Nazioni, che gli improvvidi ed incauti giudicarono, osannando, come la restaurazione fra gli uomini di rapporti atti a surrogare in qualche modo i vincoli di solidarietà che il cristianesimo aveva cementato nei secoli con l'esperienza della grazia e la consapevolezza operosa del comune destino verso i fini del Regno di Dio, la Santa Sede non fu chiamata a partecipare. D'altro canto, non avendo partecipato al congresso della pace, la Santa Sede non aveva potuto figurare fra i fondatori della Società stessa. Privilegio anche questo che veniva ad esimere il Pontificato romano da qualsiasi responsabilità in uno dei piú insulsi e stolidi tentativi che lo spirito illuminista e liberale abbia mai saputo escogitare, nella illusione che sia possibile al mondo creare istituti di vasta ed efficiente virtú morale, prescindendo completamente da quel mondo di realtà trascendenti, la cui percezione e la cui partecipazione contrassegna, nella sua originalità, il fatto religioso e in particolare la civiltà cristiana.

L'occasione si presentava eccellente alla Santa Sede per contrapporre alla ingenua, se non calcolata, utopia ginevrina la solenne realtà dei valori religiosi e cristiani, soli in grado di creare nel mondo quella Città di Dio, che avrà la sua realizzazione completa solo nel Regno instaurato, quando che sia, dalle mani onnipossenti di Dio. E invece, la Santa Sede credette di poter assicurare meglio il proprio prestigio e la propria missione nel tremendo avvenire che si preparava, all'accortezza delle stipulazioni concordatarie e alla costituzione di un proprio partito politico in Italia.

Nacque cosí il partito popolare. Non se ne può tenere disgiunta la prima genesi dalla ripresa dei rapporti diplomatici fra la Santa Sede e la Francia. Si era avuta colà nel 1905 la abrogazione del concordato napoleonico e la separazione della Chiesa dallo Stato. Al momento della sua elezione, Benedetto XV non aveva mancato però di dare comunicazione del suo innalzamento alla tiara al presidente della repubblica francese Poincaré, il quale aveva immediatamente risposto con particolare cortesia per il tramite di un messo speciale. Già durante la guerra si era delineata in Francia una larga corrente favorevole alla ripresa delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede. All'indomani della guerra si moltiplicarono le possibilità di rapporti fra Vaticano e Governo francese. La reintegrazione dell'Alsazia e Lorena nella patria francese aveva, prima di ogni altro evento, imposto contatti con la segreteria di Stato. La canonizzazione di Giovanna d'Arco, celebrata con particolare solennità il 16 marzo 1920, servi anch'essa a rinfocolare i desideri largamente propagatisi di una restaurazione dei rapporti diplomatici. Già nel marzo precedente il governo del Millerand aveva presentato alla Camera parigina un disegno di legge, stanziante i fondi necessari alla restaurazione di un'ambasciata presso il Vaticano. Nel maggio dell'anno successivo la ripresa delle relazioni era un fatto compiuto. E le ripercussioni ne erano cospicue anche al di qua delle Alpi.

Nel novembre del 1919, in occasione delle elezioni generali politiche, la Curia romana aveva ufficialmente notificato al paese che il non expedit, da Pio X semplicemente sospeso, era ormai integralmente abrogato. Per la prima volta nella storia del regno italiano unificato le forze cattoliche entravano nell'agone politico a vessilli spiegati, come corpo politico autonomo, come partito a sé, direttamente sottoposto alle direttive di quel supremo magistero pontificale, la cui missione, per definizione e per eccellenza, non dovrebbe mai rivolgersi ad altri fini e ad altre idealità che non siano quelle della universale comunione carismatica dei professanti il Vangelo, da un capo all'altro del mondo. Le conseguenze ne dovevano essere incalcolabili. Fino allora, palesemente o clandestinamente, con l'autorizzazione ufficiale o senza, la massa dei cattolici italiani aveva costituito la riserva numerica dei partiti liberali. Il liberalismo conservatore in Italia si era fatto sempre forte di questa riserva e in virtú di essa aveva potuto dominare il Parlamento. Ora, al Parlamento, i cattolici entravano in nome proprio, con i propri capi, longa manus della segreteria di Stato. Come si sarebbe potuto piú reggere il liberalismo conservatore italiano? I cattolici sembravano entrare alla Camera dei deputati da trionfatori; gli eventi avrebbero dimostrato quanto di disfatta morale e religiosa l'apparente vittoria politica segnasse, in realtà, al passivo.

La grande massa ingenua e buona dei cattolici italiani e non soltanto italiani ebbe a credere che con la costituzione del Partito Popolare italiano e con il suo entrare solenne e vittorioso nel Parlamento (dalle elezioni del 1919 uscirono piú di cento deputati popolari, che vennero a costituire il nucleo arbitrale della situazione parlamentare, fra i circa centosessanta socialisti, e l'altra metà divisa in gruppi scambievolmente ostili) una nuova era si dovesse inaugurare nella storia politica, morale e religiosa della nazione unificata. Ormai diuturnamente assuefatti, sotto la pressione delle stesse direttive gerarchiche, a mescolare stranamente in una sola visione interessi politici e interessi religiosi, anche i cattolici italiani soggiacevano a illusioni messianico-terrene, analoghe a quelle di chi aveva creduto che la prima guerra mondiale dovesse segnare il tramonto definitivo dei conflitti armati nel mondo, o aveva stoltamente sognato che la Società delle Nazioni potesse comunque rappresentare una sistemazione valida e duratura dei rapporti internazionali. Aggiungiamo subito che tale illusione dei cattolici italiani poteva accampare molto maggiori giustificazioni di tutte le altre illusioni congeneri.

Non c'era forse un grande documento pontificio sulla questione sociale e sui rapporti economici fra gli uomini, la Rerum Novarum, la famosa enciclica emanata da Leone XIII il 15 maggio 1891, la Magna Charta della sociologia cristiana? E il Partito Popolare, sorto in mezzo a cosí vasta aspettativa di popoli, in una temperie cosí straordinariamente acconcia ai grandi tentativi sociali e alle innovatrici speranze, non aveva, dalla Provvidenza, il còmpito di tradurre in atto quelle che erano sembrate le armoniche, lungimiranti, ultrasapienti dottrine cattoliche in fatto di proprietà, di salariato, di politica sociale, di elevazione e di celebrazione del lavoro?

Nella sua leggermente megalomane volontà di apprestare parole risolutrici a tutti i conflitti della politica e della cultura contemporanea, Leone XIII aveva creduto, sulla base di vecchie posizioni scolastiche, di poter affrontare i problemi assillanti, posti alla vita associata dallo sviluppo della tecnica industriale e produttiva e di rimbalzo dalle rivendicazioni proletarie.

«L'ardente brama», aveva scritto il Pontefice di Carpineto nel proemio della sua altisonante enciclica «di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente, dall'ordine politico, passare all'ordine congenere dell'economia sociale. E di fatto i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria; le mutate relazioni fra padroni ed operai; l'essersi in poche mani accumulata la ricchezza e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze, divenuto nelle classi lavoratrici piú vivo e l'unione fra loro piú intima; questo insieme di cose e i peggiorati costumi han fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità, che tiene in trepida aspettazione sospesi gli animi ed affatica l'ingegno dei dotti, i congressi dei savi, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi: in guisa che oggi non v'ha questione che maggiormente interessi il mondo. Ciò pertanto che a bene della Chiesa e a comune salvezza facemmo altre volte, venerabili fratelli, con le nostre lettere encicliche sui poteri pubblici, la libertà umana, la costituzione cristiana degli Stati ed altri siffatti argomenti, che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, il medesimo crediamo per gli stessi motivi di dover fare adesso sulla questione operaia. Toccammo già di questa materia, come ce ne venne occasione, piú di una volta: ma la coscienza dell'apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora di proposito e pienamente, a fin di mettere in rilievo i principî con cui, secondo giustizia ed equità, risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa egli è segnare nelle relazioni fra proprietari e proletari, fra capitale e lavoro, i precisi confini. Pericolosa, perché uomini turbolenti e astuti si argomentano ovunque di falsare i giudizi e di volgere la questione stessa a sommovimento dei popoli».

In verità, alla genuina e primitiva sociologia cristiana il problema dei rapporti fra proprietari e non proprietari, fra servi e liberi, fra ricchi e poveri, non era apparso né difficile né pericoloso. San Paolo aveva scritto una volta, tassativamente, che non c'era da fare gran conto della propria condizione sociale e dei suoi possibili confronti e attriti con la posizione sociale dei propri fratelli. L'uomo, per definizione e per natura, qualunque sia la sua condizione sociale, è un miserabile e pezzente, che vive solo di elemosina : l'elemosina di Dio e della natura, l'elemosina del sorriso, del compatimento, del perdono del proprio compagno di pellegrinaggio, di colpa e di miseria. Se il problema dei rapporti fra le varie classi sociali è diventato cosí pungente e cosí aspro, ciò non è probabilmente dovuto tanto alla trasformazione della tecnica produttiva, alle piú sensibili sperequazioni economiche, al piú intralciato decorso dei collegamenti fra gli uomini. I problemi sociali diventano acri e ardui solo quando gli uomini smarriscono il senso dei loro collegamenti spirituali e fanno della rete dei loro vicendevoli rapporti una nuda disciplina di ripartizione dei beni materiali e una faticosa e logorante ricerca di accomodamenti legali.

Comunque, dopo il solenne preambolo, il Pontefice Leone XIII aveva creduto nella Rerum Novarum di fissare non soltanto le posizioni teoretiche di quella che egli considerava l'unica canonizzata possibile sociologia cattolica, bensí anche le direttive pratiche di una ricostruzione e di una ristabilizzazione cattolica della società.

Prima di ogni altra affermazione, aveva risonato nella enciclica la condanna del socialismo. «Diritto di natura», vi era proclamato, «è la proprietà privata. Poiché, anche in questo, passa gran divario fra l'uomo e il bruto. Il bruto non governa se stesso, ma due istinti lo reggono e lo governano, i quali da una parte ne tengono desta l'attività e ne svolgono le forze, dall'altra determinano e circoscrivono ogni suo movimento, cioè l'istinto della conservazione propria, e l'istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini basta l'uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé. Né potrebbe mirare piú lontano, perché mosso unicamente dal senso del particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell'uomo. Possedendo egli nella sua pienezza la vita sensitiva, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l'animalità, in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale e Io distingue essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza ossia la ragione, e appunto perché ragionevole vuolsi concedere all'uomo, sui beni della terra, qualche cosa di piú che il semplice uso, come anche agli altri animali: e questa non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma eziandio di quelle che l'uso non consuma. Il che torna piú evidente ove si penetri piú addentro nell'umana natura. Imperocché per la sterminata ampiezza del suo riconoscimento, che abbraccia, oltre il presente, l'avvenire, e per la sua libertà, l'uomo, sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a se stesso. Egli deve dunque poter eleggere i mezzi che giudica piú propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all'uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo vede essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni avvenire. Imperocché i bisogni dell'uomo hanno, per dir cosí, una vicenda di perpetui ritorni, sí che, soddisfatti oggi, rinascono dimani. Deve pertanto la natura aver dato all'uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso ond'egli abbisogna; beni che può somministrarci solamente la terra con la sua inesauribile fecondità. Né v'è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato, perché l'uomo è anteriore allo Stato: si che prima che si formasse il civile consorzio egli dovette avere da natura il diritto di provvedere a se stesso».

Nella quale piuttosto banale disquisizione, di natura fisio-biologica, non pare che sia possibile riscontrare alcuna eco di quella che era stata una volta la formulazione esplicita, perentoria e tassativa di San Paolo: «Sei nato possidente? Che tu sia come se non possedessi nulla. Sei nato nullatenente? Non aspirare al possesso: perché è una forma che passa quella del mondo sensibile». Se si dirà che con simili assiomi non si può governare il mondo si potrà immediatamente rispondere che, indirettamente, proprio la sicurezza paolina della transitorietà di tutto quello che è caduco e sensibile nel mondo determinò a suo tempo la piú insigne e vasta rivoluzione che la storia della umanità, da un capo all'altro del mondo, abbia mai consegnato nei suoi annali.

Nella sua enciclica Leone XIII, venuto ad affrontare piú da presso il problema della povertà e della ricchezza, della lotta di classe e dell'avvenire della convivenza umana; ribadita la difesa della proprietà privata; e sceso a particolari, poco meritevoli in verità della attenzione e della trattazione del supremo magistero cristiano, fissava molto armonisticamente i doveri della proprietà. Insegnava cosí al mondo: «In ordine all'uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, seppure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa: la quale inoltre fa che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica ed informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò, che nella ricchezza si vuoi distinguere il possesso legittimo dall'uso legittimo. Naturale diritto dell'uomo è la privata proprietà dei beni: e l'esercitare questo diritto è, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario: – È lecito – dice San Tommaso – anzi necessario all'umana vita, che l'uomo abbia la proprietà dei beni. – Ma se inoltre si domandi quale debba essere l'uso di tali beni, la Chiesa, per bocca del santo Dottore, non esita a rispondere che, per questo rispetto, l'uomo non deve avere i beni esterni come propri, bensí come comuni, in modo che facilmente li comunichi nell'altrui necessità. Onde l'Apostolo dice: – Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare il proprio, facilmente. – Niuno al certo è tenuto a sovvenire gli altri di quello che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio stato - perché niuno deve vivere in modo non conveniente. – Ma soddisfatto alla necessità e alla convenienza, soccorrere col superfluo ai bisognosi è dovere: – Quello che sopravanza, date in elemosina. – Eccetto il caso di estrema necessità, non sono questi, è vero, obblighi di giustizia, ma di carità cristiana, il cui adempimento non si può certamente esigere per vie giuridiche: ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini stanno la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del donare generoso e insegna – esser cosa piú beata dare che ricevere – e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: – Quanto faceste ad uno dei menomi di questi miei fratelli, a me lo faceste. – In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni sia esteriori e corporali, sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio e nel medesimo tempo come ministro della divina Provvidenza a vantaggio altrui».

Dove, come si vede, la parsimoniosa e leggermente avara interpretazione casistica dell'esercizio della carità viene in qualche modo ad ottundere il concetto sociale della proprietà e ad ogni modo dimentica completamente la grande massima neotestamentaria, secondo cui il primo ed ultimo onere della legge è quello che ciascuno nel pellegrinaggio della vita sensibile avverta la propria tassativa consegna di alleggerire il carico del fratello, carico materiale e carico spirituale, per gravare il proprio, nella comune sensazione di una universale fraternità che è fatta di compartecipazione alle medesime gioie, alle medesime sofferenze, alle medesime speranze e all'identico trascendente destino.

Del resto, l'inciso della enciclica secondo cui le dottrine sociali già intravvedute dai filosofi erano state solo dalla Chiesa portate fuori dall'ambito speculativo, per scendere nella pratica e divenire forme concrete di vita, esponeva la Chiesa cattolica, specialmente in Italia, al piú rischioso e compromettente dei cimenti, ora che la costituzione di un solido partito politico, come il Popolare, nelle cui file vennero tumultuosamente ad irreggimentarsi tutti quelli che, per interesse piú o meno confessabile, auspicavano un rinnovamento della vita italiana, offriva il destro alle milizie fattive della Curia di introdurre nella vita legislativa italiana le massime della Magna Charta sociale della Chiesa promulgata da Leone XIII.

In realtà, il Partito Popolare fallí miseramente alla prova. In pratica il Partito Popolare agi nella vita nazionale con tutti i difetti, con tutte le male arti, con tutta la perversa capacità di corrompere e di essere corrotto, che costituivano i caratteri salienti dell'inquinato sistema parlamentare. Venne ad accomodamenti con tutto e con tutti. Dal punto di vista culturale amoreggiò con quello idealismo immanentistico che rappresentava la piú radicale negazione e il piú totalitario disconoscimento delle grandi realtà spirituali e carismatiche, su cui e di cui è vissuta la tradizione cristiana. Sul terreno economico oscillò continuamente fra posizioni demagogiche a oltranza, in concorrenza con i socialisti, e condiscendenze a tutti i piú palesi interessi capitalistici. Sembrò a volte aver dischiuso l'adito a un arrembaggio di procaccianti e di ambiziosi, di null'altro avidi che di posizioni eminenti e di profitti piú o meno leciti. Soprattutto trasformò, in molte regioni d' Italia, il clero, che l'enciclica Pascendi aveva alienato e allontanato dalle preoccupazioni sacre e dagli studi religiosi, in un insieme di partitanti politici e di propagandisti sovversivi.

Una cosa sola si vide ben chiara, e fu che il Partito Popolare rappresentò l'agente docile e il mediatore infallibile, cui, in ripetute occasioni, fece ricorso la segreteria di Stato pontificia, per imprimere sul decorso della vita pubblica e politica italiana le direttive e le imposizioni da essa ritenute necessarie. Manifestazioni tipiche di tale situazione di cose furono gli urti verificatisi fra il 1921 e il 1922 fra il Partito Popolare e Giolitti, col conseguente veto di Don Sturzo al ritorno di questi al potere.

Causa fondamentale di tale veto sturziano fu la legge per la nominatività dei titoli che Giolitti aveva fatto votare con il concorso dei ministri e deputati dello stesso Partito Popolare. Tale legge riusciva evidentemente imbarazzante per gli interessi delle congregazioni religiose che, non essendo riconosciute dallo Stato, possedevano sotto il nome di uno dei loro membri. Il medesimo Giolitti non aveva fatto mistero della sua intenzione di gravare onerosissimamente la mano del fisco sulle trasmissioni ereditarie fra non consanguinei. Si parlava in tal caso di una tassa di successione dell'80 per cento, e poiché le congregazioni non riconosciute dallo Stato non possedevano in proprio come enti morali, ma possedevano sotto il nome personale di uno dei loro membri che, morendo, lasciava a chi non era legato da alcun vincolo di consanguineità, ne seguiva che nel giro di un paio di successioni la proprietà delle congregazioni religiose sarebbe stata automaticamente incamerata dallo Stato. Di qui il veto di Don Sturzo, per comando della segreteria di Stato, ad un nuovo avvento di Giolitti al potere. E il posto dell'on. Giolitti fu assunto dall'on. Facta.

A qualche cosa dunque era servito il Partito Popolare: non di certo alla instaurazione di un ordine sociale cristiano.

Mai le montagne avevano partorito piú risibile genitura.

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