V FRA LA GIUSTIZIA E LA PIETÀ

Ogni disciplina che miri a governare la spiritualità della vita umana associata, non può sfuggire, per quanto possa sembrare eccentrico l'affermarlo, ad una esigenza che è riposta nello stesso suo programma e che impone la contraddittorietà dei postulati iniziali e l'antiteticità dei concetti preliminari.

A ben considerare però la cosa, non c'è da sorprendersene. Si tratta infatti di guidare l'azione e di presiedere allo sviluppo di esseri, gli uomini, la natura dai quali è in una perenne, faticosa mediazione di contrasti. È fatale pertanto che una tale disciplina non possa aver luogo se non in virtú e sulla linea di concezioni astratte e di norme pratiche che adeguino, accompagnino, traducano e risolvano due conflitti permanenti e rinascenti.

Questi due conflitti sono: il conflitto che è perennemente nell'individuo umano fra la povertà miseranda dei suoi atti naturali e l'altezza degli ideali vagheggiati; il conflitto che nella massa sussiste fra la fosca oscurità del presente e la sognata lucentezza del futuro.

Si potrebbe anzi dire, con una di quelle definizioni paradossali che sono molte volte l'unica possibile presa di possesso del mistero strano e indefinibile quale si cela nel fatto prodigioso della vita associata, che una disciplina spirituale è tanto piú universalmente valida e permanentemente efficace, quanto meglio raccoglie ed esprime nei termini delle sue contraddizioni teoriche e reali, l'opposizione immanente dei valori, che si contendono il dominio della spiritualità umana.

Probabilmente il carattere divino e la vitalità imperitura del messaggio cristiano sono raccomandati soprattutto alla irriducibilità assoluta della contraddizione che esso reca nel proprio grembo. Il cristianesimo, infatti, nella sua essenza costitutiva ed elementare, si presenta come la forma suprema di quella disciplina impalpabile della moralità umana aggregata che è la religione, precisamente perché ha conferito la formulazione piú vasta e perciò stesso meno caduca, al dissidio incomponibile che è nella dialettica della spiritualità in sviluppo.

Da quando l'annuncio cristiano ha risonato nel mondo, la palpitante drammaticità che è nella vita e nelle aspirazioni degli uomini ha rinvenuto la sua formula piú aderente, e, per questo stesso, pedagogicamente piú salutare. Di fronte alla concezione fondamentalmente unitaria che è alla radice di tutte le forme della speculazione pagana (e chiamiamo pagana ogni visione anticristiana della vita, anche se delineatasi dopo di essa), la rivelazione neotestamentaria, attingendo con le sue radici l'alimento dalle migliori tradizioni del messianismo giudaico, ha fissato per sempre il dualismo insuperabile che fermenta nel cuore degli uomini : da una parte il mondo dei valori transeunti, il mondo delle esperienze sensibili, il mondo delle concezioni terrene; dall'altra il mondo delle speranze ideali, il mondo dei valori assoluti, il mondo della beatitudine eterna: il secolo presente e il secolo veniente.

I due estremi non possono essere ricongiunti mediante il processo ideologico di un superamento e di una mediazione razionale, bensí unicamente in virtú della esperienza ineffabile di un avvenuto riscatto e di un'immancabile speranza. Dal giorno nel quale la consapevolezza di questo implacabile dualismo è stata inserita nello spirito di ogni uomo, come nello spirito della società, la vita storica della nostra civiltà è stata tratta nel vortice di una lotta quotidiana con se stessa.

Il cristianesimo è fondamentalmente un annuncio escatologico: l'annuncio del Regno, l'annuncio gioioso di una manifestazione gloriosa ed onnipotente che Dio realizzerà, dischiudendo agli eletti i misteri della sua bontà e della sua giustizia reintegratrice. Se la società cristiana avesse attuato alla lettera il messaggio cristiano, e, straniandosi dal mondo, si fosse isolata nell'inerzia dell'aspettativa, evidentemente in un rapido volger di decenni la civiltà umana si sarebbe esaurita: ma per questo stesso, il cristianesimo avrebbe smarrito la sua ragione di essere, perché, a norma della definizione che il Cristo stesso ne ha dato, è un fermento deposto in una pasta altrimenti soggetta alla putrefazione, è un sale destinato a infondere senso ad una vivanda insipida. Se il messaggio cristiano non è inserito in un mondo di valori transeunti, la propria speranza della giustizia, della verità e della pace manca di quel che è il terreno acconcio alla sua disseminazione: come la luce è fatta per dissipare la zona delle tenebre.

Di qui il còmpito tragico del cristianesimo. Per vivere, esso ha dovuto in certo modo rinnegare la sua natura: ha dovuto lavorare in questo mondo proprio per istillare la aspirazione inquieta del Regno di Dio. Ma immediatamente dopo ha dovuto rinnegare il proprio rinnegamento, perché il giorno in cui avesse permesso, con la sua contaminante condiscendenza, che la visione del «secolo veniente» si dissipasse nell'empirismo del «secolo presente», il cristianesimo avrebbe automaticamente abdicato nelle mani di quel paganesimo che lo segue alle calcagna nella storia, come un'ombra ed un'insidia.

Cosí il cristianesimo ha le ragioni immanenti della sua vitalità nel paradosso del suo messaggio contraddittorio e della sua intrinseca, irrisolvibile antitesi. La rivelazione neotestamentaria, che è nella sua essenza una distribuzione sovvertitrice dei valori morali della vita, si è trasmessa nella storia attenuando le proprie altissime idealità; ma immediatamente dopo rinnegando la propria attenuazione.

La Chiesa cattolica rappresenta nei secoli la risultante perennemente viva di questo contrasto insanabile, in virtú del quale, se ogni progresso del cristianesimo nello spazio e nel tempo sembra fatalmente ottundere la purezza delle sue aspirazioni e l'intransigenza dei suoi presupposti, ogni rischio di impoverimento compromettente è immediatamente neutralizzato da una reviviscenza inquieta e da una riaffermazione netta dei principî da cui esso trae norma e sanzione. E perché la rivelazione cristiana ha espresso e codificato, mediante il ritmo delle sue antitesi permanenti, il contrasto insito nella costituzione primordiale dell'uomo e nella tessitura dell'organismo associato, non sembra che i cardini della sua raffigurazione della vita e i fondamenti della sua pedagogia possano essere, comunque e quando che sia, divelti o sovvertiti.

Il messaggio di Lutero, trasformatosi in una norma di disciplina religiosa per una massa umana, veniva anch'esso ad assidersi ed a costituirsi su un programma pratico intrinsecamente contraddittorio. Esso era scaturito da una peculiare esperienza della salvezza religiosa, fomentata dalla rigida tradizione dell'ascetismo monastico, nutrita da un solitario e condiscendente contatto con le forme quietistiche del misticismo teutonico. La sua genesi e i suoi connotati specifici ne facevano logicamente un'attitudine incomunicabile e per eccellenza refrattaria a ogni trasmissione coesiva. In virtú dei suoi presupposti, e a norma dei suoi orientamenti pratici, avrebbe dovuto esaurirsi in se stesso, inadatto a qualsiasi comunicazione associata. Poggiando su una mostruosa polarizzazione antitetica della morale concreta e della religiosità teorica, annullava in radice la possibilità reale di una qualsiasi disciplina visibile e di ogni realizzazione carismatica. Nato da peculiari circostanze di formazione ambientale e da abnormi esigenze di una coscienza intimamente vulnerata, avrebbe dovuto chiudersi ed esaurirsi nei confini angusti di un dramma personale.

Le condizioni storiche ne fecero un movimento di massa e costrinsero il messaggio della salvezza imputata ad assumere mansioni di disciplina collettiva. Simile còmpito non poteva essere assolto nei postulati luterani se non a prezzo di una sostanziale incoerenza e di una immanente contraddizione. Lo stretto individualismo della interpretazione luterana dell'annuncio evangelico non poteva assurgere alla funzione di programma ideale e pratico di una Chiesa organizzata, senza arrestare a metà le implicazioni dei suoi presupposti e senza rinnegare completamente le postulazioni dei suoi capisaldi.

II luteranesimo si è inscritto cosí nella traiettoria della tradizione cristiana come un paradosso circoscritto e contingente, sul piano di sviluppo di un paradosso sconfinato ed assoluto. Di qui le ragioni della transeunte sua vitalità, connessa alla speciale configurazione spirituale di un grande popolo, nell'ora della sua autonoma espansione e per il ciclo del suo civile successo. Ma di qui anche le ragioni insopprimibili della sua caducità. La limitata e occasionale capacità di imperio e di efficienza dell'antitesi nascosta nella applicazione ecclesiastica del messaggio personale di Lutero era destinata ad esaurirsi col tramontare fatale delle condizioni transitorie, che avevano conferito all'insurrezione di Wittenberg possibilità di espansione. Ma la comparsa del paradosso ecclesiologico luterano nel processo di trasmissione del paradosso umano che è nel Vangelo, in seno alla civiltà mediterranea, non poteva andare spoglia di ripercussioni vaste e profonde, anche se non tutte facilmente calcolabili. Le zone concentriche delle esperienze normative sul terreno della spiritualità associata non sono mai indipendenti l'una dall'altra. L'angusta limitatezza del paradosso che la propaganda e l'organizzazione disciplinare del luteranesimo recavano nel proprio grembo ha reagito funestamente sulla realizzazione quotidiana del paradosso sostanziale ed universale di cui si nutre la tradizione storica del messaggio cristiano.

Ha reagito inoculando nell'organismo della disciplina ortodossa preoccupazioni e forme di proselitismo e di polemica indiziate di acquiescenza mimetica ai metodi e alle concezioni dell'avversaria; ha reagito affievolendo sottilmente e insensibilmente la consapevolezza lucida del contrasto iniziale e radicale dei suoi assiomi costitutivi. Ma soprattutto, sospinta dal bisogno connaturale di risolvere le antinomie superficiali del suo equilibrio provvisorio – solo le antinomie che rispecchiano il conflitto immanente della vita associata con i suoi fini si placano attraverso la loro esasperazione – l'ortodossia doveva fatalmente pencolare verso un rinnegamento, integrale, per quanto larvato, del contatto tipico della predicazione neotestamentaria. Essa per prima l'aveva brutalmente impoverita, trasfigurandola da programma massimo, sempre attuale, di rovesciamento di valori collettivi, in un annuncio individuale di salvezza incomunicabile. Secondo la logica naturale di tutte le evoluzioni spirituali e secondo la normalità dei rapporti e delle interferenze tra le varie forme della vita psichica, il processo dissolvitore, di cui il paradosso luterano aveva gettato il fermento intorno a sé, doveva trovare nella speculazione razionale il mezzo infallibile per il raggiungimento di quella riduzione soggettivistica e di quella celebrazione autarchica, che erano latentemente nelle sue premesse. Lo spiegamento di tale processo di dissoluzione ha impiegato secoli per la piena sua realizzazione. Ma è giunto oggi al suo epilogo. Anche per questo può riuscire conveniente individuarne qui la legge di sviluppo, segnarne le tappe, coglierne la logica infallibile.

La prima fase di sviluppo della predicazione luterana, destinata in virtú delle circostanze storiche in mezzo alle quali iniziava la sua divulgazione a divenire cemento di una Chiesa nazionale, doveva essere logicamente rappresentata dallo sforzo di adattare i presupposti del messaggio bandito dal monaco di Wittenberg ai bisogni della comunità, che pretendeva trarre da essa la norma della sua originale disciplina. Una applicazione brusca ed integrale della peculiarissima forma di esperienza religiosa che Lutero era venuto maturando nel faticoso periodo di incubazione della sua tragedia claustrale avrebbe segnato il disfacimento immediato della moralità associata; avrebbe aperto il varco ad una irreparabile anarchia etica. La personale originalità dell'esperienza del monaco era in una certezza assoluta della salvezza religiosa, al di sopra di una soggiacente consapevolezza della propria peccabilità irreparabile. A rigore, un'esperienza cosí eccezionale non offriva di per sé alcuna possibilità di comunicazione salutare. Perché le ragioni di una trasmissione di un messaggio religioso e le ragioni della sua fruttifera vitalità sono nella sua effettiva capacità di elevare il tenore della dignità dei rapporti fra gli uomini, nella sua volontà di bandire norme e ideali, alla cui stregua il vivere collettivo trovi la piú valida sollecitazione all'innalzamento nel bene. Nel momento in cui, fra le angosce della sua celletta di Erfurt, Martin Lutero andava affannosamente cercando il riparo alla dilacerante trepidazione per la finale rovina, in una padronanza del riscatto che fosse piú forte della fatale ignominia nella colpa, la sua Germania gravitava con moto accelerato verso una trasformazione politica, che implicava in pari tempo la disgregazione dell'unità imperiale e l'insurrezione contro l'universale disciplina del Papato.

Il bando del monaco contro la prassi delle indulgenze, implicante tutta una valutazione interiore del processo della salvezza e degli strumenti della sua realizzazione, giunse in buon punto a solleticare il sonnecchiante istinto della ribellione pubblica al greve dominio di Roma. Ma una massa associata afferra un grido di rivolta molto piú agevolmente di quel che non riesca ad assimilare e a trasformare in un sistema normativa un insieme di presupposti, sgorgati, nel tumulto della polemica, dalla esperienza viva di un'anima, cresciuta fra esigenze abnormi ed aspirazioni eccezionali. Il concetto luterano della giustificazione imputata e quindi della superfluità delle opere, dovette essere sottoposto ad un paziente lavoro di riflessione e di adattamento, perché potesse prestarsi saldamente al ministero pratico di una Chiesa: dovette affrontare una serie laboriosa ed annosa di controversie e di elaborazioni, prima di giungere a nascondere, in una studiata forma di equilibrio, le antinomie sostanziali esistenti fra il problema individualistico, da cui aveva preso lo spunto, e la disciplina concettuale e morale, postulata dal programma storico, che quel concetto era stato chiamato ad attuare. Il primo problema da risolvere fu questo: come inserire la necessità del sacrifizio personale, che è nella pratica del bene, sulla certezza della immediata partecipazione al riscatto mediante la fede? Il problema aveva già stimolato il senno pratico e la chiaroveggente intuizione di Melantone. Ricevette una soluzione elaborata e complessa nella cosí detta Formula di concordia del 1577.

Le prime controversie riformate, apertamente o no, direttamente o indirettamente, ebbero tutte per motivo centrale questa intima necessità di salvare, pure attraverso la visione della giustizia imputata, il dovere della pratica virtuosa.

L'effervescenza provocata dall'insurrezione antiromana del monaco di Wittenberg si ripercosse, con indiscutibile vantaggio, su tutte le espressioni della vita nazionale teutonica. A distanza di secoli, le ferventi polemiche che accompagnarono la primitiva disseminazione del messaggio luterano, possono, anche a giudici non ostili per preconcetto, dar l'impressione di uno scatenamento rumoroso, quasi selvaggio, di passioni inferiori e di interessi volgari.

In realtà, quelle discussioni acri ed ostinate rappresentarono lo sforzo cui la cultura religiosa si sottopose in Germania per adattare al suo còmpito nazionale il Vangelo della giustizia imputata.

Il dissidio latente fra Lutero e Melantone, fra il temperamento dell'uno, passionale e irrequieto, reso aspro e intransigente dalla stessa diuturnità della macerazione monastica, e il temperamento dell'altro, freddo e accorto, tratto alla condiscendenza e all'armonia dalla stessa ampiezza del tirocinio erudito, aveva potuto essere contenuto finché a Wittenberg aveva vigilato il primo banditore della riforma, e si erano imposte alla massa le qualità eccezionali del suo spirito battagliero. Ma scomparso Lutero, Melantone, quasi si fosse affrancato da un incubo, sembrò dover dare libera esplicazione alla sua volontà di pacificazione, cosí a lungo e faticosamente compressa. Lo fiancheggiavano i discepoli fedeli, Giovanni Camerario, Paolo Eber, Gaspare Peucer, Cristoforo Pezel, Giovanni Pfeffinger, Giorgio Major. Si costituirono invece custodi risoluti della interpretazione piú rigida dell'insegnamento luterano alcuni di quelli che piú da presso avevano goduto la familiarità del riformatore, anche se, lui vivente, ne avevano meritato la riprensione ed il freno nella loro coerenza ai postulati della gratuità della salvezza: Agricola, Nicola Amsdorf, Mattia Flacius, Gioacchino Mörlin, Gioacchino Westphal. La Formula di concordia sotto gli auspici di Martino Chemnitz e di Giovanni Brenz, uscí da una sagace contaminazione delle correnti estreme, nella quale poté insinuarsi la preoccupazione tutta melantoniana di attenuare la crudezza dei presupposti riformati sui punti dottrinali, a proposito dei quali l'intransigenza assoluta avrebbe portato automaticamente al dissolvimento di qualsiasi organismo ecclesiastico e all'annullamento in radice di qualsiasi morale associata. Questi punti investivano cioè la dottrina della legge, del libero arbitrio, della predestinazione e del processo assimilativo della salvezza.

Erano i medesimi capisaldi teologici sui quali Lutero stesso aveva dovuto prendere posizione contro gli applicatori troppo conseguenti del suo messaggio: Carlostadio ed Agricola. A sei anni di distanza dalla morte del riformatore il problema della funzione delle opere nella economia della salvezza religiosa era risollevato in pieno da uno fra i piú intelligenti e piú perspicaci discepoli di Melantone, Giorgio Major. La Confessione di Augusta aveva proclamato nel suo articolo sesto che la fede deve generare frutti di bontà e che è necessario compiere le opere comandate da Dio, in ossequio alla volontà di Dio. Nei suoi Loci, Melantone era andato piú in là nella enunciazione del suo pensiero, asseverando che le opere sono indispensabili alla vita eterna, dappoiché debbono necessariamente seguire la riconciliazione. Mercè una sottintesa capziosa trasposizione dell'ordine cronologico in quello della necessità causale, Melantone faceva cosí rientrare nel piano di sviluppo della religiosità associata quella forza meritoria del bene operare, che il messaggio di Lutero aveva teoricamente vulnerato e annullato.

Il protestantesimo luterano si è retto per secoli su questo sofisma pregiudiziale. Era logico che qualche interprete piú ostinato del monaco vittenberghese si facesse a rivendicare il suo insegnamento dalla necessaria contaminazione, quando gli allievi di Melantone si fossero lasciati andare ad una divulgazione degli accomodamenti tattici di questi, non accompagnata da una diplomazia sottile qual era la sua. Specialmente quando qualcuno di essi fosse chiamato a posizioni ecclesiastiche di piú alta e vasta responsabilità. Quando nel 1551 Giorgio Major fu designato alla successione dello Spangenberg nella sopraintendenza ecclesiastica di Eisleben, il vecchio Amsdorf entrò decisamente in lizza contro di lui, accusandolo di aver disconosciuto, piú o meno consapevolmente, il caposaldo dottrinale della riforma, la gratuità cioè assoluta della grazia e della salvezza, indipendentemente da qualsiasi posizione di opere buone. Il Major rispose in tono di cordiale deferenza, chiarendo il proprio pensiero. Egli protestava nettamente di credere, come tutti i riformati, nell'acquisto della giustificazione, mediante la virtú reintegratrice della fede, al di qua di ogni merito personale; ma introduceva una distinzione precisa fra giustificazione e beatitudine eterna, asseverando che la giustizia imputata iniziale non può sopravvivere, se non attraverso l'opera della quotidiana santificazione nel bene, e che quindi non può condurre al finale destino della gloria se non è corroborata, fiancheggiata, valorizzata dall'esercizio operoso della virtú.

In realtà i due contendenti erano divisi da un dissidio spirituale molto piú profondo e sostanziale di quanto non lasciassero trapelare le formule ambigue ed evanescenti della loro polemica. Nicola Amsdorf, compagno di Lutero nelle sue esperienze e nel suo tirocinio monacale, aveva potuto, attraverso le stesse circostanze della sua vita, riprodurre in sé il significato completo del messaggio riformato: che era una instaurazione della fiducia assoluta nella salvezza personale, attraverso la debolezza di una moralità miserevolmente presa in fallo. Giorgio Major, dopo Melantone, avvertiva la difficoltà ed il rischio insiti nel proposito di universalizzare una esperienza individuale della salvezza, non accompagnata da una coscienza precisa dell'immanente collegamento tra il merito del bene operare e le leggi elementari della vita associata. Per Lutero, la fede riscattatrice investe nella sua interezza la figura e la missione terrena del Cristo, se ne appropria la capacità magica di restaurazione, ne assorbe e ne partecipa l'onnipotente virtú sanatrice. Con la fede, il cristiano entra, per Lui, in un mistero prodigioso di palingenesi spirituale, che lo affranca una volta per sempre dal mistero tenebroso della sua congenita iniquità. La soteriologia del Major si approssimava invece sensibilmente a quella della ortodossia tradizionale, in quanto circoscriveva nettamente l'efficienza redentrice nell'espiazione del Golgota, e ammetteva che da questa fosse rampollata sugli uomini una capacità potenziale di rafforzare e consolidare nel bene la giustizia conseguita nell'atto di adesione di fede. L'Amsdorf naturalmente non si diede per vinto. La polemica «majoristica» anzi sembrò dare progressivo stimolo alla sua volontà di enunciazioni chiare, anche se rudemente sconcertanti. È del 1559 un suo scritto, nel quale è proclamato, crudamente, che le buone opere sono irriducibilmente in conflitto con la beatitudine eterna dell'uomo. Naturalmente egli riprendeva il paradosso del riformatore, essere una offesa alla sovrana efficienza della grazia e quindi all'ambito sconfinato della virtú salvifera del Cristo, introdurre comunque, nel processo effettuale della redenzione dei credenti, il contributo della loro azione meritoria. Lutero aveva insegnato che la beatitudine finale è già precontenuta nel perdono delle colpe, che non è, puramente e semplicemente, una negativa cancellazione di reità, bensí una positiva elevazione alla sfera della giustizia soprannaturale.

La possibilità di una ricaduta nel male, per Lutero, sgorga unicamente dall'imperfezione della fede. Il bene è coestensivo della fede perfetta. L'Amsdorf ricalca le orme del suo vecchio confratello. Con Andrea Muscolo, egli viene a riconoscere che la legge può avere un significato nell'economia della spiritualità religiosa prima del riscatto nella fede, ma che, dopo di questo, è completamente inutilizzata. Principio funesto e praticamente irrealizzabile, che la Formula. di concordia cercherà faticosamente di neutralizzare e di attenuare, per quanto esso scaturisse logicamente dai presupposti dell'evangelismo luterano.

Ma la polemica, approfondendosi, non poteva arrestarsi a una discussione puramente esteriore e logicamente limitata del possibile valore dell'esercizio virtuoso nell'acquisto della giustizia e della immortalità beata. Essa doveva automaticamente trasferirsi, per giungere a porre in piena luce i coefficienti e gli sbocchi del rinnovamento cristiano, sul terreno della cristologia e della antropologia, affinché apparisse ben chiaro che cosa rappresentava e che cosa aveva postulato il dramma del riscatto e a quali bisogni dello spirito e a quali tendenze intime rispondeva l'atto della fede redentrice.

Già prima che la controversia majoristica portasse all'enunciazione esplicita tutte quelle che potevano essere le applicazioni etiche e le interferenze del messaggio luterano nello sviluppo della spiritualità associata, il problema della applicabilità della predicazione riformata ad una disciplina e ad una coerente dogmatica ecclesiastica aveva sollecitato la riflessione dei piú intelligenti dei guadagnati al movimento. E pur nelle varie forme in cui questo problema si offriva all'analisi della speculazione mistico-teologica, è possibile riconoscere la preoccupazione costante che lo impone: quella di ridurre l'annuncio della giustizia imputata a norma religiosa di una comunità organizzata.

Se la finalità dell'esperienza religiosa è, tutta, nel raggiungimento di una intima consapevolezza del riscatto dal male che ci contamina, mediante l' assimilazione spirituale della giustizia guadagnataci dal Cristo, l'elaborazione teologica diretta a sviluppare le possibili capacità di propagazione di tale presupposto doveva automaticamente polarizzarsi verso la determinazione della natura e dei caratteri della giustizia che la fede guadagna, verso la definizione meno inadeguata del rapporto fra il Cristo Salvatore e la sostanza divina, verso la valutazione precisa del còmpito assolto dalla libera elezione dell'uomo nella trasfusione del perdono soprannaturale.

Andrea Osiandro aveva precocemente intuìto quale aspetto della dottrina luterana occorresse piú sagacemente e ampiamente vagliare se se ne voleva assicurare la efficienza spirituale. I suoi scritti, giudiziosamente selezionati e illustrati dallo Tschackert, lo rivelano pensatore accorto, ma confuso e oscuro. La dottrina della giustizia passiva gli appare arida e inefficace. Se la giustificazione non è altro, egli osserva, che un nudo riscatto, l'azione salvatrice di Cristo svolge la propria efficacia con un automatismo incontrollabile; né piú né meno che il versamento della somma convenuta, nelle mani di un padrone, per l'affrancamento di uno schiavo. E la fede, fondamentalmente, è cosa inutile e vana. La salvezza può effettuarsi al di fuori di ogni nostra consapevolezza e di ogni nostro intervento? No. La giustizia alla quale siamo chiamati è, a norma della Scrittura, una realtà spirituale ben piú alta e vitale: è l'essenza della bontà. E doveva essere, dalla creazione, il retaggio della creatura ragionevole. Già la legge si presentava come veicolo dell'effusione della giustizia essenziale di Dio, comunicando alla quale soltanto noi siamo in grado di riscuotere il compiacimento suo. Ma il mezzo per la comunicazione adeguata fu l'incarnazione del Verbo, che pose la giustizia essenziale di Dio a portata di mano, per cosí dire, della nostra inquieta avidità del possesso del divino. Naturalmente la comparsa della colpa e la necessità quindi del riscatto ha conferito all'incarnazione l'aspetto di una soddisfazione onerosa. Ma la obbedienza del Cristo trae il suo sconfinato valore dalla divina natura che l'avviva, e la giustizia che essa ci comunica si realizza, non attraverso una forensica oblivione di colpe, bensí mediante una misteriosa trasfusione di poteri e di valori soprannaturali.

La nostra salvezza è segnata il dí in cui Cristo, il giusto, fissa la sua dimora in noi.

Il Chemnitz accuserà Osiandro di pencolare verso la concezione cattolica della salvezza, subordinando la definitiva giustificazione al processo della interiore santità. Ma l'accusa sarà unicamente suggerita dalla preoccupazione che pervade tutta la primitiva controversia luterana, di mantenere la piú rigida intransigenza di fronte ad ogni possibile dichiarazione che ricordi in qualche modo il postulato del merito personale nella realizzazione dell'umano destino, e quindi di rimbalzo la logicità dell'amministrazione ecclesiastica. In realtà Osiandro trae la sua originalità da una esperienza potentemente mistica del messaggio luterano. Alla sua ardente sete del divino, non basta piú una palingenesi spirituale, che consiste essenzialmente nel rivestimento giuridico di una giustizia non assimilata e non vissuta. Egli ha bisogno di cogliere nella profondità della propria coscienza la presenza misteriosa di una realtà trascendente, che comunica i propri eccezionali poteri di bene e colma l'innato desiderio dell'Assoluto.

Qualcosa di Eckehart e di Tauler vi è nella raffigurazione del divino del teologo di Norimberga. Flaccio Illirico mostrerà di avere molto piú acutamente compreso le ragioni dell'indirizzo teologico di Osiandro, quando, ricalcando la mano sulla centrale importanza dell'attualità storica del Cristo e sul valore capitale del riscatto da lui operato, segnalerà nella giustizia conquistata l'esigenza di un reale compimento del bene, che realizzi in noi in pieno il dominio di quella legge trascendente, che è l'espressione dell'assoluta bontà di Dio.

In virtu dei suoi presupposti, la disseminazione del messaggio luterano doveva necessariamente coinvolgere un abbinamento costante del problema dei rapporti fra l'opera umana e il conseguimento della giustizia con quello del vincolo fra il divino e l'umano nella personalità salvatrice del Cristo. Poiché l'azione prodigiosa Sua ci riscatta dalla implacabile congiura e dalla altrimenti inguaribile contaminazione della colpa, ogni enucleazione del mistero intimo della grazia riscattante si accompagna intuitivamente ad una concezione specifica dei poteri straordinari giacenti nell'operazione del Verbo incarnato.

Già ai tempi delle discussioni sulla Cena erano trapelate le divergenze sensibili fra la cristologia di Lutero e quella di Melantone. Il primo riguardava fondamentalmente l'Incarnazione come l'unione della natura del Verbo con la natura umana, comunicantisi a vicenda i rispettivi attributi. Il secondo era invece incline a rilevarne, come aspetto centrale, l'innalzamento della natura umana alla personalità del Verbo, che esso implica. L'insistere che Lutero faceva sulla stretta comunicazione delle proprietà divine e umane nel Cristo (comunicatio idiomatum) – tratto a simile atteggiamento dalla stessa pregiudiziale esigenza della sua soteriologia – rendeva imbarazzante il problema dello sviluppo normale della sua umanità. Sono specialmente i teologi svevi, con a capo il Brenz, che nella nozione della maestà dell'umanità di Cristo hanno conglobato e racchiuso l'insieme degli attributi divini e hanno cercato, pur professando che il Cristo uomo ha partecipato fin dagli inizi alla glorificazione del Figlio di Dio, di sfuggire al pericolo del docetismo e di salvare, con la reale oggettività del sacrificio cruento, lo sviluppo delle qualità umane nel Verbo incarnato.

Ben piú significativa, però, la discussione di indole strettamente antropologica che un discepolo di Melantone, Vittorino Strigel, sollevava affrontando apertamente il problema della responsabilità personale nel compimento della salvezza religiosa. La polemica questa volta non investiva astruse posizioni di alta teologia, come l'innesto del divino sull'umano nella persona del Cristo o il rapporto fra obbedienza attiva e passiva nel Verbo incarnato. Lo Strigel, risollevando il pensiero di Erasmo, che Lutero aveva oppugnato nel De Servo Arbitrio, veniva ad insinuare e a rinnegare il postulato cardinale del messaggio riformato. Qualora la sua rivendicazione avesse raccolto larghi suffragi, l'insurrezione contro Roma avrebbe smarrito la sua giustificazione teorica. Si comprende pertanto come la sua campagna fosse interrotta e come il potere politico intervenisse direttamente per ridurlo al silenzio. Lo Strigel, pur ripudiando esplicitamente ogni forma, comunque larvata, di pelagianesimo, affermava, come Erasmo, che la colpa d'origine aveva potuto affievolire ed ottundere, ma non aveva distrutto nell'uomo la libera capacità della scelta morale. Di modo che, affrancandola dal morbo che ne deprime il raggio d'azione, la si può riconquistare intera. Ma i suoi avversari, Flaccio Illirico al primo posto, nel combatterne le presupposizioni antropologiche, andarono troppo oltre; furono cosí incauti nel formulare le conseguenze estreme che potevano legittimamente ricavarsi dal De Servo Arbitrio, che vennero accusati di manicheismo, e provocarono di rimbalzo una riabilitazione parziale dello Strigel, pagata però con una professione nella quale si ammetteva che la capacità di ben fare dell'uomo è interamente paralizzata dal peccato originale e che quindi l'uomo è radicalmente incapace di apportare qualsiasi parziale contributo alla realizzazione della salvezza. E questo soprattutto importava alla propaganda antiecclesiastica del luteranesimo.

La Formula di concordia si sforzò di ricavare, di sulle polemiche ardenti che avevano accompagnato la disseminazione del Vangelo riformato nel primo suo cinquantennio di vita, le posizioni dottrinali che sembravano piú propizie ad una conciliazione degli spiriti e ad un adattamento reciproco delle tendenze contrastanti, e in pari tempo piú favorevoli pragmatisticamente a un equilibrio medio che consentisse alla Chiesa luterana la sua esistenza associata.

Contro le enunciazioni paradossali di Nicola Amsdorf, costituitosi del resto interprete logico e conseguente di Lutero, la Formula (591, 702) proclama la necessità delle opere buone, perché, prescritte da Dio, esse rappresentano il dovere del cristiano. Ma, contro ogni pericolo di restaurazione della morale disciplinata nell'organizzazione visibile della Chiesa romana, aggiunge subito che tali opere non hanno alcun rapporto causale con l'effettuazione della giustizia intima e della beatitudine finale, e scaturiscono spontanee dalla fede giustificante. Sulla natura della giustizia guadagnata mediante la fede la Formula riesce ad assimilare e a fissare quel che di corroborante potrà raccogliersi nel misticismo di Osiandro. La sofferenza vicaria del Cristo non ci affranca solamente dalle conseguenze nefaste della colpa originale, ma ci trasfonde la santità grata a Dio, come risultato tangibile della nostra comunione con Lui, dappoiché la sua presenza non può rimanere sterile in noi, ma ci trasferisce nella possibilità di compiere quel bene che è l'appannaggio della fede. Le opere buone però non costituiscono in alcuna maniera la nostra giustificazione, che dobbiamo nettamente distinguere dalla rinascita. La giustificazione scaturisce piuttosto dall'obbedienza sacerdotale di Gesù Cristo, il gran sacerdote del genere umano; la rinascita sgorga invece dalla dignità regale sua e dalla infusione dello Spirito Santo (584-585).

Infine, nell'ambito delle concezioni antropologiche, la Formula tradisce sufficientemente quelle che erano le soggiacenti preoccupazioni e le ultime finalità del movimento luterano: la costituzione di un aggregato religioso nazionale, che potesse fare a meno dell'amministrazione carismatica romana.

Ribadisce pertanto quei postulati i quali eliminano ogni addentellato spirituale con la disciplina esteriore dei procedimenti che innalzano alla salvezza, e quelle tesi che sacrificano in definitiva la compartecipazione dell'atto umano alla realizzazione del bene. Ripudia cosí ogni riconoscimento di una superstite capacità ragionevole di cooperare al programma della santificazione, la quale è demandata unicamente all'intervento intimo dello Spirito.

Ma nel medesimo tempo vuole salvare la propria visione della salvezza da ogni connotazione di arbitrarietà e di innaturalità, e designa l'opera divina nel mistero della salvezza come una stupenda e prodigiosa trasformazione dell'opposizione umana al suo stimolo, in una obbedienza attiva (654).

Nonostante le sue lacune, la Formula di concordia ha assolto non indegnamente il còmpito che al tramonto del secolo XVI poteva imporsi ad un documento armonistico di tal genere. «Essa quindi non dové il suo successo esclusivamente ai provvedimenti arbitrari e violenti che la potestà politica adottò per garantirne l'imperio, bensí al suo valore intrinseco e alle esigenze del momento. La tendenza fondamentale della Chiesa luterana a scorgere nel dogma la propria salvezza; il proposito di non scindere la fede dalla scienza : trovarono nella Formula di concordia l'espressione piú nitida e la giustificazione piú suasiva. La Formula, offrendo, cosí, acconcio rincalzo alle disposizioni contemplative e intellettuali dello spirito teutonico, costituí la piú agevole transizione fra il periodo eroico della riforma e la fredda scolastica del secolo XVII».

Come ogni altro movimento religioso, anche la riforma luterana passò automaticamente dalla effervescenza spirituale dei suoi inizi, alle forme stilizzate e riflesse della sua codificazione teologica. La Formula fu una specie di definizione conciliare, che trasse la sua validità normativa dall'insieme delle circostanze ambientali in mezzo a cui vide la luce. Intorno ad essa si esercitò la speculazione laboriosa delle scuole, fino al giorno in cui le nuove esigenze sociali d'Europa indussero fatalmente la predicazione luterana ad acquistare, netta, la consapevolezza delle contraddizioni di cui era intessuta e a cercare di superarle mediante un riassorbimento integrale delle finalità trascendenti, nel mondo dello spirito operante. E fu l'età dell'idealismo.

La stabilità della Chiesa luterana fu esposta per circa un secolo a rischi e a difficoltà mortali. Il periodo specialmente della guerra dei Trent'anni fu per essa particolarmente grave e preoccupante. Si comprende come le ragioni stesse della propria conservazione la stimolassero ad una tattica concreta dura e sospettosa, la quale, normalmente, non permise altro lavoro di esegesi e di interpretazione, che quello consentito dalla apologetica e dalla difesa intransigente. Non mancarono, è vero, manifestazioni religiose e culturali, nell'ambito della sua disciplina associata, in cui gli elementi compositi entrati nell'elaborazione e nel trionfo del messaggio riformato sembrarono cercare ciascuno una saliente espressione della propria eterogenea natura. Ma il pensiero e l'organizzazione ufficiali riuscirono ad immunizzarsi dalle ripercussioni funeste di tale tendenza. Finché le condizioni storiche, profondamente alterate nel secolo XVIII, non imposero alla sintesi provvisoria della riforma burocratizzata il travaglio del nuovo assestamento dei suoi contrasti e il superamento delle sue contraddizioni.

Noi abbiamo visto come in una delle ore piú solenni del suo proselitismo, polemizzando aspramente con Erasmo, Lutero avesse messo allo scoperto, senza addarsene probabilmente, la novità sconcertante del suo vangelo.

Chiamando il divino a mescolarsi intimamente a tuttee forme della vita umana, sol che ci si abbandonasse pregiudizialmente alla fede nella sua virtú restauratrice, Lutero aveva posto alla speculazione posteriore il problema dell'economia che presiede, nella vita religiosa, al mutuo rapporto fra il divino e l'umano. A distanza di quattro secoli noi siamo ancora dinanzi al medesimo problema: ma i termini si sono rovesciati, e la cultura trionfante oggi pencola verso la soluzione antitetica a quella che i primi teorici del messaggio luterano avevano più ardentemente patrocinato.

Trasferendo sul terreno della propedeutica metodologica e della apologetica speculativa l'intransigenza e l'individualità della posizione di Agricola, Daniele Hoffmann si scagliava all'alba del secolo XVII contro ogni indebita ingerenza della ragione nel dominio della sapienza sacra. Risuscitando la vecchia ostilità tertullianea ad ogni applicazione dei metodi dialettici al còmpito della propaganda e della elaborazione religiosa, l'Hoffmann stabilisce un divario incomponibile fra il dominio della speculazione razionale e quello dell'esperienza cristiana. La filosofia ai suoi occhi è una nefanda opera carnale, fonte inesauribile di contaminazioni idolatriche e magiche.

I filosofi sono per definizione esseri non rigenerati, i quali, a proposito di Dio, non sanno insegnare altro che scempiaggini e menzogne. Nessuna creatura ragionevole può di per sé giungere all'idea stessa di Dio, se non è rinata nel mistero della grazia. E il tranello che la filosofia tende alla piena vita della religiosità è tanto piú insidioso, quanto le pretese di questa si accrescono in ragione stessa delle sue presunte scoperte.

Una ostilità cosí recisa a tutte le forme della cultura razionale non avrebbe potuto essere acclimata nel mondo accademico, senza provocare una paralisi esiziale in tutto il movimento del pensiero. Le Università protestanti reagirono. Ma l'Hoffmann aveva avuto il merito di porre nella sua cruda interezza il problema della validità della scienza nel piano di sviluppo coerente delle postulazioni antropologiche e apologetiche del messaggio luterano. E la scienza che egli conculcava si sarebbe presa un giorno nella tradizione riformata una spietata vendetta. Comunque, la campagna del docente di Helmstedt non era stata priva di ogni risultato, se la teologia ufficiale del protestantesimo germanico, acconciandosi anche su questo punto ad un compromesso pieno di significato pragmatistico, fissò per tutto il secolo XVII una distinzione capitale, analoga a quella introdotta dalla scolastica cattolica, fra preamboli della fede e verità rivelate, fra articuli puri, quelli cioè che solamente la Parola infallibile di Dio può rivelare e che quindi sono retaggio esclusivo dell'anima credente, e articuli mixti, quelli cioè che enunciano verità, parzialmente almeno, note alla ragione, ma incapaci di inserirsi nella vita globale dello spirito, senza la sanzione inappellabile dell'insegnamento biblico.

Da questa distinzione, la quale si traduceva logicamente in una esaltazione illimitata del testo scritturale, quale ricettacolo esclusivo delle verità salutari, doveva nascere quella venerazione assorbente del libro per eccellenza che, in contrasto con la stessa primitiva esperienza della palingenesi nel luteranesimo, caratterizza la teoria e la pratica religiosa nella tradizione riformata, prima della A ufklärung.

Bisogna però riconoscere subito che quel fermento mistico, da cui era scaturita la iniziale esperienza di Lutero, non cessò mai, nel periodo del piú arido tirocinio accademico e teologico, di animare le disquisizioni teoriche delle molteplici scuole confessionali. Il Colov stesso, cosí pesante scolastico nei suoi trattati teologici, è tenacemente preoccupato di mostrare una diversità di presenza della sostanza divina nelle creature, proporzionata alla diversità di queste. La Formula di concordia aveva sentenziato che lo Spirito Santo alberga nell'anima fedele non solamente attraverso i suoi doni, bensi anche per se stesso. Il Colov interpreta la sentenza concordata come implicante una vera approximatio peculiaris della sostanza dello Spirito con quella dell'anima, che equivale ad una immanenza intima e ad un'unione sostanziale. Misticismo cotesto audace e pericoloso, che nel momento della trasposizione filosofica doveva dar luogo ad aberranti contaminazioni concettuali, ma che nel primo ciclo della sua effervescenza suscitò esperienze tipiche memorande.

L'azione delle fonti mistiche che avevano cosí potentemente aiutato a foggiare l'esperienza claustrale di Lutero e l'azione di Lutero medesimo, si possono agevolmente riconoscere in Valentino Weigel. Ai suoi occhi l'uomo, naturalmente considerato, è ignoranza e tenebre. Solo la vittoriosa testimonianza dello Spirito è capace di far balzare alla luce la verità misteriosa sepolta negli abissi della nostra anima. Per afferrarla occorre spalancare gli occhi della fede, chiudersi nel raccoglimento mistico del sabato spirituale, onde attingere i tesori carismatici del Cristo glorificato. La soteriologia di Weigel è profondamente difforme da quella di Lutero. Ma egli si accorda col riformatore nel fare della immanenza intuitiva e individualmente adesiva del divino, il fuoco centrale della vita religiosa e nel porre nell'azione trasformatrice del dono gratuito dello Spirito la scaturigine della redenzione.

Ma il vero interprete popolare del misticismo individualistico che era alle radici del vangelo luterano è l'estatico calzolaio di Görlitz, Jacopo Böhme, nato poche settimane prima che si spegnesse l'Omero germanico, Hans Sachs, di cui egli sembrava destinato a prendere il posto. Come già in Eckehart, la speculazione religiosa del Bohme prende le mosse dal mistero dell'origine delle cose, negli abissi della vita intima di Dio uno e trino. E come Eckehart, egli insegna che agli inizi esisteva l'abisso che è il non essere, principio oscuro e tenebroso, in cui si agitano il fuoco della collera e la volontà sacra della procreazione. Questa volontà generatrice si concreta nel Figlio, cuore eterno di Dio, placido luminare, eternamente procedente dal fuoco divoratore, e generante a sua volta, in virtú della sua potenza immanente, lo Spirito Santo. Il mondo sensibile ha avuto una esistenza prefigurata nel mistero della vita divina, dappoiché Dio contempla dall'eternità, nello specchio della sua ineffabile natura, i tipi astratti della creazione. La caduta di Lucifero, inabissatosi nei cerchi ideali della realtà spirituale, ha provocato la creazione nel tempo.

Il peccato è lo sforzo titanico per rovesciare l'ordine supremo dei principi eterni. Lucifero ha sottratto a Dio il suo iniziale istinto di collera, e lo trasforma nel microcosmo: l'uomo. I cicli dell'esistenza trascendentale si riproducono in questo: Lucifero cade continuamente nell'abiezione e nella colpa degli uomini. Nella pienezza dei tempi, l'amore divino volle scendere al soccorso dell'umanità decaduta. Dio amore manifestò se stesso incarnandosi e condividendo, docilmente, tutta l'odissea delle umane prove. Onde estinguere le fiamme della collera che il peccato aveva fatto divampare nel mondo, Cristo accettò di sottoporsi al loro consumante martirio e ne morí. Ma con ciò stesso soggiogava la potenza delle tenebre, affrancando la natura e l'umanità, creando un nuovo paradiso di gioie spirituali, infinitamente superiore a quello in cui Lucifero celebrò la sua prima strepitosa vittoria. Attraverso la fede, che è il piú squisito risultato del pentimento e della elevazione mistica, l'anima si riveste di un corpo celestiale, si unisce strettamente alla volontà. del Creatore, guadagna l'accesso alla sua rinnovata beatitudine.

L'artigiano di Görlitz effondeva ancora nelle sue estatiche contemplazioni l'ardua raffinatezza della sua fiammante esperienza, quando a Helmstedt un teologo di raro equilibrio, Giorgio Calixtus, prevenendo i tempi, cercava di ricavare dalla storia della primitiva Chiesa una raffigurazione del messaggio cristiano atta a salvare «sincretisticamente» il meglio delle varie discipline spirituali che la divisione ormai consumata delle Chiese lasciava constatare, e a favorire un auspicato ripristinamento dell'unità religiosa. Sebbene implacabile contro i polemisti gesuiti, il Calixtus atteggia il suo insegnamento teologico alla piú tollerante larghezza e alla piú intelligente volontà di comprensione.

La guerra dei Trent'anni, con l'esperienza delle inenarrabili iatture che l'accompagnarono, ebbe gran parte nell'attitudine conciliante che il Calixtus spiegò in tutto il suo insegnamento e in tutta la sua produzione di teologo militante. La vasta e diretta conoscenza dell'antichità cristiana, riguardata con squisito ed esercitato senso storico, dava alla sua valutazione delle polemiche teologiche correnti uno speciale tono di equità e di misura. Profondamente consapevole della funzione inerente alla religiosità e alle dottrine sacre nel piano di sviluppo dello spirito umano, il Calixtus fu, per tutta la sua vita operosa, dominato dal proposito di contribuire all'organizzazione e all'incremento delle discipline teologiche. Il suo Apparatus theologicus costituisce una vera enciclopedia per i suoi tempi, mirabile per sagacia ed erudizione. In esso, il Calixtus comincia col delineare i rapporti fra scienza teologica e le altre discipline scientifiche, fra cui la filosofia e la filologia sono quelle, egli pensa, sulle quali il teologo deve fare piú cosciente assegnamento. Suddivide il tirocinio teologico in tre quadri gerarchici, i loci, l'esegesi, e, al livello piú alto, la storia ecclesiastica. La sua concezione dei doveri e della portata della storia religiosa è vasta e complessa. Rifugge dall'aridità cronistica: proclama la necessità di possedere preliminarmente i connotati peculiari di un'epoca, se se ne vogliono comprendere ed apprezzare convenientemente i singoli episodi. Se si tien conto della enorme importanza che le indagini critico-scientifiche hanno assunto nello sviluppo della cultura religiosa durante i secoli a noi piú vicini, è difficile esagerare l'efficienza del Calixtus, a cui si dovette se la storia invase a vele spiegate la teologia accademica tedesca, nel secolo XVII. In complesso egli rivisse, impinguandoli del suo vastissimo sapere positivo, i migliori aspetti dell'esperienza melantoniana.

Ma un'attenuazione salutare del rigidismo scolastico e in pari tempo della dissipazione razionale cui era andata soggiacendo la tradizione luterana dopo la canonizzazione dottrinale delle Formule concertate, non poteva scaturire da uno sforzo puramente accademico ed erudito, per quanto illuminato e lungimirante come quello del Calixtus. Il vero tentativo di premunire attraverso un arricchimento della religiosità pratica il messaggio della salvezza dalle deformazioni e dall'impoverimento insiti in ogni studiata elaborazione dogmatica, fu compiuto dal Pietismo, superba reazione, probabilmente non esente da contraddizione, allo spirito mondano che aveva inquinato il trionfo nazionale del protestantesimo in Germania, sebbene la natura stessa della reazione pietistica, facendo leva sul postulato luterano della salvezza individualisticamente guadagnata mercè la fede, dovesse ripercuotersi sinistramente sulla compagine dell'ecclesiasticismo riformato, ed affrettare la dissoluzione e la laicizzazione della religiosità cristiana tedesca.

È oggi comunemente convenuto che si debba dividere il Pietismo in tre periodi: il primo è rappresentato dall'attività dello Spener fino alla fondazione dell'Università di Halle, il secondo è legato all'azione della nuova Università teologica e si protrae fino al 1740, nel quale anno un epigono del movimento, il Bengel, organizzava per suo conto una scuola omogenea, dando ai principî pietistici un'organizzazione teorica in cui lo spirito iniziale doveva trovare a sua volta l'inaridimento e la paralisi.

Lo Spener cominciava a Francoforte sul Meno, verso il 1666, un'opera di circoscritto e privato proselitismo, raccogliendo intorno a sé conventicole fraterne destinate alla discussione di argomenti religiosi e alla edificazione reciproca. Questi collegia pietatis, rapidamente moltiplicatisi, allarmarono ben presto le autorità costituite. Lo Spener non se ne diede per inteso. Ma, al contrario, volle formulare genericamente le aspirazioni inquiete e la insoddisfazione latente che, automaticamente, inducevano le anime piú prese dall'ideale religioso a ricercare nelle ecclesiolae quel pascolo spirituale che la Ecclesia non riusciva piú ad assicurar loro. E scrisse cosí i suoi Pia desideria e il suo trattato sul sacerdozio spirituale. Furono un programma. Lo Spener vi deplora in termini accorati la decadenza lacrimevole della spiritualità della Chiesa riformata e ne auspica il rifiorire attraverso una piú austera consapevolezza degli oneri imposti da ogni seria vocazione religiosa. Fuori del formalismo e della farisaica dottrina accademica, occorreva ricercare l'approfondimento della giustizia cristiana mediante la trasformazione integrale della propria esistenza e mercè l'assimilazione personale della fede evangelica. Lo Spener additava, quali mezzi concreti per il raggiungimento del vagheggiato ideale, le conversazioni e le missioni amichevoli e familiari, la meditazione della Parola rivelata, le pie letture, la preghiera. Alla vigilia di subire l'estremo attacco dissolvitore dell'Illuminismo razionalistico, che avrebbe dissipato il contenuto strettamente religioso del messaggio luterano nella spiritualità del soggetto umano e della universa realtà, la tradizione riformata si concretava nell'estremo sforzo del raccoglimento e della difesa. Insistendo, cosí, calorosamente sulle opere della personale santificazione e della scambievole edificazione, il pietismo non era eccessivamente fedele alle concezioni antropologiche ed etiche del vangelo luterano.

Ma l'intuizione oscura dell'impossibilità, ormai constatata, di salvare l'etica associata della umanità credente sul fragile presupposto della rinascita nella fede e della giustificazione nell'adesione intima al Cristo, induceva gli spiriti a rafforzare e ad esaltare la pratica della pietà personale, come l'unico baluardo resistente al dilagare della mondanità e della profanità, nel recinto della Chiesa costituita. Il Pietismo credeva istintivamente di potersi rifare della evidente infrazione ai presupposti riformati, rivendicando l'universalità del sacerdozio e la santità di ogni espressione della vita organizzata. Ma con ciò, doppiamente inconseguente, accelerava il processo della mondanizzazione della religiosità, che avrebbe toccato nell'Illuminismo la prima formulazione teorica della sua validità e della sua ragionevolezza.

L'opposizione al Pietismo fu vasta e accalorata, sebbene non rappresentata da personalità che potessero comunque competere, per serietà e preparazione spirituale, con i seguaci entusiasti dello Spener. E in molte zone della Germania luterana fu vittoriosa. I pietisti trovarono asilo e protezione negli Stati dell'elettore di Brandeburgo. Lo Spener raggiunse un'elevata dignità nella chiesa di San Nicola a Berlino. Il Francke, il Breithaupt, l'Anton furono chiamati alla nuova Università di Halle, divenuta in breve volger di tempo la Wittenberg del nuovo messaggio.

Ma gli oppositori non si diedero per vinti. Ernesto Loscher contribuí però efficacemente ad innalzare il tono della polemica, pur non rifuggendo, per quell'inclinazione alla malignità che sembra sempre insidiare i dibattiti religiosi, dal ripetere le accuse correnti contro gli avversari.

Il Pietismo in realtà non era altro che la espressione esasperata del dissidio, acuto ed implacabile, che la Chiesa evangelica portava nel proprio grembo, fra l'extraeticità del suo dogma soteriologico e le esigenze concrete della sua organizzazione disciplinata. Esso proclamava di non voler intaccare o depauperare in alcun modo la costruzione dell'edificio teologico. Ma di fatto il bisogno irrefrenabile di rivalorizzare tutte quelle forme esteriori della pietà che l'insurrezione antiromana di Lutero aveva logicamente deprezzato e infirmato, lo induceva ad alterare sostanzialmente le norme concrete e la prassi quotidiana della religiosità riformata. Il Pietismo esige che la conversione del cuore traducendosi nell'azione pia di ogni giorno, nello sforzo assiduo in vista della perfezione morale, nello spiegamento della beneficenza e del proselitismo, sia alla base di ogni tirocinio spirituale. La suggestione potente della nuova vita morale deve strappare i laici dal loro neghittoso letargo, per abbattere la barriera che divide le loro file dai membri del pastorato.

Una distinzione puramente esteriore e formale deve sopravvivere fra gli uni e gli altri: quella di fratelli che insegnano, ammoniscono e confortano, e di fratelli che accolgono l'istruzione, onde concorrere efficacemente anch'essi alla instaurazione del Regno di Dio. In ogni adunanza di credenti ciascuno ha l'onere di assolvere opera di edificazione e di elevazione religiosa. Lo Spener cosí, implicitamente ed esplicitamente, fa del pentimento cosciente e dell'aspirazione spirituale alla santità, la condizione preliminare indispensabile della partecipazione alla grazia.

L'uomo, secondo lo Spener, non è stato riscattato e non è rinnovellato da Dio per usufruire passivamente di un possesso divino, sterile e inoperoso, bensi per essere costituito suo cooperatore solerte ed accorto nello spiegamento del bene. Non difformemente da quell'ascetismo che Lutero aveva cosí atrocemente bistrattato, il Pietismo fa consistere il programma della santificazione personale nella rinunzia rigida ai fatui diletti del mondo e nell'attività concreta dello spirito missionario. E come tutti i grandi movimenti ascetici, il Pietismo si colora di fervide aspettative escatologiche.

Ma proprio nel medesimo lasso di tempo in cui Spener, da Francoforte a Dresda e da Dresda a Berlino, consacrava le multiformi capacità del suo spirito e il sottile fascino della sua propaganda ad acclimare di nuovo nel recinto della Chiesa riformata i principî etici che Lutero sotto il pungolo della tendenze antiromane della Germania, aveva sovvertito, la filosofia, che è anch'essa al suo momento uno strumento efficace di disciplina normativa, per quanto posta temporaneamente a servizio di un processo disgregativo che è avviamento a sintesi piú vaste e piú alte, riprendeva a suo modo i principî antropologici del messaggio protestante, per condurli a propria volta alla loro massima efficienza e alla loro completa celebrazione.

Il grande Leibniz, il solitario bibliotecario di Hannover, è stato di fatto, piú che nelle intenzioni, il primo traduttore del dogma luterano in termini di speculazione razionale, e il primo suo rielaboratore alla luce di una visione naturale dell'universo e dell'uomo. La frammentarietà della sua produzione, la discontinuità dei suoi propositi, e la eterogeneità dei suoi sforzi culturali e religiosi, dimostrano potentemente come fosse complesso e faticoso il còmpito che il destino gli aveva affidato: quello cioè di ricavare dalla tradizione del luteranesimo, senza pure averne l'aria e senza probabilmente possederne la piú pallida consapevolezza, una raffigurazione del mondo naturale ed umano che rappresentasse una mediazione acconcia ed agevole verso la integrale enucleazione di quell'individualismo e di quel soggettivismo, che il movimento della riforma portava in seno. Non ci voleva da meno dell'intelligenza prodigiosa e meravigliosamente agguerrita del creatore della Monadologia per trarre di su la bisecolare esperienza della giustizia imputata e della salvezza acquisita una concezione razionale dell'individualità spirituale, e in pari tempo per riversare in una compiuta visione cosmica l'ottimismo quietistico di cui la soteriologia luterana, all'apparenza cosí fosca, si era in radice nutrita. Tre sono i principî basilari su cui Leibniz colloca la sua concezione del reale: la dottrina delle monadi, il principio dell'armonia prestabilita, la legge della continuità. Non diversamente da Spinoza, Leibniz pone il punto di partenza dell'indagine metafisica nel concetto di sostanza. Ma mentre Spinoza definisce la sostanza come una esistenza indipendente, Leibniz ne pone il tratto differenziale nell'essere un centro autonomo di azione.

Era lo stesso che riconoscerne la molteplice individualità. Ogni monade è un mondo minuscolo, lanciato in un mondo di monadi, che un divino piano provvidenziale disciplina e commisura allo scambievole adattamento e alla reciproca comprensione.

Se Leibniz supera cosí il dualismo di Pietro Bayle e di Descartes come il panteismo di Spinoza, è probabilmente in virtú dell'educazione riformata, che gli ha trasfuso una sensazione vivissima dell'inviolabile autonomia di ogni individualità cosciente, chiamata a celebrare in sé il mistero dell'intima comunicazione col divino. Jacopo Böhme prima di lui si era raffigurato l'uomo come un mondo in miniatura. E, ancora prima, Lutero aveva posto nei confini di ogni singola realtà spirituale le possibilità sconfinate della trasfigurazione nel divino, mercè l'adesione e l'inserzione nel piano recondito di un'armonia trascendentale.

Del resto, che nella filosofia leibniziana si celasse qualcosa di caratteristicamente congeniale allo spirito teutonico foggiato dalla tradizione luterana, appare dal fatto, oggi per noi sorprendente, che potesse raggiungere nel mondo universitario, a mezzo il secolo XVIII, un successo tanto vasto e profondo il pensiero restauratore di un Cristiano Wolff, nelle cui elucubrazioni il dinamismo vivente del maestro si era andato appiattendo in un fatalismo deista, cosí angusto e cosí arido.

L'Illuminismo e l'Idealismo erano alle porte.

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