IV «AD MAJOREM DEI GLORIAM»

Il movimento di reazione determinato nella Chiesa cattolica dal dilagare della riforma protestante è contrassegnato dalla comparsa, sull'orizzonte della tradizionale vita di pietà, di devozione e di carità, di una pleiade di figure di santi, la cui opera pedagogica, assistenziale, organizzativa, costituisce senza dubbio un vero monumento di eroismo etico.

Ma questa santità cristiana dell'età della controriforma ha questo di caratteristico: sembra avere dimenticato il vecchio e secolare metodo innovatore del cristianesimo, basato tutto sul principio che, per sanare o quanto meno per rendere meno rozzo e selvaggio il mondo, bisogna pregiudizialmente rinnegarlo. Essa invece si mescola a tutte le forme della vita associata con l'illusione che per trasfondere lo spirito cristiano nel mondo ci si possa accostare impunemente al suo traffico, ai suoi metodi, ai suoi ideali, alle sue forme consuetudinarie di vita.

Personificazione tipica e completa di questo atteggiamento di spirito, che presiede alla fioritura esuberante della santità cattolica nel secolo decimosesto, è senza dubbio la Compagnia di Gesù. E Sant'Ignazio di Loyola è per eccellenza l'eroe eponimo della cattolicità post-riformata, in tutte le espressioni della vita spirituale, cosí nelle forme culturali come in quelle morali, in quelle dogmatiche come in quelle disciplinari.

Nacque nel 1492 nel centro della Giupúzcoa in Spagna. Datosi alla professione delle armi fin dalla prima giovinezza, temprato a tutti i cimenti bellici, è ferito alle gambe all'assedio di Pamplona, nel maggio del 1521. Nei lunghi ozi della convalescenza l'unica lettura consentitagli, quella della Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, e della Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, determina un rivolgimento profondo nella sua anima. Lo spirito guerresco e avventuroso che Ignazio si portava nel sangue si trasforma nella vocazione all'avventura del proselitismo religioso. Il vecchio misticismo, non immune da infiltrazioni musulmane, della Spagna, si coagula nello spirito di Ignazio in un programma di iniziazione religiosa che viene a prendere il posto dell’iniziale programma del pellegrinaggio in Oriente.

Nella solitudine di Manresa prima, nella vita scolastica di Barcellona e di Parigi poi, Ignazio viene addestrandosi alla elaborazione dei suoi metodi iniziatici e della sua organizzazione religiosa.

Il libretto degli Esercizi spirituali e le Costituzioni della Compagnia sono i cardini dell'edificio che egli costruisce per entro la grande società dei credenti, edificio però non claustrale al modo dei vecchi Ordini religiosi medioevali (ah, se la Chiesa avesse mantenuto fede all'ordinanza emessa nel sinodo del Laterano del 1215, secondo cui nessuna nuova costituzione monastica si sarebbe mai dovuta escogitare nella Chiesa dopo quelle di San Benedetto e di Sant'Agostino!), bensí con le finestre bene spalancate sul mondo circostante, e perché i membri della Compagnia potessero coglierne tutte le voci, e perché sul mondo esterno la Compagnia stessa potesse stendere i tentacoli di tutta la sua accaparrante attività propagandistica.

Con l'avvento della Compagnia di Gesù, con la propaganda della sua precettistica morale, della sua casistica, della forma stessa delle sue pratiche ascetiche, il cattolicesimo entrava nella fase declinante della sua tipicamente caratteristica azione sociale. Noi possiamo constatarlo, in maniera che non ammette contestazioni, riguardo alla trasformazione introdotta dalla metodica spirituale della Compagnia di Gesù nei concetti stessi fondamentali dell'esperienza religiosa: i concetti di meditazione e di contemplazione.

Per valutare esattamente il passaggio bisogna che ci rifacciamo un po' indietro nel tempo.

Se esperienza religiosa è contatto dello spirito con lo Spirito infinito, è in altri termini ascensione dell'uomo verso l'Assoluto, si comprende come la meditazione e la contemplazione siano i veicoli naturali attraverso i quali la religiosità si protende verso la sua meta.

Ma che cosa è esattamente la meditazione e che cosa è esattamente la contemplazione? Possiamo prenderne le definizioni da uno scrittore latino, che nell'esame e nella esplorazione dei fatti naturali, ha portato uno squisito senso dei collegamenti impalpabili che sussistono fra il mondo fisico e il mondo psichico umano: Plinio il Vecchio.

Quando Plinio il Vecchio vuol porre in luce la flessibilità di un ramo d'albero, perché possa raggiungere la posizione acconcia al suo bisogno di sole e alla sua piú intensa virtú di fruttificazione, adopera una frase meravigliosa: «Ramus edomatur, meditatione curvandi – un ramo è vinto mercè l'assiduo e consapevole sforzo verso la propria curvatura». Anche lo spirito dell'uomo ha bisogno di essere domato e portato verso la curvatura necessaria perché raggiunga piú ampia zona di luce e piú piena infusione e irradiazione di grazia. E non può essere domato che mercè la «meditazione» , cioè l' assiduo, tenace sforzo per drizzarsi e insinuarsi verso là dove brillano e rifulgono in pieno la luce e la potenza di Dio.

Anche della contemplazione sarebbe difficile trovare una definizione piú eloquente di quella suggerita dal medesimo Plinio.

Le energie spirituali dell'uomo sono come frecce che l'uomo porta chiuse nella faretra e che egli deve fare scoccare al momento opportuno, perché raggiungano la meta predestinata. Ma perché l'arciere possa utilizzare piú sapientemente le sue frecce e riesca a configgerle là dove è il segno della sua vittoria, occorre che il campo della visione, dinanzi alla pupilla che prende la mira, sia sgombro e limpido, occorre che egli possa «sagittis praecipua contemplatione uti – usare delle sue frecce su un ampio e libero spazio di orizzonte».

Qual è il metodo specifico a cui il cattolicesimo ha fatto ricorso per addestrare gli uomini alla flessibile curvatura, necessaria per raggiungere il sole, e qual è il cielo che esso ha dischiuso ai loro occhi e il campo di tiro che ha allargato dinanzi a loro, perché potessero scoccare piú sicuramente le frecce della loro potenza spirituale?

Come abbiamo visto nei volumi precedenti, il primitivo cristianesimo, non ancora disciplinato in una gerarchia ecclesiastica unitaria, trasse la norma dei suoi ideali dalla visione dell'imminente Regno di Dio. Tutte le energie della sua vitalità spirituale e mistica si concentrarono e si fusero nella aspettativa del glorioso giorno del Signore, che sarebbe dovuto venire a compensare le angosce della prova e del martirio. Come noi abbiamo largamente visto, i documenti della piú antica comunità credente traspirano una cosí intensa certezza della palingenesi non lontana, che il loro vocabolario ignora i termini e i concetti di meditazione e di contemplazione. Essi insistono unicamente su due concetti che sono due precetti: la trasformazione interiore e la vigilanza. Il cristianesimo primitivo non conosce che una consegna: quella di star desti sulla soglia della casa, con la lampada accesa nelle mani e le vesti succinte sui fianchi, per accorrere ad illuminare la via sui passi del Signore, che doveva arrivare nell'ora piú inaspettata di questa notte caliginosa e insidiosa, che è la vita nel mondo.

La Historia Lausiaca, nel secolo seguìto alla «conversione» di Costantino, ci è testimone della trasformazione già effettuatasi nel campo della morale cristiana con l'avvento dell'ascetismo organizzato. Essa ci ha lasciato, non senza avere assimilato elementi cospicui dalle tradizioni aretalogiche del pitagorismo e delle scuole ciniche, il racconto pittoresco delle gesta penitenziali dei santi cristiani, eremiti e contemplanti.

Un esempio caratteristico varrà ad istruirci in maniera grafica su quello che è l'ideale della contemplazione ascetica nel quarto secolo cristiano, in Oriente.

V'era un certo Serapione, detto il Sindonita, perché non portava altro indumento che una piccola e sdrucita sìndone. Sprezzando le ricchezze e il benessere, non ricercava che la conoscenza delle Scritture. Tratto appunto dalla meditazione delle Scritture, non poté tenersi chiuso in una cella, ma si dié a percorrere il mondo, raggiungendo a questo modo la perfezione della virtú. Attraverso la sua peregrinazione, compie strane opere di proselitismo e di penitenza. Giunge, dopo varie peripezie, a Roma, e qui si dà a cercare d'ogni parte chi, uomo o donna, praticasse, nella città, la piú grande e dura ascesi. Incontra cosí un discepolo di Origene, Donnino. Da lui seppe che c'era a Roma una giovane donna silenziosa, che viveva isolata da tutti, evitando il contatto con qualsiasi altro essere, tutta tuffata e sepolta nella solitaria meditazione. Serapione capí di aver trovato quel che faceva al caso suo e si affrettò a ricercarla. Giunto alla sua dimora, disse alla vecchia inserviente: «Di' alla vergine che io ho ardente bisogno di parlarle perché è Dio stesso che mi ha mandato». Dopo due o tre giorni di attesa, la fantesca l'introduce. E Serapione domanda alla solitaria: «Perché te ne stai cosí a sedere immobile?». La contemplante risponde: «Io non sto affatto a sedere immobile; io invece cammino continuamente, e come!». E allora Serapione le domanda: «E verso dove vai?» La risposta è lapidaria: «Cammino verso Dio». Serapione domanda ancora: «Sei tu morta o viva?». E la vergine dà una risposta piena di sapienza antropologica: «Credo bene, affè di Dio, di essere morta. Perché, chi mai, vivendo nella carne, sarebbe capace di battere la via che batto io?». Serapione la prende in parola: «Se vuoi darmi la prova della tua morte, fa' quello che faccio io». La vergine risponde: «Comandami cose possibili ed io le farò». Serapione sentenzia aforisticamente: «Una cosa sola è impossibile al morto, l'essere empio». E comanda alla vergine: «Esci e compari in pubblico». La vergine risponde: «Sono venticinque anni che non compaio in mezzo al mondo. Come potrei farlo ora?». Serapione ribatte: «Ma se tu sei morta per il mondo, e il mondo è morto per te, ti deve essere del tutto indifferente comparire o non comparire in pubblico. Vieni dunque con me». E la vergine segue Serapione. La conduce in piena adunanza di fedeli e le dice: «Se tu vuoi veramente convincermi d'esser morta e di non avere alcuna voglia di piacere agli uomini, fai quello che farò io. Vale a dire, denùdati, metti i tuoi indumenti sul tuo capo, e traversiamo insieme, l'uno dopo l'altro, la città». La vergine non acconsente, temendo di essere presa per pazza o per demoniaca. E Serapione, trionfante, ne conclude ch'essa non ha raggiunto la perfezione, che è la completa morte al mondo.

La visione che soggiace a questa prassi della vita meditativa e contemplativa, è la vecchia visione platonica dualistica. Per marciare verso Dio occorre assolutamente essere morti al mondo, aver soppresso radicalmente la sfera dei valori sensibili e delle esperienze corporee. Lo spirito non può sublimarsi nell'Assoluto e nell'Eterno, se non mediante una soppressione implacabile di tutto l'apparato fantastico delle percezioni e delle valutazioni carnali.

Questo sentimento profondo ed imperioso, trasmesso dalla tradizione del dualismo orfico-platonico, della contrapposizione tra mondo sensibile e mondo spirituale o ideale; questa presupposizione normativa che per ascendere nella contemplazione occorre chiudere tutte le capacità visive aperte sul mondo empirico; avevano trovato alla fine del quarto secolo la loro espressione piú alta nelle Confessioni di Sant'Agostino.

Come noi abbiamo visto al momento opportuno, Agostino ha redatto questo racconto drammatico della sua formazione e della sua conversione ad un decennio circa di distanza dal suo battesimo milanese. L'ha redatto quando la sua posizione ecclesiastica era definitivamente fissata ed egli aveva un sistema teologico ben chiaro da patrocinare e da propagare. Non bisogna mai dimenticare, come abbiamo visto, questa situazione di fatto quando si vuol valutare l'attendibilità biografica del capolavoro agostiniano. Ma appunto qui è il valore testimoniate e documentario delle Confessioni, agli occhi di chi vada a cercare la enunciazione dei canoni e dei metodi edificativi che la cattolicità medioevale assunse come normativi.

Non crediamo che in tutte le Confessioni vi sia pagina altrettanto vibrante quanto quella (L. IX c. 10) nella quale Agostino descrive l'ora di contemplazione, trascorsa insieme alla madre, vicinissima alla morte, ad Ostia, alla vigilia del rimpatrio in Africa. È tutt'altro che una pagina originale. Vi spesseggiano incisi biblici e frammenti neoplatonici, in cosí abbondante misura che non v'è frase, può dirsi, che non rappresenti una reminiscenza. E pure tutto vi è fuso e fatto incandescente da una esperienza mistica del divino cosí alta e calda, che la pagina è, senza dubbio, la piú completa espressione della contemplazione mistica cattolica del Medioevo incipiente. La Chiesa ne ha fatto per secoli la norma insuperabile della pedagogia del misticismo.

«Approssimandosi il giorno in cui Monica doveva uscire dal mondo – Tu Dio conoscevi quel giorno, mentre noi lo ignoravamo – accadde – e Tu, per vie misteriose a questo ci avevi condotto – che lei ed io ce ne stessimo soli, appoggiati ad una delle finestre dell'albergo in cui avevamo preso stanza, presso le foci del Tevere, onde riposarci lungi dal rumore cittadino, prima di riprendere il mare. Parlavamo in un tono di squisita dolcezza, dimentichi del passato, tutti protesi verso l'avvenire. Al cospetto di quella Verità che sei Tu stesso, ci andavamo interrogando a vicenda qual mai potesse essere quella vita futura dei santi, che occhio non vide, orecchio non udí, cuore non sperimentò. E anelavamo con le labbra dell'anima nostra alle correnti vive della Tua sorgente, di quella sorgente di vita che sgorga da Te, onde, irrorati nella misura della nostra capacità, potessimo, in una maniera qualsiasi, raffigurarci una realtà tanto grande. Ed ecco che il colloquio pervenne a quel punto dove veramente, al cospetto sfolgorante del gaudio di quella vita, un qualsiasi godimento tratto dai sensi carnali, proiettato in una qualsiasi luce corporea, non che meritevole di confronto, non appare né pur degno di menzione. E allora, erigendoci vieppiú sotto lo stimolo del piú ardente amore verso la meta, trasvolammo gradatamente su tutte le realtà corporee, e sul Cielo stesso, là dove il sole e la luna e le stelle versano la luce sul mondo. E anche di là continuavamo a salire, tuffati nella meditazione interiore, e, parlando e ammirando le opere Tue, toccammo i margini delle nostre facoltà spirituali. Anche quelle oltrepassammo, per arrivare al dominio della pinguedine inesausta, dove Tu pasci Israele in eterno col pascolo della verità; là dove è la vita e la sapienza mercè cui tutto è fatto, il passato e il presente, mentre essa non è fatta, ma sempre, immutabilmente, è, quale fu e quale sarà, se pur può, in essa, sceverarsi successione di tempo, in essa che è eterna. E mentre ne parlavamo, avidi ed ansiosi, la toccammo a pena con tutto lo slancio del cuore, e tra i sospiri, lasciammo lassú, ammaliate, le primizie dello spirito, e ce ne tornammo al balbettio delle nostre labbra, su cui la parola muore. E commentavano: quando taccia il tumulto della carne, svaniscano le fantasime della terra, dell'acqua, dell'aria, ammutoliscano i cieli, e l'anima stessa avvolga sé di silenzio, e si superi, pensandosi, e tutto tronchi, la propria voce, i sogni, le allucinazioni, le lingue, i segni, tutto che è caduco e precario, e la cui unica dichiarazione è questa: – Non ci siamo fatti da noi, altri è che ci fece, – perché Lui solo parli, che ha il diritto di parlare, non è allora che si realizza il grande invito: entra nel gaudio del tuo Signore?».

Da questa pagina agostiniana la contemplazione cattolica medioevale ha ricavato la sua norma e il suo motivo. Il silenzio delle cose, la soppressione e l'abbandono di tutto ciò che è apparato sensibile, armamentario dialettico, sfondo fantastico, costituiscono la condizione indispensabile e il presupposto indeclinabile di ogni elevazione verso Dio.

«Nonnisi in obscura sidera nocte micant». Questo verso mirabile, dettato da un anonimo monaco e segnato sull'ingresso del sacro Speco a Subiaco, esprime in maniera impareggiabilmente efficace le tenebre dei sensi che la cattolicità benedettina medioevale va a cercare, per inquadrare nella cornice degna la meditazione e la contemplazione del divino.

È strano ed istruttivo a questo proposito osservare che i grandi testi canonici della disciplina cattolica monastica del Medioevo non dedicano particolari istruzioni a quello che è il midollo dell'ascetismo religioso, la pratica cioè della meditazione e della contemplazione. Nei secoli aurei della prassi contemplativa, si direbbe, non c'è alcun bisogno di teorizzare e di disciplinare gli abiti spirituali che nascono spontanei dall'orientamento spirituale verso il mondo delle realtà soprasensibili. La Regula M onasteriorum di San Benedetto, che è, come abbiamo visto, il codice aureo della spiritualità organizzata medioevale, non conosce il vocabolo contemplatio e accenna alla meditatio una sola volta, in quel cap. VIII nel quale, distribuendo l'officiatura notturna nelle varie stagioni dell'anno, assegna alla meditazione quel che rimanga di tempo dopo l'op us divinum, nelle lunghe notti invernali. Evidentemente l'ascesi della Chiesa medioevale non aveva bisogno di copiosi enunciati sulla meditazione e sulla contemplazione quando tutto il suo programma era una assidua «meditatio curvandi» in vista della luce di Dio, e un costante sforzo di rendere sempre piú «praecipua» la «contemplatio» per scoccare dall'arco dello spirito le frecce delle umane capacità verso la grande meta: l'Assoluto e l'Eterno.

Sta di fatto che dai secoli anonimi della contemplatio e della meditatio benedettine sono lentamente germinate le piú elette creazioni del pensiero religioso del Medioevo. Chi ad esempio potrebbe concepire il Proslogion e il Cur Deus homo di Sant'Anselmo, avulsi e isolati dalla lunga preparazione mistica del silenzio contemplativo benedettino? E chi potrebbe comprendere la meditatio di San Bernardo nel De diligendo Deo e nei Sermones sulla Cantica, senza tener conto delle peculiari trasformazioni della disciplina benedettina, da Cluny a Citeaux?

Ugo di San Vittore è il primo scrittore ecclesiastico in cui la meditazione e la contemplazione sono fatte rientrare nel quadro delle normali attività cogitanti dell'uomo. Nel De modo dicendi et meditandi egli definisce: «L'anima razionale possiede tre generi di visione: il pensiero, la meditazione e la contemplazione. Si ha il pensiero, quando la nostra capacità conoscitiva è fugacemente toccata dalla nozione delle cose, quando l'oggetto si offre subitamente, in immagine, all'animo, sia attraverso la percezione sensibile, sia attraverso la memoria e il fantasticare. La meditazione è una assidua e sagace rielaborazione del pensiero, intenta a spiegare qualcosa di oscuro o a penetrare qualcosa di occulto. La contemplazione invece è un movimento intuitivo, libero e perspicace, dell'animo, vòlto a cogliere nell'insieme gli oggetti intorno, d'ogni parte disseminati. La meditazione e la contemplazione si distinguono in questo, che la meditazione si esercita sempre su oggetti ignorati dalla nostra intelligenza. Mentre la contemplazione coinvolge oggetti i quali sono manifesti o per la loro stessa natura o in virtú della capacità nostra. Ed anche in questo, che la meditazione ha un solo oggetto, mentre la contemplazione si diffonde su una moltitudine, se pure non sulla totalità degli oggetti. Sicché può dirsi che la contemplazione, di cui esistono due tipi secondo che si limita alla considerazione nelle creature o assurge alla visione del Creatore, possiede quel che la meditazione ricerca».

Il valore di queste definizioni di Ugo di San Vittore non è dato dalla loro organicità e dalla loro completezza, che sono molto discutibili. Come può dirsi, ad esempio, che la meditazione ricerca quel che la contemplazione possiede, se la prima è esplorazione di una realtà sconosciuta, e la seconda è attingimento di realtà note e manifeste?

Caso mai, il significato delle definizioni del Vittorino è dato appunto dal loro carattere di frammentarietà e di immaturità. Perché esse stanno a documentare il transito laborioso e faticoso della speculazione e della pedagogia mistica cattoliche, dallo stadio extradialettico del Medioevo agostiniano allo stadio dialettico e sistematico dello scolasticismo tomistico. Si potrebbe dire che anche prima della canonizzazione ufficiale della metafisica dello Stagirita, per opera di Alessandro di Hales e di San Tommaso, la filosofia della Chiesa romana gravitava fatalmente verso la riduzione ad unità di tutti i processi dello spirito. Che cosa è infatti questo accomunamento della meditazione e della contemplazione al pensiero, e che cosa è questa concezione del pensiero come esercizio della facoltà cogitante sugli oggetti sensibilmente percepiti o fantasticamente ricordati, se non uno sforzo verso l'unificazione delle attitudini spirituali dell'uomo, verso una gerarchia di procedimenti conoscitivi, che parta dalla percezione dei sensi fin su all'attingimento di Dio? La tradizionale metodica mistica cattolica aveva scavato un abisso tra il mondo dei sensi e il mondo della contemplazione. Li aveva anzi sentiti antitetici. A norma del processo mistico tracciato da Sant'Agostino, sulle orme del neoplatonismo, ogni conquista della contemplazione implicava un annullamento di una delle zone della Conoscenza sensibile, e il supremo possesso dell'Assoluto significava il silenzio totale del lavorìo empirico. Ora i sensi entravano di diritto nell'apprestamento del materiale necessario, perché lo spirito salisse la scala che mena a Dio.

La coabitazione e la giustapposizione dei due metodi spirituali sono ancora riconoscibili in quel documento insigne del trapasso dalla mistica ecclesiastica medioevale alla disciplina contemplativa dell'ecclesiasticismo moderno, che è l'I tinerarium mentis in Deum di San Bonaventura. La vecchia consegna platonico-agostiniana del rinnegamento necessario del mondo sensibile per il raggiungimento del mondo trascendente, è ancora viva e imperiosa in questo rappresentante della pietà francescana. Ma in pari tempo gli abiti mentali trionfanti ormai, anche, anzi specialmente, sotto la tutela del saio minorita, all'Università di Parigi, esigono che alla conoscenza sensibile delle realtà empiriche e alla esplorazione delle tracce di Dio nel creato si faccia un congruo posto nel cammino dello spirito verso l'Assoluto. E come San Tommaso costruisce la sua dimostrazione dell'esistenza di Dio sulle basi di un'argomentazione causale e cosmogonica, cui offrono le linee direttive le dottrine aristoteliche del moto e dell'atto, cosí San Bonaventura abbina ed innesta la metodica che per ascendere a Dio supera il mondo, all'altra che, per toccare il Creatore, indaga le orme del suo operato nelle creature.

«Dopo che la nostra capacità conoscitiva sia riuscita a scoprire Iddio fuori di sé, attraverso le vestigia e nelle vestigia da Lui lasciate nel creato; dopo che l'abbia scoperto dentro di sé attraverso la immagine e nell'immagine che l'anima reca di Dio; e sopra di sé, attraverso quella rassomiglianza della luce divina che brilla sopra di noi e nella stessa luce, nella misura consentita alla nostra condizione di viatori e alle nostre virtú mentali; quando sia giunta, sul sesto gradino, a intravvedere, nel principio primo e sommo, nel mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, ciò che nulla ha di simile nel mondo delle creature e che oltrepassa di molto ogni sagacia umana, resta che, cosí intravvedendo, trascenda e valichi non solo il mondo sensibile, ma anche se stessa. Di questo supremo valico Cristo è via e porta, Cristo è scala e veicolo, quale sacrificio di propiziazione collocato nell'arca di Dio, e Sacramento nascosto dai secoli».

Come nella contemplazione agostiniana, di cui abbiamo trovato una espressione cosí alta e cosí accesa nel libro nono delle Confessioni, anche qui, nella ricapitolazione finale dell'Itinerarium di San Bonaventura, troviamo una quantità di elementi di riporto, venuti dalle tradizioni della mistica ecclesiastica e dalla nuova e recente utilizzazione della speculazione aristotelica. Ma mentre a Sant'Agostino era stato possibile ridurre ad unità di ispirazione e di orientamento gli elementi biblici e neoplatonici entrati nella elaborazione profonda della sua visione mistica del divino, gli elementi entrati nell'elaborazione di San Bonaventura sono troppo disparati ed eterogenei per essere fusi in unità. A Sant'Agostino aveva offerto il destro per una stupenda delineazione del cammino meditativo e contemplativo verso l'Assoluto il fatto che tutti i coefficienti della sua formazione spirituale, manichei, platonici, scritturali, poggiavano su un presupposto nettamente dualistico. Tutti questi coefficienti cioè presupponevano un contrasto inguaribile e un'opposizione radicale tra le capacità sensibili e le virtú speculative e astratte dell'uomo. Per cui il possesso di Dio non poteva apparire che come un rinnegamento e un travalicamento. In San Bonaventura appare invece la latente ma ormai radicata convinzione che anche nel mondo sensibile si riscontrino i vestigia di Dio, che occorre sensibilmente individuare e riconoscere per iniziare la scala che porta a Dio. La gnoseologia aristotelico-scolastica («nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu») ha qui pertanto una sua decisiva ed ardita applicazione. Dopo di che, il parlare ancora di «superamento» del mondo nell'itinerario dello spirito verso Dio non ha piú il valore e la portata che il medesimo vocabolo aveva avuto nella contemplazione agostiniana.

San Bonaventura segna cosí un momento di passaggio nello sviluppo della pedagogia meditativa nella prassi del cattolicismo romano. In lui si sovrappongono ancora, in maniera inorganica e precaria, l'indirizzo trascendentale della contemplazione mistica ereditata nel Medioevo dall'Agostino neoplatonico, e l'indirizzo empirico portato dalla gnoseologia realistica della nuova filosofia. Ma dopo di lui la sovrapposizione temporanea e provvisoria si scompone, e trionfando la scolastica, trionfa, nel campo della disciplina contemplativa, un indirizzo tutt'affatto diverso, l'indirizzo che sbocca negli Exercitia di Ignazio di Loyola.

Era logico e fatale che cosí fosse. In una spiritualità tutta basata sul presupposto dell'antagonismo irriducibile tra le percezioni dei sensi e l'intuizione diretta dell'anima, tra l'uomo esteriore e l'uomo interiore, tra la percezione empirica e l'appercezione trascendentale, la contemplazione e la meditazione dovevano rappresentare sempre lo sforzo laborioso di annullare la sensibilità, per l'ineffabile discoprimento di Dio. In una temperie culturale, invece, tutta dominata dalla dottrina della conoscenza aristotelica, che pone l'esperienza sensibile alla base e al principio di ogni procedimento conoscitivo, anche la contemplazione e la meditazione dovevano apparire come lo sviluppo spontaneo e normale della conoscenza sensibile. La Chiesa, che si era stretta indissolubilmente a San Tommaso, doveva stringersi indissolubilmente agli Exer citia ignaziani: che sono il monumento piú significativo dell'antropomorfismo vittorioso nella prassi contemplativa del cattolicesimo romano moderno.

Gli Exercitia rappresentano ormai la norma canonizzata di ogni tirocinio nella pedagogia spirituale della Chiesa di Roma. Tutto il clero cattolico e tutto il laicato educato dalla Compagnia di Gesù passano periodicamente per gli Exercitia ignaziani.

I quali veramente non avrebbero meritato e riscosso la grandiosa loro fortuna, se non fossero capitati nel momento in cui Roma, di fronte all'uragano della riforma, legava le proprie sorti all'aristotelismo della scolastica, facendo del proprio magistero una tradizione raccomandata unicamente alla forza d'inerzia.

Non si potrebbe immaginare abisso piú profondo di quello che intercede tra la contemplazione di tipo agostiniano e quello di tipo ignaziano. La prima era ascesa a Dio mediante il rinnegamento di ogni esperimento sensibile di ogni dato empirico. La meditazione degli E xe rci tia si apre sempre con un appello al soccorso dei sensi il quale, a volte, non può essere dato senza una blasfema e goffa violazione e profanazione di quella atmosfera di mistero e di arcano, nella quale solamente si consuma il nostro contatto con Dio.

Nella meditazione ignaziana gli abiti sensibili, lungi dal rappresentare ostacoli gravi che occorre eliminare per procedere speditamente sulla via che mena a Dio sono adoperati come mezzi per rendere piú eloquente il quadro della realtà meditata, e piú efficace il risultato pratico della meditazione.

La cosiddetta «composizione di luogo» viene a costituire cosí una innaturale contaminazione di spirituale e di sensibile, una intollerabile invasione dell'empirico nel trascendente.

Esempio tipico quel preambolo alla prima contemplazione della seconda settimana, dedicata alla Incarnazione, nella quale il meditante è invitato ad immaginarsi «le tre divine Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo» in atto di «riguardare con occhi attenti tutta l'estensione del mondo, formicolante di uomini, e in atto di decidere, dappoiché gli uomini se ne andavano tutti all'Inferno, che la seconda Persona si facesse uomo per salvare il genere umano».

Siamo molto lontani, come si vede, dal tipo di contemplazione e di meditazione che abbiamo trovato nelle Confessioni di Sant'Agostino. Siamo anche lontani dalle aspirazioni del Cur Deus homo di Sant'Anselmo. Nessuna meraviglia. La tradizione cattolica è venuta subendo un lentissimo processo di trasformazione intellettualistica di cui noi abbiamo cercato di seguire passo passo e di individuare nella maniera piú aderente e piú approssimativa le successive tappe.

A cinque secoli di distanza dalla prima formazione della scolastica, il cattolicesimo era venuto sempre piú cristallizzandosi negli schemi della sua apologetica razionale e della sua disciplina codificata. La riforma imponeva a questo processo un ritmo piú accelerato e si potrebbe quasi dire una solidificazione improvvisa. La forma spirituale della cattolicità medioevale è tramontata. Ormai i canoni della meditazione e della contemplazione religiosa sono attinti unicamente da una raffigurazione dei valori e dei coefficienti della vita dello spirito che poco hanno di comune con la mistica praticata dalla comunità cristiana durante l'età aurea della sua conquista.

Nella lotta serrata contro il dilagare dei movimenti riformatori che, traducendo in forme di esperienza religiosa e cristiana la lacerazione intima man mano subìta dall'unità spirituale dell'Europa medioevale, imprimevano all'esperienza del cristianesimo caratteri nuovi e pericolosi, Roma fa appello all'apologetica scolastica e alla disciplina esteriore.

La necessità di un Concilio si faceva sempre piú pressante. Aveva cercato di convocarlo Clemente VII senza riuscirvi. Il proposito doveva riuscire meglio attuabile a Paolo III, il Papa di casa Farnese che, salito al Pontificato nell'ottobre del 1534, affrontava con energia risoluta, nonostante l'avanzata età, l'arduissima situazione e i suoi còmpiti impellenti.

Il 4 giugno del 1536 a Roma, alla Basilica Vaticana, alla Lateranense e alla Cancelleria, veniva ufficialmente affissa la Bolla di convocazione del Concilio. I compagni di Ignazio di Loyola erano destinati a rappresentarvi una parte decisiva. I patriarchi tutti, gli arcivescovi, i vescovi, gli abbati della Chiesa cattolica romana, erano invitati a trovarsi a Mantova, prescelta come sede della solenne assemblea, per il 23 maggio del 1537. Contemporaneamente venivano nominati i nunzi che avrebbero dovuto notificare ai sovrani cattolici e ai principi riformati l'avvenuta promulgazione della Bolla. Perché si recasse in Germania, fu scelto questa volta un prelato fiammingo, che Adriano VI aveva portato con sé alla sua assunzione al Pontificato: Pietro van der Vorst, vescovo di Acqui, e ad accompagnarlo fu designato tutto un séguito esperto di uomini e di cose, formato di olandesi e di tedeschi. Secondo le istruzioni che gli furono minutamente impartite, il nunzio avrebbe dovuto scrupolosamente astenersi da qualsiasi discussione e polemica confessionale, limitandosi a garantire ai protestanti la massima libertà e a inculcare con la piú efficace insistenza l'intervento di tutti gli interessati. Il desiderio genuino dei príncipi riformati sarebbe stato quello di non intervenire affatto al futuro Concilio ecumenico, se pure contrapponendo ad esso un sinodo nazionale germanico. I teologi della riforma invece erano piuttosto proclivi all'intervento, anche se esso doveva condurre ad una immancabile condanna. Il consiglio di Lutero all'elettore di Sassonia e a Filippo di Assia fu netto e risoluto: gli evangelici debbono presentarsi, non già con la speranza di vincere o con l'illusione di raggiungere l'accordo con Roma, ma per proclamare ancora una volta, sia pure al cospetto di una assemblea ostile, la propria fede in tutta la sua integrità.

I príncipi vollero ad ogni modo preliminarmente intendersi sulla condotta da seguire all'avvento del nunzio. E poiché la confessione augustana non riusciva a raccogliere, senza riserve, l'adesione di tutti, decisero di invitare Lutero in persona a formulare una nuova professione di fede, piú recisa di quella che Filippo Melantone aveva stilizzato nel 1530, sulla quale si sarebbe dovuto impegnativamente raccogliere il loro suffragio. Lutero accondiscese immantinenti all'invito. Redasse con prontezza, sul finire del 1536, gli articoli della richiesta confessione, e nel febbraio dell'anno successivo si recò personalmente a Smalcalda, onde sottoporla alla Dieta dei príncipi colà convocati. Il testo che egli vi presentò, e di cui si conserva l'autografo, è sensibilmente differente da quello che fu pubblicato a Wittenberg nel 1538. Ad ogni modo, a Smalcalda non fu neppure discusso, poiché Lutero, colpito da gravi sofferenze per i suoi vecchi calcoli renali, dovette ripartire dalla piccola città sacra alle intese dei riformati, senza poter in alcun modo partecipare ai lavori del convegno. Solo molti anni piú tardi, non prima del 1580, la confessione di Smalcalda fu adottata ufficialmente dall'evangelismo luterano. Essa non cessa per questo di essere un documento quanto mai significativo dello stato d'animo e dell'orientamento confessionale del riformatore, di cui rappresenta in qualche modo il testamento contro Roma.

Con il proposito preciso e deliberato di frustrare ogni possibilità di avvicinamento e di lacerare ogni saldatura concettuale, Lutero schematizza nella maniera piú rude la sua fede, che ripartisce in tre parti. La prima enuncia la dottrina cristiana intorno alla divina maestà e alle tre Persone della divinità. La seconda contempla l'opera di Gesù Cristo e la Redenzione. La terza fissa la dottrina sulla Chiesa, sul peccato, sulla legge, sul Vangelo, sui Sacramenti, sulla grazia, sulle opere buone, sui voti, sulla tradizione. Questa terza parte, in quindici articoli, condensa, in compendio, tutte le dottrine caratteristiche della riforma, quali esse si andavano ormai elaborando da circa un ventennio. Gli incisi sono ruvidi e perentori, imbevuti di tutto l'astio antiromano che Lutero si era nutrito nel cuore. La vita soprannaturale è descritta come scaturiente unicamente dalla fede e nella fede trasmessa. Cristo è additato come la sola sorgente della salvezza. Le opere sono definite radicalmente inutili. Al Pontificato si nega qualsiasi investitura divina: non ha, si dice, a suo vantaggio neppure un semplice diritto umano. Quanto esso si è arbitrariamente appropriato costituisce una mostruosa sottrazione al dominio di Cristo redentore. «E come sarebbe blasfemo adorare il diavolo quale Signore o Dio, altrettanto mostruoso è il tollerare come capo e signore l'Apostolo di Satana, il Papa, che è l'Anticristo». La Sede romana, secondo la formula portata da Lutero a Smalcalda, contamina e infetta la vita universa della Chiesa. Le manifestazioni tipiche della sua capacità a mal fare sono le indulgenze, il Purgatorio, il celibato, la dottrina dei meriti. «La messa poi è la coda del pestifero dragone, la quale ha generato tutta una ciurmaglia della piú svariata idolatria».

Il contrasto fra le formule concilianti e misurate e guardinghe di Augusta e gli articoli aspri e taglienti, volutamente provocanti, di Smalcalda, non avrebbe potuto essere piú aperto e radicale. E pure lo stilizzatore delle prime, Melantone, cosí docile e timido alla presenza del suo terribile maestro, sottoscrisse anche i secondi. Solo si attentò di accompagnare la sua sottoscrizione con una prudente clausola di riserva, a proposito dell'autorità pontificia: «Non ammetto che il Pontefice possa accampare in suo favore un diritto divino: ma se tutta la Cristianità riconoscesse concorde la sua egemonia, come postulata dalla totalità della vita ecclesiastica, io sarei disposto ad ammettere, per amor di pace, la sua superiorità sui vescovi, secondo il diritto umano: sempre però a condizione che il Papa fosse disposto al riconoscimento dell'Evangelo».

La confessione, letta ai príncipi protestanti il 7 febbraio, raccolse la loro entusiastica adesione e valse quindi a irrigidirne i propositi di ostruzionismo e di resistenza. In una lettera altezzosa al vicecancelliere imperiale Mattia Held dichiararono di non poter accettare un Concilio in terra italiana, perché colà non sarebbero stati sicuri della loro libertà e della loro incolumità personale, e protestarono contro la implicita condanna che la Bolla di convocazione aveva espresso contro di loro, parlando di eresia che occorreva combattere; assicurando invece che sarebbero stati pronti a discutere i problemi controversi qualora – e la pretesa si comprendeva di primo acchito quale accoglienza avrebbe potuto ricevere –si fosse riconosciuto che la loro, e non quella di Roma, era la genuina fede cattolica.

Cosí sovreccitato era il mondo dei príncipi riformati, quando il nunzio Pietro van der Vorst giunse a Smalcalda. L'accoglienza che vi ricevette fu fredda ed ostile. I príncipi non vollero neppure aprire la Bolla papale, di cui chiesero comunicazione attraverso il vicecancelliere.

E pure, nonostante l'accanita resistenza degli Smalcaldici, Roma era ugualmente decisa a convocare il Concilio a Mantova, e i piú eminenti prelati erano tutti intenti a prepararne le discussioni. All'ultimo momento l'opposizione venne donde meno la si sarebbe aspettata. Il duca di Mantova, Federico Gonzaga, annunciava al Pontefice di non poter garantire l'incolumità dei partecipanti al sinodo, se non gli fossero stati inviati da Roma 1500 armati a piedi e 100 a cavallo. Ma con uno spiegamento siffatto di forze dove mai se ne andava la libertà del Concilio? Imbarazzatissimo, il Pontefice decise una proroga e si dié alla ricerca di una nuova sede. Vicenza fu la città ora prescelta: il sinodo vi fu convocato per il primo novembre. Ma alla data stabilita, la convocazione andò deserta. Nuovi rinvii furono necessari: il primo agli inizi di maggio del '38, il secondo alla Pasqua del '39. Ma anche questa estrema data fu oltrepassata, senza risultati. L'interim di Francoforte, che accordava ai protestanti quindici mesi di tregua; l'opposizione indomabile di Francesco I, di Enrico VIII, degli Smalcaldici; la sorda incertezza di Carlo V, inducevano Paolo III a dichiarare, con vivo cordoglio, il 21 maggio 1539, sospeso il Concilio senza limiti di tempo. Ancora un sessennio occorrerà di laboriose trattative, per giungere al desiderato sinodo, inaugurato nella città vagheggiata dall'imperatore, Trento.

Lutero frattanto non ristava dalla sua indefessa propaganda. Tornato da Smalcalda e riavutosi dalla crisi del male, riprendeva i suoi molteplici còmpiti: l'insegnamento universitario, la nutrita corrispondenza, la revisione della tradizione biblica, la polemica interrotta. Il periodo di tempo immediatamente successivo alla confessione smalcaldica ha visto la compilazione febbrile di una serie di scritti, in cui Lutero, traendo profitto da una erudizione storica ch'egli si è venuto procacciando negli ultimi anni, si diffonde a indagare e a valutare, in vista della minaccia sinodale, quali siano le attribuzioni e la potestà della Chiesa dirigente, al cospetto della collettività cristiana, e le capacità delle assemblee conciliari. Egli era ancora alle sue prime battaglie, quando nel 1520 aveva conosciuto l'opera di Lorenzo Valla contro la fondatezza storica della donazione di Costantino e, scrivendo allo Spalatino, l'aveva commentata con l'esclamazione: «Quanto mai vaste, o Dio, le tenebre e le malizie dei Romani!». A diciassette anni di distanza egli ricorda l'ormai vecchia lettera e ne trae lo spunto per un opuscolo durissimo, non tanto contro la leggendaria donazione, universalmente riconosciuta per quel che vale, quanto contro il magistero della Chiesa romana. Una festa ecclesiastica che gli riesce poco simpatica, quella di San Giovanni Crisostomo, ricorrente il 27 gennaio, gli offre l'occasione per una iconoclastica diatriba contro le leggende agiografiche, nella quale non si perita di lanciare l'aforisma che tutto il culto cattolico è basato essenzialmente sulla menzogna. In una prefazione ad un saggio di Giovanni Kymön sul sinodo di Gangra, Lutero torna a impugnare la validità religiosa dell'ascetismo cristiano organizzato. Nel medesimo tempo il riformatore trova opportuno esumare, accompagnandole con un'ampia prefazione, alcune lettere scritte da Giovanni Huss nel 1414 dal carcere, avendo cosí modo di impugnare le definizioni del sinodo di Costanza. Lutero si fa in pari tempo editore di una lettera di San Girolamo ad Evagrio, dove è detto che la differenza fra preti e vescovi non sussisteva nella Chiesa antica, e che essa è un portato tardivo della evoluzione disciplinare ecclesiastica.

Naturalmente egli ne trae agevole argomento per proclamare che occorre tornare indietro e che nella comunità fedele il ministro svolge insindacato il suo ministero, libero da ogni controllo di vescovi o di Papi. Polemizza contro il cardinale Alberto di Brandeburgo, elettore di Magonza e arcivescovo di Magdeburgo. Infine risponde con ingiurie alla Bolla di convocazione del Concilio.

Ma l'opera piú notevole di questo intenso periodo, dettata fra il tramonto del '37 e gli inizi del '38, pubblicata l'anno seguente e tradotta in latino da Giusto Giona nel 1545, è quella consacrata ai Concili e alle chiese. Fattosi erudito sotto lo stimolo assillante delle esigenze polemiche, Lutero vi si sforza di ricostruire storicamente il lavoro dei grandi Concilî ecclesiastici, per trarre dalla evocazione del passato una norma su quel che possa essere in questo momento un sinodo ecumenico, e su quello che possano essere i riconoscibili e validi diritti del magistero ecclesiastico. Il trattato, ricco di vigore argomentativo e di dati positivi, è suddiviso in tre parti: le prime due trattano dei Concilî, la terza enuncia una dottrina generale della Chiesa. Il Concilio, afferma Lutero, non riveste alcuna autorità che lo ponga in grado di introdurre nuovi articoli di legge: al contrario, soggiace al preciso dovere di ripudiare e di condannare tutti quelli che siano stati escogitati e divulgati dalla speculazione umana, e che non siano contenuti nella Sacra Scrittura. Questa missione precisamente assolsero i primi quattro Concili ecumenici, alle decisioni dei quali i riformati sono disposti a prestare ossequio: Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia. Il Concilio parimenti non può imporre alla disciplina dei fedeli nuove opere buone, non può sanzionare istituti e pratiche di ascetismo: deve condannare piuttosto tutte quelle opere, solo in apparenza buone, ma sostanzialmente perverse, che contravvengono ai precetti centrali della carità (monacato, stato continente, ecc.). Poiché, se vi sono delle azioni che tradiscono la loro natura malvagia immediatamente, ve ne sono di quelle che passano per buone, mentre di fatto costituiscono una «bella menzogna», «una santa areligiosità», «una santa apostasia da Dio» (eine heilige abgotterei). Tali le opere ascetiche, sotto il lusingante aspetto delle quali il demonio si trasforma in angelo di luce per sedurre gli uomini: contro la menzogna e la insidia di queste opere deve, caso mai, insorgere e levarsi la condanna conciliare.

Innegabilmente Lutero dava in questo modo la prova piú sorprendente del suo virtuosismo polemico. Tutta la Cristianità europea ortodossa era in subbuglio e in trepidazione sotto l'impressione della disgregatrice propaganda riformata. Il messaggio della giustizia imputata andava a colpire, fino alle sue piú intime e delicate radici, la vitalità della tradizione cattolica. I cardini del magistero; le basi della disciplina; i presupposti dell'organizzazione ecclesiastica: tutto era investito dal flusso della nuova dottrina. Roma insorgeva a tutela del suo patrimonio. Gravi potevano essere ed erano di fatto le sue responsabilità al cospetto della storia. Secoli di strapotere l'avevano alienata spesse fiate dalla consapevolezza rigida della sua missione nel mondo e dal rispetto dei formidabili oneri che questa le impone nell'ambito della vita associata. Ma ora correva energicamente ai ripari, e apprestandosi alla convocazione del Concilio si proponeva di sottoporre a rassegna la sua disciplina, di formulare esplicitamente tutte le postulazioni della sua teologia soteriologica, per ribadire, dinanzi al mondo, i titoli e le giustificazioni del suo destino. Lutero si levava, invece, a proclamare che se un Concilio aveva qualcosa da dire, questo era, puramente e semplicemente, una parola di condanna proprio per quella disciplina della rinuncia ascetica e della perfezione volonterosa, del ripudio dei valori terreni, senza cui la religione è o una compiacenza morbosa di esteti o una menzogna di tiranni.

Era codesto un paradossale modo di porsi preventivamente al sicuro dai colpi immancabili della sentenza conciliare. Fin dal 1521, dal dí della sua condanna alla Dieta, Lutero aveva reiteratamente fatto appello al Concilio, lanciando accuse contro la Curia romana, che si rifiutava di convocarlo subito. Ma ora che la Chiesa romana mostra di accingersi a convocare sul serio le assise supreme della giurisdizione cattolica, Lutero rovescia la propria posizione e si atteggia lui a definitore della capacità che la Chiesa possiede di convocare sinodi e adottare provvidenze disciplinari. Il Concilio ideale è da lui raffigurato come un semplice comitato di laici e di giuristi eletti dalle comunità, che si raduna per sopprimere gli inconvenienti disciplinari e per sradicare tutti i possibili abusi. Nella fattispecie, un Concilio non può essere convocato ad altro fine che a quello di spiccare un rimprovero solenne al Papa e di lanciare una condanna esplicita contro le innovazioni ascetiche abusivamente introdotte dalla Chiesa cattolica durante il Medioevo. Il ricettacolo della parola di Dio non può essere il sinodo: esso è solo nella divina Scrittura. Lutero non può lasciarsi andare a tali dichiarazioni senza corroborarle con una esposizione ribadita della sua personale ecclesiologia. Egli riconferma la sua visione ultraspiritualistica della Chiesa, affrancata da ogni magistero esteriore. Tre, egli assevera, sono le manifestazioni degli ordinamenti divini nella vita associata: la Casa, la Città, la Chiesa. I fatti primordiali della convivenza umana sono rappresentati dalla Casa e dalla Città, dalla costituzione familiare e dalla organizzazione politica. La Chiesa riceve gli uomini dalla famiglia, esige tutela dallo Stato. Essa si costituisce superiore all'una e all'altro, ma unicamente nella sfera della spiritualità. Non nasce da vincoli esteriori disciplinari e gerarchici: scaturisce dalla libera e invisibile partecipazione delle anime al medesimo messaggio di salvezza e di riscatto.

A ben riflettere, si scopre in questa schematica ecclesiologia luterana, in germe, tutta una nuova visione dei rapporti fra vita politica e vita religiosa; un principio di divinizzazione delle costituzioni politiche umane. Il divino, infatti, non è piú fuori della vita: non è una realtà trascendente a cui ci si avvicini mediante la partecipazione carismatica alla solidarietà ecclesiastica. Dio e la sua economia sono già, per intero, negli ordinamenti primordiali dell'esistenza, nella costituzione della famiglia e nell'organismo cittadino, fuori dei quali inutile è cercare sulla terra altre visibili gerarchie. Cosí Lutero, spogliando la Chiesa dei suoi connotati tipici, ha trasportato, automaticamente, l'ispirazione e i valori del soprannaturale nel giro di tutte quelle consuetudini e di tutte quelle istituzioni, che la tradizione cristiana aveva collocato in una posizione di inferiorità subordinata. I principî posti da Lutero sono ancora in azione.

Per coglierne però l'enucleazione ordinata e la delucidazione marginale occorre far ricorso agli scritti paralleli del riformatore ed in particolar modo a quel commento sulla Genesi che vedrà la luce solo nel 1545, ma è informazione fino dal 1536. Poiché non bisogna mai dimenticare che Lutero è soprattutto un professore universitario del secolo XVI, il quale diffonde attraverso l'insegnamento le sue personali concezioni religiose e della cattedra fa uso per tessere l'apologia del proprio movimento. Egli è incapace di commentare un solo versetto della Bibbia senza trarne occasione per le piú disparate divagazioni teologiche e polemiche sulla propria dottrina, senza intercalare continui riferimenti alle vicende del proprio apostolato, senza disseminare accenni suggestivi alla sua nuova esperienza religiosa. Può darsi che, da questo angolo visuale, il commento al primo libro della Bibbia meriti di prender posto fra le opere piú significative del riformatore, poiché in esso, meglio che in ogni altra, noi vediamo come la visione cristiana di Lutero ha effettivamente introdotto qualcosa di abnorme nell'ambito della tradizione uscita dal messaggio cristiano.

Dispersi fra mezzo ad un apparato imponente di insegnamenti slegati ed eterogenei, che fanno del commento un vero centone, ricompaiono, questa volta abbinati ad una celebrazione appassionata della primitiva rivelazione di Dio, gli ormai abusati motivi della virtú ineffabile della fede, del carattere supererogatorio delle opere buone, della necessità di prescindere da qualsiasi magistero ecclesiastico esteriore. La fede non è già, nell'esegesi di Lutero, l'adesione ad un simbolo dogmatico, è piuttosto il risultato della rispondenza dello spirito umano a realtà soprannaturali, vale a dire a una divina parola e a una divina promessa. Fede e promessa sono, costantemente, termini correlativi. Sotto l'investitura di simile sentimento vitale tutta la spiritualità umana si trasfigura.

Lutero paragona tale processo all'ebollizione dell'acqua, sotto l'azione del calore. Egli si rivolge alle vecchie figure patriarcali come a modelli di imperitura vitalità. Bisogna rispondere all'appello di Dio con la fede di Noè, con la fede di Abramo. Nulla fare meno di loro; ma nulla fare di piú. L'eccesso e il difetto sono parimenti esiziali. Tutto quanto è fuori dal novero delle prescrizioni tassative di Dio è assolutamente inutile. E le prescrizioni di Dio non hanno altro veicolo di formulazione che la Bibbia.

Tali prescrizioni implicano: l'accettazione della fede; l'adesione alla rivelazione; l'accoglimento delle comuni espressioni del vivere associato, la famiglia e lo Stato. L'esercizio delle opere di pietà che la Chiesa è venuta adagio adagio canonizzando e imponendo attraverso i secoli, svalutando di rimbalzo i precetti naturali e spontanei di Dio e dandosi a credere di avere introdotto qualcosa di piú nobile e di piú elevato (vita sacerdotale, ascetismo, celibato), rappresenta piuttosto una deformazione riprovevole agli occhi di Dio, una autentica trasgressione alla sua legge. Lutero non esita a proclamare: «Noi non predichiamo nulla di diverso da quello che inculca la legge naturale: il servo obbedisca al padrone e il cittadino allo Stato». Nel suo giudizio pertanto la vita familiare come quella civile sono altrettante manifestazioni eticamente equipollenti del volere divino. L'uomo non deve immaginarsi un ideale religioso che si concreti fuori delle espressioni normali e quotidiane dell'esistenza, poiché egli è in grado di attuare integralmente il còmpito assegnatogli da Dio in ogni gesto della sua esistenza empirica.

Il bando cristiano aveva voluto sovrapporre agli ideali terreni e comuni della vita di ogni giorno un insieme di valori superiori, i quali, perché sovrapposti, sono con essi in contrasto. Dal dualismo antropologico, che la soteriologia cristiana aveva postulato inappellabilmente, era scaturito per logica necessità un dualismo etico-sociale.

Nel mondo delle realtà esteriori la carne e lo spirito proiettano il loro duello incessante. E dal giorno in cui gli uomini furono tratti a concepire lo spirito come prigioniero della carne; dal giorno in cui fu afferrato nettamente il contrasto immanente fra gli istinti spontanei della nostra esistenza e le leggi della perfetta vita spirituale; l'aspirazione all'ascetismo si era saldamente radicata nelle esigenze della vita associata. Sicché, con la sua concezione del divino che si riversa e si compie nella esplicazione giornaliera della vita, a norma della quale si può meritare a buon diritto la qualifica di perfetti religiosamente, solo per il fatto che si compie il proprio dovere umano, familiare e politico, Lutero alterava l'essenza stessa della predicazione cristiana.

Il cattolicismo rispondeva alla propaganda antiascetica di Lutero, precisamente, con una reviviscenza impetuosa di ascetismo. Proprio negli anni che Lutero consacrava al suo commentario della Genesi, a Roma, quanti consacravano i loro sforzi alla preparazione del Concilio miravano precipuamente a due scopi: ravvivare gli affievoliti ideali ascetici e ricondurre la Curia e la vita ecclesiastica in generale a quelle norme di esemplare disciplina da cui si erano cosí funestamente allontanate. I piani di riforma si moltiplicano, sorgono nuovi Ordini religiosi, si rinnovano gli antichi. Il Sacro Collegio vede purificate le sue file con l'elevazione alla porpora del Contarini, del Sadoleto, del Fisher, di Gian Pietro Carafa, di Reginaldo Pole. Combattendo l'ascetismo, Lutero fa ripullulare dalle viscere piú profonde della tradizione cristiana una vena di santità e di purezza, in una Chiesa moralmente caduta molto in basso. Volendo d'altra parte innalzare ad una naturale santità le forme tutte della vita dell'uomo, finisce col provocare nel mondo piú propinquo e cedevole al suo messaggio una incontenibile corruzione. Alcune manifestazioni di questa, elevate a sistema, dovettero richiamare il rimbrotto del riformatore, preso ancora una volta fra la logicità dei suoi presupposti e il rispetto alle leggi del vivere morale collettivo.

Fin dal 1534 i sospetti e le diffidenze contro Melantone, accusato dai piú conseguenti interpreti del pensiero luterano di inclinare a ritenere e a professare che le opere buone fossero necessarie alla giustificazione, si erano andati acuendo. Al polo opposto, Giovanni Agricola, traendo i presupposti riformati alle loro estreme conseguenze, ne dava l'interpretazione piú coerente. Nel 1537 l'Agricola veniva espulso da Eisleben per avere pubblicamente insegnato che la vita religiosa è completamente autonoma e indipendente di fronte alla vita morale e che, alla luce dei nuovi assiomi cristiani, la stessa legge naturale mosaica, il Decalogo, ha perduto ogni valida ragione di esistere. Le due anime che il messaggio riformato recava nel proprio grembo, l'anima conservatrice e quella rivoluzionaria, scendevano ancora una volta a conflitto.

Già nel pieno della polemica erasmiana, Melantone si era mostrato esitante e guardingo di fronte alle categoriche asserzioni di Lutero, e non aveva nascosto la sua inclinazione a non ripudiare, cosí come faceva il suo amico, la tradizionale teoria della libertà dell'arbitrio. Alla Dieta di Augusta del 1530 aveva cercato con ogni sua possa, sfidando le ire e le invettive del recluso di Coburgo, di attenuare quanto piú fosse possibile l'asprezza delle posizioni luterane per poter raggiungere, in qualche modo, un conveniente accordo con i cattolici. Tra pochi anni, a Ratisbona, riprenderà, ostinatamente, il suo programma di pace e di armonia. Si comprende pertanto come i suoi rapporti con Lutero, nonostante le contrarie apparenze, avessero, al loro fondo, qualcosa di freddo e di artificioso. Lutero, intransigente ed iracondo, non poteva non sentirsi continuamente polarizzato verso atteggiamenti e dichiarazioni che Melantone cordialmente deplorava. Gli stessi scritti piú imponenti e piú normativi del geniale interprete e divulgatore dell'evangelismo, tradivano progressivamente un proposito sempre piú pronunciato di togliere al messaggio della riforma quel tono aggressivo e quell'andatura paradossale ch'esso invece automaticamente e invariabilmente assumeva sulle labbra o sulla penna dell'ex-monaco.

Di un significato tipico, a questo proposito, sono le edizioni successive dell'opera fondamentale di Melantone, i Loci Communes. Melantone vi andò continuamente attenuando la dottrina ch'egli aveva assunto da Lutero, e vi si mostrò sempre meglio preoccupato di dar soddisfacimento ad esigenze cui, in un primo tempo, o non aveva affatto prestato attenzione o aveva fugacemente accennato. È precipuamente sul postulato della assoluta indispensabilità delle opere che Melantone si lascia andare a dichiarazioni sempre piú esplicite. Mentre nella prima edizione egli formula, in sostanza, l'identica teoria di Lutero, adagio adagio, procedendo negli anni, scoprendo le conseguenze di un movimento ispirato dalla predicazione dell'assoluta libertà cristiana, arretra ed esita, finendo col proclamare senza sottintesi che sussistono leggi etiche inviolabili anche per il cristiano, offendendo le quali si compromette il diritto alla salvezza religiosa. Senza una pregiudiziale di questo genere, riconosce il teorico della teologia luterana, senza cioè l'ammissione di un controllo e di una sanzione esteriori, nessun movimento religioso riesce a costituirsi su solide basi. Anche a Lutero, lo abbiamo visto, si era offerto ripetutamente il medesimo problema. E non bisogna credere che egli si sottraesse all'evidenza di un qualsiasi servizio delle opere, nella economia della spiritualità redenta. Ma, stretto fra la logica dei suoi postulati e la lezione imperiosa della realtà, si era messo in una posizione di permanente equilibrio instabile. Aveva sostenuto cioè che le opere buone rinascono attraverso la fede, e scaturiscono dalle nostre capacità automaticamente, quando siamo rivestiti dai meriti del Cristo. Non le aveva mai però dichiarate necessarie al conseguimento della salvezza. Era fatale che qualche discepolo, piú logico e conseguente, incapace di sopraffare il rigore della dialettica con l'impeto del commovimento mistico, ricavasse dall'assioma che sopprimeva, agli occhi del cristiano, ogni costrizione obbligatoria di legge, la conseguenza naturale che tutte le azioni sono di per se stesse ugualmente buone e che la distinzione fra bene e male è puramente fittizia, ché, una volta costituito nella grazia, l'uomo opera spontaneamente il bene e non esiste un male il quale possa venirgli ragionevolmente imputato.

Giovanni Agricola, appunto, che Lutero accolse amorevolmente a Wittenberg, dopo che il conte di Mansfeld lo ebbe espulso da Eisleben, e che costituí, in sulle prime, pubblico predicatore, sosteneva che la vita religiosa non può in nessuna maniera essere vincolata da una qualsiasi presupposizione etica: ché anzi può logicamente sussistere una religiosità la quale vive e si esplica pure attraverso le violazioni palmari delle leggi morali. Teoricamente parlando Lutero non avrebbe potuto sconfessare un cosí stringato esegeta del suo insegnamento. Non aveva egli ammonito molti anni prima il suo Melantone: «Sii tu, pure, peccatore; sii tu anzi un peccatore indurito: purché piú forte sia la tua fede e travolgente il tuo gaudio nel Cristo, vincitore del peccato, della morte e del mondo»? È vero che, inquadrato nel complesso dei consigli paralleli e delle raccomandazioni concomitanti, simile monito non voleva costituire affatto un passaporto alla licenza o un rinnegamento dell'operazione virtuosa. Ma è chiaro che doveva apparire a molti estremamente arduo innestare su una prospettiva religiosa di tal genere l'onere etico e la soggezione morale. Era molto piú coerente la predicazione libertaria di Agricola. Se per il credente vale unicamente la completa adesione al Cristo, vita etica e vita religiosa procederanno fatalmente per due vie separate, e la stessa legge naturale apparirà come un codice giuridico, non come norma mistica ed ecclesiastica.

Costretto a guardare in faccia le ripercussioni concrete del suo messaggio, Lutero recalcitra e sconfessa i suoi esegeti. Nel 1539 egli indirizza al Güttel, predicatore ad Eisleben, un trattatello Contro gli antilegalisti. In esso il riformatore si industria di non annullare in radice il valore delle opere buone, senza cancellare però il suo postulato prediletto della giustificazione in virtú della sola fede. Crede cosí di esimersi dalla palmare contraddizione, dipingendo la ripugnante gravità delle colpe umane: «Io ho sempre insegnato, ed anche attualmente insegno, che per indurre i peccatori alla penitenza non vi è che un mezzo: la contemplazione della inenarrabile passione del Cristo. La passione del Cristo infatti ci fa luminosamente constatare e misurare quanto sia grande l'ira di Dio contro il peccato, se unico rimedio e sola redenzione adeguata alle colpe umane sono state la sofferenza e la morte di un Dio. Tale dottrina non è mia: ma di San Bernardo, di tutti i Dottori, degli Apostoli e dei Profeti». E il riformatore ne conclude che se cosí imponente è la responsabilità della colpa, chi si attenta di sopprimere la legge dovrebbe in anticipo espellere dal mondo la capacità di mal fare. Perché fino a quando nel mondo proietta la sua ombra infausta la colpa, permane l'ira violenta di Dio, che postula il riscatto. E deve pertanto permanere la legge, registrazione implacabile della nostra funzionale peccabilità e della nostra inguaribile miseria, da cui non possiamo riscattarci che mediante la onnipotente redenzione del Cristo.

Mai si erano rivelate meglio la singolare versalità spirituale e la poliedrica ricchezza interiore di Lutero, che in questo momento della sua carriera proselitistica. Roma si era ormai già solennemente impegnata a contrapporre al messaggio riformato la enunciazione solenne dei suoi diritti e delle sue concezioni tradizionali. Le difficoltà insite nel programma di costituire una Chiesa organizzata, su una esperienza individuale che sarebbe dovuta apparire refrattaria ad ogni processo di disseminazione normativa, si rivelavano ostinatamente imponenti. I quotidiani contatti politici avevano imposto adattamenti e rinunce. E pure Lutero tradisce da copiose manifestazioni, collaterali al suo indefesso lavoro di Apostolo religioso, riserve spirituali e sentimentali che sorprendono e strappano l'ammirazione.

La raccolta dei discorsi conviviali, che si viene precisamente impinguando in questo periodo, se rivela la grossolanità della conversazione familiare dell'ex-monaco, pone anche allo scoperto doti esimie di arguzia, di prontezza, di finezza e di sensibilità. Lutero ama raccogliere alla sua mensa domestica gli amici piú devoti e fedeli. Il grande convento degli agostiniani di Wittenberg, orbato dei suoi vecchi abitatori, è divenuto il domicilio della sua famiglia. Il riformatore ci appare, attraverso questi avanzi frammentari della sua conversazione e delle sue confidenze, a cui naturalmente sarebbe ingiustificato attribuire altro valore che non sia quello da assegnare a documenti di psicologia spicciola, quale realmente egli è, con la sua incomposta passionalità e la sua indomita virulenza. Lutero ama la tavola succulentemente imbandita e il sottile vino del Reno. I suoi accenti sono molto spesso volgari e intercalati da violenti attacchi a Roma e al suo potere disciplinare. Sembra di cogliere a volte nel suo spirito un progressivo inasprimento, che toccherà negli anni estremi il parossismo dell'ossessione apocalittica. Tale inasprimento si riflette nei ritratti di Luca Cranach, dove la sagoma del riformatore sembra smarrire la scarna spiritualità onde era infocato lo sguardo dei suoi occhi profondi, al tempo del bando di Worms.

E pure in questo lottatore, consunto dalle fatiche e inasprito dai contrasti, freme tuttora e vibra una sentimentalità ricca di placide e tenui sfumature. Lutero conserva inalterabile un senso profondo della natura. Coltiva egli stesso una parte del suo giardino. Confessa di essersi spesso smarrito ad ascoltare, estasiato, il canto degli uccelli. Adora la musica e la esalta come uno dei piú preziosi doni che Dio potesse elargire agli uomini. Raramente nella storia sono apparsi spiriti altrettanto paradossali e altrettanto in se stessi antitetici. Proprio nel 1537, mentre la prospettiva del Concilio ha aguzzato i suoi istinti battaglieri contro Roma, trova modo di redigere brevi dissertazioni sui suoni e di tessere in termini toccantissimi il panegirico dell'arte musicale. Si direbbe veramente che il temperamento di Lutero sia stato in fondo un temperamento di artista, e che anche la sua esperienza religiosa egli l'abbia tradotta in termini di fantastico dramma poetico. La sua qualità predominante è stata, con probabilità, un'eccezionale potenza immaginativa, che l'ha reso fra l'altro un oratore irresistibile, un animatore impareggiabile dei fattori che agitano la vita dello spirito e in pari tempo un discopritore acutissimo delle anime e dei segreti onde è intessuta la vita dell'universo. Fino agli estremi giorni della sua vita gli eventi si incaricarono di dar risalto alle attitudini contrastanti della sua natura multanime.

Fallite momentaneamente le trattative miranti al sinodo ecumenico, Carlo V si acconcia al programma di un Concilio nazionale tedesco o quanto meno di una conferenza religiosa che discuta in Germania i problemi controversi sollevati dal luteranesimo. Onde allestire la piattaforma di una prossima conferenza, fu convocata per il 23 maggio 1540 una riunione dei principi cattolici a Spira, a cui sarebbe seguita, il 6 giugno, una conferenza di religione coi nuovi credenti. L'adunanza indetta a Spira fu poi, per ragioni di utilità pratica, trasferita ad Hagenau, e qui fu, nel luglio, stabilito che la «conferenza religiosa» si sarebbe inaugurata a Worms il 28 ottobre con la partecipazione di undici delegati per ciascuna delle parti, in preparazione di una generale Dieta dell'Impero per le definitive risoluzioni. Chi in questo momento esercita il piú potente influsso sulla politica imperiale è il Granvella, col suo proposito di giungere, a qualunque costo, ad una conciliazione. Tommaso Campeggi, vescovo di Feltre e fratello del cardinale Lorenzo, fu legato pontificio a Worms. Le sue linee d'azione non si trovarono sempre in armonia con quelle del Morone, nunzio presso Ferdinando I di Absburgo. E invece mai come allora sarebbe stata necessaria la perfetta sintonia dei pareri e degli intenti! Il 18 gennaio 1541 anche l'adunanza di Worms, miseramente fallita al suo scopo, era sciolta e trasferita senz'altro nella Dieta, convocata a Ratisbona.

La Dieta di Ratisbona rappresentò il massimo sforzo compiuto dalle parti in contrasto per giungere ad una intesa, che non costituisse unicamente un temporaneo disarmo, ma scaturisse piuttosto da un consapevole e cordiale avvicinamento delle posizioni ideali e dei postulati dogmatici. La Santa Sede fu rappresentata questa volta da uno dei personaggi piú insigni e piú chiaroveggenti del Sacro Collegio : il cardinale Gaspare Contarini. Di nobilissima famiglia veneta, nato lo stesso anno di Lutero, il Contarini aveva studiato a Padova, sotto la guida del Pomponazzi. Aggregatosi al servizio politico della repubblica di San Marco era stato, nel 1535, improvvisamente innalzato alla porpora, in uno dei piú solenni concistori di Paolo III. Dottissimo in teologia, versato in letteratura patristica, il Contarini apparteneva a quella corrente detta degli «spirituali», la quale, dinanzi al dilagare minaccioso del messaggio riformato, pensava che l'attitudine piu saggia e piú proficua non fosse già quella della cieca intransigenza, pronta unicamente alla condanna, fosse piuttosto quella della longanime comprensione e della accorta utilizzazione.

C'era, soprattutto nella dottrina della giustificazione formulata da Lutero, qualcosa che desse lo spunto ad un sagace adattamento, in virtú del quale fosse consentito in pari tempo tutelare la tradizione e il magistero di Roma e soddisfare l'individualismo mistico da cui era avvivata la propaganda luterana? Gli «spirituali» credevano di sí, e il Contarini era probabilmente il teorico piú illuminato e preciso di questa corrente che, se avesse prevalso, avrebbe potuto probabilmente imprimere un ritmo dottrinale del tutto diverso alla Chiesa romana della controriforma. Egli difendeva con tenacia pari alla penetrazione teologica la dottrina di una duplice giustificazione. Secondo la quale, mediante la fede, il credente consegue realmente una doppia forma di giustizia: una inerente, che investe, purifica e trasumana la nostra natura; l'altra, la giustizia propria del Cristo, la quale rappresenta un puro dono, elargito alla nostra anima. Quanto questa concezione soteriologica potesse riuscire in pratica a salvare il merito delle opere e di rimbalzo tutto l'edificio della morale e della disciplina carismatica ecclesiastica non è consentito dire. Alla dottrina del Contarini non fu concesso di cimentarsi al contatto effettivo della vita religiosa associata. Essa è rimasta, sull'incipiente albeggiare dei pronunciamenti dogmatici della controriforma, come un tentativo sfortunato di scendere, sul terreno delle idee, alle piú generose concessioni al pensiero riformato, per evitare quella separazione di cui il diplomatico veneto intuiva vagamente le funeste ripercussioni.

Nel marzo del 1541 il cardinale Gaspare Contarini faceva il suo solenne ingresso a Ratisbona. Il 23 aprile Carlo V gli faceva comunicare lo schema di un concordato dottrinale in ventitré articoli, nei quali erano enunciati sommariamente tutti i punti in discussione, dalla dottrina del libero arbitrio alla pratica determinazione della disciplina ecclesiastica. Su questa formula discussero i sei rappresentanti delle due confessioni, designati dall'imperatore: tre di parte cattolica, Esk, Gropper, Pflug; tre di parte riformata, Melantone, Butzer, Giovanni Pistorius. I primi quattro articoli, consacrati ai problemi dello stato originario dell'uomo, della libertà dell'arbitrio umano, della natura e della causa del peccato, della colpa d'origine e della sua trasmissione, non destarono dissensi inconciliabili. Piú aspra e concitata fu la tenzone teologica intorno al quinto articolo, involgente l'argomento appassionante della giustificazione. Il due di maggio si toccava infine l'accordo sulla teoria della duplice giustificazione, che raccolse i suffragi unanimi. Veniva cosí solennemente sanzionata la distinzione fra una giustizia inerente, la quale è comunicata ai fedeli direttamente mediante la grazia battesimale, e una giustizia superiore, puramente imputata mercè i meriti del Cristo, che è elargita dall'uomo in rapporto alla sua fede e che pure è necessaria per il completo rinnovamento interiore e per l'attuazione integrale della spirituale salvezza. La infusione di questa seconda giustizia consente all'uomo di poter compiere automaticamente le opere buone e di conquistare la vivida ed efficace consapevolezza della precedente giustizia che è in lui.

Tale dottrina costituiva un tentativo ardito di salvare la virtú meritoria delle opere, pure innestandola strettamente sull'esperienza intima della fede. La concezione voleva essere rigidamente paolina. Piú tardi sarà aspramente rimproverato al Contarini di essersi lasciato andare ad assorbire, compiacentemente, piú di un elemento della spiritualità protestante. A Ratisbona, egli stesso deve aver avuto sollecitamente la sensazione di aver troppo ceduto al suo amore dell'unità, e cercò di rifarsi mostrando una tenace intransigenza su problemi che avrebbero potuto apparire secondari: il celibato, l'autorità ecclesiastica. Nelle sue linee generali si rinnova, sostanzialmente immutata, la situazione augustana del 1530: i rappresentanti ufficiali delle due parti, cattolica e riformata, sono disposti a concessioni reciproche, ma Lutero, assente, continua a mantenersi nella sua irreconciliabile intransigenza, denunciando il tranello. Melantone, al solito, tentenna. Ma quando si giunse alla controversia eucaristica e il Contarini chiese che fosse esplicitamente ammessa la dottrina della transustanziazione, Melantone trovò in sé l'energia per opporsi con risolutezza. Ogni possibilità di accordo svaniva. Il Granvella lo comprese a volo e non volle compromettere, con una pertinacia intempestiva, i risultati conseguiti. L'imperatore sospendeva i lavori della Dieta e nel luglio emanava un editto, il cosí detto In terim di Ratisbona, col quale, preso atto dell'accordo stipulato sui primi cinque articoli, si rimandavano i residuali punti controversi o alle decisioni del Concilio o alla prossima Dieta.

Frattanto la situazione politica generale si era fatta eccezionalmente fosca. Nell'agosto del '41 i Turchi si impadronivano di Buda. La cattura della capitale ungherese, destinata a restare lungo tempo sotto il dominio infedele, portava all'incorporazione nell'Impero turco di una vasta zona del territorio danubiano. Carlo V si lusingò di poter scongiurare il dilagare dell'invasione, portando risolutamente la guerra nel campo nemico. La spedizione di Algeri nacque da questo programma. Scese per Trento a Milano e di qui passò a Genova; donde si recò, prima di prendere definitivamente il mare, a Lucca, per incontrarsi, il 18 settembre, con Paolo III. L'incontro portò alla convocazione immediata del tanto atteso Concilio. La condizione della Cristianità europea era troppo precaria e troppo oscura perché si potesse impunemente protrarre di una sola settimana il massimo sforzo diretto al ripristinamento di quella unità spirituale, senza cui era vano ripromettersi una qualsiasi efficienza politica o militare. L'Aleandro e il Contarini, i cardinali piú esperti negli affari germanici, furono incaricati di apprestare nel piú breve tempo possibile un memoriale sulle modalità concrete della convocazione. Ma l' Aleandro cadde malato, e solo al Contarmi spettò l'onere del lavoro. Nell'ottobre egli presentava la sua relazione. Sul tema pratico piú spinoso, la sede del Concilio, egli accennava alla possibilità di prescegliere ancora Mantova, o altrimenti Ferrara, Piacenza, Bologna, non rifiutando però la vecchia designazione imperiale, Trento.

La spedizione di Algeri si mutava in un rovescio completo per le armi imperiali. Nell'ottobre tutta la flotta di Carlo V andava distrutta. Nel dicembre l'imperatore sbarcava, disfatto, a Cartagena. I Turchi non trassero tutto il possibile profitto dal loro successo; ma non per questo la situazione di Carlo appariva meno imbarazzata. Il rovescio navale rinfocolava l'implacabile ostilità di Francesco I sempre in agguato, e un nuovo aperto conflitto parve dovesse scoppiare imminente.

Nel turbine di queste calamità e di queste incertezze, egli stesso assillato dalle annebbianti preoccupazioni familiari, Paolo III, che si consumava nel desiderio di creare la fortuna di suo figlio Pier Luigi e del nipote Ottavio e che era quindi costretto a misurare tutte le eventuali conseguenze dei suoi atti fra il cozzo dei contendenti, sembrò rallentarsi nello zelo per la convocazione del sinodo. Solo nel maggio del '42 la Bolla che lo convocava a Trento per il primo novembre successivo fu diramata.

Il documento, dettato dal Sadoleto, si rivolgeva, per amore della neutralità, ad entrambi i sovrani, dichiarandoli, in solido, responsabili dei ripetuti fallimenti di ogni tentativo precedente di convocazione. Carlo V si sentí profondamente offeso da questo inatteso riavvicinamento al suo mortale nemico. E con la data del 25 agosto spiccò un messaggio di protesta al Pontefice, deplorando il trattamento che gli era stato inflitto e ponendo come condizione all'effettiva inaugurazione del sinodo che il Pontefice uscisse dalla naturalità e si dichiarasse decisamente contro il re francese. Paolo III non si lasciò intimidire dall'audace requisitoria e procedette senz'altro alla nomina dei suoi tre legati conciliari, i cardinali Parisio, Pole e Morone. Questi pervennero a Trento tre settimane dopo il termine prescritto per la inaugurazione delle adunanze. Trovarono, del resto, Trento pressoché deserta: onde, in mezzo all'indifferenza generale il sinodo doveva ancora una volta, nel giugno del '43, essere rinviato a tempo piú opportuno.

Si vociferò che Paolo III volesse cosí vendicarsi contro Carlo V, per il mancato conferimento del ducato di Milano ad Ottavio Farnese, marito di Margherita, figlia illegittima dell'imperatore. Ma non occorre aggravare il giudizio della storia sul Pontefice farnesiano con imputazioni indebite e giudizi malsicuri. Il Concilio era ancora una volta fallito prima di essere inaugurato, sotto la congiura delle circostanze avverse.

Non cessarono per questo le laboriose discussioni diplomatiche. Alla Dieta di Spira del giugno 1544, l'imperatore, stretto sempre piú dalle esigenze ferree della politica interna ed estera, si lasciò trascinare a concessioni gravose ai potenti principi di Smalcalda. Paolo III non esitò un istante a rimproverargliele in un pubblico Breve di deplorazione. Sembrava che la tensione fra loro dovesse precipitare in una rottura e che il Pontefice, uscendo dalla neutralità, dovesse allearsi con la Francia. Ma nella pace di Crépy, stipulata il 17 settembre 1544, i due eterni rivali trovarono finalmente il terreno della comune intesa e stabilirono di procedere di comune accordo ad un lavoro assiduo e organico, che ristabilisse l'unità nel dilacerato organismo del cristianesimo europeo e reprimesse le novità religiose.

Cosí nel novembre del '44 stesso, Paolo III poteva togliere la sospensione del Concilio e indirlo per il marzo dell'anno successivo a Trento. Però, a causa dello scarso intervento di vescovi e in vista di un progetto di guerra immediata contro la lega Smalcaldica, a cui anche il Pontefice avrebbe dovuto assicurare la sua partecipazione in uomini e in denaro, la seduta inaugurale non poté tenersi prima del dicembre. Comunque, le difficoltà maggiori, che avevano fino allora frustrato il grande sogno conciliare, erano superate, e sugli inizi del '46 la Chiesa cattolica poteva iniziare la sua solenne chiarificazione dottrinale e disciplinare contro il messaggio della riforma germanica.

Un anno prima, nel marzo del '45, Lutero aveva lanciato il suo libello piú fiero contro la Bolla con la quale Paolo III aveva convocato il sinodo. In esso revocava in dubbio i titoli tutti del vescovo di Roma. Definiva contraffazione degna del demonio tutto il potere che il Pontefice si era arrogato ed aveva usurpato nel corso millenario del suo magistero universale. Scopriva l'azione di Satana in tutta l'esplicazione della disciplina romana.

L'estrema manifestazione solenne però dell'insegnamento riformato, prima che l'iniziatore del movimento calasse nel sepolcro, va cercata altrove: nella riforma cioè di Wittenberg, alla cui compilazione, fra il tramonto del '41 e gli inizi del '45, parteciparono cosí Lutero come Crucigero, Giorgio Major e Melantone, e la cui stesura letteraria fu opera personale di quest'ultimo. Come altra volta, al momento di condensare le dottrine della riforma in un documento pubblico destinato ad esercitare un'azione normativa, la misurata e sagace accortezza di Melantone è preferita alla rude intransigenza di Lutero. Come nel tempo della confessione augustana, anche ora, quando l'elettore di Sassonia chiede una professione di fede, da contrapporre alle prossime definizioni conciliari, si fa appello, in definitiva, al discepolo anziché al maestro, a un discepolo senza dubbio fedele e sicuro, ma anche capace di critica chiaroveggente, per quanto timida, dissimulata, a distanza. A figgere a fondo lo sguardo nella paradossale amicizia di questi due uomini, legati dal destino alla medesima impresa, si ha netta l'impressione che qualcosa di ambiguo si nascondesse nei loro quotidiani rapporti. Lutero, in fondo, soffre della assidua presenza dell'amico, perché si sente da lui vigilato, quasi inconsapevolmente tratto lungi dalla rigida e fedele interpretazione dei suoi presupposti. Melantone dal canto suo deve aver giudicato Lutero quale un pericoloso e incontenibile esaltato, i cui postulati riformatori hanno bisogno di assidua attenuazione, per essere incorporati in un'opera salda e concreta di organizzazione ecclesiastica. Il movimento riformato ha recato nei secoli il contrasto che gli hanno trasfuso nelle vene i due suoi corifei, fra l'elemento teologico-mistico, scaturito dalla esperienza fiammante di Lutero, e quello filosofico razionalista, trasmesso dalla cultura positiva dell'eruditissimo filologo, che a Wittenberg si era posto, fra i primi, alla sua sequela. Lutero però non ha mancato di valutare convenientemente il contributo apportato al movimento dal suo amico e ancora nel 1545, nel suo schizzo autobiografico, segnala come un avvenimento straordinario e provvidenziale l'arrivo di Melantone nella città universitaria sassone, nel 1518.

La riforma wittenberghese però, sebbene stilata da Melantone, dovette risentire delle preoccupazioni che destava fra i riformati l'imminente convocazione conciliare. In essa erano esplicitamente formulati i principî centrali delle concezioni luterane, intorno alla colpa di origine, la concupiscenza, la giustificazione, la trasmissione della parola rivelata di Dio. Su questi capi dottrinali appunto, il sinodo ecumenico, nel primo periodo dei suoi lavori, dal gennaio 1546 al gennaio '47, arrestava la propria attenzione, chiarendo, in contrapposizione all'evangelismo, le posizioni, cui la Chiesa cattolica doveva riconfermare la invariabile sua adesione.

L'inaugurazione del Concilio aveva avuto luogo il 13 dicembre 1545. I protestanti, pertinaci, avevano rifiutato di intervenire, dichiarando pubblicamente di non poterlo riconoscere come sinodo cristiano, e persistendo nel chiedere all'imperatore un sinodo nazionale tedesco, al quale potessero partecipare i laici, oltre che gli ecclesiastici, purché naturalmente investiti di pubblica autorità.

L'intervento dei vescovi, in verità, fu dapprima assai limitato. Si discusse pertanto se non convenisse attendere un loro piú copioso arrivo, e se, in quelle condizioni numeriche di partecipanti, il Concilio si potesse effettivamente ritenere per ecumenico. Nuove difficoltà furono sollevate dagli emissari imperiali, i quali chiesero che primo argomento all'ordine del giorno fosse la riforma dei costumi. I convenuti decisero invece che tale argomento non fosse trattato separatamente dai problemi strettamente dogmatici e dalla preparazione delle definizioni dottrinali. Alla emanazione dei solenni decreti, destinati a fissare perentoriamente il pensiero cattolico sui valori centrali della esperienza etica e soteriologica cristiana, fu mandata innanzi, nella terza sessione, la proclamazione del simbolo niceno-costantinopolitano, quale fondamento comune della universale fede della Chiesa.

Le sessioni quarta (8 aprile 1546), quinta (17 giugno 1546), sesta (13 gennaio 1547) furono rispettivamente dedicate, dopo un intenso e laborioso scambio di discussioni nelle sedute preparatorie, alla definizione della dottrina ortodossa intorno alla rivelazione biblica e alla tradizione, intorno al peccato originale, intorno alla giustificazione.

Il Decretum de Canonicis Scripturis sanzionò il postulato che la società cristiana possiede un duplice organo per giungere alla conoscenza sicura della verità religiosa: la parola scritta e la tradizione orale. La prima è affidata al canone biblico, che il Concilio stabilisce una volta per sempre, comprendendovi anche i libri deutero-canonici, ripudiati dai protestanti. La seconda è affidata alla continuità dell'insegnamento della Chiesa, e consta di tutte quelle verità che, enunciate dalle divine labbra del Cristo, accolte dagli Apostoli, o enunciate dagli Apostoli stessi sotto l'immediata dettatura dello Spirito Santo, pervennero fino a noi, quasi passando di mano in mano attraverso la catena delle generazioni credenti. Poiché una delle forze principali che Lutero aveva posto in movimento per la comunicazione del suo atteggiamento antiecclesiastico era stata la disseminazione in seno ai ceti piú umili della Sacra Scrittura divulgata in volgare, il Concilio stabilisce che il testo ufficiale da adottarsi per la lettura e il commento della Bibbia sia l'antica versione geronimiana, conosciuta col nome di Volgata, la quale è dichiarata esente da errori in tutto che implica verità di fede o precetti eterni di morale. Non se ne prescrive una edizione critica, ma si raccomanda calorosamente che sia stampata con la massima cura. Nessuno potrà pubblicare un'edizione della Bibbia in lingua parlata senza una speciale autorizzazione ecclesiastica e senza accompagnarne il testo con un commento ricavato dalla tradizione ufficiale della esegesi ortodossa. Dopo ampie e movimentate discussioni, nel corso delle quali ebbe agio di manifestarsi la vastissima conoscenza dei testi patristici come della dottrina luterana di cui i convenuti a Trento erano in maggioranza provvisti, si pervenne alla formulazione del decreto sul peccato originale, letto e approvato nella solenne quinta sessione, al cospetto di una sessantina di vescovi.

Una dottrina della caduta originaria della specie umana è realmente alla base della tradizionale esperienza cristiana. L'inciso peccatum originale è un'espressione che troviamo per la prima volta in Sant'Ireneo, al cadere del secondo secolo, nella sua grande confutazione della falsa gnosi. San Paolo parla semplicemente di «peccato». Ma la sua dottrina al riguardo è ampia, sicura, esauriente: è il nucleo di tutta la posteriore teologia soteriologica. San Paolo discute, particolarmente nella Lettera ai Romani, l'entità dell'opera redentrice e reintegratrice compiuta da Cristo, in confronto dell'opera distruttrice e pervertitrice perpetrata da Adamo. «Come attraverso un sol uomo il peccato entrò nel mondo e attraverso il peccato la morte, cosí la morte passò in tutti gli uomini, perché (eo quod) tutti peccarono». Questa clausola paolina richiama automaticamente l'attenzione. Che cosa propriamente essa vuole significare? Altre volte la troviamo nell'epistolario paolino, sempre nel valore avverbiale di eo quod, per il fatto che, poiché. Si potrebbe pertanto, in nome di un palmare parallelismo stilistico, pensare che qui San Paolo voglia semplicemente proclamare che la morte è una conseguenza fatale ed universale della colpa, che cioè gli uomini muoiono, perché tutti sono peccatori, sulle orme del loro progenitore. Ma già ai suoi tempi Ireneo osservava che il pensiero dell'Apostolo va molto piú a fondo: che cioè vuole insinuare come noi non solamente ci costituiamo imitatori di Adamo quando ci imbrattiamo di colpe, ma che siamo tutti, eticamente e formalmente, corresponsabili nella sua colpa fatale: che fu «una colpa d'origine». Ogni soteriologia realistica – e la concezione realistica della salvezza era indispensabile alla costituzione della visibile società dei credenti nel Cristo – doveva necessariamente attenersi a simile interpretazione dell'energico tratto paolino. Il primo traduttore ufficiale del Nuovo Testamento in latino intendeva evidentemente San Paolo al modo di Ireneo quando volse eph'ho nella frase in quo e riferí il pronome relativo ad Adamo: in quo omnes peccaverunt. Traduzione letteralmente inesatta, ma religiosamente fedele e profonda. Agostino la presuppone nella sua dottrina del peccato e della grazia: tutta la Cristianità medioevale la fece propria.

San Tommaso aveva dedicato alla dottrina del peccato originale poche questioni della sua Summa, riprendendo, attenuando e fissando i principali motivi agostiniani. Secondo la sua esposizione la colpa adamitica, che si riversa su tutti gli uomini e viene cancellata dal battesimo, ha profondamente alterato l'equilibrio naturale dell'uomo, lasciando dietro di sé un f omes, una concupiscentia, che designa genericamente tutto quello che di oscuro e di mal fermentante si nasconde nella nostra natura e ci rende aspro e contrastato l'assolvimento del nostro dovere in seno alla collettività.

Ma se tale colpa ha affievolito le capacità primigenie dello spirito umano, che si è disviato dalle finalità pure della vita immortale in Dio, e si è rivolto verso le annebbianti cupidigie della sensibile materialità, non ha soppresso le capacità della libera decisione nell'uomo, il quale è sempre in grado di debellare gli istinti inferiori della sua animalità: ha distrutto una giustizia, non ha pervertito insanabilmente una natura. La concupiscenza, che rimane nei battezzati come una potenzialità ed un abito, non già come un'attualità imputabile, un atto, non costituisce e non potrebbe costituire di per sé un peccato. Se colpa la si dice, l'appellativo non può avere che un significato ridotto e analogico: è colpa, perché nasce dalla colpa ed alla colpa inclina.

È verosimile il pensare che San Paolo era giunto alla formulazione completa della sua antropologia sotto lo stimolo della sua altissima cristologia. Man mano che nella sua coscienza mistica di credente e di Apostolo si era andata delineando in confini sempre piú netti e con contorni sempre piú precisi la figura restauratrice del Cristo, il valore strepitoso della sua opera gli era apparso sempre meglio nell'economia generale della evoluzione umana. Adamo e l'efficacia distruggitrice della sua trasgressione iniziale erano stati da lui piú convenientemente giudicati.

Può darsi, parallelamente, che anche in Lutero l'antropologia sia in funzione della soteriologia. Man mano che sotto l'azione della sua personale esperienza e del suo tirocinio nel quietismo mistico si andava delineando la concezione della giustizia imputata e della salvezza attraverso la fiducia nel Cristo, deve essersi di rimbalzo fatta sempre piú fosca la convinzione della incapacità funzionale dell'uomo di contribuire attivamente al processo della interiore salvezza. Era cosí giunto a proclamare che, essendo la creatura umana vincolata inscindibilmente alla sua costituzione pervertita, e rivolta invincibilmente non piú verso Dio, ma verso Satana, tutto quanto usciva dalla attività umana, per quanto ammantato di menzognera santità, era intrinsecamente e irreparabilmente viziato: peccato, ininterrotto e obbrobrioso peccato.

Lutero aveva cosí potuto giustificare il suo postulato primordiale della impossibilità della salvezza mediante le opere e della assoluta necessità di un atto di fede, in virtú del quale le opere malvagie, pur non scomparendo, cessano di venire imputate. Il peccato originale viene pertanto indiscriminatamente identificato con la concupiscenza, che il battesimo non estirpa e non annulla – la spegneremo solo quando avremo svestito il nostro involucro mortale – ma di cui i meriti del Cristo hanno soppresso l'imputabilità etica e giuridica.

Avendo presente dinanzi agli occhi la dottrina luterana, i convocati di Trento formulano nel decreto De Pec cato Originali la posizione dottrinale dell'ortodossia: il santo Concilio non revoca affatto in dubbio la permanenza nei battezzati della concupiscenza sensibile e del fomite carnale. Ma afferma che simile concupiscenza, lasciata a prova, non a condanna, non può in alcun modo recare pregiudizio e infliggere nocumento a chi, anziché cederle, le resiste virilmente con l'assistenza della grazia del Cristo: ché anzi, proprio chi avrà strenuamente combattuto, riceverà la corona. Il sinodo dichiara solennemente che la Chiesa cattolica mai ha inteso che simile concupiscenza, definita talora dall'Apostolo come peccato, sia cosí chiamata in un significato vero e proprio, bensí unicamente nel senso che dal peccato emana ed al peccato sospinge. Con una definizione di questo genere la capacità libera della volontà umana era rigidamente salvata e si riconosceva che, una volta affrancato col battesimo dalla responsabilità etica della trasgressione di Adamo, il credente aveva nell'anima sua la virtú sufficiente per compiere quelle opere buone che potevano essere, non il risultato automatico della giustificazione avvenuta, bensí appannaggio e coefficiente della sua giustizia in formazione.

Prima di sciogliere la sessione, i convenuti di Trento ponevano nettamente al prossimo ordine del giorno, nonostante l'opposizione risoluta degli emissari imperiali, pavidi dinanzi alla prospettiva di una brusca ed irreparabile rottura con i riformati, la dottrina della giustificazione. Durante le minute discussioni svoltesi fra il luglio del '46 e il gennaio del '47, il problema, oscuro e rischioso, fu esaminato nei suoi piú vari aspetti. Nessun sinodo ecclesiastico aveva mai affrontato in pieno le questioni antropologiche e soteriologiche, coinvolte nella nozione della giustizia religiosa, e tutta la spiritualità europea futura era, può dirsi, in funzione del decreto che stava per essere emanato.

Alla indagine e al giudizio dei teologi, tutti familiarizzati ormai con le principali enunciazioni della teologia luterana, furono sottoposti alcuni precisi quesiti: qual è lo specifico e personale contributo dell'uomo all'acquisto della sua giustificazione? Che cosa si può intendere mediante l'espressione «l'uomo è giustificato in virtú della fede»? Che cosa in realtà rappresentano le opere, prima, durante e dopo la spirituale giustificazione? Da che cosa mai è in realtà preceduto, accompagnato e seguìto il processo della giustificazione?

Le risposte dei singoli teologi consultati su questi centrali problemi della soteriologia cristiana sono altrettante documentazioni sugli orientamenti prevalenti al Concilio. I teologi della Compagnia di Gesù – la Compagnia non aveva che sei anni di esistenza ufficiale e già era assurta alla funzione di effettiva disciplinatrice del pensiero teologico ortodosso – tra cui eminente il Laynez, pesarono piú di tutti gli altri sulle decisioni conciliari. Sembra che al cospetto dei nuovi errori e dinanzi alla prospettiva della nuova insidia, questa ferrea organizzazione religiosa, che ha le andature di una corporazione militare e si getta nel mondo per dominarlo, prendendone le armi e le istituzioni, lasci nell'ombra tutte le vecchie associazioni asceticomonastiche, che avevano costituito nel Medioevo il palladio delle idealità evangeliche e la roccaforte della rinuncia perfetta. Il parere del padre Salmeron fu in notevole parte incorporato nel decreto definitivo e quello del padre Laynez, anch'egli spagnuolo, fu tra i piú efficaci sulle decisioni sinodali e sull'avviamento degli spiriti ad una conclusione.

Tra le opinioni divergenti, quella piú meritevole di considerazione, cosí per la persona del proponente come per il significato del suo contenuto, appare il parere del Generale degli agostiniani Gerolamo Seripando. Nella seduta dell'8 ottobre del '46 egli espose, non senza coraggio, la teoria della duplice giustificazione, come la soluzione piú adatta e piú propizia ad una generale pacificazione, dichiarando però in anticipo che si sarebbe docilmente rimesso alla qualsiasi decisione conciliare. Egli rinnova cosí il tentativo del cardinale Contarini alla Dieta di Ratisbona, col proposito di fondere il postulato centrale dell'ortodossia cattolica circa la validità giustificatrice delle opere buone, con il punto di vista della concezione luterana circa l'efficacia esclusiva e sovrana dei meriti del Cristo nel processo della giustificazione. Si comprende il valore della proposta del Seripando riflettendo alla sua difficile e delicata situazione. Generale di quell'Ordine dal quale Lutero era uscito; esponente di quella tradizione agostiniana che cosí spesso e con cosí sconcertanti risultati era riaffiorata nei secoli della storia cristiana e da cui i riformatori ostentavano la loro derivazione; ogni concessione a cui egli avesse avuto l'aria di scendere poteva essergli tendenziosamente rinfacciata. Ed egli riuscí ad affrontare le diffidenze e le ostilità. Con accorta discrezione, trincerandosi prudentemente dietro l'opinione del Contarini, il Seripando si domanda se al tribunale di Dio l'uomo non è chiamato a portare una duplice giustizia: la prima, insufficiente e impari allo scopo, costituente il frutto religioso delle nostre opere buone, e una seconda giustizia superiore, imputata, la quale, attingendo la sua virtú dai meriti del Cristo, completa e corona le insufficienze della prima giustizia inerente. Dopo lunghe giornate di discussione, la proposta del Seripando era, a grande maggioranza, respinta. La concezione gesuitica della salvezza aveva decisamente il sopravvento. E il cattolicismo entrava in una nuova via.

Si giunse cosí alla redazione del decreto De Justifi catione. È un monumento di concisa densità teologica. Esso fissa in maniera definitiva la divergenza fra le due confessioni cristiane. Dal giorno in cui esso fu proclamato, il 13 gennaio 1547, un abisso separa nella spiritualità europea cattolicismo e protestantesimo, la visione del fatto religioso del primo dalla visione del secondo.

Il decreto contiene dapprima sedici capitoli, in cui si svolge largamente la dottrina ufficiale e sanzionata della giustificazione. Ad esso seguono trentatré canoni, con i quali sono condannate le principali posizioni luterane. Il decreto muove dalla presupposizione che la colpa d'origine ha effettivamente assottigliato e deteriorato le capacità buone dell'uomo, senza però annullare la sua facoltà di scegliere liberamente fra due azioni eticamente distinte. Il libero arbitrio pertanto rappresenta una sussistente e concreta realtà per quanto sia limitato e circoscritto dalle ripercussioni funeste del peccato di Adamo e quindi non possa rivolgersi al bene senza uno speciale corroboramento della grazia. Ecco cosí il grande fatto della spirituale giustificazione, che implica la remissione della colpa e l'innalzamento della natura umana, la partecipazione alla gloria divina, l'adozione a figli di Dio. Tale giustificazione non importa solamente la remissione della colpa: bensí anche il rinnovamento interiore, che trasforma l'uomo e lo ripristina sovranamente nelle condizioni anteriori alla caduta, conferendogli nuovamente la capacità di praticare la legge.

Autore della giustificazione è Dio. Ma le opere buone rivestono anch'esse la loro parte di efficacia meritoria nel processo della sua realizzazione, sia pure tale virtú efficace inferiore e sproporzionata a quella della grazia. Le cause della giustificazione possono nettamente individuarsi. «La causa efficiente è Dio misericordioso; la causa strumentale è il Sacramento del battesimo, che è il Sacramento della fede, senza cui a nessuno può toccare in sorte la giustificazione; infine l'unica causa formale è la giustizia di Dio, non quella per la quale Egli è giusto, ma quella per la quale fa noi giusti, per la quale, cioè, irrorati dal suo dono, ci rinnoviamo profondamente nell'orientamento spirituale della nostra vita interiore, e non soltanto siamo forensicamente dichiarati e reputati giusti, ma giusti effettivamente siamo». Con questa solenne e incontrovertibile enunciazione il sinodo contrapponeva la piú formale risposta alla affermazione di Lutero, che nella tradizione e nell'insegnamento ufficiale del cattolicesimo la justitia Dei si intendesse unicamente come giustizia punitiva e vendicatrice. Nella definizione sinodale tale giustizia non è nudamente una imputazione giuridica esteriore, in virtú della quale siamo computati giusti, pur non essendolo: ma è effettivamente una autentica giustizia, che si comunica a noi attraverso l'infusione della grazia e ci pone in grado di effettuare il bene. Lutero invece non aveva cessato un istante di proclamare che le stesse azioni esteriormente e apparentemente buone del giusto sono in se stesse funzionalmente peccaminose e che l'uomo, trasfigurato in virtú della fede e dell'adesione al Cristo, ha unicamente la capacità di considerare come non piú imputabile quel male ch'egli è pure fatalmente, irrimediabilmente condannato a perpetrare, senza interruzione, sulla terra.

Quando, agli albori del '47, la Chiesa di Roma, per mezzo della sua rappresentanza conciliare, contrapponeva cosí alla soteriologia luterana la definizione della propria visione dell'uomo e delle sue possibilità nell'ambito della salvezza religiosa, il riformatore era da dieci mesi scomparso dalla scena del mondo. Fin dalla Epifania del 1542, alla presenza di pochissimi intimi, aveva dettato il suo testamento, nella apprensione di una dipartita imminente. Ma egli aveva ancora davanti a sé un quadriennio di vita. L'impressione che la sua propaganda e il suo movimento eran riusciti a destare in tutto il mondo credente era cosí vasta e cosí profonda, che notizie fantastiche sulla sua morte e sui suoi particolari si diffondevano ormai dovunque. Il '45, in particolare, fu l'anno delle piú strane dicerie e delle piú sorprendenti leggende. Ne giunse l'eco anche a lui, che ne trasse spiritosamente lo spunto per un breve scritto polemico contro i suoi nemici rimproverandoli di speculare sulla sua presunta morte, onde denigrarlo al cospetto del mondo.

Sulla morte di Lutero si posseggono, superstiti, parecchie versioni, cosí di parte protestante come di parte cattolica. Se noi sfrondiamo dalle une e dalle altre i particolari che tradiscono in maniera evidente la preoccupazione o apologetica o denigratrice, possiamo agevolmente ricostruire nelle sue linee essenziali lo spegnersi lento di colui che ha gettato nel mondo moderno uno dei fermenti piú inquieti. Il vecchio difetto cardiaco aveva reso preoccupanti le generali condizioni del suo organismo, logorato e indebolito dalle diuturne lotte e dall'incessante lavoro. Lutero va incontro alla morte tranquillo e sereno, senza che mai sia dato cogliere nella sua coscienza il turbamento sottile di uno scrupolo o la trepidazione istintiva per il retaggio oneroso da lui trasmesso a seguaci e ad avversari. Nell'ottobre del '45 egli era chiamato a Eisleben, la sua città natale, per intervenire, come paciere, ad appianare le discordie sorte nella casa comitale di Mansfeld. Vi tornava poi nel dicembre del medesimo anno e nel gennaio dell'anno successivo. Questa volta egli sembrava aver avuto il presentimento che sarebbe stato cotesto l'ultimo suo viaggio. E per questo, prima di abbandonare Wittenberg, aveva convocato intorno a sé gli amici piú devoti, assegnando a ciascuno, per il dí della sua scomparsa, un particolare mandato.

Da Eisleben egli scrive di frequente alla moglie, informandola del suo difficile lavoro di conciliatore e delle sue oscillanti condizioni di salute. Ma ecco che le sue forze si attenuano e la fine si approssima. Ad Eisleben, dov'era nato, egli moriva il primo febbraio del 1546, inculcando fino all'estremo ai suoi vicini la fedeltà al messaggio che aveva bandito.

Il compianto universale che segui la sua dipartita mostrò quanto egli avesse a fondo inciso sull'esperienza spirituale della sua patria germanica. Il 10 febbraio i conti di Mansfeld chiedevano all'elettore sassone istruzioni sul modo piú degno di procedere al seppellimento del riformatore. Federico rispondeva che il sepolcro doveva essere a Wittenberg, donde egli aveva lanciato al mondo la sua parola illuminatrice. Il 19 la salma era trasportata nella chiesa di Sant'Andrea ad Eisleben, e il giorno successivo cominciava il viaggio trionfale del suo trasporto a Wittenberg, fra l'accorrere desolato della popolazione in lutto. L'itinerario di una cinquantina di chilometri fu ripartito in quattro tappe: Halle, Bitterfeld, Kemberg, Wittenberg.

Il 22 febbraio, al giungere del cadavere, solenni esequie venivano celebrate nella chiesa d'Ognissanti, alla cui porta, poco piú di ventott'anni prima, il monaco aveva affisso il manifesto pubblico della sua insurrezione.

Il Pomerano ne recitò dal pulpito l'elogio funebre, celebrando la dottrina dell'immortalità, sulle parole dell'Apostolo: «Io voglio che voi non ignoriate, o fratelli, quel che concerne la sorte degli addormentati: onde non dobbiate rattristarvi, come quelli che non nutrono speranza». Seguí Melantone con una celebrazione alata dei meriti dello scomparso: «Come Mosè, egli ha dato al suo popolo una nuova legge».

Poi la salma era calata nella fossa. Diciassette anni dopo, presso a lui, era deposto Filippo Melantone. La morte non doveva separare quelli che la sorte aveva associati nella medesima opera.

Il dramma religioso che l'ex-monaco aveva scatenato in Europa non aveva il suo epilogo sulla pietra tombale dello scomparso. Tutta la civiltà moderna ha continuato ad elaborare il messaggio della riforma, mentre la Chiesa cattolica, ancoratasi nelle definizioni del Concilio di Trento, contrapposte come una barriera insormontabile al dilagare dello spirito riformato, sembra essersi irrigidita in una posizione dottrinale invalicabile, che investe e coinvolge gli orientamenti elementari della vita spirituale, cosí individuale come collettiva.

Ma le definizioni del Concilio di Trento non possono essere riguardate come pronunciamenti occasionali suggeriti e determinati dalle necessità della difesa curiale, al cospetto dell'insurrezione luterana e calvinistica. In fondo, nel contrapporre alle dottrine della inguaribile peccaminosità umana e della giustificazione per fede le sue definizioni conciliari, la Chiesa di Roma prendeva senza dubbio lo spunto dalle esigenze attuali della sua polemica e del suo magistero. Ma lo faceva sulla base delle posizioni dottrinali teologiche quali si erano venute elaborando e circoscrivendo attraverso tutto il processo di trasformazione ideale, effettuatosi, come abbiamo visto, dopo il Mille, mercè quella trasformazione capitale del mondo europeo che aveva le sue radici profonde nella struttura stessa del mondo economicamente e demograficamente rinnovato e le sue espressioni ideali nel rivolgimento della dogmatica, opera tosi da Sant'Anselmo a San Tommaso.

Era perfettamente naturale che con il riaffiorare e con il trionfare della metafisica aristotelica nel dominio della cultura cristiana, il vecchio pessimismo dualista della antropologia agostiniana subisse uno scacco che doveva essere irreparabile. Se il male è semplice negazione di bene e non possiede alcuna consistenza positiva che gli consenta di erigersi a oppositore indomabile dell'opera di Dio nella vita e nella storia, si comprende come anche quella colpa di origine, su cui l'antropologia paolina e la primitiva teologia patristica avevano fatto leva per estollere piú in alto l'opera salutare di Cristo, dovesse assumere connotati privi di quella concretezza operante, che avevano dato sentore di tanto pessimismo agli orientamenti spirituali della antichità cristiana.

Noi abbiamo visto, studiando le prime formulazioni teologiche del cristianesimo antico, come, a cominciare da San Paolo, non la figura di Adamo e il fatto della sua colpa primordiale portano alla considerazione e alla valutazione dell'opera di Cristo, ma è piuttosto la fede profondissima nella salvezza operata da Cristo e nell'avvento del suo Regno trionfante, che polarizza di rimbalzo l'attenzione degli scrittori cristiani verso la figura di Adamo.

Quando le prime aspettative messianico-escatologiche, quando la febbrile attesa dell'imminente Regno del Cristo, si vennero affievolendo sotto la pressione della quotidiana delusione, il pessimismo cosmico, che era alle basi stesse della rivoluzione e della metànoia cristiane, si trasformò in un pessimismo antropologico, in una visione cioè desolata della natura umana, cosí singola come collettiva, che trovò le sue espressioni tipiche nella soteriologia di Ireneo prima, di Sant'Agostino poi.

Come abbiamo veduto, il cristianesimo medioevale, fino al Mille, era vissuto prevalentemente in una sottile consapevolezza di un male, positivo e concreto, che inquina le fonti stesse della vita, reagendo in qualche modo alla stessa capacità di bene della provvidenziale potenza di Dio.

Non il problema delle origini dell'universo e della creazione aveva costituito il primo inquietante quesito della coscienza cristiana. Ché già si potrebbe dire, piú genericamente, che non solamente per il cristianesimo, bensí anche per una qualsiasi autentica esperienza religiosa, non il problema delle origini, che è problema di conoscenza metafisica e di esplorazione scientifica, è quello vero e decisivo, bensí il problema del fine, che è il problema della salvezza e del riscatto dal male.

Ora, in pieno secolo decimosesto, a quasi tre secoli di distanza dalla grande sintesi di San Tommaso, la Chiesa si era di troppo allontanata dalla visione agostiniana della vita, per non contrapporre al messaggio luterano definizioni in termini di speculazione aristotelica, che tradivano palesemente l'evasione irrimediabile da tutti gli orizzonti della spiritualità medioevale, di quella spiritualità che aveva garantito alla Chiesa di Roma il suo ecumenico magistero nel mondo allora conosciuto.

Che cosa mai avrebbero pensato i vecchi teologi cristiani della definizione tridentina, secondo cui quel fomite di ribellione alle supreme leggi di Dio che è in ogni carne umana e che è peccato secondo la definizione paolina e la interpretazione agostiniana, non lo è già perché celi in sé qualcosa di irriducibilmente antidivino, cioè satanico, ma semplicemente perché sorto dal peccato e inclinato al peccato? Clausole di questo genere, limitative ed esegetiche, finivano con l'annullare in profondità tutto quello che di drammatico e di tragico l'antropologia di San Paolo e la teologia agostiniana avevano autoritativamente scoperto e consacrato al fondo dell'esperienza cristiana.

Ancora una volta nel cammino della trasposizione e della trascrizione della tradizione evangelica in termini di speculazione razionale e di filosofia umana, il Concilio di Trento veniva a togliere, dal patrimonio della fede sorta dal Vangelo, quel pathos intimo che dà veramente alla religiosità le sue virtú di fermentazione e di conquista.

Oggi, scrittori come Ramiro de Maetzu, rivendicanti la tradizione della ispanità nel mondo, attribuiscono proprio al Concilio di Trento e a quei teologi spagnuoli della Compagnia di Gesù che vi dettarono legge, un merito invece insostituibile.

Conviene riportare alcune sue significative parole. Si tratta di uno scrittore che ha tentato di fronte alla Spagna rivoluzionaria la piú audace e conseguente rivendicazione del patrimonio cattolico del suo paese, e poiché parlando della Cristianità spagnuola egli parla della Cristianità universale, è bene il caso di valutare da vicino i suoi apprezzamenti. Scrive il De Maetzu:

«Il 26 ottobre 1546 è, secondo me, il giorno piú importante della storia spagnuola, nel suo aspetto spirituale. Fu il giorno in cui Diego Laynez, teologo del Pontefice, futuro Generale dei gesuiti – i cui resti mortali furono distrutti negli incendi dell'11 maggio 1931, quasi che noi spagnuoli fossimo ormai indegni di conservarli – pronunciò nel Concilio di Trento il suo discorso sulla Giustificazione.

«Ora possiamo vedere che in quel luogo realmente si discuteva niente di meno che dell'unità morale del genere umano. Se qualche contraria teoria avesse prevalso, si sarebbe prodotta, nei paesi latini, una divisione di classi e di popoli, analoga a quella che esiste tuttora nei paesi nordici, dove le classi sociali che si considerano superiori, stimano di una specie inferiore coloro che si trovano in basso, ed i cui popoli considerano gli altri, compresi i latini, con assoluto disprezzo, chiamandoci, come ci chiamano, dagoes, parola che deriva da Diego, ma che attualmente è un insulto.

«Durante il dibattito sulla Giustificazione un uomo santissimo, ma caduto in errore, Frate Gerolamo Seripando, chiese se al di là della nostra giustizia non si ritenesse necessario, per essere assolto nel Tribunale di Dio, che ci fossero attribuiti i meriti della Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo, allo scopo di supplire ai difetti della giustizia umana, sempre deficiente. Si sapeva che Lutero aveva sostenuto che gli uomini dovessero giustificarsi solo per la fede, e che la fede fosse una libera regola divina.

«La Chiesa cattolica aveva sempre sostenuto che gli uomini non si giustificano se non per la fede e le opere. Questa è anche la dottrina che si può trovare esplicitamente esposta nella Epistola di Giacomo il Minore; egli dice infatti: – Non vedete come l'uomo sia giustificato per le opere e non solo per la fede?

«La dottrina, dunque, proposta da Gerolamo Seripando, non soddisfaceva nessuno del Concilio: ma poiché si trattava di un uomo di alto valore, di un santo, e di un grande sapiente in questioni teologiche, non era facile combattere tutti i suoi argomenti ed i suoi ragionamenti.

«Questa gloria spettò al Padre Laynez che venne in aiuto della perplessità del Concilio, con una meravigliosa allegoria.

«Gli venne alla mente un re che offrisse un gioiello al guerriero vincitore in un torneo. Giunge il figlio del re e dice ad uno di coloro che aspirano a guadagnare il premio: – Basta che tu creda in me. Io combatterò, e se tu credi in me con tutta la tua anima, vincerò il torneo. –Ad un altro dei concorrenti, il figlio del re dice: – Ti darò delle armi e un cavallo, lotta, fidati di me, e alla fine del torneo verrò in tuo aiuto. – Ma al terzo di quelli che aspiravano al premio, dice: – Desideri vincere? Ti darò delle armi eccellenti e un magnifico cavallo: ma dovrai combattere con tutta la tua anima.

«La prima è la dottrina protestante: tutto è fatto dai meriti di Cristo. La terza quella del cattolicesimo: le armi sono eccellenti, la redenzione di Cristo è l'arma che non può essere migliorata, i Sacramenti della Chiesa sono magnifici: ma, inoltre, si dovrà combattere con tutta l'anima; questa è la dottrina tradizionale della nostra Chiesa. La seconda, quella dell'aspirante al premio cui è stato detto che si deve combattere, ma che non è necessario sforzarsi oltre misura, perché alla fine verrà un aiuto esterno che gli darà la vittoria, apparentemente onora molto i meriti di nostro Signore, ma in realtà diminuisce tanto il valore della redenzione quanto quello della volontà umana.

«L'allegoria produsse un effetto tanto immediato, in quell'assemblea di teologi, che la dottrina di Laynez fu accettata all'unanimità. Il suo discorso è il solo (il solo!) che figuri nel suo testo integrale negli Atti del Concilio. Nella chiesa di Santa Maria di Trento si può vedere un quadro che rappresenta i partecipanti al Concilio: sul pulpito sta Diego Laynez nell'atto di rivolgere loro la parola. Piú tardi, quando fu dettato il decreto della Giustificazione, fu accolto da grandi manifestazioni di giubilo in tutti i paesi della Cristianità e chiamato il Santo Decreto della Giustificazione.

«Ebbene, Laynez allora non esprimeva che la persuasione generale degli Spagnuoli. Oliveira Martins, commentando il Concilio di Trento, ha detto che in esso fu salvato l'impulso fondamentale della volontà umana, la credenza nel libero arbitrio. Ma fu salva soprattutto l'unità dell'umanità; se avesse prevalso un'altra teoria della giustificazione, gli uomini sarebbero caduti in una forma di fatalismo che li avrebbe spinti indifferentemente alla oppressione degli altri o al servilismo. I non cattolici si abbandonarono all'impulso dell'orgoglio che serví loro per prevalere qualche tempo; ma che li ha condotti ultimamente (perché Dio ha voluto che l'esperienza si facesse) a dimenticare a poco a poco quel che vi era in loro di cristiano per cadere nel loro attuale paganesimo, senza sapere qual destino prepari loro l'avvenire; perché tanti sono i loro dubbi che, di fronte ad essi, le nostre stesse angustie sono nubi di estate».

Ora c'è qui, a considerar bene la cosa, sebbene da un punto di vista completamente antitetico, il medesimo processo di deviazione che abbiamo segnalato ed enucleato nelle ripercussioni umane e sociali della predicazione riformatrice di Lutero e di Calvino.

Noi abbiamo visto cioè come quella violenta trasposizione del mistero della religiosa salvezza nell'intimo della coscienza individuale, mercè un appello nudo e scheletrico alla giustizia infinita di Cristo, capace di farci apparire giusti nonostante l'abissale ed inguaribile peccaminosità umana, dovesse sboccare logicamente e fatalmente in una consacrazione globale di tutte le forme della vita. Perché in qualsiasi forma di attività esteriore l'uomo è in grado di assurgere a quella giustizia forensica, che è semplicemente il risultato di un'applicazione esterioristica dei meriti infiniti di Cristo.

Abbiamo visto come questo rivestimento religioso di tutte le piú usuali forme della vita empirica assuma un diverso aspetto ed una diversa efficienza nel messaggio di Lutero e nel messaggio di Calvino. È nel secondo soprattutto che, sotto l'assillo della credenza nella predestinazione divina, e mercè la trasfigurazione religiosa di alcune forme tipiche della vita moderna, della vita economica soprattutto, il mondo è entrato in quella fase tipicamente profanatrice e laicizzatrice di tutto quello che era tradizionalmente religioso, e di rimbalzo esaltatrice di tutto quello che prima era svalutato, che ha portato oggi alla suprema crisi della Cristianità.

Ma noi dobbiamo immediatamente soggiungere, ribattendo le asserzioni del De Maetzu, che il Concilio di Trento è altrettanto responsabile di questo processo di profanazione, che le innovazioni religiose che detto Concilio voleva combattere ed arginare.

C'è un grosso abbaglio in quel che il De Maetzu dice a proposito della dottrina della giustificazione, quale fu predicata e celebrata dal gesuita Laynez al Concilio di Trento. Il De Maetzu vede in questa dottrina il piú grande titolo di gloria della I spanità, in quanto è in nome di quella dottrina che sarebbe stata rivendicata di fronte al mondo e consacrata per sempre la perfetta uguaglianza degli uomini nella universale capacità a tutti attribuita di operare il bene e di meritare cosí la salvezza.

Ma questo significa, né piú né meno, dimenticare in pieno quel che è l'essenza originale e specifica della dottrina cristiana dell'uomo e del suo destino.

Non ci sarebbe stato alcun bisogno della rivelazione cristiana per riconoscere all'umanità, indiscriminatamente intesa, la capacità insita nella stessa nostra natura di operare il bene e di raggiungere l'apice della perfezione morale. Lo stoicismo non aveva insegnato niente di diverso, e quello stoicismo cristiano che è il pelagianesimo non aveva fatto altro in realtà che insediare e instaurare sul terreno della esperienza associata i principi e la precettistica dello stoicismo.

Tutte le disquisizioni del Concilio di Trento a proposito del peccato, della natura umana, dell'opera della salvezza, non sono che elecubrazioni dirette a mascherare in qualche modo, con una esteriore conformità all'insegnamento di San Paolo e all'insegnamento di Sant'Agostino, questa accettazione in pieno di una morale umanistica, che abbassava effettivamente l'atmosfera mistica del cristianesimo alla didattica terra terra del moralismo casistico.

Ed ecco allora profilarsi fin da adesso un paradosso storico che avrebbe avuto un giorno, a distanza di secoli, una realizzazione clamorosa in uno schieramento delle forze europee destinato a segnare il trapasso ad una nuova forma di spiritualità religiosa.

Calvino era partito dal commento di Seneca per raggiungere quel rigidismo pratico, che, in palese contraddizione con i presupposti della giustificazione per fede e della predestinazione, egli cerca di impiantare a Ginevra. A Trento, la Compagnia di Gesù, con il suo risorgente pelagianesimo, apre le vie alla casistica, e mercè questa introduce indiscriminatamente nel vastissimo spazio dell'ugualmente buona attività umana tutte le forme della tecnica moderna e dell'economia capitalistica. Non per nulla nell'America centrale e meridionale le missioni gesuitiche assumeranno forme ed espressioni non dissimili da quelle in cui i calvinisti fiamminghi ed anglosassoni fissano le loro accaparratrici compagnie per le Indie Orientali ed Occidentali.

Se il motto di Calvino: «A Dio solo gloria» si era trasformato in pratica nell'altro: «A Mammona solo gloria», anche il motto della Compagnia di Gesù: «A maggior gloria di Dio» si venne automaticamente trasformando nell'altro: «A maggior gloria di Mammona, e a piú vasto spiegamento del suo dominio nel mondo».

Noi abbiamo visto poco sopra come nella stessa metodica spirituale della Compagnia di Gesù non facesse che propagarsi ed estendersi il principio tomistico della necessità di partire dall'esperienza sensibile, per assurgere alla conoscenza superiore delle realtà spirituali. Abbiamo visto come i concetti stessi di meditazione e di contemplazione, che avevano sorretto e avvivato la tradizione mistica del cristianesimo, fossero profondamente alterati nella propedeutica ascetica degli Exercitia ignaziani.

La reazione non poteva mancare nell'ambito stesso della Chiesa, e venne nel medesimo secolo decimosesto, dalla medesima Spagna. San Giovanni della Croce, riformatore del Carmelo, nelle sue opere mistiche, fa dell'apparato sensibile, nel processo della vita spirituale, un elemento inferiore ed esordistico, che deve cedere il posto per annullarsi nelle tenebre e nella notte assoluta, quando lo spirito, al vertice delle sue aspirazioni ideali, raggiunge l'intima contemplazione e la sostanziale immedesimazione con Dio.

Scrive Giovanni della Croce: «Perché ben s'intenda la condizione o stato di principianti, diciamo che l'esercizio proprio di essi è di meditare e fare atti discorsivi con l'immaginazione. In questo stato è necessario che all'anima si ponga materia di meditazione e discorso, e che ella dal canto suo faccia atti interiori e si giovi del gusto sensibile nelle cose di spirito, affinché, nutrendo l'appetito col sapore delle cose spirituali, si distacchi dal sapore di quelle sensuali e abbandoni tutto ciò che sa di mondo. Ma quando l'appetito è un po' nutrito e abituato alle cose dello spirito, con una certa fortezza e costanza, subito Iddio comincia a divezzare, come si dice, l'anima dal latte, ed a porla nello stato di contemplazione. Le maniere inferiori di meditare mercè i sensi, sono necessarie ai principianti per innamorare la loro anima, e nutrirla per via dei sensi. Dette forme servono loro di mezzi remoti per unirsi con Dio, ma quantunque le anime ordinariamente debbano passare per tali mezzi prima di arrivare al termine e alla stanza del riposo spirituale, ciò tuttavia non vuol dire che debbano fermarvisi e dimorarvi sempre, perché altrimenti mai giungerebbero al termine, il quale è ben diverso dai mezzi remoti, e con questi non ha niente a che vedere. Viene il tempo in cui Dio, nella sua bontà, vuol portare innanzi i principianti, elevandoli ad un piú alto grado di amore divino, e liberarli dal basso esercizio del senso e del discorso, dove finora hanno cercato il Signore in modo imperfetto e limitato. Orbene, quando essi, con piú gusto e sapore, godono negli esercizi spirituali, quando piú chiaro risplende, a quanto loro sembra, il sole dei divini favori, allora appunto Iddio ottenebra tutta questa luce e chiude loro la porta e la sorgente delle dolci acque spirituali che gustavano in Dio tutte le volte e per tutto il tempo che volevano: ché invero, essendo ancor deboli e teneri, non v'era porta chiusa per loro. Il Signore quindi li lascia al buio, tanto che non sanno per dove andare, col senso dell'immaginazione e col discorso. Non sanno piú dare un passo nel meditare, come prima solevano, essendo già annegato il senso interno in questa notte. Li lascia in tanta aridità, che non solo non ritraggono succo e piacere dalle cose spirituali e dai devoti esercizi, in cui prima provavano gran diletto, ma invece vi trovano disgusto e amarezza. I principianti restano molto sorpresi della novità della cosa, vedendo che tutto va a rovescio di prima». Ma è Dio che chiude la porta della luce e inaridisce la sorgente delle dolci acque per aprire il varco a quella crisi interiore, che porta all'unione mistica soprasensibile, soprarazionale.

Se la mistica di Giovanni della Croce è la reazione del tradizionale misticismo cristiano all'empirismo della spiritualità gesuitica, nel mondo uscito dalla riforma di Lutero il pietismo rappresenta analogamente la reazione alla mondanizzazione del Sacro, inevitabilmente portata dalla dottrina della giustificazione per fede.

E se la riforma mistica del Carmelo fu reazione ascetica alla mondanizzazione gesuitica, il giansenismo fu l'estrema difesa della libertà agostiniana di fronte all'invadente casistica della Compagnia di Gesù.

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