III «SOLI DEO GLORIA»

Alle origini della spiritualità moderna si è verificato uno dei piú paradossali fatti che la storia del cristianesimo ricordi.

La vecchia unità medioevale, creata dallo spirito del Vangelo sopra la duplice categoria sociale della Chiesa e dell'Impero, si era venuta lentamente sfaldando. Quel magistero ecclesiastico, cui per secoli avevano soggiaciuto indiscriminatamente le genti europee, si era irrigidito nella sua disciplina universale, proprio nel momento in cui la Chiesa aveva perduto quel fascino ecumenico che traeva forza e giustificazione da una comune fede in un insieme di valori trascendenti, la cui realtà imponeva, automaticamente, alla vita collettiva, centri di inibizione imperiosi e limitazioni morali indiscusse e irrefragabili.

Il senso di disagio, di inquietudine e di insurrezione che si era venuto condensando per entro alla grande famiglia dei credenti, sotto l'azione del progressivo mondanizzarsi della gerarchia e del crescente proposito di autonomia dei poteri politici, come era sboccato in Germania nella riforma di Lutero, cosí doveva sboccare nei paesi di lingua francese in quella di Calvino, e nei paesi di lingua inglese in una contaminazione di cattolicismo e di calvinismo.

Ma quale abissale differenza fra i vari corifei della sollevazione antiromana del secolo decimosesto!

Se un fondamento comune è dato ai movimenti riformatori dal presupposto della giustificazione per fede, che non è altro in fondo che la posizione suggerita dal bisogno di infrangere l'amministrazione dei carismi, tenuta da Roma nelle sue mani, su questo fondamento comune vengono ad innalzarsi costruzioni religiose, ciascuna delle quali tradisce i caratteri peculiari del rispettivo architetto.

Lutero è il teutone iracondo, violento, accigliato, ignaro di qualsiasi freno e di qualsiasi autodominio nella esplosione della sua cupa e torbida insofferenza di disciplina e di moderazione.

Calvino è lo spirito misurato e riflessivo, che non indietreggia neppur lui, nelle ore capitali, dalle decisioni brusche e dalle funzioni intransigenti. Ma un afflato di umanistica duttilità accompagna tutte le formulazioni religiose del teologo ginevrino.

Le due riforme, quella di lingua tedesca e quella di lingua francese, tradiscono, inconfondibili, i connotati dei rispettivi paesi.

Analoga è la piattaforma su cui si muovono i due riformatori. È innegabile che la riforma del secolo decimosesto manifesta il doppio carattere di rivoluzione sociale e di rivoluzione religiosa.

Se in Germania la riforma viene ad innestarsi sull'immenso rivolgimento rurale, ché in Germania il ribelle è il contadino, sono i príncipi secessionisti dell'Impero che hanno fatto trionfare Lutero, in Francia sono gli operai tessitori e cardatori di Meaux e delle zone circonvicine che hanno dato il primo abbrivo alla insurrezione riformata. Se la riforma avesse poggiato le sue assise unicamente sulla classe colta, Lutero non avrebbe adoperato contro gli umanisti le frasi indignate di cui traboccano i suoi scritti, e in Francia si sarebbe continuato, come aveva cominciato a fare Lefèvre d'Ètaples, a pubblicare grossi trattati in lingua latina. Invece, quali sono qui i primi indizi della insurrezione riformatrice? Fin dal 1525 si rimprovera al vescovo di Meaux, Briçonnet, di aver fatto distribuire nella diocesi libri in francese volgare. Fra questi libri compare al primo posto la traduzione della Bibbia, la quale serve anzi per creare come designazione dei primi eretici un nomignolo d'occasione: «bibliani». È certo che mentre la Germania di Lutero è pervasa da quello spirito di sollevazione contadinesca che sfocerà nelle grandi repressioni, cui, con scarsa coerenza, il monaco ribelle non manca di prestare man forte, in Francia è la condizione della classe operaia che dà alla propaganda riformatrice fulminea possibilità di diffondersi. La scoperta delle miniere d'oro e d'argento, aumentando considerevolmente il contingente di metalli preziosi esistenti in Europa, aveva determinato un rialzo nei prezzi delle derrate di prima necessità. I salari dei lavoratori non si erano innalzati in una proporzione conveniente. D'altro canto il regime corporativo che era stato, in una certa misura, nel XIII secolo, una protezione efficace per i deboli, tendeva sempre piú a trasformarsi in una oligarchia opprimente. La direzione delle grandi industrie diventava il viatico di una casta ricca ed ereditaria. Per un semplice operaio sprovvisto di capitali, era letteralmente impossibile pervenire al possesso di una qualsiasi azienda. La lotta fra sindacati padronali e sindacati operai sfociava molto di frequente in scioperi, come quello che desolò l'industria tipografica lionese e parigina dal 1539 al 1542 e che si chiuse in pratica solamente nel 1571.

Noi vediamo già qui come, se il substrato economico esiste ugualmente per il movimento riformatore cosí in Germania come in Francia, questo elemento economico assume caratteri peculiari nell'un paese e nell'altro.

In Germania la propaganda di Lutero trova ripercussioni piú vaste nel ceto agricolo: in Francia ne trova piuttosto nel ceto operaio e industriale. Possiamo dire che di rimbalzo l'atteggiamento dei due riformatori di fronte alla cultura, che è, nella loro temperie storica, cultura umanistica, è profondamente diverso.

Già in linea generale si può dire che l'umanesimo germanico non aveva potuto essere equiparato ai movimenti affini degli altri paesi colti d'Europa. Infatti, non era stata tanto una improvvisa esplosione di fervore artistico, capace di travolgere e di rinnovare tutte le forme tradizionali del pensiero e dell'attività estetica, quanto una volontà prepotente di superare i metodi antiquati della istruzione pubblica e di portare nei confini della vita morale il soffio nuovo di una vera e propria palingenesi.

Una delle figure piú eminenti dell'umanesimo alemanno era stato Giovanni Reuchlin. Nato nel 1455 a Pforzheim, il Reuchlin aveva avuto agio di formarsi una delle piú vaste culture filologiche e letterarie del tempo, avvicinando e utilizzando i piú progrediti centri universitari, da Parigi a Tubinga. Nel 1482, venuto per la prima volta a Roma, posto dinanzi a un testo di Tucidide e invitato a volgerlo prontamente in latino in casa di Giovanni Argiropulo, aveva assolto cosí brillantemente il còmpito, che la sua perizia riempiva di stupore l'ospite, il quale esclamava: Ecce, Graecia. nostro exilio transvolavit Alpes!

Ma Reuchlin è anche un valente ebraicista: la sua perizia, anzi, nella lingua dei libri sacri del Vecchio Testamento fu la causa delle sue disavventure. Una conoscenza cosí personale di una letteratura religiosa tanto poco nota al gran pubblico, aveva sospinto inconsapevolmente il Reuchlin ad una visione mistico-teosofica della tradizione rivelata, che egli espose in una serie di dialoghi (interlocutori Sidonio, Baruch e, sotto il nome di Capnione, Reuchlin stesso), cui diede il titolo De Verbo mirifico. L'idea centrale di questo libro erudito e paradossale era nel motto: «Dio è amore e l'uomo è speranza. Il vincolo fra l'amore e la speranza è la fede. Dio e l'uomo possono cosí intimamente stringersi in un vincolo di ineffabile unione, che il Dio umano e l'uomo divino siano considerati come un solo essere». Ma probabilmente le idee ardue e raffinate di Reuchlin non avrebbero raggiunto una larga pubblicità, se una velenosa polemica non avesse richiamato su di esse una diffusa e ostile attenzione.

Un israelita convertito, Giovanni Pfefferkorn, probabilmente stimolato dai domenicani di Colonia, animato dal fervore proselitistico della sua anima di neofita, concepiva, nel primo decennio del secolo decimosesto, il programma della conversione in massa dei suoi vecchi correligionari, mediante la confisca dei loro libri sacri, a prescindere, s'intende, dal Vecchio Testamento. Fra il 1507 e il 1509 egli stendeva quattro scritti polemici (Ju denspiegerl, Judenbeichte, Osternbuch, Judenfeid) sostenendo che agli israeliti dovesse essere vietato l'esercizio dell'usura, dovesse essere imposta l'assistenza alle prediche cattoliche, dovessero infine, appunto, essere tolti i libri ufficiali della loro specifica tradizione religiosa. Un ambiguo mandato imperiale sembrò autorizzato a tradurre in pratica quest'ultimo punto del suo complicato piano. Giovanni Reuchlin fu anche egli richiesto di un parere: «Non sarebbe stato profittevole alla religione cattolica distruggere i libri che sono usati dagli israeliti, eccezione fatta per il libro di Mosè, per i Profeti, e per il Salterio?».

Reuchlin terminava la sua risposta nel novembre del 1510. Era chiaroveggente e temperata. I libri ebraici venivano in essa ripartiti in molteplici categorie e su ciascuna l'interpellato formulava il suo parere. Della distruzione dei libri del Vecchio Testamento non era naturalmente il caso di parlare. Il Talmud, osservava il Reuchlin, è una raccolta di delucidazioni e commenti alle legge di Mosè, compilata in varie epoche e in varie circostanze. Nessuno si poteva attentare di giudicarla in blocco, prima di averla coscienziosamente esplorata in tutte le sue parti. Il Reuchlin confessava di averne potuto consultare solamente alcune parti, nelle quali, se non mancavano dichiarazioni ed asserzioni in conflitto col patrimonio dogmatico del cristianesimo, figuravano pure istruzioni morali di una spiccata elevatezza, che sarebbe stato quanto mai imprudente e crudele distruggere. La C abbala meritava anch'essa di essere gelosamente conservata. I commenti biblici e tutta la produzione liturgica degli ebrei dovevano essere conservati, sia per l'utilità che offrivano agli studiosi cristiani, sia in virtú dei privilegi che ne avevano sempre tutelato la preservazione. I libri scientifici potevano essere impunemente, dovevano anzi essere distrutti, nelle parti in cui sembravano autorizzare arti proibite, come la magìa. Infine, opere di poesia e polemica, piú apertamente eversive del nome cristiano, dovevano essere sagacemente valutate, prima di essere dannate alla distruzione. A mo' di riepilogo, il Reuchlin prospettava la maggiore proficuità di una vasta opera di chiarificazione e di educazione, che illustrasse i punti di dissenso fra la vecchia economia religiosa e la nuova.

Il parere isolato del dotto umanista suscitò cosí fiera reazione; il suo misurato giudizio parve al furore teologico dei suoi avversari cosí scandalosamente eterodosso, che Reuchlin credette opportuno, a usbergo della sua competenza e della sua buona fede, pubblicare una raccolta di quarantatré lettere di uomini eminenti nella conoscenza delle discipline sacre, i quali tutti, a cominciare da Erasmo, «il piú dotto uomo dell'epoca», si erano pronunciati in favore delle sue idee e della sua linea di condotta.

La pubblicazione offrí lo spunto ad una raccolta parallela, nella quale certi «obscuri viri» personificanti l'ignoranza petulante e la saccenteria vuota della Curia e dei suoi difensori, venivano esponendo le loro insipide idee in una congerie di sciocchi problemi di casistica claustrale, parodiando la scienza teologale e scolastica del tempo. La paternità di queste lettere famose e famigerate non può essere con sicurezza assegnata. Probabilmente la raccolta uscí dalla cooperazione di parecchi umanisti. Il circolo di Erfurt, ad ogni modo, ebbe, nel prepararla, la parte preponderante, sotto lo stimolo e con la partecipazione di Ulrico von Hutten, che è stato designato come il preannuncio dell'uragano riformatore.

Nato da una di quelle vecchie famiglie della turbolenta, altera e indomita nobiltà franconica, che occupa un posto cosí appariscente nella storia pubblica della Germania al cadere del Medioevo, Ulrico era stato dedicato, nelle intenzioni paterne, alla vita ecclesiastica, a causa delle sue gracili e cagionevoli condizioni di salute. Educato nel convento di Fulda, ma ribelle alla ostinata volontà paterna, Ulrico, abbandonato a se stesso, ramingò di Università in Università, attraverso peripezie rocambolesche, che dànno alla esistenza randagia dell'eterno studente l'andatura del piú movimentato romanzo. Provvisoriamente riconciliato con la famiglia, il von Hutten poteva intraprendere un lungo viaggio di istruzione in Italia, le cui impressioni dovevano fermentare a lungo nella sua anima inquieta. Umanista e poeta, Ulrico von Hutten è anche probabilmente soprattutto uomo di parte e polemista politico. Nazionalista fervido e intransigente, ritiene che il Papato costituisca un ostacolo e un impaccio insormontabile alla libera espansione della vitalità della sua Germania diletta. Libellista infaticato e aspro, rivolge ininterrottamente i suoi strali contro il Papato, in vista di una instaurazione imperiale germanica, di cui non riesce mai però a disegnare nettamente i contorni e a tracciare il programma. Dalla Epistola ad Maximilianum Caesarem, al Valiscus, agli Inspicientes, gli scritti di Ulrico von Hutten tradiscono tutti una predominante passione politica, che lo spinge alla battaglia quotidiana contro ciò che al suo vecchio sangue di nobile cresciuto all'ombra dell'edificio imperiale dà la sensazione vaga di impedire la piena risurrezione della grandezza alemanna. Apparirà alleato di Lutero quando la ribellione di questi assumerà atteggiamenti nazionali carichi di risonanze nell'ambito della vita culturale e politica della Germania di Carlo V. Ma la sua anima rimarrà inesorabilmente chiusa al miraggio religioso del riformatore, di cui non riescirà mai a comprendere le preoccupazioni mistiche e l'ardore teologico.

In realtà tutta la grande corrente dell'umanesimo teutonico, pur costituendo l'atmosfera culturale nella quale è vissuta e si è mossa la giovinezza accademica di Lutero, non ha esercitato un'azione profonda e realmente formatrice sull'anima sua.

Ben diversa la situazione nei paesi di lingua francese, nei paesi fiamminghi, nella stessa Svizzera di lingua tedesca. Non è cosa priva di significato, ad esempio, che a Ginevra la medesima assemblea, quella del 21 maggio 1536, che decide l'adesione della città alla riforma, decida anche la riorganizzazione completa del regime scolastico A Strasburgo, non appena il nuovo partito, il riformatore, prende possesso della città, immediatamente inaugura corsi di lingua greca e di lingua ebraica, di matematica e di grammatica, e in pari tempo corsi di esegesi e di teologia. Quando Francesco I designa i primi rettori e professori regali, sceglie con cura, sulle indicazioni dell'umanista Budé, i capi stessi dell'umanesimo francese, che sono tutti, si direbbe, quasi d'istinto, tratti piú o meno apertamente verso le idee della riforma e tutti, il Vatable come il Toussaint e il Danés, assistono a quelle prediche del Louvre, in cui Gérard Roussel, sotto la protezione di Margherita di Navarra, insegnava, senza eufemismi, la dottrina della salvezza in virtú della fede.

Se nell'anno 1533 tali lettori sono deferiti al Parlamento dall'Università, sotto l'imputazione di correggere la versione biblica corrente attraverso varianti venute d'oltre Reno e quindi straordinariamente sospette di essere o di ispirazione ebraica o di ispirazione luterana, il patrocinatore dei lettori risponde non senza malizia con un dilemma tagliente: «O i teologi sanno il greco e l'ebraico o ignorano queste lingue. Se le conoscono, via, vadano ad assistere senz'altro ai corsi, come fanno tutti gli altri; e se poi qualche eresia sfugge dalle labbra del professore, che ne stendano denuncia e facciano sottoporre il colpevole a giudizio. Ma se ignorano queste lingue, di che cosa mai si lamentano?».

Sebbene l'ufficialità universitaria si mostrasse cosí straordinariamente sensibile al sentore delle nuove idee, in realtà sono proprio le Facoltà universitarie che tradiscono infiltrazioni innovatrici. A Parigi è precisamente la Facoltà delle Arti, di cui faceva parte Lefèvre d'Étaples, la meno refrattaria allo spirito novello. Consultata nel 1530 dal Parlamento, chiede a gran voce una riforma dell'insegnamento, specialmente dell'insegnamento piú vicino, quello della teologia. È in uno dei collegi di questa Facoltà delle Arti che insegnava Mathurin Cordier, il modesto ma sagace ed agile riformatore degli studi di grammatica. Nel 1530 egli pubblicava il suo libro sulla Cor rection du langage, e cinque anni dopo noi lo troviamo in una lista di sospetti per causa d'eresia, quando già si presenta il giorno in cui egli andrà ad accumulare la duplice funzione di umanista e di evangelista a Bordeaux prima, a Ginevra poi, infine a Neuchâtel.

Le Università di provincia sono ancora piú aperte al soffio delle nuove idee. Orléans ha professori che nel medesimo tempo insegnano la lingua ebraica e spiegano Lutero. Tali quel Melchiorre Wolmar, che conta fra i suoi allievi Olivetano, Calvino, Du Chemin, Daniel, Beza. A Bourges noi siamo nei domini di Margherita di Navarra il cui Miroir de l'âme pécheresse è effettivamente il simbolo preciso di questa età fuggevole di transizione, nella quale gli uomini nuovi, piovuti da tutti gli angoli dell'orizzonte, si sentono piú fortemente uniti in quel che li affratella, anziché sentirsi colpiti da quel che li divide. Colà c'è tutto un piccolo mondo di letterati e di seguaci di una nuova temperie religiosa, di cui essa, Margherita, difende la incolumità contro le insidie di malevoli e di ignoranti. L'umanesimo fa la sua comparsa a Bourges negli studi giuridici con Alciato, fra i cui allievi possiamo annoverare Giacomo Canaye e Bartolomeo Aneau.

Una prova tipica degli stretti legami che affratellano su tutto il territorio francese umanesimo e riforma, noi la possiamo trovare pure nella straordinaria popolarità delle idee nuove, nel mondo delle professioni collegate con la stampa. Né Margherita di Navarra né il vescovo di Meaux, Briçonnet, avrebbero potuto disseminare intorno a sé i germi delle nuove dottrine, senza la sagace devozione di Simone Dubois, di Enrico I Estienne, di Simone di Colines.

Nella capitale dell'arte tipografica francese, Lione, quasi tutti gli stampatori sono piú o meno favorevoli all'eresia e in pari tempo alla rinascita delle lettere. Pietro de Vingle è espulso di là nel 1531 per avere stampato un Nuovo Testamento francese. Sebastiano Gryphe ha per correttori ed amici Dolet, Rabelais, Aneau. Giovanni di Tournes è un partigiano dichiarato della fede nuova. A Parigi gli stampatori e i librai sono continuamente disturbati dalla Sorbona e dal Parlamento, per aver pubblicato e venduto opere proscritte. Sicché noi possiamo ben dire che già parecchio tempo prima della comparsa della Institutio Christiana di Calvino, tutta l'atmosfera culturale francese è, fra il 1520 e il 1525, pervasa e percorsa da uno spirito che è ugualmente rinnovatore nel mondo della cultura profana come in quello della cultura religiosa.

Non è il caso di cercar qui un corpo di dottrine teologali che possa far pensare senz'altro alla teologia del monaco insorto di Wittenberg o alla esegesi neotestamentaria del riformatore ginevrino. Le idee che noi troviamo serpeggiare nella Francia di Margherita di Navarra e di Francesco I sono elementari e semplicistiche. «Se qualcuno» dicono ad esempio le Lettere e Vangeli ad uso della dioc esi di Meaux, colpiti da censura dalla Facoltà parigina il 6 novembre 1525, «vi predica e annuncia altra cosa che la parola di Dio e di Gesù Cristo, costui non è un fedele dispensatore, distributore, annunciatore dei segreti di Dio, ma è un infedele e un ingannatore. Per cui non dovete ascoltarlo, non gli dovete credere, non dovete prestar fede alle sue parole, poiché si tratta di un vero seduttore. Di cotali individui il mondo è stato ed è tuttora pieno, e lo sarà fino a che i segreti di Dio, vale a dire Gesù Cristo e la sua parola, non siano totalmente predicati, ricevuti dal mondo, ospitati nel cuore di tutti i fedeli». Il che implica il riconoscimento del Vangelo, sola regola di dottrina e di vita; ripudio di tutti i dogmi che la Chiesa ha sovrapposto alla pura parola di Dio, ripudio di tutti i precetti di cui la Scrittura non ha strettamente imposto l'osservanza. E la pura parola di Dio, il solo precetto del Vangelo, secondo tale nuova predicazione, precetto che abolisce tutta la legge e tutte le regole, è unicamente questo: non si è salvati che per la fede nel Cristo e la fede non ci può venire che dalla grazia. Siamo in piena temperie riformata.

Si comprende come in un ambiente di questo genere la formazione di Calvino non offra il destro di cogliere un momento preciso nel quale collocare quella che si dovrebbe chiamare ed è chiamata la sua conversione. È una formazione lenta la sua che risente adagio adagio dell'ambiente circostante e della maturazione si direbbe quasi automatica del mondo culturale e religioso di cui egli avverte istintivamente gli influssi. Saranno le circostanze storiche che permetteranno anche a Calvino, come avevano permesso a Lutero, di trovare la sua strada, lontano dalla sua città natale, a Ginevra. Nato a Noyon che, proprio agli inizi del secolo decimosesto, si meritava l'appellativo di santa, il 10 luglio del 1509, da Gerardo Cauvin, notaio apostolico e procuratore fiscale, notaio del vescovo e del Capitolo, e uomo di fiducia di tutto il clero, Giovanni iniziava i suoi studi nel collegio delle Capettes. Adolescente ancora, riceveva i primi benefizi ecclesiastici, senza altro obbligo che quello di ricevere la tonsura e versare un contributo sufficiente a che un prete incaricato potesse celebrare mensilmente il numero di messe necessario. Evidentemente la sua vocazione doveva essere quella sacerdotale. Nel 1523 si trasferiva a Parigi, al collegio de la Marche e di Montaigu.

Era l'anno stesso in cui Lefèvre d'Étaples pubblicava il Vangelo e i Salmi in lingua francese e in cui la Facoltà teologica parigina condannava venticinque proposizioni del suo Commentario a San Paolo.

Proprio nel giugno di quell'anno il d'Étaples, rivolgendosi «a tutti i cristiani e a tutte le cristiane», raccomandava «di abbandonare qualsiasi altra folle fiducia nelle creature, qualsiasi altra tradizione umana, tutte incapaci di salvare, per seguire soltanto la parola di Dio, che è spirito e vita».

L'anno successivo, premuto dal Farel, il d'Étaples non esitava ad approvare pubblicamente alcune tesi sulla grazia, patrocinate a Breslavia dall'Hesse.

Dopo la battaglia di Pavia e nel periodo della prigionia di Francesco I in Spagna, il Parlamento parigino decideva l'abbruciamento delle opere del d'Étaples, il quale se ne fuggiva a Strasburgo.

Di tutto ciò gli echi dovevano arrivare al giovane Calvino, il quale da Parigi si trasferiva frattanto ad Orléans, dove, piú che mai, le influenze riformatrici si facevano sentire su di lui. Ad Orléans dovette rapidamente acquistare rinomanza e ascendente sui compagni di studio. Un documento del febbraio 1532 lo dichiarava licenziato in legge. Nel medesimo torno di tempo egli dava l'ultima mano a quel commento al De clementia di Seneca di cui nulla si potrebbe desiderare di piú significativo per la individuazione delle interferenze fra la formazione umanistico-classica del futuro riformatore e il tipo particolare di esperienza religiosa riformata che egli cercherà di inculcare e di codificare, quando avrà a sua disposizione quel magnifico terreno di esperimento religioso collettivo che fu la libera città di Ginevra.

Qualcosa di simile, per ciò che riguarda la formazione spirituale umanistica e riformata, era accaduto al terzo grande riformatore del secolo decimosesto, Zwingli.

Il movimento guidato da Ulrico Zwingli in Svizzera si iniziava quasi contemporaneamente a quello di Lutero. Ma, sia a causa delle idee personali e del temperamento di Zwingli, sia ancora piú a causa delle peculiari condizioni politiche e sociali della Svizzera, esso assume immediatamente un andamento tutto proprio.

Piú giovane di Lutero di soli due mesi, Zwingli aveva ricevuto un'educazione puramente umanistica: aveva studiato a Berna, a Basilea, a Vienna, secondo i metodi della nuova cultura e sotto la guida di Tommaso Wyttenbach, umanista di raffinato buon gusto e impugnatore a agguerrito dei tradizionali metodi scolastici. Il suo spirito si era venuto addestrando ad una raffigurazione del messaggio cristiano nella quale elementi etici stoici si accoppiavano stranamente ad elementi religiosi. Le prime avvisaglie della polemica luterana lo trovarono preparato alla lotta e alle riforme. Già parroco a Glarus, trasferito poi a Maria-Einsiedeln, nel Cantone di Schwyz, infine alla cattedrale di Zurigo, Zwingli riuscí a guadagnarsi, con la sua predicazione, una efficienza morale e pedagogica imponente. Sapiente e accorto, egli riesce, senza rumorose opposizioni e senza scalpore, a introdurre nel suo Cantone le medesime innovazioni per le quali Lutero scatenava cosí violento uragano in Germania. La Costituzione democratica del paese lo aiuta e lo asseconda potentemente nella bisogna. L'instaurazione delle nuove consuetudini religiose si compie con disinvolta agevolezza, sí che Zwingli può arrivare di colpo là dove il movimento di Wittenberg sarebbe arrivato dopo aspre difficoltà e agitati tentennamenti: abolizione delle immagini, abolizione dei voti monastici, soppressione della messa privata, riduzione del culto esterno alla piú semplice e rudimentale espressione. Noi cogliamo cosí qui una esemplificazione tipica delle profonde interferenze che, per antitesi o per analogia, vincolano i movimenti religiosi a quelli politici. Le due riforme parallele, quella tedesca e quella svizzera, muovono da presupposti analoghi e sgorgano da condizioni storiche similari: ma poi immediatamente divergono negli indirizzi concreti e nella disciplina associata, sotto l'azione impellente della diversa configurazione politica, per cui operano e a cui in certo modo servono. Zwingli, tratto dalla visione della vita che aveva ricavato dai classici e dal Wyttenbach; Lutero, animato dalla conoscenza dei mistici e dalla teologia di Gabriele Biel; pervengono a proclamare l'individualità dell’esperienza religiosa e la superfluità di un'amministrazione carismatica esteriore, nel valore sacramentale che tradizionalmente è ad essa attribuito. Ma mentre Lutero è il corifeo delle classi agricole e in pari tempo dei príncipi in conflitto aperto con l'accentramento imperiale, la riforma svizzera sta a rappresentare l'esplosione di un nuovo sentimento religioso solo in mezzo a classi democratiche, che cercano di corrodere e oltrepassare tutta una sistematica e gerarchica tradizione di valori economici e sociali. È naturale pertanto che Zwingli si schieri dalla parte di Carlostadio e dei contadini ribelli e che l'atteggiamento di Lutero appaia ai suoi occhi ambiguo e reazionario, perché intimamente contraddittorio, preso fra la rivoluzione contadinesca e la secessione nobiliare.

Naturalmente non vanno tenute in non cale le difformità psichiche e intellettuali dei due coriferi del movimento riformato. Sono di fronte le due interpretazioni del rinnovamento religioso possibili nel secolo decimosesto: la mistica e la umanistica. Lutero, giunto attraverso diuturne lotte interiori a cogliere un dissidio implacabile tra la legge e le proprie capacità etiche, mentre avrebbe dovuto logicamente concludere col respingere ogni possibilità di riscatto e col rinnegare quindi ogni vita religiosa, ha voluto con violenza giustificare religiosamente il proprio affrancamento dalla costrizione della legge morale, appigliandosi ad una eccezionale visione dei rapporti tra l'uomo e Dio, e si è lusingato nella prospettiva che per essere giusti religiosamente non fosse in alcun modo indispensabile essere giusti anche moralmente, poiché l'uomo gli è apparso peccatore per fatalità incoercibile di natura, dopo la funesta colpa di origine. Esperienza, cotesta di Lutero, personale, paradossale, antinormativa per eccellenza, che può dirsi mistica solo in quanto riposa sopra una peculiare consapevolezza extradialettica della salvezza, affidata alla imputazione soggettiva e meccanica dei meriti del Cristo.

Anche per Zwingli il problema centrale nella religiosità cristiana è quello della salvezza. Ma in lui, nulla di mistico e di psicologicamente contorto. Il suo atteggiamento rappresenta il riflesso pratico e logico del suo pensiero, la tradizione reale di una filosofia. Egli espone freddamente, lucidamente, le idee cardinali del suo sistema nel De vera et falsa religione commentarius, pubblicato nel 1525, quando l'attività riformatrice del sottile predicatore si era energicamente affermata, e attraverso ad esso dà forma sistematica al suo radicato pessimismo, che è solo superficialmente corretto dalla interpretazione stoico-razionale del messaggio cristiano. Strani in verità i procedimenti di indagine e singolari gli aforismi con cui il riformatore svizzero si accinge alla enucleazione del suo sistema! Poiché la religione è essenzialmente il vincolo che lega l'uomo a Dio, Zwingli non vuol affrontare i problemi della religiosità senza prima aver formulato i presupposti della sua dottrina dell'uomo. La teodicea deve essere preparata da una sapiente antropologia. Ma è mai possibile conoscere a fondo ed esaurientemente l'uomo? «Esplorare la natura umana», premette Zwingli «è altrettanto arduo che afferrare una seppia. Come questa, infatti, per salvarsi da cattura si nasconde nel proprio inchiostro, cosí l'uomo, non appena si senta preso sotto i raffi di una penetrante esplorazione, emette cosí pronte le nebbie della sua astutissima ipocrisia, che non vi è Linceo o Argo che sia capace di scoprirlo. Sono infinite le testimonianze e le argomentazioni che possono invocarsi a sostegno della tesi che l'uomo è inconoscibile dall'uomo. Tanta è la sua audacia nell'inganno, tanta l'improntitudine nella dissimulazione e nella menzogna, che quando tu credi di averlo in mano in uno dei suoi aspetti, ti è sfuggito per mille altri».

Anche l'antropologia scolastica aveva proclamato l'ineffabilità della persona umana. Ma quello che nella tradizione speculativa del Medioevo era un assioma etico-metafisico, qui è un presupposto di psicologia e di esperienza. Non è agevole la posizione di Zwingli, che avendo mandato innanzi alla sua apologetica il principio che occorre partire dalla indagine dell'uomo per ascendere alla esplorazione del divino, si preclude cosí, assiomaticamente, la via alla conoscenza della natura umana. Ed ecco che, per uscire dall'imbarazzo della sua posizione contraddittoria, Zwingli postula la luce preliminare della Rivelazione: «Se è cosí impervio il cammino che conduce alla esplorazione degli intimi recessi del cuore umano, noi non lo potremo battere se non ci manoduca Colui che il cuore umano foggiò dagli inizi, Dio».

Questa la posizione da cui Zwingli prende le mosse: la rivelazione è la genuina fonte anche della conoscenza razionale, poiché essa illumina le scaturigini stesse dell'essere e del divenire, del bene e del male. «Solo dalla rivelazione sappiamo che l'uomo, creato libero, ha volontariamente peccato, determinando il proiettarsi nel mondo di una capacità malefica, che ne vizia e ne contamina il procedimento e lo sviluppo. Ma dalla rivelazione sappiamo parimenti che, in virtú del riscatto operato da Cristo, e trasmesso nel messaggio neotestamentario, l'uomo può risollevarsi allo stato di grazia e recuperare il suo titolo al destino beato, indipendentemente da qualsiasi assistenza carismatica esteriore».

Un singolare amalgama, diciamo cosí, di antropologia umanistica e di tradizionalismo fideistico, si va costituendo nello spirito di Zwingli. Le relazioni di Zwingli con umanisti italiani, come Pico della Mirandola, la conoscenza diretta attraverso parecchi viaggi in Italia, portano il prete di Zurigo ad una predicazione che è indipendente da qualsiasi diretto influsso della riforma germanica, pur approdando a conseguenze pratiche analoghe.

La preoccupazione politica è preminente nell'insegnamento zwingliano. Il primo scritto di Zwingli è del 1522 e porta il titolo singolare di Architeles, vale a dire «Il principio e la fine», nel quale egli proclama che l'unico requisito per fare la parola di Dio intelligibile alla massa è l'assistenza dello Spirito, indipendentemente da qualsiasi investitura ecclesiastica e da qualsiasi intervento definitorio di Papi e di Concilî.

La propaganda di Zwingli guadagna rapidamente terreno nel Cantone zurighese. Ma desta opposizioni violente nei Cantoni di Lucerna, di Zug, di Schwyz, di Uri, di Unterwalden. Occorreva guadagnare la adesione di Berna, e Zwingli sfida i cattolici della città ad un pubblico contraddittorio che è accettato e si svolge nel gennaio del 1523. La propaganda religiosa di Zwingli si fissa in questa occasione in una formula di fede. I punti di tale confessione sono: la derivazione della Chiesa cristiana unicamente dalla parola di Dio; la validità delle leggi ecclesiastiche, raccomandata e condizionata soltanto dalla parola di Dio; essere il Cristo solo la nostra giustizia e la nostra salvezza; non potersi provare dalla Sacra Scrittura che il corpo e il sangue di Cristo siano presenti nel pane e nel vino, nell'Eucaristia; essere la dottrina della messa come sacrificio offerto dal Cristo al Padre, per i peccati dei vivi e dei morti, contraria alla testimonianza della Scrittura e offensiva del valore unico del sacrificio e della morte del Salvatore; essere inutile e anticristiana la mediazione dei santi quando esiste un solo mediatore, il Cristo Gesù; essere il Purgatorio dottrina in antitesi con le Scritture; essere le immagini una forma di idolatria pagana; il celibato del clero essere una aperta violazione alle leggi della natura e della rivelazione. Il risultato del contraddittorio fu favorevole alle idee di Zwingli. L'ambiente svizzero era preparato alla riforma. Berna passò senz'altro alla trasformazione della sua costituzione ecclesiastica, iniziando in pari tempo riforme sociali il cui orientamento doveva poi ripercuotersi in maniera straordinariamente efficace nei Cantoni di lingua francese.

Frattanto però la stessa professione di fede zwingliana difesa a Berna, apriva il dissidio profondissimo tra la dottrina sacramentale di Zwingli, e quella professata da Lutero.

La teoria dei Sacramenti, che Lutero cerca ancora di salvare in qualche modo, con una posizione intermedia che è del resto intimamente antitetica con se stessa, rimane del tutto estranea e indifferente a Zwingli. Il contrasto doveva logicamente circoscriversi alla dottrina eucaristica. Lutero riconosce la presenza reale, pur respingendo la dottrina della transustanziazione, che troppo apertamente implica la nozione di un sacerdozio investito di taumaturgici poteri. Per lui il Sacramento non è già un puro simbolo: bensi un rito operante, corroborato dalla virtú che gli ha infuso l'istituzione soprannaturale del Cristo. L'Eucaristia in particolare è il mistero augusto nel quale il Cristo realizza perennemente la sua presenza nel grembo della comunità credente. Zwingli, spirito dialettico e positivo, avverte la contraddizione insanabile fra i termini in cui è enunciata la dottrina sacramentale luterana, che era stata denunciata già dai primi accesi interpreti del bando luterano, i cosí detti Profeti Celesti.

Fin dal 1524 Zwingli interviene decisamente in favore di Carlostadio, sostenendo senza sottintesi l'interpretazione puramente simbolica del Sacramento eucaristico. Con una lettera del 16 novembre di quell'anno a Matteo Alber sul banchetto del Signore (De coena dominica) egli aveva ingaggiato rudemente il duello. Zwingli aveva portato senz'altro la discussione sul capo decimo della prima Lettera di San Paolo ai fedeli di Corinto, là dove l'Apostolo annuncia con energia che il cristiano non può partecipare simultaneamente alla mensa del Signore e alla mensa dove siano imbandite carni offerte agli idoli, né bere contemporaneamente al calice di Cristo e a quello di Satana. E commenta: «Qualcuno dirà alla prima impressione: e che cosa andiamo a cercare di piú? Non si parla qui di comunicazione del corpo e del sangue di Cristo? Ma riflettiamo. San Paolo spiega il suo inciso: – Noi tutti fedeli corporativamente presi costituiamo un unico corpo. – Bisogna pertanto concludere che il corpo del Cristo è, né piú né meno, la comunione dei fedeli associati al medesimo rito. Il corpo eucaristico del Cristo non è dunque già il suo corpo reale, presente di una presenza fisica oggettiva, ma è il corpo puramente simbolico: è cioè la comunità dei fedeli, che, partecipando al banchetto del Signore, realizza e costituisce il corpo stesso del Cristo, in quanto è vincolato alla medesima fede nel riscatto operato dal Signore, mercè l'ablazione della sua carne alla morte. Il corpo di Cristo cosí è quel che noi diventiamo e scopo del Sacramento è unicamente quello di rendere consapevoli i fedeli della loro qualità mistica di membri viventi del Signore. Il senso proprio dell'inciso paolina, comunicatio corporis et sanguinis Domini, non va riferito alla presenza reale, ma alla comunicazione ecclesiastica, la quale si realizza in virtú del giuramento di adesione che sembriamo prestare, partecipando al medesimo pane e al medesimo vino».

Nella storia delle controversie religiose in seno alla tradizione cristiana, le polemiche eucaristiche son quelle che hanno suscitato sempre piú pronte e sensibili risonanze sociali. Il mistero eucaristico ha cosí sottili addentellati con la vita federata della comunità religiosa, che ogni concreta o presunta impugnazione del suo realistico valore ha fatto fremere sempre le piú intime fibre dell'organismo ecclesiastico. La lettera di Zwingli ebbe pronta e larga circolazione fra i teologi della Germania. Ma Lutero non credette conveniente rispondere immediatamente all'attacco. Nel 1526 scendeva in campo Ecolampadio, il Melantone della riforma svizzera, con un volume denso di erudizione patristica e di finezza esegetica. Anche Giovanni Brenz, il riformatore svevo, entrò nella polemica. Zwingli a sua volta ritornò sull'argomento nel 1527 con un breve trattato, che mandò a Lutero con una lettera quanto mai violenta, nella quale l'amico di Carlostadio rinfacciava brutalmente al riformatore di Wittenberg le incoerenze della sua condotta e l'ispirazione retrograda della sua politica: «La tua diuturna polemica con i papisti, ecco, ha inacidito e corroso il tuo spirito. Le tue azioni e la tua predicazione risentono del funesto cambiamento verificatosi nel tuo spirito. Oggi tu cerchi perfino di impedire che la tua Chiesa abbia sentore di ciò che noi predichiamo intorno alla dottrina eucaristica». Il democratico svizzero non può allontanare da sé il fantasma macabro della crudele repressione del movimento dei contadini: e con accenti velati, ma significativi, denuncia in Lutero il reazionario e il manutengolo dei signori: «Avevi una volta parole di fuoco contro le stragi e i furori della Curia romana: ora sei méntore ai príncipi, che inumanamente perseguitano col ferro e col fuoco degli innocenti, di null'altro rei che di nutrir fede nella verità».

Questa volta Lutero si sentí colpito in pieno, nella sua azione pubblica. E, senza por tempo in mezzo, intervenne con la sua consueta violenza, con un sermone «Sul Sacramento della carne e del sangue di Cristo, contro i fanatici», nel quale erano nuovamente portati in campo gli argomenti che erano stati invocati ed elaborati contro i Profeti Celesti. Lutero insiste, con pertinacia, nell'asseverare che le parole di Cristo: «Questo è il mio corpo», vanno prese rigidamente alla lettera, in tutta la loro forza spontanea: nel pane e nel vino consacrati sono realmente presenti la carne e il sangue del Cristo. Alla consueta e piuttosto banale obiezione, che Zwingli aveva fatto propria e che si domanda come mai il Cristo possa essere simultaneamente presente in tanti luoghi diversi, mentre è detto nella Scrittura che siede alla destra del Padre, Lutero si indugia a rispondere, in una maniera troppo generica per essere conclusiva, che la destra del Padre è dovunque e che pertanto, dovunque il Cristo si faccia presente, Egli ivi ritrova la destra paterna. Onde se il Cristo è in ogni luogo, perché non dovrebb'essere reale nel Sacramento eucaristico? Maniera cotesta, come si intuisce, di eludere la difficoltà, che avrebbe potuto validamente essere intesa come una riprova della concezione mistica di Zwingli, anziché come una sua impugnazione.

Ma Lutero medesimo mostrò di valutare la insufficienza e la superficialità del suo sermone polemico, e a pochi mesi di distanza sentí il bisogno di consacrare all'assillante problema della realtà eucaristica un apposito trattato. Questa volta egli tradisce una calda e vibrante consapevolezza delle interferenze delicatissime della dibattuta questione e una sensibilissima prontezza nel cogliere tutte le piú esili e sottili sfumature religiose delle varie posizioni delineatesi di fronte ad essa. Mentre nella prima parte, ancora tutta polemica, Lutero si indugia a ribattere, con scintillante virtuosismo, la offensiva zwingliana, nella seconda, squisitamente patetica, raffigurandosi prossimo a morte, riassume, in un'ampia professione di fede, tutta la sostanza della sua dottrina religiosa. Espone dapprima i postulati ch'essa ha in comune con la ortodossia tradizionale (fede trinitaria e cristologica); enumera poi le enunciazioni originali del suo messaggio, segnalando i punti dottrinali in cui egli si allontana decisamente dal romanesimo (concezione del sacerdozio, pratica del celibato, liturgia, disciplina dei voti monastici, concetto del libero arbitrio, teorema della giustificazione imputativa).

Quest'ultimo scritto, pieno di ardore polemico e di fervore mistico, è senza dubbio una delle opere fra le piú vive e piú intensamente vissute che Lutero abbia dettato. Tutte le sue capacità spirituali, affinate attraverso il diuturno tirocinio e l'ininterrotta tensione, sembrano aver toccato l'àpice della finezza dialettica e dell'entusiasmo religioso.

Da questa ricchezza intima, in questo medesimo torno di tempo, cioè fra il tramonto del '27 e gli inizi del '28, sgorga dalla sua anima traboccante il canto che la Germania doveva levare ad espressione della sua religiosità rinnovata e del suo scosso spirito nazionale, in cammino verso la propria autonomia e la propria cultura: «Una forte rocca è il nostro Dio, una salda difesa e una potente arma. Egli ci salva da ogni male e ci affranca da ogni minaccia. Il vecchio malvagio nemico cerca già di assaltarci. Grande forza e impareggiabile astuzia sono la sua armatura: nulla sulla terra l'uguaglia... Con le sole nostre forze noi non potremmo far nulla e saremmo definitivamente perduti. Ma lotta per noi l'Uomo indicato a questo, che Dio stesso ha eletto alla bisogna. Mi domandi chi sia? Gesù Cristo, si chiama: Il Dio degli eserciti: non v'è altro Dio che possa soccorrerci. Nulla pertanto abbiamo piú a temere: dappoiché noi abbiamo con noi la Parola, e con la Parola, lo Spirito e tutti i suoi doni. Si prendano pure il nostro corpo, i nostri beni, l'onore, i figli, le nostre donne: tutto questo nulla conta e non costituisce una loro vittoria. Il Regno dello Spirito deve restare a noi».

Cosí Lutero elargiva la tessera e il vessillo alla comunità religiosa che la sua insurrezione andava creando. Una strana mescolanza di commozione religiosa e di fuoco patriottico avviva questo canto, cosí ricco di reminiscenze bibliche. Il postulato centrale della esperienza luterana, cioè l'incapacità radicale dell'uomo di operare il bene e la necessità che sulla fragile tessitura della sua vita morale si stenda la corazza della giustificazione del Cristo, è insinuato nella seconda strofa. E subito, dalla affermazione di questa trasfigurazione umana nella giustizia imputata, scaturisce il grido della vittoria, decisa e completa, su tutte le avversità e tutte le congiure ostili. La patria germanica chiederà per secoli a questo canto, che è un canto guerresco piú che un canto mistico, il pungolo e la voce delle sue speranze civili piú alate, delle sue rivendicazioni piú care.

Ma appunto la pienezza e la maturità del pensiero e della esperienza rendevano Martin Lutero piú intransigente che mai di fronte non solamente alla polemica con l'ortodossia romana, bensí anche alle correnti difformi dalla sua propaganda riformata. Il memorando colloquio di Marburgo, che pose al cospetto l'un dell'altro Lutero e Zwingli, cosí laboriosamente preparato e cosí fiduciosamente salutato da Filippo di Assia, bramoso di stringere una salda alleanza con gli Svizzeri e di costituire cosí un potente blocco protestante contro l'Impero cattolico, rappresentò un netto insuccesso. L'incontro doveva mirare ad una revisione amichevole delle dottrine comuni dei due principali nuclei riformati e ad un eventuale loro accordo sui punti piú vivamente discussi. Lutero era accompagnato da Melantone, da Giusto Giona e da Osiandro; Zwingli, da Ecolampadio e da Brenz. Su quattordici articoli dottrinali fu relativamente agevole raggiungere l'accordo. Ma quando si intraprese la discussione del decimoquinto, che toccava appunto il dogma della presenza reale, il dissidio scoppiò aperto e irreconciliabile. Il dissenso verteva fondamentalmente sul significato e il valore da attribuire alla formula eucaristica riportata da Paolo: «Questo è il mio corpo, dato per voi». Zwingli afferma irremovibilmente che il linguaggio del Cristo è qui puramente metaforico, come in tante altre tipiche immagini sue. Dicendo «questo è il mio corpo» non ha il Cristo voluto usare un'immagine analoga ad altre, per esempio: «Io sono la porta dell'ovile»? Nessuno si può attentare di conferire all'inciso paolina un'applicazione carnale, quando in Giovanni è detto, con solenne aforisma: «La carne non serve a nulla». Nel Sacramento eucaristico null'altro v'è che la federazione di anime saldate insieme dalla medesima fede e costituenti il corpo mistico del Cristo, che vive permanentemente nella Chiesa. Dopo quattro giorni di appassionata discussione, i contendenti si separarono divisi per sempre. Lutero constatava l'impossibilità dell'accordo e congedava gli Svizzeri col saluto freddo e tagliente: «Il vostro spirito non è il nostro: un abisso ci separa».

In verità le due dottrine eucaristiche differivano sostanzialmente fra loro. Zwingli insegnava che la cena del Signore non è una iterazione all'indefinito del sacrificio in cui si è immolato il Cristo sulla croce, bensí una commemorazione di questo sacrificio, offerto una volta per sempre. Gli elementi eucaristici pertanto non celano un Cristo, nuovamente offerto, bensí vogliono essere i segni simbolici del corpo e del sangue del Cristo, immolato sul Calvario. Il perdono del peccato non è raccomandato alla partecipazione di un Cristo del quale è ripetuto il sacrificio, ma unicamente alla credenza di un Cristo vittima. I benefici della sua opera redentrice sono assimilati mediante la fede. La presenza pertanto del Cristo nel Sacramento è reale, non è spirituale: ché una fede vivente esige per definizione l'unione del credente col Cristo, e quindi la presenza reale del Cristo, la quale, implicita in ogni atto di fede, è celebrata in maniera saliente nella partecipazione sacramentale. Nella quale sono il simbolo e il pegno di una ininterrotta unione vivente col Cristo risorto. Lutero invece, partendo da presupposti parzialmente analoghi, giungeva a risultati profondamente difformi. Egli insegnava che il fine principale del Sacramento era quello di addurre i comunicanti a diretto contatto col Cristo risorto. Ora, perché tal fine potesse essere effettivamente conseguito occorreva nel pane e nel vino la presenza reale del corpo glorificato del Cristo, concepito come un corpo esteso nello spazio. I comunicanti, venendo a contatto con esso, riproducono e realizzano l'unione dei suoi discepoli con Lui sulla terra, l'unione dei santi con Lui in cielo. Simile presenza locale del Cristo nell'Eucaristia non implica e non postula alcun miracolo sacerdotale, perché, in virtú della sua ubiquità, il corpo glorificato del Signore è naturalmente dovunque, quindi anche nel pane e nel vino. Questa presenza naturale assurge alla qualità di sacramentale, a causa della promessa legata da Dio alla riverente e fiduciosa partecipazione al rito.

Ad analizzare nei loro coefficienti intrinseci e nella loro portata storica le due posizioni dottrinali di Lutero e di Zwingli, si riesce a cogliere il motivo riposto e la giustificazione pragmatica del conflitto. L'esperienza religiosa di Lutero non avrebbe mai a nessun patto potuto divenire normativa per una vasta comunità di credenti se, praticamente rinnegando cosí i suoi presupposti etici come quelli soteriologici, non si fosse arrestata su qualche posizione media, da cui fosse stato possibile attingere i canoni e la riprova di una solidarietà visibile, nella fede e nella speranza. Il dogma della presenza reale ha rappresentato, nello sviluppo della teologia luterana, il caposaldo su cui il riformatore è riuscito ad innalzare l'edificio della sua ecclesiologia. La sua contraddizione è stata insanabile. Perché la presenza reale naturale non può divenire sacramentale senza un evento prodigioso, di cui il sacerdote è la causa e lo strumento. Ma la vita associata si nutre anche di contraddizioni, forse anzi solo di contraddizioni. S'intende che la storia tende poi a risolverle e a superarle: e la storia del luteranesimo, da quattro secoli a questa parte, non è stata altro che lo sforzo di comporre elementi contrastanti, a cui il suo profeta aveva affidato l'organizzazione della sua Chiesa. Tale sforzo non ha potuto essere coronato da successo che a prezzo di un rinnegamento integrale dei presupposti, partendo dai quali, nel segreto delle sue celle di Erfurt e di Wittenberg, il monaco agostiniano aveva allestito il piano della sua ribellione.

Di fronte alla posizione intimamente contraddittoria di Lutero, quella di Zwingli si rivela piú logica e si direbbe per ciò stesso meno religiosa. L'umanista nel riformatore svizzero prende il sopravvento sull'innovatore ecclesiastico. Non diversamente, alcuni anni prima, nella polemica contro Erasmo, Lutero aveva potuto dimostrare dinanzi al mondo quanto lo spirito dell'umanesimo fosse estraneo agli orientamenti profondi dell'agostiniano ribelle di Erfurt.

Il 5 marzo 1518 Erasmo aveva inviato le novantacinque tesi luterane al Colet e al More, commentandole succintamente in tono piuttosto favorevole. Due mesi prima, probabilmente, egli non aveva sdegnato di mandare a Lutero i suoi saluti. E pure, chi consideri i rispettivi abiti mentali dei due eminenti rappresentanti degli indirizzi spirituali europei al crepuscolo dell'età moderna, comprende di primo acchito come essi non fossero assolutamente fatti per intendersi. Erasmo era soprattutto un esumatore felice di testi patristici, un conoscitore consumato dell'antica letteratura cristiana, del cui contenuto etico sentiva tutto il sottile e squisito fascino. Indagando la concezione che egli si era venuto formando sui documenti cristiani primitivi, si ha l'impressione netta che il suo fosse un temperamento essenzialmente pragmatista, preoccupato cioè innanzi tutto della edificazione progressiva e del miglioramento etico degli uomini, disposto quindi a sacrificare a questo scopo ogni valore strettamente culturale. Egli nutriva una consapevolezza profonda della funzione pedagogica del Vangelo, nella instaurazione di nuovi rapporti tra gli uomini, basati sulla legge dello scambievole amore. Mediante l'adesione al Cristo, egli vedeva l'umanità introdotta in una sconfinata società, mistica e visibile nel medesimo tempo, la Chiesa, che sanziona e corrobora, in virtú della partecipazione della grazia, l'esercizio delle virtú fraterne. Erasmo si rivela pertanto ostilissimo ad ogni atto di ribellione, poiché, a suo modo di vedere, le rivoluzioni spirituali approdano fatalmente alla dissipazione e alla disgregazione etica. Nella signorilità del suo temperamento di erudito egli non esita a dichiarare di essere disposto a sacrificare temporaneamente la causa della verità, pur di non provocare scandali e tumulti. Disposizioni di questo genere dovevano portarlo fatalmente a schierarsi contro Lutero. Spirito universalistico, cosmopolita per natura, Erasmo scopre, al di là del ribelle monaco sassone, il fermentante ambiente politico della Germania principesca, che cercava avidamente il proprio affrancamento dalle vaste configurazioni morali del Medioevo: la Chiesa e l'Impero. I due uomini erano tratti logicamente a fronteggiarsi a vicenda. L'uno, Lutero, impastato di contraddizioni, impulsivo, violento fino alla grossolanità: l'altro, Erasmo, freddo, circospetto, compassato, lucidissimo, naturalmente portato all'ironia e al compatimento. Il riformatore di Wittenberg deve avere compreso molto presto donde sarebbe venuta al suo movimento l'opposizione piú significativa e piú efficace. E ha cercato di neutralizzarne in anticipo la validità.

In una lettera del 28 maggio 1522 a Gaspare Borner, professore a Lipsia, dove Erasmo riscuoteva larghe simpatie, Lutero contrapponeva l'intima virtú della sua fede alla malsicura forza della sapienza erudita, e, alludendo espressamente al famoso umanista, sentenziava: «La vittoria spetta alla balbettante verità: mai all'eloquenza mendace. Io non provocherò Erasmo; ma, attaccato, reagirò». E a un anno di distanza, di nuovo, Lutero, riconoscendo pure i meriti insigni di Erasmo nell'ambito delle indagini paleografiche e delle esumazioni storiche, ne contestava la capacità mistica e la virtú religiosa. Egli pertanto «non avrebbe visto la terra promessa». Erasmo dovette aver nuova di lettere cosí acri e sospettose; ma non ritenne l'occasione propizia per un intervento personale.

Frattanto intorno a Lutero si verificavano novità che avrebbero sensibilmente pesato sull'avvenire della sua vita. La sua propaganda anticelibataria e antimonastica continuava a menar strage nei chiostri. Nella notte sul 5 aprile 1523 giungevano a Wittenberg nove giovani uscite dalla clausura cistercense di Grimma. Lutero ne aveva favorito l'esodo, con la complicità di alcuni borghesi del luogo. Egli stesso dà notizia della cosa allo Spalatino in una lettera del 10 aprile, non nascondendo la sua soddisfazione e prospettando i piani che intende seguire per provvedere alla loro sistemazione. E delle transfughe dà i nomi: Magdalena Staupitz (nipote del vicario Staupitz), Elsa Canitz, Ave Grossin, Ave Schonfellt e sua sorella Margarita, Laneta Golis, Margarita Zesschaw e sua sorella Katharina, e Katharina von Bora. Per esse, Lutero implorava il soccorso del cappellano elettorale, ché, assicurava, i suoi mezzi personali erano estremamente limitati. Sembra che Lutero riuscisse rapidamente nell'intento di collocare le profughe dal chiostro. Solo Katharina di Bora, che aveva allora ventitré anni, rimase senza partito. E Lutero, dopo aver cercato due volte di darla in moglie a suoi amici, la sposò egli stesso nel '25.

L'incidente, scarsamente edificativo, veniva a gettare un'ombra di ridicolo, che doveva riuscire particolarmente sgradevole agli amici piú nobili di Lutero, come Melantone, nel momento in cui le ripercussioni politiche del messaggio luterano si facevano piú evidenti e piú minacciose. Leone X era morto improvvisamente nel dicembre del 1521 e il 9 gennaio dell'anno successivo era stato innalzato al Pontificato il cardinale sessantenne Adriano di Utrecht, di ispirazione religiosa tutta diversa. Adriano VI, che al momento dell'elevazione si trovava in Spagna, venne a Roma col fermo proposito di riformare la Chiesa. Francesco Chieregati, inviato speciale della Curia alla Dieta imperiale convocata nel settembre del 1522 a Norimberga, dichiarava solennemente ai delegati della Germania ufficiale che il Pontefice non esitava a riconoscere la parte di responsabilità che spettava a Roma nello scatenamento della grande lotta religiosa e che si proponeva seriamente di entrare nella via della riforma ecclesiastica, purché la Dieta si impegnasse al rispetto scrupoloso del bando contro Lutero e i suoi seguaci. La Dieta non era in condizioni di spirito da accettare cordialmente e deferentemente la leale dichiarazione romana. Essa rispose in tono brusco che era ormai materialmente impossibile fare applicare l'editto di Worms che un anno prima aveva messo Lutero al bando dell'Impero e invece di aderire alle richieste curiali sollevò essa una serie di rimostranze e di ricorsi contro i presunti oneri (gravamina), che Roma faceva pesare sulla nazione germanica, in materia canonico-fiscale, in forma cioè di tasse per ricorsi, dispense, indulgenze, ecc.

Roma comprese sempre meglio la gravità della situazione e modificò la sua tattica. Il Pontificato di Adriano VI ebbe una durata effimera. Il suo successore, Clemente VII, impartiva istruzioni piú duttili e piú sagaci al nuovo legato, Lorenzo Campeggi, ch'egli inviava alla seconda Dieta di Norimberga, convocata per il gennaio 1524. Al suo cospetto il Campeggi chiese con abilità che si provvedesse alla difficile e complessa situazione, come i bisogni della nazione esigevano e permettevano. E la Dieta rispose che si doveva convocare in terra tedesca, a Spira, un Concilio universale, il quale esaminasse le questioni religiose che il movimento luterano aveva suscitate e di cui la propaganda andava ogni giorno di piú acuendo l'asprezza. La Dieta veniva cosí incontro al desiderio del Pontefice di apprestare i mezzi atti ad infrenare il movimento della scissione e a chiarire i punti dottrinali che il nuovo Vangelo aveva violentemente scardinato dalle loro basi tradizionali.

Ma allora cominciarono a delinearsi quei contrasti e quelle rivalità politico-dinastiche che dovevano per cosí lungo tempo paralizzare il programma romano della restaurazione e della pace. Geloso dei suoi privilegi assoluti e illimitati al cospetto della nobiltà teutonica, l'imperatore rispondeva nel luglio del 1524 alle proposte e alle dichiarazioni dietali asseverando che nulla si sarebbe potuto compiere senza il suo personale ed esplicito consenso. Finché cosí il programma della controriforma fosse andato a perdere ogni sua capacità di attuazione fra gli scogli delle gelosie e delle rivalità statali, Lutero poteva impunemente ridersela del bando e accudire febbrilmente alla organizzazione metodica del suo piano. Si avvicinavano i giorni delle sue grandi polemiche storiche ed egli aveva bisogno di definire esattamente, fra le interpretazioni contraddittorie, la posizione concreta del suo vangelo teorico e pratico.

Le ultime propaggini superstiti della visione, fra quietistica e insurrezionale, dei Profeti Celesti, lo infastidivano per le rischiose complicità che gli avevano creato. Poiché Carlostadio, abbandonata la cattedra universitaria di Wittenberg, si era ritirato ad Orlamünde, e vi aveva scelto il posto di vicario per propagare fra il popolo le sue idee mistico-sociali, Lutero sparge fra gli amici la voce che egli è dominato dall'ambizione e dalla superbia. Lo fa richiamare in nome dell'Università, minacciando, qualora non torni, una formale denuncia all'elettore. E poiché Carlostadio, tutto preso dalla mania di un'applicazione rigorosa dei principi luterani, inclina a dichiarare equipollenti le varie forme di etica che compaiono successivamente nella storia, e, concretamente ispirandosi al Vecchio Testamento, inculca una reviviscenza di vecchie pratiche israelitiche (anno sabbatico con conseguente ritorno alla proprietà comune, poligamia sul modello delle consuetudini patriarcali), Lutero insorge e dà sfogo a quell'animosità antisemitica, che non dovrà piu abbandonare la religiosità riformata. La sottile e insistente avversione e denigrazione di Lutero raggiunse Carlostadio anche a Orlamünde. Quegli che era unicamente reo di aver preso alla lettera i presupposti del monaco riformatore dovette andare ramingando in Svizzera e poi a Strasburgo.

Ma su tutti i terreni ormai Lutero ripiegava abilmente dalle logiche applicazioni del suo pensiero, per arrestarsi e trincerarsi su quelle posizioni che gli garantivano piú validi sostegni e maggiori opportunità di propaganda. È del 1523 il trattato intorno alla «autorità temporale», dedicato all'elettore di Sassonia nel quale è embrionalmente delineata la concezione che doveva impregnare di sé tutta l'evoluzione ideale degli Stati moderni. Apparentemente Lutero vuol segnare i limiti del potere politico: in realtà, e probabilmente senza rendersene molto conto, ne tesse l'apologia, ne atteggia la forza a proprio vantaggio. Se a prima vista sembra svalutarlo, di fatto gli conferisce la possibilità di costituirsi come unico reggitore della vita spirituale. Assevera infatti che i poteri costituiti non rivestono alcuna sovranità sulla vita religiosa e non possono immischiarsi nella zona d’azione autonoma ed inviolabile della parola di Dio. Ma in pari tempo non li vede affatto subordinati ai valori spirituali e assegna ad essi larga copia di mansioni etiche, che la tradizione cattolica aveva nettamente infrenato, concependole vincolate al magistero religioso. Tutto ciò del resto è pienamente nella logica del sistema. Se l’atto religioso si esercita e si celebra nel chiuso della coscienza individuale, tutti i tessuti della vita associata cadono in balìa della autorità terrena e dei poteri statali, e la moralità pubblica non sembra possa attingere d'altronde le sue norme e le sue sanzioni, se non dalla esplicazione concreta delle Costituzioni civili.

Ma Lutero non era ancora pervenuto alla piena e consapevole esplicazione di tutti i postulati dei quali il suo messaggio era pregno. Nella pienezza ormai delle sue forze, incoraggiato dal successo inarrestabile della sua propaganda, egli poteva affrontare gli impugnatori della sua dottrina, tutti di prim'ordine e di elevatissima posizione pubblica.

Il cerimoniere di Leone X, Paride de' Grassi, racconta come il 2 ottobre 1521 l'oratore di Sua Maestà Britannica Enrico VIII, presentasse al Pontefice un esemplare di un'opera che il re aveva, quell'anno stesso, pubblicato a Londra, in confutazione del De Captivitate Babylonica Ecclesiae, uno dei primi trattati polemici di Lutero dopo la scomunica. Sebbene si piccasse di cultura tomistica, nessuno pensò che Enrico VIII avesse compiuto di persona il trattato polemico. Si seppe che il suo cappellano Lee l'aveva compilato per lui. Leone X ad ogni modo fu ben felice dell'intervento sovrano in favore della disciplina sacramentale romana, e si affrettò a ricompensare Enrico, insignendolo del titolo di defensor fidei. L'assertio dimostrava, con larghezza di riferimenti patristici, quali potevano essere suggeriti agevolmente dalla teologia ufficiale, l'adeguata corrispondenza della disciplina sacramentale cattolica all'insegnamento neotestamentario e alla tradizione ortodossa. Spinto dai colleghi e tratto dal suo stesso indocile bollore polemico, Lutero replicava nell'agosto del '22, con la sua vivacissima·diatriba C ontra Henricum regem Angliae. Questa volta egli investiva in pieno, a corto di altri argomenti, il principio cardinale della validità della tradizione nella religiosità associata. Il gesto mirava effettivamente a sgretolare l'ossatura piú intima della trasmissione storica del messaggio cristiano.

A pochi lustri di distanza dalla morte del Cristo, San Paolo, quando deve impartire istruzioni ufficiali alle comunità uscite dal suo instancabile apostolato, parla di tradizioni che gli sono state scrupolosamente trasmesse e ch'egli a sua volta trasmette. San Vincenzo Lirinense aveva sentenziato, nella prima metà del quinto secolo, che è indiscutibilmente, tipicamente cattolico quel che è stato creduto dovunque, sempre, da tutti. In verità il cattolicesimo ha riposato su due capisaldi, ugualmente necessari all'equilibrio della sua struttura: la rivelazione biblica e l'insegnamento tradizionale. In virtú di questo armonico dualismo si conserva nella vita storica del cattolicesimo, sotto la tutela di un magistero infallibile, la possibilità dello sviluppo e dell'accrescimento del patrimonio spirituale di cui si alimenta la collettività credente. La tradizione non crea nulla di nuovo: la novità assoluta in religione annulla, dialetticamente, la sua assolutezza. Ma essa enuclea, rielabora e viene sviluppando gli elementi potenziali della rivelazione. Un senso squisitamente pragmatista presiede a questa organica interpretazione delle leggi che disciplinano il cammino della religiosità nella storia. I motivi rivelati, affidati al ricordo canonizzato della esistenza e del pensiero di Colui che dischiuse la nuova visione dei rapporti con Dio e di coloro che ne disseminarono il messaggio, sono suscettibili di infinite applicazioni e di illimitate reviviscenze. Il lavorìo secolare della coscienza credente sa ricavare di volta in volta le adeguazioni piú acconce ai bisogni mutevoli della esperienza associata. In grazia di questa solenne celebrazione della virtú normativa, che è nella vita umana in cammino, controllata però dalla sentenza rivelata e da un organo di permanente magistero, la religione è salutarmente sottratta al rischio della disgregazione individualistica, e la normalità dell'evoluzione dogmatica è raccomandata alla coscienza solidale della comunità, che esprime dal proprio grembo la delucidazione dei principî che illuminano l'alba della sua fede e del suo organismo carismatico.

L'assertio di Enrico VIII faceva largamente appello al principio della tradizione per confutare la dottrina di Lutero e per difendere l' istituzione divina e la validità dei sette Sacramenti ecclesiastici. Nella replica, che è una delle piú violente, il riformatore nulla nasconde del suo pensiero, non una favilla attenua il suo rancore. La prefazione, dedicata a Sebastiano Schlick, giura ostilità eterna al Papato, di cui prognostica il rapido disfacimento. Prendendo poi a discutere l'argomento controverso, accampa la sua ingenua sorpresa di fronte all'incomprensione degli avversari. Non son bastati tre anni di ininterrotta campagna a far intendere che egli aspira ad instaurare il dominio esclusivo della rivelazione ed a sopprimere spietatamente tutte le invenzioni e le tradizioni umane? Di fronte alla Chiesa, che concepisce la religione cristiana come un deposito rivelato trasmesso di generazione in generazione, e alla cui intelligenza ogni secolo reca il suo specifico contributo, Lutero rivendica l'autorità esclusiva del testo scritto. Ogni tradizione pertanto, secondo lui, va recisamente tolta di mezzo o, quanto meno, privata del suo venefico potere.

«Alla mia sitibonda volontà di riafferrarmi alla parola di Cristo», egli si domanda, «che cosa mai contrappongono costoro? Glosse patristiche, laboriosi ed artefatti riti, depositati dai secoli». Lutero sembra, cosí, avere buon giuoco. «Io indago le cause e ad esse risalgo: essi si appellano ai fatti. Io chiedo in nome di qual potestà essi compiano le loro gesta. Essi mi rispondono: – Cosí facemmo e facciamo. – Dunque, al posto della ragione, vogliono collocare la volontà; a quello della genuina autorità, il rito; al posto del diritto, la consuetudine. Io grido: –Vangelo, Vangelo! – Ed essi uniformemente, rispondono: – Tradizione, tradizione! – L'accordo è impossibile».

Ribattendo poi le singole imputazioni mossegli dal re, Lutero cerca di salvare la propria discussa coerenza. Egli assevera che nell'ambito delle questioni coinvolgenti l'insegnamento scritturale (la fede, le opere, i peccati, la grazia, il libero arbitrio, la penitenza, la sacra cena) egli mai si è contraddetto. Mentre a proposito di questioni extrabibliche, concernenti l'organizzazione ecclesiastica (il Papa, i vescovi, i Concilî, le indulgenze, la messa, i voti monastici, il regime sacramentale), egli ha dovuto apparentemente contraddirsi, perché l'esperienza e lo studio gli hanno mostrato sempre meglio quale profonda contraffazione dello spirito cristiano costituisca l'insegnamento cattolico.

Se la polemica con Enrico VIII aveva trascinato il riformatore a porre a nudo tutte le implicite postulazioni ecclesiologiche del suo messaggio, la polemica con Erasmo lo costrinse a scoprire, fino all'estreme paradossali conseguenze, la logicità della sua antropologia.

Nel duello di queste due grandi figure, che dominano l'alba della modernità, è tipicamente circoscritta la lotta che si è continuata a combattere poi nella cultura moderna e che probabilmente si avvicina oggi al suo drammatico epilogo. Lutero, mistico e innovatore, rimproverava a suo tempo ad Erasmo, erudito e prudente, una vera incapacità spirituale di scoprire e seguire le vie della perfetta chiamata di Dio. Erasmo poteva cosí apparire un superato. Ma la realtà storica gli ha assicurata una brillante postuma vendetta.

L'occasione della polemica fu offerta ad Erasmo da Ulrico von Hutten, quando questi, trapiantatosi a Basilea dopo la morte del suo protettore Francesco von Sickingen, e respinto dal novero degli amici intimi dell'umanista fiammingo, scrisse contro Erasmo una strana invettiva con la quale lo accusa di basso opportunismo e di calcolata cortigianeria. Erasmo passò dapprima la Spongia della sua signorile polemica sulle macchie di fango con cui il von Hutten aveva cercato di imbrattare la sua persona.

Quindi pensò che fosse giunta l'ora di accettare il suggerimento, che d'ogni parte gli veniva, di misurarsi col professore di Wittenberg: e scelse, per argomento di discussione, con mossa felicissima, il problema da cui in realtà moveva tutto il pensiero della incipiente riforma: il problema del libero arbitrio.

Lutero tentò di rimuoverlo dal suo proposito con una lettera, tra ironica e minacciosa, del 15 aprile 1524, che Erasmo ritorse, con garbo e serenità, a volta di corriere.

Nel settembre del 1524 appariva, infine, presso il Froben di Basilea, la De libero arbitrio collatio. In questo trattato, di uno stringatissimo rigore logico, Erasmo, prendendo nettamente a partito la dottrina iperagostiniana di Lutero, mirava a porre nei suoi legittimi termini i teoremi della libertà e della grazia, quali sono formulati nella tradizione dottrinale del cattolicesimo.

Il problema del libero arbitrio è il problema centrale dell'antropologia e dell'etica. In quale posizione si trova l'uomo di fronte al proprio còmpito? È egli capace di recare un contributo personale qualsiasi alla realizzazione del proprio destino o è trascinato da una forza imperiosa, cui sia assurdo sottrarsi? Le azioni che egli compie possono essergli imputate come liberamente e coscientemente compiute, oppure vanno nettamente attribuite all'impulso, che misteriosamente lo muove?

Lutero partiva da una concezione drastica e assoluta della colpa d'origine: il peccato ha deformato sostanzialmente, alle origini stesse della vita, l'organismo umano, che ha smarrito cosí, irrimediabilmente, ogni capacità di bene. Tutta l'umanità, caduta nella corruzione, è, dopo Adamo, una miserabile massa dannata, destinata a compiere automaticamente il male. La salvezza non le può venire che dal riscatto operato dal Cristo, la cui grazia, investendoci in pieno, ci trasferisce in una sfera superiore, dove il bene è il risultato della spontanea attività della fede, unica forza di immunizzare il nostro spirito dall'agguato contaminante della carne peccaminosa.

Sebbene la cultura filosofica moderna, tutta gravitante verso i puri problemi gnoseologici, non riesca piú a spaziare per tutto l'orizzonte dell'indagine antropologica con adeguata consapevolezza dei suoi presupposti, si può ciononostante affermare che il problema dell'umana responsabilità, che è una cosa stessa con quello del libero arbitrio, è al centro delle preoccupazioni e delle esigenze che la vita associata reca nel proprio grembo.

La tradizione cristiana ne ha dato una soluzione che è un capolavoro delicatissimo di equilibrio e di misura, riuscendo in pari tempo a salvare l'asserzione della libertà senza cui non si dà vita etica, e quella della grazia, senza cui non si dà vita religiosa. Erasmo se ne costituisce paladino deciso. La sua «Diatriba» è ripartita in tre parti: sono enunciate dapprima alcune premesse teoriche, nelle quali l'umanista fissa il suo atteggiamento di fronte ai problemi teologici in generale e circoscrive la sua maniera di considerare la questione della libertà; viene quindi la dimostrazione della tesi, affidata, per una misura notevole, alla discussione dei passi biblici attinenti all'azione di Dio e all'opera dell'uomo nel processo di attuazione del bene; nella conclusione si fa ritorno alle asserzioni teoriche. Un vivissimo senso di discrezione e una coscienziosa volontà di mantenere fede agli insegnamenti tradizionali della Chiesa contrassegnano il trattato erasmiano. Il dottissimo umanista obbedisce, evidentemente, al proposito di assodare le posizioni antropologiche, che appaiono indispensabili alla costituzione di un'etica associata, anche se, per farlo, deve sacrificare un po' del rigore dialettico e della profondità filosofica. «Non occorre sempre trovare dottrine chiare: occorre soprattutto accertare dottrine utili. Queste seconde dobbiamo e possiamo con sicurezza apprendere: il resto dobbiamo lasciarlo a Dio, trattandosi di misteri che religiosius adorantur incognita, quam discutiuntur impervestigabilia». Le definizioni di Erasmo pertanto sono sobrie e prudenti. Secondo l'insegnamento teologico, cui egli aderisce, la colpa d'origine è stata un turbamento che ha intimamente sconvolto e alterato l'equilibrio delle umane facoltà. La volontà libera, che la caduta ha ridotto alle proporzioni di un'attitudine rudimentale, viene reintegrata dalla grazia in virtú del riscatto operato dal Cristo. Col battesimo le facoltà umane sono ridestate e consacrate: sotto l'assistenza permanente dello Spirito, l'uomo è in grado di battere fiducioso il sentiero della salvezza. Il libero arbitrio appare pertanto ad Erasmo come la «vis humanae voluntatis, qua se possit homo applicare ad ea quae perducunt ad aeternam salutem, aut ab iisdem avertere – come quella capacità del volere umano di portarsi verso ciò che conduce all'eterna salute o di allontanarsene». Tre concezioni, continua Erasmo, si trovano in contrasto nel modo di valutare le possibilità spirituali dell'uomo: o si ritiene che esista nella creatura ragionevole una primordiale capacità di bene, che attende di essere corroborata dalla grazia; o si reputa che l'anima non possa operare il bene, senza un radicale capovolgimento iniziale, la metànoia, di cui parla il Nuovo Testamento; e si conclude, desolatamente, che il libero arbitrio sia una pura, nuda e vana parola, senza alcuna corrispondenza nella realtà. Erasmo si attiene alla seconda posizione. E adduce, di scorcio, le ragioni della sua decisione: «È necessario salvare il libero arbitrio, perché appaia e risalti la responsabilità degli empi, che coscientemente resistono alla grazia di Dio; perché sia la nostra anima immunizzata dal morso della disperazione; perché sia eliminata la tentazione di una vana sicurezza; perché siamo stimolati a cercar di raggiungere la salvezza».

Propagatasi rapidamente, la «Diatriba» di Erasmo suscitò negli ambienti colti, che seguivano con piú trepidante attenzione il moto della riforma, un'impressione intensa. Gli amici e i partitanti che Lutero contava a Strasburgo ne furono allarmatissimi. Una loro lettera collettiva, stesa probabilmente da Butzer, avvertiva il maestro di Wittenberg, in data 23 novembre 1524, che il libello costituiva un ostacolo molto serio al dilatarsi della «pietà germanica» e che occorreva assolutamente contrapporgli una replica pronta e serrata. Lutero del resto non aveva alcun bisogno di tali sollecitazioni. Sembra che, fin dalla prima conoscenza dello scritto erasmiano, il riformatore si rivolgesse agli amici, a Melantone innanzi tutto, perché lo aiutassero nella confutazione. Ma altri avvenimenti e altre polemiche incatenarono per mesi e mesi la sua desta attenzione; alla fine del 1524 e agli inizi del 1525, la lotta sempre viva contro i cosí detti «Profeti Celesti»; nella primavera di questo stesso ultimo anno la sollevazione dei contadini. L'elaboratissima replica non poté veder la luce prima del dicembre 1525, quasi quindici mesi dopo la pubblicazione della collatio erasmiana: ma in compenso la dottrina luterana della completa mancanza nell'uomo di una capacità libera vi era definitivamente formulata ed esaurientemente svolta in tutti i suoi corollari.

Il trattato De Servo Arbitrio è veramente fondamentale per la determinazione del pensiero di Lutero, per la comprensione dello sviluppo posteriore del protestantesimo, per la valutazione esatta dei rapporti fra questo e l'orientamento soggettivistico e idealistico della filosofia moderna. Lutero si rivela in queste pagine in tutta la sua nuda interezza, con tutte le sue qualità negative e positive. La posizione che egli adotta, con rude e spavalda franchezza, costituisce la prima brusca esplosione di un orientamento spirituale che, può dirsi, ha improntata di sé tutta la vita e la cultura moderne, in contrasto aperto con il pensiero cristiano tradizionale.

Per comprendere il De Servo Arbitrio bisogna risalire al dramma claustrale di Erfurt. Lutero ha vagheggiato, nei primi anni della sua vocazione religiosa, l'ideale di perfezione che rappresenta il programma deliberato dell'ascetismo cristiano: raggiungere l'assoluto dominio di sé. Ma la sua esperienza di monaco si è ridotta ad un'amara delusione e ad un irreparabile tracollo. Tutta la traiettoria della sua vita claustrale, còlta attraverso le indicazioni discrete delle sue piú tarde reminiscenze, sta a dimostrarci che egli ha sentito violentemente in sé qualcosa che lo rendeva incapace di sottostare alla disciplina impostasi. Si è domandato allora se doveva rinunziare alla salvezza, perché non poteva realizzare il suo ideale ascetico. Si è ripiegato su se stesso e alla luce dell'intuizionismo mistico, a cui lo aveva iniziato lo Staupitz, ha lentamente elaborato la sua dottrina della concupiscenza invincibile e della grazia e dei meriti imputati. Dopo il peccato di origine l'uomo è destinato a compiere fatalmente il male: ma ha la misteriosa possibilità, pur vivendo nella colpa, di sentirsi redento e salvato, in virtú della «imputazione» dell'eccelso riscatto del Cristo. L'originalità del messaggio cristiano, afferma Lutero in una frase decisiva del Commento alla lettera ai Romani, consiste nell'aver dato all'uomo la possibilità di sentirsi nel medesimo tempo «iustus et peccator». Se le azioni umane non posseggono pertanto alcuna diretta efficienza nel processo del raggiungimento della salvezza, è naturale che anche la libertà dell'arbitrio si riduca ad una pura menzogna (merum mendacium) e ad una esiziale illusione. Il centro della dottrina luterana si sposta cosí automaticamente verso il postulato della predestinazione. Noi siamo in balìa di un misterioso decreto della Provvidenza divina, che opera in noi a nostra insaputa. Poiché, chi potrebbe concepire una prescienza divina che non implichi un intervento efficace nelle nostre azioni? Può immaginarsi una scienza divina esposta al fallimento o soggetta a modificazioni impreviste, a causa della libertà dell'uomo? La tradizione cristiana aveva nettamente risolto l'arduo quesito, tutelando il piano delle manifestazioni libere della creatura ragionevole nel quadro globale della divina volontà e della sua ineffabile provvidenza. Aveva soprattutto ben disegnato l'abisso incolmabile che separa Dio dall'uomo con il duplice concetto della creazione dal nulla e della permanente comunicazione carismatica. Lutero ha in certo modo soppresso le barriere che dividevano l'umano dal divino, il finito dall'infinito. Egli ha concluso con lo scorgere nella vita una ininterrotta teofania, una permanente manifestazione dell'operosità divina. Tolta ogni mediazione ecclesiastica, il divino e l'umano vengono a inserirsi l'uno nell'altro in maniera paradossale. Noi finiamo con l'essere degli incessanti realizzatori di Dio: Carlostadio dirà che anche il peccato che noi commettiamo è divino. È facile, dopo ciò, intuire i sostanziali rapporti che intercedono fra la teologia luterana e la moderna filosofia idealistica, quale si è affermata la prima volta nella Germania protestante. Lutero ha professato ancora la sua fede nel Dio trascendente: ma piú o meno consapevolmente egli si è mosso nell'immanentismo e nel panteismo psichico, il quale non concepisce una azione umana che non sia allo stesso tempo un attimo dell'automanifestantesi vita divina. Lasciando all'apparenza salva la formula del trascendentalismo, egli ha in realtà inserito il divino nell'umano. Primo degli immanentisti moderni, ha visto la realtà fondersi ed unificarsi nell'eterna ed immensa potenza divina. Ma per aver concepito il divino totalmente immanente nell'azione non libera dell'uomo ha finito col farlo volatilizzare. Lutero ha effettivamente dischiuso la via alla speculazione posteriore, verso l'assoluta negazione del trascendente e il completo riassorbimento dell'oggetto nel soggetto. Si può dire che tutto lo sforzo del pensiero speculativo in quattrocento anni di evoluzione culturale è consistito nel passaggio dalla concezione del trascendente sussistente, base di ogni vita religiosa, al trascendentale autocreantesi, che è il postulato dell'idealismo assoluto. La speculazione moderna, trasposizione in sede filosofica dei principì di Lutero, ha collocato nella storia quella realizzazione del divino, che Lutero scorgeva nella grazia e nella predestinazione.

Il De Servo Arbitrio, studiato alla luce della posteriore evoluzione spirituale, appare ricco di spunti e di orientamenti significativi. Può suddividersi in quattro parti centrali: una confutazione delle premesse erasmiane; una discussione delle testimonianze bibliche allegate dall'umanista; una prolissa confutazione ad hominem della definizione della libertà data da Erasmo; un'esposizione personale dei dati del problema e della sua risoluzione. Erasmo aveva insistito sulla necessità in cui si trova il cristiano di sacrificare, alle volte, alle esigenze della fede, le pretese della ragione, e di rinunciare a risolvere dialetticamente quesiti imbarazzanti. Lutero proclama che simile agnosticismo conduce all'epicureismo. Erasmo aveva confessato il suo orrore per i movimenti religiosi che turbano e disorientano le coscienze. Lutero ribatte che, per il cristiano, la vita è, quotidianamente, lotta e contrasto. Erasmo aveva ammonito che la riconciliazione della grazia con la libertà costituisce il nodo gordiano della riflessione teologica. Lutero ribatte che rinunciare a scioglierlo equivale a tarpar le ali ad ogni vera esperienza religiosa. Non si può vivere, egli assevera, senza sapere se noi contribuiamo alla realizzazione del nostro destino o se è solamente la volontà di Dio che opera in noi. Non si tratta di stabilire un rapporto esteriore e meccanico, bensí di accertare se Dio «contingenter aliquid praesciat et si omnia faciamus necessitate»: si può dare una prescienza divina che non implichi un intervento efficace nelle nostre azioni? Si può supporre l'uomo libero nel suo operare, senza implicitamente limitare l'onnipotenza di Dio?

Lutero finisce con l'alterare la distinzione fondamentale fra contingente e necessario. Per la scolastica, contingente è tutto ciò che può essere o non essere. Per Lutero, la contingenza diviene sinonimo della nostra incapacità di scoprire l'intima ed infallibile causalità divina nei fatti. «Tutto quel che accade, anche se a noi appare contingentemente compiutosi, è in realtà necessariamente e immutabilmente operato, qualora si miri alla volontà di Dio. Poiché il volere di Dio è sempre imperiosamente efficace». Il contingente nasce dalla limitazione delle nostre cognizioni: si tratta di una pura illusione. In realtà, ogni nostra azione è quello che è, perché fatalmente posta da Dio in noi. La vita e la storia non sono che l'attività divina, proiettata nel tempo. Solo Dio è libero, conclude Lutero, perché Lui solo può fare o non fare, volere o non volere; l'onnipotenza divina non è compatibile con la libertà umana. Lutero riannoda pertanto la negazione della libertà al concetto stesso di Dio, che è l'attività per essenza, operante tutto in tutti «Omnipotentiam veri Dei voco, non illam potentiam, quae multa non facit quae potest, sed actualem illam, quae potenter omnia facit in omnibus ».

Ma Lutero ha voluto, soprattutto, con il suo trattato, combattere Erasmo facendosi forte delle sue stesse asserzioni. Fedele alla tradizione del cattolicesimo, l'umanista fiammingo aveva cercato di salvare in una teorica armonia i diritti della libertà con quelli della grazia. Egli aveva asserito che, dopo il peccato d'origine, la libertà, pur reintegrata nel battesimo, è sempre una quantità limitata e una possibilità fragile, incapace di condurre l'uomo alla salvezza, senza l'assistenza permanente del soprannaturale. Lutero lo prende in parola. Una forza inefficace non è una forza. Se la nostra libertà si riduce, semplicemente, all'attitudine dello spirito ad essere corroborato dalla grazia, ad una pura velleità obbedienziale giacente nell'animo, essa è una qualità che può ritrovarsi anche nelle creature irragionevoli, e che non ci toglie dal dominio assoluto ed incontrastato della divina azione. Erasmo aveva riconosciuto che il dono del merito e della grazia è sempre fuori di ogni proporzione con le nostre capacità, ma che ci sono in noi, ad ogni modo, delle qualità buone e delle azioni irreprensibili: e aveva addotto l'esempio dei filosofi antichi. Lutero annuncia brutalmente che è un empio, chiunque non ha lo spirito di Dio.

Ed ecco che il nucleo dell'antropologia luterana appare in tutto il suo pessimismo. Una recisa dicotomia è posta tra la carne e lo spirito. Tutto ciò che è carnale, è intimamente malvagio. Se non si è in balìa dello spirito, si è in balìa della carne e del male. Tra Dio e Satana non c'è regno intermedio. L'uomo, dichiara Lutero con un'immagine di una drammaticità impressionante, è una misera bestia da soma, su cui cavalca Dio o Satana. Ma quando e perché Dio vince Satana? Noi oggi non lo sappiamo: siamo dei portatori ciechi dei misteri di Dio. Ignoriamo le ragioni profonde per le quali Dio si risparmia a volte la vittoria su Satana e destina tanti alla perdizione. Vediamo solamente che alcuni sono chiamati alla fede, riscattati dalla colpa, universale retaggio degli uomini, trasferiti in quella sfera dell'intimo rinnovamento, in cui il bene sgorga automaticamente dalle loro capacità trasfigurate.

Una difficoltà imbarazzantissima si solleva a questo punto: perché Dio ha permesso che l'uomo cadesse nel peccato? Lutero risponde che prima della colpa originale l'uomo viveva nello spirito e non poteva peccare. Ad un certo punto Dio gli ha sottratto lo spirito, e l'uomo, rimasto una povera realtà carnale, è caduto nella colpa, trascinando con sé tutta l'umanità. La redenzione del Cristo non è che una nuova infusione di Spirito in questo essere carnale. Tutta la soteriologia cristiana, conclude pertanto Lutero, si leva contro la concezione del libero arbitrio, poiché, celebrando come principio di salvezza il sacrificio del Golgota, presuppone logicamente l'umanità incapace di redimersi con le proprie forze. Ammettere la volontà libera, di fianco al riscatto operato dal Cristo, significa tornare alla eresia pelagiana, distruggitrice di ogni sana e schietta vita religiosa.

Preso direttamente e violentemente a partito, Erasmo difese la sua collatio con un secondo trattato, l'I p e r as p iste, piú ampio ed elaborato del primo. Se inizialmente egli aveva spiegato tutta l'amabile cortesia di cui il suo animo era naturalmente ricco, ora, alle accuse, replica con mal represso sdegno. Si difende dalla taccia di scetticismo. Confessa il proposito di trattare il problema in discussione su terreno strettamente filosofico, e invece si attarda ancora su questioni marginali, di pura e tecnica speculazione teologica. Questo sottile umanista, questo agguerritissimo storico, tradisce tenacemente preoccupazioni ecclesiastiche. Uomo di Chiesa, si direbbe, prima e piú che pensatore, Erasmo sente la necessità di salvare un insieme complicato di posizioni ardue, collegate tra loro in un delicatissimo equilibrio instabile. A proposito del libero arbitrio egli cerca affannosamente una soluzione che rispetti cosí le esigenze dell'antropologia cristiana, come quelle della società ecclesiastica. È intuitivo che, negando la libertà della scelta nella sfera delle nostre operazioni coscienti, noi cadiamo in un pessimismo oscuro, che essica automaticamente le nostre capacità morali. D'altro canto, accentuando i poteri della nostra libera decisione, difficilmente si giunge piú alla raffigurazione di un divino trascendente, che faccia garanzia delle comunicazioni carismatiche nella Chiesa. Il cristianesimo storico, osserva acutamente Erasmo, oscilla invariabilmente tra le due posizioni antitetiche, chem son quelle, in ultima analisi, di Pelagio e di Agostino. Nella stessa assunzione dell'agostinismo, la Chiesa ha dovuto introdurre un soffio di pelagianesimo: ché, se questo, paradossalmente inteso, distrugge una genuina soteriologia, quello, nelle estreme sue conclusioni, sopprime il valore autonomo dell'etica umana. Basta calcare leggermente la mano su uno dei due termini correlativi, per spezzare irrimediabilmente l'equilibrio su cui si regge la tradizione organizzata del cristianesimo. Lutero, osserva Erasmo, l'ha spezzato. Se Dio opera direttamente in noi attraverso l'imputazione tutta gratuita dei meriti reintegratori del Cristo in virtú di un ineffabile decreto di predestinazione, tutto il mondo della grazia è racchiuso in ogni anima, ed ogni magistero ecclesiastico è automaticamente soppresso. Anche per Erasmo la colpa d'origine ha turbato radicalmente l'armonia tra la carne e lo spirito, gli elementi formatori dell'uomo. Ma carne e spirito non si sono arbitrariamente trasfigurati nella sua esperienza in due categorie nitide, applicabili a due nuclei nettamente distinti di individui: i carnali e gli spirituali, i salvantisi e i perdentisi di San Paolo. Ogni individuo reca in sé il duplice elemento e la consapevolezza interiore è precisamente la capacità intima di abbandonarsi all'uno o all'altro di essi, alla carne o allo spirito. Non si dà vita etica senza tale presupposto. Erasmo svolge infine l'argomento principe della libertà, quello a cui si è sempre fatto ricorso: la consapevolezza della capacità di scelta è nell'uomo la riprova della sua autonoma e quindi imputabile decisione. D'altro canto, di questa autonomia Erasmo pone in risalto le limitazioni e le deficienze, onde possa garantire l'impellente necessità della grazia. Dando prova di un acume psicologico singolare, Erasmo accenna fugacemente ai molteplici coefficienti che turbano, limitano, coartano, deformano l'esercizio dell'umana libertà. «Non si può pensare», egli assevera ad esempio, «che la bontà o la perversità di un individuo siano ognora il risultato della sua libera scelta: molto invece è dovuto alle azioni extrasoggettive». E a Lutero rimprovera appunto di essersi posto nella impossibilità di valutare e graduare la responsabilità dei soggetti umani.

Le pagine però piú importanti, per chi voglia giudicare la posizione reciproca dei due contendenti, sono indubbiamente quelle nelle quali Erasmo rifiuta con energia ogni compartecipazione all'enorme turbamento spirituale che Lutero ha suscitato: «Sempre, in ogni istante, ho evitato di federarmi con Lutero. Costantemente sottomesso al magistero e alla disciplina della Chiesa cattolica, mi piego al suo verdetto». Investendo direttamente il docente di Wittenberg, augura che il suo movimento possa sollecitamente estinguersi, ed esumando da Tertulliano l'argomento della prescrizione contro ogni posizione ereticale, rivendica alla Chiesa il possesso inattaccabile della sua dottrina della libertà. Erasmo riconosce il potere sconcertante di Lutero: ma constata anche i risultati funesti della sua propaganda, e ne trae quelle conclusioni che al suo amore per la pace della società cristiana appaiono piú naturali.

Partito in guerra, sotto lo stimolo cosí delle sue preoccupazioni personali, come delle tendenze storiche ed ambientali, contro il magistero visibile della Chiesa e la amministrazione gerarchica delle grazie sacramentali, Lutero aveva cosí ormai finito con il ricongiungere il divino e l'umano, saldandoli mediante l'esperienza dell'intima imputazione dei meriti del Cristo, all'anima, fatalmente e ininterrottamente peccatrice. La salvezza non è piú vincolata ad una disciplina esteriore e ad una pratica volonterosa: rampolla unicamente da un iniziale atto di fiducia nella bontà reintegratrice del Cristo, che ci trasfigura e ci sublima. Il divino è cosí inserito sul flusso permanente della vita rinnovata dalla fede: è innestato su tutte le espressioni della attività umana, in cui si è trasfuso un preliminare atto di fiducia e di sicurezza religiosa.

Di questa celebrazione del divino nell'umano a cui, da un punto di vista storico, potrebbe ridursi tutta l'originalità del messaggio luterano, il De Servo Arbitrio è il documento piú schietto e piú coerente. E poiché tutta la cultura moderna, attraverso la formazione progressiva dell'idealismo soggettivistico, è nello sforzo di umanizzare il senso del divino e di laicizzare la religiosità, può affermarsi, senza paradosso, che tale documento ha esercitato sugli indirizzi della spiritualità, nei secoli a noi piú vicini, una efficacia incalcolabile, molto piú presente di quanto comunemente non si creda. E nel De Servo Arbitrio forse molto piú che nel Discorso sul metodo di Cartesio, che vanno ricercate le sorgenti delle posizioni mentali e spirituali, quali la cultura moderna ha cercato e cerca tuttora, attraverso sforzi vani, ma analoghi, di rendere normative.

Per una singolare coincidenza, che non manca di essere parecchio istruttiva sul temperamento di Lutero e le reazioni del suo pensiero e della sua condotta alla realtà circostante, l'aperta professione di fede che è nel De Servo Arbitrio appare lanciata nel momento stesso in cui le ripercussioni morali e sociali del messaggio riformato apparivano d'ogni intorno piú vaste e minacciose. L'agitazione suscitata dalla propaganda fra mistica e rivoluzionaria dei Profeti Celesti era lungi dall'essere sedata. Carlostadio ad Orlamünde, Münzer ad Allstadt, tenevano accesi due focolai di sedizione, che periodicamente lanciavano guizzi di tumulto popolare e propagavano scoppi di brutalità iconoclastica, accompagnati da barbare manomissioni di chiese. Lutero sentí il bisogno di scendere nuovamente in campo.

È degli inizi del 1525 il suo rinnovato attacco Wider die himmlischen Propheten in due parti, la prima delle quali diretta a frenare l'intempestiva violenza degli esaltati contro le manifestazioni pubbliche del culto esterno, la seconda rivendicante in termini perentori e sempre piú vivi la dottrina della presenza reale. Lutero si dichiara decisamente contrario a qualsiasi azione concreta, spiegata in vista della soppressione del rito costituito, assicurando che le superstizioni e le ostentazioni del culto esterno cadranno automaticamente, quando gli uomini si siano persuasi della novità reintegratrice del suo messaggio. Ai Profeti Celesti, che a giustificazione del loro programma e della loro tattica si appellano alla legge mosaica e al suo solenne divieto di ogni simulacro sensibile, Lutero risponde osservando che la legislazione di Mosè è una povera cosa, destinata unicamente al popolo ebraico e condannata a scomparire al sopravvenire della rivoluzione cristiana. E ai provocatori di tumulti, che si lusingano di instaurare col ferro e col fuoco la nuova economia evangelica, Lutero, la cui posizione spirituale è agli antipodi della visione escatologica messianica dei Profeti Celesti, contrappone, ancora una volta, il concetto intimo dell'esperienza e della salvezza religiose. Infine ribadisce la sua fede nella presenza reale, quella fede che dovrà essere la ragione irreparabile della divisione incolmabile tra le varie denominazioni riformate.

Queste polemiche di natura piuttosto biblico-teologica non dovevano del resto suscitare nell'animo di Lutero preoccupazioni tanto forti quanto quelle che dovevano suscitargli le agitazioni proletarie che si facevano forti della sua insurrezione religiosa.

La vasta rivolta dei contadini, che raggiunse nel 1525 il suo piú alto grado di violenza, determinava nel predicatore della riforma una reazione dura e crudele, che mostrava palesemente come, nel suo fondo, il movimento riformatore potesse favorire la resistenza dei principi all'unità dell'Impero di Carlo V, ma non avesse nulla che lo portasse a legare a lungo i propri destini a una causa proletaria.

Abbiamo qui una specie di reazione chimica che fa polarizzare il movimento di Lutero verso le classi nobiliari e borghesi, anziché verso la classe dei lavoratori agricoli, che pure non avevano tardato a rivolgere verso la predicazione di Wittenberg l'orientamento delle loro aspirazioni e delle loro speranze.

Noi cogliamo qui sul vivo la efficacia rimarchevole, potremmo anzi dire senz'altro decisiva, che i fattori politici vengono ad esercitare sulle sorti di queste varie tendenze riformatrici che pullulano nell'Europa nel secolo XVI incipiente e in particolar modo su la tendenza luterana come parallelamente su quella calvinistica.

Queste clamorose polemiche fra Lutero e i cosiddetti Profeti Celesti, fra Lutero ed Enrico VIII, fra Lutero ed Erasmo, quali ripercussioni avrebbero esercitato sullo spirito precoce di quegli che le circostanze avrebbero fatto corifeo della riforma di lingua francese? Gli storici vanno meticolosamente cercando l'anno preciso di una cosiddetta conversione di Calvino. Lutero stesso ha dovuto faticare parecchio per fissare in quella che è nota come «l'esperienza della torre» il momento decisivo in cui si sarebbe fatta nel suo spirito la luce sul significato del capitale inciso biblico: «Giustizia di Dio». E Calvino è scarsissimo di riferimenti cronologici, quando parla della sua «prodigiosa» conversione.

In realtà, si tratta di problemi mal posti. Noi constatiamo, di certe lunghe e lente maturazioni spirituali, l'improvvisa esplosione, quando le circostanze storiche circostanti, la temperie ambientale, permettono, a segrete e circoscritte esperienze individuali, di trasferirsi sul terreno della vita associata, per assumervi un valore normativo e collettivo.

D'altro canto, il sogno di questi riformatori del secolo XVI non ha piú nulla del grande sogno apocalittico che aveva alimentato la spiritualità di un Gioacchino da Fiore, di San Francesco e dei loro primi accesi seguaci.

Quelli sí erano dei «convertiti», in quanto alla Chiesa dei simboli avrebbero voluto veder sostituita la Chiesa delle grandi realtà carismatiche, che sono l'amore universale, la povertà ilare e giuliva, la fraternità, fatta primo dogma di fede, il perdono delle proprie inevitabili colpe, cercato nel primo luogo sacro dove sia possibile prostrarsi in comunione di spirito con Dio e con i fratelli, nell'atteggiamento dell'umiltà e della solidarietà nel dolore e nella speranza.

Oramai, a tre secoli di distanza, non era piú il caso di parlare di «conversione». Si può parlare veramente di «conversione» quando si tratta di passare dal concetto dell'assoluzione per le mani del sacerdote al concetto del perdono della colpa, in virtú di un'attribuzione dei meriti infiniti di Cristo?

La conversione evangelica era stata altra cosa. Era stata cioè il rinnegamento di tutte le categorie morali vigenti, per l'affermazione sublime dell'avvento del Regno e della necessità di guadagnarlo attraverso lo sbaraglio della propria anima e il rovesciamento dei valori.

E allora ricordiamolo bene: quando parliamo di riforme del secolo XVI noi adoperiamo questa parola in un significato tecnico consuetudinario che è molto piú in là di quello che non fosse la realtà dei fatti. Avendo abbattuto il grande sogno apocalittico di Gioacchino da Fiore, la Cristianità, all'inizio dell'età moderna, non si avviava ad una riconquista di quel mondo che andava irrimediabilmente perdendo. Ritraeva piuttosto indietro le sue trincee, di fronte ad un avversario la cui avanzata aveva qualcosa di irresistibile. Questo avversario era il progrediente spirito laico e profano, nella concezione della vita e nella pratica dei rapporti associati.

Il fatto che, già potenzialmente in rotta con le autorità ecclesiastiche del suo paese, con i parenti palesemente insubordinati a queste autorità, in una temperie culturale traversata dalla inquietudine di un umanesimo stanco di ecclesiasticismo burocratico, Calvino, poco piú che ventenne, si sia dato a commentare il De Clementia di Seneca, è, come abbiamo già detto, un particolare pieno di significato. Lutero aveva commentato pochi anni prima la Teologia tedesca; non avrebbe mai e poi mai pensato di commentare un filosofo stoico. Calvino pure, è vero, riconosce e confessa l'abissale divario che separa la visione stoica della vita dalla visione cristiana. Ma qualcosa dell'autosufficienza stoica doveva essere istintivamente nel suo spirito, perché egli, in un'ora di una certa importanza nella sua evoluzione spirituale, si perdesse cosí intorno ad un commentario su un'opera di quegli che era stato il disgraziato méntore di Nerone.

Non potremmo noi dire di sorprendere già qui i tratti differenziali, che distinguono la riforma francese, la quale sarà in sostanza anche la riforma fiamminga e anglosassone, da quella germanica, e che peseranno sensibilmente sull'avvenire di tutta la spiritualità europea?

Su nessuna vita probabilmente le circostanze esteriori hanno esercitato piú imponente azione che su quella di Calvino. La sua preparazione spirituale era senza dubbio già molto avanzata, quando alcune evenienze esteriori vennero a determinare il suo orientamento e il suo destino per tutto il resto della sua esistenza.

Egli era a Parigi in quell'autunno del 1533 che doveva vedere all'Università, di cui era rettore Nicola Cop, la riabilitazione del Miroir di Margherita di Navarra. Il discorso del rettore fu tutto una mal dissimulata apologia delle opinioni riformate e in particolare della dottrina della giustificazione in virtù della sola fede. Corse la voce, e la voce è stata raccolta da parecchi storici, che Calvino avesse partecipato alla stesura di quel discorso accademico inaugurale. Sta di fatto che il Cop fu denunciato al Parlamento di Parigi e perciò, malsicuro dell'appoggio del re Francesco I, preferí andarsene a Basilea. Calvino avrebbe potuto essere catturato anch'egli se non avesse provveduto alla propria sicurezza fuggendosene a Noyon. Agli inizi del 1534 egli andava a raggiungere ad Angouleme il suo fedele amico Luigi du Tillet, canonico della cattedrale.

Di là si trasferí ad Orléans dove dettò quel breve trattato, la Psychopannychia, per combattere l'opinione degli anabattisti secondo cui i morti avrebbero passato in una specie di letargo il periodo di tempo intercorrente fra la morte e il giudizio finale.

Frattanto veniva preparando i materiali per la sua Institutio Religionis Christianae che nel 1536 egli concludeva, dedicandola ardimentosamente al re stesso Francesco I che nella sua diuturna lotta contro Carlo V cercava di stender la mano ai riformati in Germania, ma si guardava bene dal favorire i riformati di casa propria.

Con quella piccola opera, mingherlina di proporzioni, ma imponente e incisiva di contenuto, Calvino gettava le basi di quella sua peculiare concezione religiosa, su cui tra pochi anni avrebbe costruito il suo dominio teocratico di Ginevra.

Ginevra, come ha scritto una volta Imbart de la Tour, è stata grande perché è stata la città di Calvino. La staccò dal suo passato, anzi dal passato, facendole perdere si direbbe non soltanto la sua individualità, bensí anche la sua stessa nazionalità. Di questa città rinnovata, trasformata, come assorbita nella propria persona e nella propria dottrina, Calvino volle fare un esemplare dell'universo. La conquistò per offrirla a Dio.

Fin dal secolo XII il vescovo di Ginevra ne era anche il signore. Al governo spirituale andava unito il governo temporale. Quando il fermento comunale si fa a serpeggiare attraverso tutta l'Europa, anche la cittadinanza ginevrina tende ad affrancarsi dal dominio politico vescovile. Ma in fondo gli interessi del vescovo e gli interessi della cittadinanza coincidono: entrambi mirano alla conservazione della propria indipendenza. Da questo scambievole accordo nasce il progresso delle istituzioni municipali.

Nel 1376 il vescovo Guglielmo de Marcossey obbliga il clero a contribuire alle spese per la costruzione delle mura di cinta della città, e nel 1387 Ademaro Fabri, già priore del convento dei domenicani a Ginevra, divenuto vescovo, conferma e fa redigere in 79 articoli le libertà, le franchigie, le immunità cittadine.

Amedeo VIII di Savoia, quando, nel 1417, vide la sua contea eretta a ducato, cercò di ottenere dall'imperatore Sigismondo, al quale aveva prodigato cospicue somme di denaro, anche la città di Ginevra.

Ma né il vescovo né i cittadini ginevrini si acconciarono a simile trapasso, e Amedeo dové limitarsi a mantenere intatto il vecchio diritto di famiglia di nominare colà il Vidomme. Questo non vuol dire che egli rinunciasse a rifarsi in qualche altra maniera. E quando si ritirò dalle cure mondane sul lago di Ginevra, a menare con qualche vecchio compagno d'armi vita di cavaliere eremita, e quando il sinodo di Basilea nel 1439 lo designò improvvisamente al Pontificato che egli occupò col nome di Felice V, continuò a ricordarsi delle sue velleità di dominio ginevrino; e quando, nel 1449, rinunciò alla sua dignità pontificia in favore di Niccolò V, pose come condizione che gli fosse lasciato il vescovado di Ginevra.

Fu cosí che i vescovi ginevrini furono per piú di un secolo nominati sempre o quasi dai duchi savoiardi, finché il passaggio di Berna alla riforma nel 1528, cui seguí a brevissima distanza il medesimo passaggio di Basilea, non si ripercosse sulla costituzione municipale di Ginevra, presa nel conflitto fra Friburgo e Berna.

Nel 1532, il Farel, accompagnato dall'Olivetano e da Antonio Saunier, si presentava a Ginevra con lettere credenziali dei Bernesi, per incitare la città ad abolire la messa e a rinunciare alla disciplina papale per seguire le nuove idee.

Dopo aver peregrinato in Italia alla corte di Renata, figlia di Luigi XII e sposa di Ercole d'Este, duca di Ferrara, e poi di nuovo attraverso l'Italia settentrionale e la Svizzera occidentale, Calvino era costretto, dalle condizioni di guerra, per raggiungere Strasburgo, dove avrebbe voluto ritirarsi, a passare per Ginevra. Era l'estate del 1536. Farel intuí quale meraviglioso cooperatore sarebbe stato Calvino per la propagazione del messaggio riformato in territorio di lingua francese, e usando tutta la sua energica e cogente autorità lo indusse a rimanere a Ginevra, donde Calvino, dopo il breve periodo di esilio fra il 1538 e il 1541, non si sarebbe piú mosso fino al giorno della sua morte nell'aprile del 1564.

La sua grande opera cominciava. La Institutio Reli gionis Christianae ne preconteneva le linee fondamentali. Non voleva essere altro che uno schematico manuale della fede cristiana. Constava di sei capitoli: il decalogo; la fede; la preghiera; i Sacramenti; i falsi sacramenti; la libertà cristiana, il potere ecclesiastico, la amministrazione civile.

Circola per entro quest'opera, al nocciolo piú profondo, la medesima ispirazione che aveva sorretto la insurrezione antiromana di Lutero. In fondo, il problema che si presenta allo spirito di questi riformatori è sempre il medesimo: come assicurare la salvezza dell'anima peccatrice, indipendentemente dall'amministrazione visibile dei carismi per opera di Roma? L'esperienza religiosa, il senso del peccato, il bisogno di una qualsiasi sicurezza della salvezza, sono ancora i concetti basilari della visione spirituale della vita. Il Medioevo cristiano ha lasciato un'eredità che è tuttora viva e intangibile: il senso profondo della colpa, la consapevolezza del riscatto operato da Cristo, l'ansia di partecipare ai benefici di questo riscatto. Quel che è nuovo è il desiderio di affrancarsi dalla tutela romana nell'opera della salvezza spirituale. Noi abbiamo visto come per Lutero il Cristo salvatore sia veramente al centro della nuova visione della salvezza. Tutta la sua rivoluzione religiosa è nella trasformazione del concetto di giustizia e di giustificazione, intese in un significato puramente passivo, come applicazioni forensiche ed estrinseche dei meriti del Cristo.

In questa certezza della salvezza operata dal Cristo e partecipata mercè l'adesione a lui cieca e fiduciosa, c'è, si direbbe, qualche cosa di iracondo e di geloso nella predicazione luterana. Lutero si disinteressa di tutto quello che non tocca da presso o da lontano questo dogma centrale della sua predicazione riformatrice. Per questo si spiega il suo assenteismo, diciamo cosi, e la sua indifferenza a tutto quello che è politica esteriore, vita civile, vita sociale. Noi abbiamo già visto come questa riduzione del fatto religioso e cristiano alla simultaneità della colpa e del riscatto in ogni anima che, sapendosi funzionalmente corrotta e peccatrice, si getta disperatamente nelle braccia del Cristo salvatore, avesse conseguenze di altissimo rilievo in tutto il modo di concepire i rapporti della vita associata.

Il nucleo centrale della esperienza religiosa e della fede evangelica veniva ad essere circoscritto alla consegna di affidare ininterrottamente alla virtú salutifera del Cristo l'onere della nostra reintegrazione nel bene, al di là della nostra inguaribile peccaminosità.

Negando il valore delle opere, colpendo in radice la tradizione dell'ascetismo cristiano, abolendo qualsiasi ideale di superiore pratica di bene nella continenza e nella rinuncia, Lutero era venuto a trasferire automaticamente, in qualsiasi forma della vita umana normale, quella pienezza di giustizia che il Medioevo aveva veduto soltanto nella disciplina regolare e nell'allontanamento dalmondo. E il mondo ne aveva ricevuta una giustificazione e una celebrazione che dovevano riflettersi e fruttificare in tutti i secoli successivi della storia europea.

C'è un tratto tipico nella traduzione di Lutero della Bibbia, che a questo riguardo è di una significazione e di un valore sconfinati. Nel libro dell'Ecclesiastico, al Capo IX, versetto 21, il testo sacro dice: «Non ti stupire di quel che riguarda il peccatore: poni la tua fiducia in Dio e sii perseverante nel tuo sforzo».

Nel testo greco la parola sforzo è ponos, che è precisamente il lavoro faticoso, il travaglio non disgiunto da pena. Lutero ha tradotto questo versetto in una maniera che, mentre tradisce alquanto l'originale, rivela il suo orientamento spirituale: «Nutri fiducia nel Signore e sii perseverante nella tua chiamata (Beruf)». Dall'uso parallelo che Lutero fa di questo vocabolo altrove, appare chiaro che egli è disposto a riguardare e a celebrare qualsiasi forma di lavoro nella vita quotidiana come una divina chiamata. Ed ecco che in virtú di questo uso luterano del vocabolo «chiamata» un valore religioso è venuto ad annettersi a tutte le espressioni della vita quotidiana, nei suoi piú umili dettagli. «Dio», dirà altra volta Lutero, «compie tutto Lui attraverso voi: attraverso voi Egli munge la vacca e compie qualsiasi altra opera servile.». Si comprende pertanto come alla luce di questa concezione di Lutero, ad ognuno competa l'obbligo di vivere religiosamente la forma di vita laica a cui egli sia dalle circostanze portato. Si può dire senza esagerazione che l'uso profano della parola «chiamata» rappresenta uno dei piú cospicui contributi della riforma alla genesi e allo sviluppo della vita moderna.

Calvino giunge alle stesse conclusioni pratiche, ma per altra via e con altra efficienza.

Anch'egli è piú o meno consapevolmente manodotto dal proposito di sottrarre a Roma e al clero l'amministrazione dei mezzi attraverso cui si effettua e si garantisce la salvezza. Anch'egli, come tutti gli umanisti francesi, ansiosi di riforma, vede nella attribuzione dei meriti del Cristo il mezzo infallibile della nostra giustificazione e quindi del nostro riscatto. Ma questo canone fondamentale della sua rinnovata esperienza religiosa si inquadra in tutta una visione globale della realtà cosmica, umana e divina, che fa della sua teologia un sistema piú organico; della sua pratica di governo, di cui Ginevra gli permette di fare l'esperimento, un tentativo concreto e originale, con le sue direttive economico-sociali: un insieme di norme e di principi, che sono veramente alle origini del capitalismo moderno.

Intanto non bisogna mai dimenticare la circostanza che le due esperienze religiose, quella di Lutero e quella di Calvino, sono profondamente difformi l'una dall'altra. In Lutero è soprattutto la ribellione ad un legalismo disciplinare pesante e duro come quello della professione monastica che parla attraverso la rivendicazione della giustizia, in virtú della sola applicazione dei meriti di Cristo. Un'anima assetata di certezza sul problema della salvazione e in pari tempo quotidianamente consapevole della impossibilità di praticare la perfetta virtú della continenza e dell'abnegazione, posta come condizione di quella stessa salvazione, non poteva rifugiarsi che nella nozione di una giustizia imputata, e in questa nozione trovare il riposo della sua vita spirituale, il centro della sua propaganda, il motivo esclusivo della sua lotta.

Per quanto candidato alla carriera ecclesiastica, Calvino non ha conosciuto i tormenti interiori che hanno sconvolto l'anima vulcanica di Lutero e ne hanno esasperato la rivolta. Anche San Paolo aveva conosciuto il dissidio permanente fra l'ideale della perfezione sognata e l'opaca resistenza della carne, impastata di cupidigia e di passione. E a questo contrasto aveva dedicato nella Lettera ai Romani una pagina piena di patetico strazio e di assurda fiducia. Anch'egli parla della grazia di Cristo come unico rimedio al conflitto che lacera permanentemente la nostra fragile e tumultuante natura. Ma quando Paolo nomina la grazia che placa la coscienza del nostro dissidio interiore, lascia prudentemente nell'ombra una qualsiasi delineazione del carattere attivo o passivo di quella giustizia, che può realizzarsi in noi in virtú di una collaborazione misteriosa fra Dio e l'uomo nell'opera del bene.

In Calvino il problema della giustificazione per fede si innesta su tutta una visione organica dei nostri rapporti con Dio che si fa nelle successive edizioni della In stitutio sempre piú personale ed indipendente dai principi di Lutero.

Quasi consapevole della sua complessa responsabilità di condottiero di una massa umana oltre che di riformatore religioso, Calvino allarga la sua programmatica spirituale dal circoscritto problema della giustificazione e verso una reintegrazione di tutta la visione religiosa e cristiana dell'universo.

Dio è dinanzi a lui come la realtà trascendente e assoluta che domina con la sua ineffabile sovranità su tutte le espressioni della vita e dell'universo. È la gloria di Dio lo scopo unico di quanto esiste nel mondo, e tutte le creature non hanno altra meta, non assolvono altro còmpito che quello di contribuire al suo sfolgorante irraggiare. Ma Dio non è conosciuto dall'uomo che attraverso la Scrittura, la cui autorità è superiore ad ogni dubbio e ad ogni critica. Gli scrittori biblici sono i genuini amanuensi dello Spirito Santo.

Di fronte a questa assoluta sovranità di Dio, l'uomo è in una posizione di nullità assoluta, perché mentre l'Eterno è la santità per essenza, l'uomo è creatura di corruzione e di morte. La colpa di Adamo ne ha alterato in profondità la costituzione, ne ha fatto un semenzaio di peccato e di corruzione.

Chi, se non il Figlio di Dio, avrebbe potuto redimerlo? Cosí il figlio assolse il programma della salvezza umana attraverso la sua umiliazione, la sua ubbidienza fino alla morte, ricompensate con la resurrezione e con l'ascensione al cielo. Il nostro riscatto è legato al nostro inserirci nel Cristo, e questa nostra inserzione nel Cristo si consuma e si celebra in virtú dello Spirito Santo, che ci fa compartecipi della morte e della resurrezione del Figlio di Dio.

Meno unilaterale di Lutero nella negazione del valore delle opere, Calvino fa discendere dall'adesione al Cristo la rigenerazione e la santità, non meno che la giustificazione. Sembra non dimenticare di aver imparato dagli stoici quella rigidezza morale, che egli riporta all'opera salutifera del Cristo e del suo spirito. Egli non avrebbe mai detto che il miglior modo di mostrare la propria fiducia nella virtú sconfinata dell'opera salvatrice del Cristo è quello di assegnare a questa capacità riscattatrice del Cristo il maggior pondo possibile di nostri demeriti e di nostre deviazioni.

Ed ecco allora profilarsi la singolarissima e contraddittoria azione di Calvino in quella Ginevra che diventa sua.

Arcigno, sospettoso, intransigente fino alla crudeltà e alla spietatezza, Calvino vuole essere a Ginevra non soltanto il predicatore dall'ambone, ma il correttore dei costumi, il tutore della moralità pubblica, il persecutore implacabile di ogni immoralità e di ogni nefandezza.

La sua posizione nell'ambiente politico circostante gli consentiva uno spiegamento di attività parzialmente piú circoscritto, ma spiritualmente di tanto piú efficiente. Lutero si trovava di fronte l'autorità imperiale, impersonata in uno spagnuolo, di contro a cui egli non poteva fare ricorso che alla protezione di principi, intenti a conquistare una autonomia nazionale. Calvino agisce in un libero Comune, conteso fra due Comuni piú vicini, Friburgo e Berna, la cui rivalità si traduce parallelamente in una competizione religiosa. Friburgo è fedele alla sua tradizione cattolica. Berna ha accettato il nuovo Vangelo. Si verifica qui, come in miniatura, la stessa situazione in cui tutta la Svizzera si trova di fronte alle grandi Potenze vicine, Francia e Germania. Berna ha aiutato Ginevra a conquistare la sua libertà dai Savoia. Farà pesare questa sua benemerenza. Calvino è automaticamente indotto ad assumere nella sua città quelle mansioni di direzione politica esterna, di cui Lutero si disinteressa. Fra i due riformatori esiste la naturale solidarietà che è determinata dal comune proposito di battere in breccia la amministrazione carismatica visibile e di fare della salvezza spirituale un problema strettamente personale. Ma l'orientamento e il punto di vista suggeriti dalle diverse situazioni non mancano di riflettersi e di ripercuotersi nell'insegnamento teologale. L'Iddio di Lutero è soprattutto l'Iddio che ha mandato il Figlio per il riscatto dell'umanità peccatrice. L'Iddio di Calvino è l'Iddio assoluto e inaccessibile del Vecchio Testamento, di fronte a cui ci si prostra nel senso della piú assoluta nullità e della piú disperante abiezione. All'uno e all'altro viene a mancare fondamentalmente quel senso mirabile del fascinans, che fa della predicazione neotestamentaria del Regno di Dio una seduzione e una gioia.

Nella sua pretesa di disciplinare integralmente la vita morale della città che si è affidata al suo magistero, Calvino viene ben presto a conflitto con le autorità bernesi, che pretendono dal canto loro di tenere Ginevra sotto la loro tutela. L'occasione del conflitto può sembrare futile e sproporzionata. Si trattava di quelle «cerimonie» di Berna concernenti l'uso del fonte battesimale e del pane azzimo nella comunione, su cui Ginevra, o meglio Calvino, sarebbero stati disposti ad allontanarsi molto di piú dalla tradizione cattolica. Ma in fondo si trattava in verità di un diverso modo di giudicare i rapporti fra autorità politica ed autorità religiosa, e di circoscrivere i limiti in cui potesse esplicarsi l'autorità dei ministri ecclesiastici.

Calvino non avrebbe mai voluto rinunciare al diritto di scomunicare, di espellere cioè dalla comunità religiosa chi si mostrasse recalcitrante e refrattario alle sue prescrizioni in fatto di fede e di costumi. Troppo attaccati alla tutela di Berna per poter preferire a questa un ministro, precisamente quel «Gallus», come è chiamato Calvino nei primi documenti ginevrini che lo menzionano dopo il suo arrivo, i consiglieri e il popolo di Ginevra sacrificano Calvino all'alleanza bernese. Calvino dovette, col suo protettore Farel, esulare. Visse a Strasburgo fino al 1541, quando la mutata temperie politica di Ginevra e la piú salda costituzione cittadina consentirono che si comprendesse colà quanto il ministero di un uomo come lui potesse riuscire provvido al governo cittadino e alla nomea della città.

Ritornava trionfante. Da allora non avrebbe piú abbandonato questo suo mirabile dominio spirituale. L'attività infaticabile, la penetrazione del giudizio, la vasta scienza storico-religiosa, la sicurezza della propria coscienza, dovevano fare di lui un maestro di nuove esperienze religiose e sociali, la cui azione si sarebbe ripercossa nei secoli in maniera altrettanto vasta e altrettanto efficace che l'azione di Lutero. E forse anche piú.

Lutero ha foggiato l'anima della Germania moderna. Calvino ha foggiato l'anima del mondo anglosassone. E oggi stesso, a distanza di secoli, il contrasto dei due mondi è il contrasto delle due teologie, che, nate dalla medesima volontà di rompere l'incantesimo dell'unità ecclesiastica medioevale, retta dal principio dell'amministrazione carismatica visibile, hanno preso nella storia, e per il diverso temperamento dei corifei e per la divergenza delle circostanze ambientali, due orientamenti nitidamente distinti.

Se il principio della giustificazione per fede domina incontrastato nell'insegnamento di Lutero, nell'insegnamento di Calvino domina sovrano il principio della predestinazione e della elezione.

Trascinato dal bisogno di dare una sicurezza della salvezza alla sua anima tremante di deluso nel dominio dell'etica e della virtú, Lutero ha l'occhio fisso sul Cristo e la sua virtú salvatrice.

Prostrato in un senso che è in pari tempo di abbandono assoluto e di fiducia illimitata nell'Iddio sovrano che l'ha chiamato alla grazia, Calvino pone la sua insistente cadenza sul concetto della divina predestinazione alla salvezza. Il lato fascinoso della sua esperienza è dato esclusivamente da questo senso beatifico ed euforico della certezza della predestinazione. Anche San Paolo è stato a suo modo un predestinazionista, ma la sicurezza dell'avvento prossimo del Regno di Dio, di questo che è veramente il lato fascinans dell'esperienza cristiana primitiva, toglie all'esperienza di Paolo e delle sue comunità qualsiasi aspetto individualista, per fare della visione cristiana una vera visione collettiva, affidata all'esperienza del gruppo e alla speranza associata.

D'altro canto il libero campo offerto dalla città di Ginevra al governo spirituale di Calvino apre il varco a quegli abusi di potere che gettano un'ombra cosí fosca sull'attività del riformatore ginevrino. Fra le sue vittime Michele Serveto è il piú insigne. Nato nel 1511 a Villanueva nel regno di Aragona, aveva lasciato la Spagna verso il 1527 per studiare legge a Tolosa. Due anni dopo passava al servizio del confessore di Carlo V, Quintana. Il suo spirito avventuroso, le sue idee eterodosse gli fecero cercare, a Basilea, Ecolampadio, cui sottopose alcuni suoi saggi sul dogma della Trinità. Ecolampadio lo sconsigliò dal dare divulgazione alle sue idee, ché il dogma trinitario costituiva sempre terreno infiammato, facile alle insidie e alle incomprensioni. Calvino stesso, nelle sue prime avvisaglie con Berna, era stato accusato di professare in argomento dottrine poco regolari.

In verità il dogma trinitario, come abbiamo visto parlando della predicazione di Gioacchino da Fiore, aveva già da tempo superato il punto critico della sua trasmissione, pragmatisticamente valida nel mondo cristiano. La ufficiale teologia scolastica ne aveva fatto un dogma fra lo gnoseologico e il metafisica, mentre nelle ore della sua vera vitalità era stato un dogma interpretativo della storia. Ora, in Serveto, e molto piú nei riformatori italiani sul tipo dei Socini, il dogma trinitario appariva, si direbbe, come un segno infallibile di quella che era la decadenza della virtú normativa della tradizionale dogmatica cristiana.

Ma per una strana coincidenza, che non manca però di significato profondo, questi stessi negatori del dogma trinitario del secolo XVI, ormai nella impossibilità di legare un'aspettativa apocalittica alla terza Persona, a quello Spirito di cui Gioacchino aveva invano preannunciato la rivelazione, appellano ad una palingenesi nel Cristo, che non chiede piú, all'economia storica raffigurata nelle tre persone, la sua giustificazione e la sua malleveria.

Dopo aver pubblicato, nonostante gli scongiuri di Ecolampadio, il suo De Trinitatis erroribus e dopo avere difeso questo libro, ampliandone il contenuto, con il suo Dialogus de Trinitate in due libri, Michele Serveto faceva un'esposizione completa delle sue idee in un'opera cui diede per titolo Restitutio Christianismi.

Tra platonico e naturalista, Serveto distingueva un triplice mondo nell'universo, che richiama molto da presso la ripartizione cosmica dei neoplatonici. Esiste la realtà divina trascendente ed incomprensibile; esiste un mondo ideale eterno ed impalpabile; esiste infine il mondo della sensazione e della realtà creata e sperimentabile.

Cristo è il mediatore di questi mondi, in quanto in lui lo spirito vitale dell'uomo ha ricevuto la penetrazione diretta ed assoluta della divina essenza.

Questa visione idealistica dell'universo non si disgiunge in Serveto da un'aspettativa messianica. L'ultima parte della sua Restitutio, annoverando i sessanta segni del Regno dell'Anticristo, annuncia per l'anno 1560 un'aperta discesa dell'Arcangelo Gabriele, per impugnare le forze del Papato, e apprestare cosí l'avvento trionfale del Cristo. Tre secoli prima precisi, gli spirituali francescani avevano sognato per il 1260 l'inaugurazione dell'età dello Spirito Santo.

La Restitutio di Serveto doveva essere la confutazione dell'Institutio di Calvino. Calvino non era uomo da lasciare andare impunito un simile attentato al suo prestigio e al suo magistero.

Il libro era stato stampato a Vienna, nel Delfinato. Si disse che, per interposta persona, Calvino stesso denunciasse al cardinale De Turnon il libro del Serveto, mettendo in movimento cosí il meccanismo dell'Inquisizione. Ma la voce non è suffragata da alcuna prova ineccepibile e non merita quindi credito. Sta di fatto però che, sottraendosi all'Inquisizione di Vienna ed avviandosi verso l'Italia, il Serveto ebbe la malaugurata idea di passare per Ginevra. L'inquisizione della città calvinistica si rivelò piú rapida e sbrigativa dell'Inquisizione papale. Serveto fu imprigionato. Dopo un processo che si protrasse a lungo e dopo ripetuti incontri tra Calvino e Serveto, quest'ultimo fu condannato al rogo.

Il fatto suscitò una profonda impressione. Calvino dovette difendere il proprio operato e scrisse una De f en sio Orthodoxae Fidei che, pubblicata in latino nel gennaio del 1554, fu quasi subito tradotta in francese.

La linea defensionale di Calvino era cosí tracciata. È chiaro ed assiomatico che è umanamente impossibile ottenere fra gli uomini l'uniformità del pensiero e la concordia delle credenze. Vi sono deviazioni e difformità che non possono non essere tollerate. Ma non è sempre cosí. Ci sono posizioni temerarie e irriverenti della comune pietà collettiva che debbono essere senza pietà e senza indugio represse e soppresse. Quando sono in giuoco le basi stesse della vita religiosa, quando si presenta in mezzo alla massa ingenua e credula qualche personalità che prende gli atteggiamenti ed assume le pretese di una menzognera ispirazione profetica, non c'è altro mezzo di preservazione che la condanna a morte del sovversivo, che è un pericolo pubblico. Nella sua concezione dei rapporti e dei poteri Calvino vede la potestà civile al servizio della potestà religiosa, come esecutrice delle sue sentenze, come garante del suo incontrollabile magistero.

Ma asserzioni di questo genere non potevano passare senza ritorsioni, e alla Defensio di Calvino rispose il Traité des H érétiques del Castellione, in cui, riprendendosi piú dall'alto la questione della libertà di coscienza e della legittimità delle opinioni personali, si revocava in dubbio il postulato centrale di Calvino, essere il significato della Scrittura sempre chiaro e incontrovertibile, sí da potersene ricavare un sistema dottrinale superiore ad ogni sospetto e non suscettibile di attacchi.

Il Castellione, conformemente del resto al piú intimo spirito dei movimenti riformatori, proclamava che l'unica autorità veramente sovrana e assolutamente indefettibile è la testimonianza dello Spirito, qual è chiusa e sigillata nella coscienza intima dell'uomo. Al cospetto di tale testimonianza i vari sistemi teologici, le varie formulazioni dottrinali non sono che pallide approssimazioni e fragili rifrazioni della verità. Di conseguenza, la condanna a morte di un dissenziente è una crudeltà abissalmente difforme dai precetti del Cristo.

Ma per una strana ed inevitabile conseguenza della loro posizione, i riformatori, rinnegando quella metodica cristiana che fa della disciplina normativa del Vangelo una superpolitica in contrasto o quanto meno in atteggiamento di completo assenteismo di fronte alla politica terrena, erano condannati a rivelare il fondo reazionario del loro messaggio, Lutero scagliando improperi contro la rivoluzione contadinesca, Calvino, in ambiente piú ristretto e piú colto, facendosi complice di procedure barbaramente inquisitoriali contro i rappresentanti di una corrente spirituale che, tutto considerato, era, piú della sua, in armonia con il grande movimento profetico riformatore del secolo XIII.

Ma c'era qualche cosa nella predicazione di Calvino che rispondeva cosí profondamente ai bisogni economici e sociali dell'Europa occidentale del tempo da farne un lievito capace di fermentazione, nonostante tutte le tare del regime ginevrino.

C'era, al di là della Manica, la vecchia Inghilterra ormai decisamente avviata sotto i Tudor alla sua piena costituzione nazionale, che non poteva disinteressarsi degli avvenimenti europei, cosí dal punto di vista politico come dal punto di vista religioso. Si direbbe anzi che proprio nel momento in cui la nazionalità inglese emergeva nitidamente dalla storia e sotto la guida di un re sapiente ed accorto, come Enrico VIII, favorito dalla sorte con un lunghissimo governo, andava organandosi politicamente e finanziariamente in una maniera che doveva efficacemente pesare sull'avvenire, peculiari circostanze la facessero particolarmente sensibile alle ripercussioni dei grandi avvenimenti continentali.

Nel 1509 Enrico VIII, successo da un mese circa sul trono ad Enrico VII, sposava, con dispensa di Giulio II, la vedova del suo fratello maggiore Arturo, principe di Galles, morto il 2 aprile 1502: Caterina, figlia di Ferdinando il Cattolico re d'Aragona e di Isabella di Castiglia. Caterina, sorella di Giovanna la Pazza, madre di Carlo V, era dunque zia del futuro imperatore. Ecco una circostanza di fatto che doveva avere ripercussioni pesantissime su tutta la politica pontificia ed europea quando, preoccupato soprattutto di avere un erede maschio al trono, Enrico VIII cominciò ad accarezzare l'idea del divorzio, che alla sua anima di credente quasi superstizioso si trasformò nel problema della validità del suo primo matrimonio, essendo incerto che un Papa potesse dispensare dal vincolo di stretta affinità. Il matrimonio con una cognata poteva essere un matrimonio valido? La legge cristiana era in questo d'accordo con la legge levitica, la quale del resto, anch'essa, in tanto consentiva quel matrimonio, in quanto lo subordinava alla necessità di dare una progenie al fratello defunto? D'altro canto il matrimonio di Caterina con Arturo era stato veramente, come Caterina avrebbe allegato nelle eterne discussioni in materia, un matrimonio non consumato? Quanti interrogativi e quanti problemi! Si direbbe che per una singolarissima volontà della Provvidenza tutte le circostanze familiari, dinastiche, confessionali, canoniche, politiche, religiose si fossero date convegno per dare, a quella prima metà del secolo XVI che vedeva l’insurrezione di Lutero e di Calvino, il carattere della piú complessa ed ardua drammaticità, dovunque.

In concreto, non si potrebbe dire che l'Inghilterra e la Scozia non fossero da lunga mano preparate a subire il contraccolpo decisivo della crisi che investiva tutta la Cattolicità europea dell'epoca.

Centocinquant'anni prima, allo scoppiare dello scisma d'Occidente, Riccardo II d'Inghilterra si era dichiarato per il Papa romano Urbano VIII soprattutto in odio al francese Clemente VII. Proprio in quel torno di tempo si avviava al suo epilogo la vita del primo riformatore non italiano del Medioevo cadente, antesignano di quei movimenti religiosi nazionali (l'Inghilterra, come abbiamo visto, è il primo fra i paesi cristiani del Medioevo ad emergere verso una configurazione tipicamente nazionale) che trovano la loro temperie piú acconcia nel secolo XVI, John Wycliffe. Studente di Oxford, egli aveva guadagnato fama per la sua sottigliezza filosofica e per le sue ardite teorie in fatto di rapporti tra Chiesa e Stato. Tornato ad Oxford come insegnante, vi faceva argomento di lezioni il tema raccolto poi in un saggio, De Civili Do minio, in cui sosteneva che non vi sono una proprietà ecclesiastica e un'autorità ecclesiastica che possano ritenersi tutelate e garantite dal loro carattere sacerdotale, anziché dalla onestà e dalla rettitudine. L'autorità civile pertanto e il sovrano che la impersona hanno l'indiscutibile diritto di sottoporre il clero agli oneri fiscali della vita collettiva, tanto piú che la proprietà è nata dal peccato e i beni posseduti dal clero sono stati la causa della sua immoralità e della sua perversione. Se l'autorità civile, nell'esercitare tale diritto, incorre nelle scomuniche, bisogna ben ritenere che simili scomuniche siano desitituite di ogni validità, perché indebitamente lanciate. Del resto, Wycliffe va molto piú in là, e offrendoci un presentimento di quelle che saranno le posizioni tipiche dei movimenti riformatori sostiene che l'unica scomunica che sia capace di investire l'anima è quella che il peccatore lancia contro se stesso, perdendo la grazia divina. In fondo per Wycliffe la Chiesa non è altro che la comunità di coloro che sono predestinati alla beatitudine eterna. Nel 1377 Gregorio XI condannava diciotto proposizioni ricavate dal De Civili Dominio. Gli effetti civici che avrebbero potuto seguire alla condanna papale furono neutralizzati dalla morte del re nel medesimo anno, dalla tarda azione dei vescovi, dalla riluttanza dell'Università di Oxford ad ammettere che il Papa avesse il diritto di imporre la cattura di qualsiasi cittadino britannico in Inghilterra.

Con lo scoppiare dello scisma d'Occidente, la polemica anticuriale di Wycliffe prese nuova energia. Egli giungeva a definire senz'altro il Papa, in quanto Papa, come l'Anticristo. Anch'egli, come piú tardi Lutero, curava una versione nazionale della Bibbia, con una perizia ed una duttilità che fan di lui uno dei fondatori della prosa scritta inglese. La sua Summa Theologiae è un armamentario per le controversie religiose del tempo, come il suo trattato De Officio Regis è una anticipazione della concezione teocratica della regalità nazionale, quale fu instaurata piú tardi dalla riforma. Nel suo grande trattato De Eucharistia, anche qui anticipando le posizioni piú tarde della riforma, Wycliffe denuncia la dottrina della transustanziazione come una follia blasfema dal punto di vista teologico, e un non senso dal punto di vista filosofico. Il Signore, secondo lui, è presente nel pane e nel vino sacramentaliter, spiritualiter et virtualiter. Questa volta l'Università insorse e Wycliffe appellò, non al Papa, ma al re. Anche qui anticipatore degli orientamenti politici del secolo XVI, quel che Wycliffe toglieva alla Curia andava a trasferirsi alla autorità politica. E anche qui le opinioni del riformatore religioso si trasformavano in un movimento popolare, la rivolta contadinesca del 1381. Wycliffe però non la sconfessò. Tutti i procedimenti intentati contro di lui si infransero di fronte alla nomea che circondava la sua figura di insegnante e di pensatore. Indisturbato egli poteva dedicare gli ultimi anni della sua vita a due fra le piú vaste sue opere: il Trialogus e l'O p us Evangelicum.

Lasciava un forte nucleo di seguaci specialmente nelle classi popolari. Furono noti sotto il nome di Lollardi, vocabolo di incerta etimologia, ma derivato probabilmente dal verbo lollen o lullen, cantare sottovoce. Piú tardi, saranno chiamati, i loro maestri, i «poveri predicatori», con una designazione che ricorda cosí da vicino i fraticelli dei nostri movimenti spirituali del secolo XIII. Nel primo decennio dopo la morte di Wycliffe il movimento dei Lollardi si diffuse vastamente in Inghilterra, portando a quelle enunciazioni del 1395 che costituiscono un po' la professione di fede di tutto il movimento. In tale manifesto si dichiarava che i possessi materiali mettono la Chiesa nella impossibilità di praticare e di realizzare le virtú cristiane della fede, della speranza e della carità; che il sacerdozio della Chiesa romana non aveva piú nulla di comune con il sacerdozio conferito da Cristo ai suoi Apostoli; che il celibato è cosa innaturale e conducente al vizio; che la transustanziazione, presunto miracolo, era un veicolo alla idolatria; che i re posseggono un jus episcopale e nessuna preghiera si deve fare per i defunti; che la confessione auricolare è il principio degli abusi ecclesiastici; che tutte le guerre sono in contrasto con i principî della predicazione neotestamentaria.

Per quanto duramente perseguitati, i Lollardi non furono mai dispersi o annientati in Inghilterra, e ancora all'epoca di Enrico VIII, quando i primi scritti di Lutero cominciarono a circolare oltre Manica, quel terrore della nuova riforma che suggeriva al re inglese il suo primo singolare intervento teologico era determinato soprattutto dalla possibilità che le idee del monaco germanico fossero un incentivo ad una reviviscenza lollardica in patria. Ma sta di fatto che il vecchio serpeggiare di correnti antiromane nel regno di Enrico VIII non doveva essere un elemento trascurabile dell'allontanamento del paese da Roma, quando, dopo lunghe tergiversazioni ed esitazioni, da una parte e dall'altra, si venne ad una rottura per la questione del divorzio da Caterina e delle nozze con Anna Boleyn.

Perché appunto la separazione dell'Inghilterra da Roma (in linguaggio teologico proprio si parla infatti di scisma anglicano, mentre si parla di riforma luterana e di riforma calvinistica), è cosa ben diversa dalla ribellione di Lutero e dalla organizzazione ecclesiastica di Ginevra, sotto la guida e il magistero di Calvino.

La figura di Enrico VIII gode una pessima fama in tutta la tradizione ecclesiastica e religiosa del continente. In realtà si manca di equità contro di lui, giudicandolo solamente sulla base dei suoi successivi matrimoni, e delle sue sentenze politiche.

Il regno di Enrico VIII, durato trentasette anni, doveva lasciare orme piú vaste e profonde di ogni altro nella storia dell'Inghilterra, e la figura del sovrano campeggia veramente da dominatrice nel lungo periodo, che pure fu fecondissimo di spiritualità di prim'ordine.

I successivi matrimoni del re pesano come un titolo sinistro contro di lui. Eppure c'è da domandarsi se quel successivo attaccamento del sovrano per l'istituzione matrimoniale debba proprio suscitare tanto piú vasto rimbrotto degli illegittimi e scandalosi legami dei sovrani contemporanei.

Sta di fatto che nella piú gran parte delle sue azioni, al fondo e all'origine di tutti i trapassi matrimoniali di Enrico VIII, fu sempre in sostanza una preoccupazione statale, il desiderio cioè di assicurare, con la continuità della dinastia, la felicità e la sicurezza della nazione.

Quel che a noi preme di rilevare, nello studio che stiamo conducendo della larga trasformazione di spiriti e di orientamenti religiosi che si viene effettuando in Europa nella prima metà del secolo XVI, sotto il dilagare delle formazioni nazionali e dei loro conflitti di cui l'Italia purtroppo doveva fare le maggiori spese come paese destinato ad assicurare all'uno o all'altro il predominio europeo, è che l'Inghilterra compie, a differenza della Germania e della Francia, la sua rinnovazione religiosa, non puntando su motivi dottrinali per arrivare attraverso questi a risultati politici, ma direttamente e palesemente su dati politici, che solo per via indiretta giungono a novità disciplinari e rituali nell'ambito della tradizione cristiana d'oltre Manica.

D'altro canto, non bisogna mai dimenticare come alla questione del divorzio di Enrico VIII da Caterina e del successivo matrimonio con Anna Boleyn presiedano vasti motivi politici e preoccupazioni contingenti, senza le quali possiamo pure dire oggi che Clemente VII non sarebbe stato riluttante a fare concessioni, che avrebbero potuto trovare, a giustificazione, mille addentellati canonici e mille sotterfugi casistici.

Si pensi. Caterina d'Aragona e quindi Enrico VIII erano rispettivamente zia e zio di Carlo V. Carlo V è impegnato in una lotta mortale con Francesco I. Nel medesimo tempo l'imperatore ha in casa sua la sollevazione dei príncipi protestanti, contro cui cerca di coalizzare tutte le forze tradizionali del suo Impero. Contemporaneamente le lotte che si svolgono tra Francesco I e Carlo V in territorio italiano portano le truppe imperiali fino al sacco di Roma, nel 1527. Clemente VII deve trovare la sua salvezza in una fuga sotto mentite spoglie, e sono delle pure considerazioni politico-territoriali che porteranno, a tre anni soli di distanza dal sacco di Roma, alla incoronazione di Carlo V a Bologna. Ce n'è abbastanza per comprendere come, nella polemica ingaggiata col re inglese circa la validità o la non validità del matrimonio contratto con Caterina d'Aragona, vedova del fratello maggiore di Enrico VIII, Arturo, e circa la separazione da lei, siano in giuoco così complessi elementi politico-nazionali, da far veramente trasalire di meraviglia che un cosí aggrovigliato caso di coscienza sia venuto a presentarsi al giudizio della Curia papale, in uno dei momenti piú solenni e drammatici della storia europea e della sua vicenda nel mondo.

Nel momento in cui l'Inghilterra assurgeva piú nettamente a figura nazionale, sembra proprio che fosse voluto dal destino un caso matrimoniale che offriva il destro al re inglese di costituirsi sovrano ed arbitro delle cose spirituali e religiose, nel momento stesso in cui, al di qua della Manica, lo scatenamento della riforma in Germania portava parallelamente e automaticamente alla consacrazione religiosa dei valori politici, come di tutti gli altri valori empirici della vita.

Appunto perché, nel piano del nostro lavoro, miriamo soprattutto alla segnalazione dei momenti di passaggio del cristianesimo, come metodica sociale e originale dalla sua fase vittoriosamente disciplinatrice nel Medioevo, alla fase del suo tramonto, non crediamo necessario qui di seguire in tutte le loro tortuose vicende la polemica e le trattative tra Roma e la corte inglese, circa lo scioglimento del vincolo matrimoniale tra Enrico e Caterina e le nuove vagheggiate nozze con Anna Boleyn.

A noi preme solamente registrare le dichiarazioni progressive della indipendenza della Chiesa britannica da Roma, e le forme dell'accentramento progressivo dei poteri religiosi nelle mani del sovrano, quali vennero di momento in momento formulate ed assunte dal Parlamento di Westminster, nel corso della diuturna ed agitata controversia.

Questa Europa dei primi decenni del secolo XVI, pur sconvolta dal serpeggiare delle correnti riformatrici, pur dilacerata dalle gelosie e dalle rivalità delle nazioni nascenti, si direbbe che porti ancora nel proprio cuore quasi un senso nostalgico di quell'unità spirituale, che aveva rappresentato la grande originalità del Medioevo cristiano. Le grandi figure politiche del tempo sembrano tutte sollecitate dal bisogno di recuperare quella ormai scomparente unità, naturalmente a proprio vantaggio. Ferdinando di Spagna non aveva favorito il matrimonio di Caterina con la casa reale inglese, in vista di una egemonia europea? E Carlo V non si opponeva al divorzio dei suoi zii d'oltre Manica, non tanto per l'interessamento alle sorti di Caterina, quanto nel timore di perdere una influenza politica, di cui sentiva il valore per la realizzazione del proprio sogno egemonico? E il povero Clemente VII, condannato a tergiversare continuamente di fronte al quesito che gli proponeva l'onnipotente Wolsey circa la validità di un matrimonio fra cognati, come Caterina ed Enrico VIII, che Caterina nell'interesse dei suoi collegamenti spagnuoli ed imperiali in tanto si illudeva di poter far ritenere valido in quanto, Dio sa con quale indiscrezione sfrontata e grossolana, lo diceva succeduto ad un matrimonio non consumato, non era la disgraziata vittima della nuova situazione europea? E questa situazione non prefigurava già, sia pure in forma piú romanzescamente complessa, quella che sarebbe stata ormai la situazione che invano il Papato si sforzerà di signoreggiare con quella molteplicità di concordati, che anziché rappresentare una garanzia ed una forza, finiranno col costituire trepide dedizioni e poco onorevoli condiscendenze?

La caduta dell'onnipotente Wolsey, determinata appunto dal fallimento della sua vantata promessa di poter essere delegato da Roma, nella sua qualità di legato perpetuo per l'Inghilterra, a risolvere la questione del matrimonio di Enrico con Caterina, spingeva automaticamente il re inglese, sempre piú consapevole delle sue possibilità e delle facili complicità che non gli sarebbero mancate, a ripiegare sulle decisioni del Parlamento. Questo era convocato al cadere del 1529 e si inaugurava il 3 novembre: avrebbe continuato con interruzioni il suo lavoro fino al 1536. Esso ha un'importanza capitale, non solamente nella storia britannica, ma possiamo ben dire nella storia della Cristianità universale, perché non bisogna dimenticare che dalle decisioni prese da questo Parlamento doveva uscire, non solamente la Chiesa anglicana della Metropoli, bensí anche la Chiesa anglicana di oltre Atlantico.

Gli umori del Parlamento erano nettamente anticlericali. Soprattutto la vastissima proprietà ecclesiastica suscitava la cupidigia dei nobili, possiamo anche aggiungere stimolava l'avidità del re egoista e accentratore. Le discussioni investirono subito il comportamento del clero. Furono emanate le prime leggi eversive sulla manomorta e sulle attività profane degli ecclesiastici. Durante il 1530 le trattative fra Roma e Londra si fecero sempre piú pressanti ed intense sotto la pressione mutevole degli eventi politici. Sempre per guadagnare tempo (era l'anno stesso in cui Clemente VII incoronava Carlo V a Bologna), la Curia romana si rifiutava di affidare il giudizio della causa a dignitari ecclesiastici inglesi, e avrebbe voluto obbligare il re a comparire a Roma. Enrico rispondeva accampando l'antico privilegio del regno: non potersi costringere gli inglesi ad adire tribunali stranieri. E mentre vietava ai propri rappresentanti diplomatici di compiere gesti che equivalessero comunque al riconoscimento di una diretta giurisdizione papale, rivolgendosi direttamente a Clemente VII Enrico credeva di poter ribadire la piena libertà di discussione in Inghilterra sulla materia matrimoniale in questione, e, invocando l'autorità di San Cipriano come quella di San Bernardo, postulava che la causa matrimoniale venisse giudicata nel luogo dove aveva avuto inizio.

Il 16 gennaio 1531 il Parlamento era nuovamente convocato. Seguiva a pochi giorni di distanza la convocazione del clero di Canterbury. Il primo si diede di nuovo a legiferare contro gli abusi ecclesiastici, deplorando l'emanazione di scomuniche in materia finanziaria, il lusso smodato dei prelati, la violazione della legge contro la pluralità dei benefici, la simonia e la irregolarità della vita monastica, il privilegio del Foro ecclesiastico.

Piú importanti le decisioni della convocazione ecclesiastica. Innalzando contro tutto il clero in generale l'accusa di mancanza di lealtà alla Corona per avere riconosciuto e subìto l'autorità di legato del Wolsey, il re veniva a ricattarlo e ad indurlo ai suoi voleri. Non valse a nulla che la convocazione di Canterbury si quotasse per centomila sterline di sussidio da consegnare alla cassa reale. Enrico VIII, approfittando astutissimamente della propizia circostanza, si mostrò tanto generoso da rifiutare la cospicua offerta, chiedendo in cambio, perché potesse concedere il perdono, il riconoscimento del titolo da darsi al sovrano di «protettore e capo supremo della Chiesa inglese». La convocazione ne rimase sorpresa e perplessa. Il nunzio papale Burgio mostrò di non capire neppure la gravità dell'alternativa cui i rappresentanti del clero inglese venivano sottoposti. Tre giorni durarono le discussioni; dopo di che Enrico VIII si mostrò tanto condiscendente da lasciare, bontà sua, che alla formula di titolatura richiesta «protettore e capo supremo della Chiesa inglese», si aggiungesse la clausola «dopo Dio». Ce n'era sempre abbastanza per soddisfare l'ambizione dell'uomo e per obbedire a quell'istinto neopagano che tendeva a fare del sovrano nazionale, non solo il despota e l'arbitro degli interessi politici, bensi anche di quelli religiosi.

La supremazia reale nel regno d'Inghilterra era cosí assicurata su tutte le forme della vita nazionale.

Sulla questione del divorzio da Caterina Enrico si era sempre piú lasciato andare al consiglio che Tommaso Cranmer gli aveva fatto giungere attraverso un'interposta persona fin dall'agosto del 1529, secondo cui, qualora canonisti autorevoli e Università legali avessero riconosciuto che un matrimonio con la moglie di un fratello defunto era illegale, tale matrimonio avrebbe potuto dichiararsi senz'altro nullo e invalido, su sentenza di un qualsiasi tribunale ecclesiastico ordinario. Col dare questo consiglio cosí compiacente per quelle che erano le passionali velleità del sovrano, Cranmer iniziava la sua fortunosa carriera. Nell'estate del '31 Enrico lo inviava ambasciatore alla corte di Carlo V. Era l'occasione propizia per avvicinare i principi protestanti e nel medesimo tempo per favorire la rimozione di alcune clausole limitative che vincolavano il commercio inglese in Germania. A Norimberga il Cranmer stringeva buoni rapporti con uno dei piú singolari seguaci di Lutero, l'Osiandro, la cui dottrina era caratterizzata da una disciplina sacramentale piú vicina che non la luterana alla disciplina cattolica. Il Cranmer ne sposò la nipote. Il che non gli impedí di salire ancora, col favore del re, nella sua carriera ecclesiastica. Alla morte dell'arcivescovo di Canterbury Warham, Cranmer ne prendeva il posto. Bolle papali confermavano la designazione. Ora sí che, coerentemente al primo consiglio dato al re, Cranmer poteva giudicare di per sé la invalidità del primo matrimonio di Enrico VIII e legittimare con la sua consacrazione l'unione con Anna Boleyn, già precedentemente celebrata in segreto il 25 gennaio 1533. Il primo giugno Cranmer consacrava Anna come regina, e il dieci settembre faceva da padrino alla loro figlia, la futura regina Elisabetta. Bastano queste date per farci comprendere di che cosa si costituisse garante il Primate inglese.

Una volta posto su quella via, Cranmer non si sarebbe potuto piú trarre indietro. Tre anni piú tardi gli sarebbe stato imposto di rivedere la sua sentenza in favore della validità del matrimonio di Enrico con Anna, e Cranmer, piegando il capo, dichiarava invalido quel medesimo matrimonio che egli aveva consacrato. La sua viltà non si spinse fino a partecipare alla condanna di Anna, pronunciata dalla Camera dei Lords. Strano impasto di fierezza e di condiscendenza, Cranmer non aveva nel suo spirito che due punti fissi e invalicabili: l'ossequio incondizionato all'autorità reale e il proposito delle riforme ecclesiastiche. La Chiesa anglicana disciplinarmente e sacramentalmente è nata con lui. Non è detto che i due sentimenti potessero procedere sempre d'accordo. Il suo temperamento religioso portava Cranmer sul terreno delle riforme ecclesiastiche molto piú in là di quanto non avrebbe voluto l'istinto tipicamente politico di Enrico VIII; il suo paganeggiante ossequio all'autorità politica lo spingeva al polo opposto a cedere alla volontà e alle predilezioni del sovrano.

Il cattolicesimo ebbe in lui un avversario deciso e ostinato. Favorí in ogni modo la pubblicazione di una Bibbia inglese, patrocinando dapprima la divulgazione della traduzione fattane dal Rogers, poi quella sua edizione riveduta che porta precisamente il titolo di «Grande Bibbia del Cranmer». Ma Enrico VIII aveva troppo vivo e pertinace il senso delle esigenze politiche ed economiche del suo schieramento contro Roma e contro quella qualsiasi potenza continentale che si atteggiasse ad assumere un predominio, perché potesse abbandonarsi a colpi di testa religiosi. Ed egli ripiegava continuamente dall'influenza del suo Primate, verso l'azione parlamentare.

Prorogato nell'ottobre del 1531, il Parlamento si era di nuovo radunato il 15 gennaio del 1532, e di nuovo la linea politica eversiva contro la potenza economica e morale del clero, cosí regolare come secolare, vi aveva avuto uno spietato sopravvento. Il primo atto della assemblea fu la discussione di una petizione contro il clero nella quale erano rudemente stigmatizzati i comportamenti delle autorità ecclesiastiche, la pesantezza delle loro procedure giudiziarie, la eccessiva rigidezza delle penalità inflitte dalle loro corti. Non mancavano le rimostranze contro la concessione di benefici ecclesiastici a minori, contro l'esagerato numero di feste ecclesiastiche, contro, soprattutto, l'assegnazione di personale ecclesiastico a cariche laiche.

Un anno dopo, nel febbraio del '33, tre mesi prima del riconoscimento per opera del Cranmer dell'unione di Enrico con Anna, il Parlamento, in una nuova convocazione, emanava un atto con cui erano perentoriamente vietati gli appelli a Roma in una qualsiasi controversia spirituale e sacramentale. Non c'era che una sede di possibili ricorsi, e questa era l'autorità curiale dei singoli arcivescovadi. Nell'atto, si diceva che il «regno d'Inghilterra è un Impero» e si affermava nella maniera piú formale la indipendenza insulare della «nazione-Chiesa nell'ambito della nazione-Stato».

Costituitasi prima a forma di nazione, l'Inghilterra, per prima, senza ambagi, per via diretta, evitando qualsiasi circonlocuzione o qualsiasi giustificazione extra-politica, affermava la propria autarchia religiosa, gettando nell'unità del corpo cristiano europeo il peso lacerante di una costituzione scismatica. Se ci furono resistenze, del resto straordinariamente fiacche, da parte del laicato, vennero suggerite unicamente dalla preoccupazione che le inevitabili reazioni papali, con le immancabili censure, potessero in qualche modo pesare pregiudizievolmente sugli interessi commerciali di quella Inghilterra che, scissa cosí dal corpo unitario della Cristianità europea, avrebbe poi trovato le sue vie per gravare sul continente con il suo dominio marittimo e con lo stesso suo isolamento sul mare.

Ad un anno di distanza, il medesimo Parlamento consumava la rottura da Roma vietando qualsiasi pagamento alla Curia romana, e stabiliva che i vescovi sarebbero stati designati dal re ed eletti dai Capitoli delle cattedrali. Nel medesimo tempo si stabiliva, si vede bene in quale maniera ambigua, che né il re né il reame si sarebbero allontanati «dalla fede cattolica del cristianesimo». Questa profonda trasformazione della costituzione religiosa dell'Inghilterra ebbe le sue illustri vittime. Fisher, vescovo di Rochester, e Tommaso More, senza dubbio le piú eminenti figure della Inghilterra del tempo, sarebbero stati decapitati nel 1535, sotto l'accusa di aver rifiutato al re il suo nuovo titolo di «capo supremo della Chiesa d'Inghilterra sulla terra».

Proprio nel medesimo torno di tempo il vicario generale di Sua Maestà, Cromwell, dava inizio a quella visita fiscale dei conventi che portava alla devoluzione dei beni di tutti i conventi minori alla Corona. Si calcola che questa proprietà monastica, confiscata a favore della casa reale, le dovesse rendere 16 milioni annui.

Seguirono qua e là ribellioni, tra cui quella piú imponente nota sotto il titolo di «Pilgrimage of Grace» nel Nord dell'Inghilterra. Ma le resistenze si andarono rapidamente affievolendo e la confisca fu operata su larghissima scala con i metodi a volta a volta piú violenti e piú insidiosi.

Cranmer poté illudersi di avere ora mano libera per procedere a quelle riforme dottrinarie e disciplinari della Chiesa, che egli aveva già da tempo evidentemente vagheggiate. Ma le sue velleità riformatrici vennero osteggiate da un cospicuo gruppo di colleghi nell'episcopato, e molto piú da Enrico VIII in persona che, come si era piccato piú di dieci anni prima di insorgere contro Lutero, meritandosi da Roma il titolo di «difensore della fede», cosí ora mirava a mantenere la posizione della sua Chiesa nazionale su una linea che non rompesse l'armonia dottrinale con gli altri paesi cattolici. Quando contemporaneamente al Parlamento del giugno del 1536 si tenne la convocazione del clero, e gli umori parvero profondamente scissi a proposito di definizioni dottrinali che enucleassero una volta per sempre i principi teologici su cui la Chiesa nazionalisticamente costituita avrebbe dovuto reggersi, Enrico VIII fece direttamente sottoporre al clero e alla sua approvazione dieci articoli, il cui scopo, come è detto nella prefazione, era quello di «stabilire cristiana tranquillità e unità e di evitare opinioni suscitatrici di discordia».

Gli articoli erano divisi in due categorie, delle quali la prima conteneva «quel che è direttamente ordinato da Dio ed è quindi necessario alla salvezza»; la seconda, tutto ciò che «si praticava da lungo tempo per decente ordine e onestà politica, nella Chiesa del Regno, e doveva quindi essere osservato, sebbene non espressamente comandato da Dio né necessario alla salvezza».

Non è l'eterno problema delle tradizioni religiose costituite, quello di redigere il bilancio delle posizioni invariabili, perché ritenute direttamente raccomandate alla rivelazione di Dio, discernendole da quelle variabili, che sono il risultato di consuetudini umane?

Gli articoli sottoposti all'approvazione del clero si riportavano alle testimonianze bibliche e ai vecchi simboli cristiani, l'apostolico, il niceno, l'atanasiano. Essi proclamavano la inviolabile validità delle decisioni dei primi quattro Concili ecumenici, quelli cioè di Nicea, di Efeso, di Costantinopoli, di Calcedonia. Toccando la dottrina del Sacramento battesimale e del Sacramento della penitenza, gli articoli riprovavano apertamente le posizioni degli anabattisti, come quelle del pelagianesimo. A proposito della dottrina eucaristica, gli articoli proclamavano la dottrina ufficiale della presenza reale e corporea del Cristo nel Sacramento, senza però affrontare il punto delicato della transustanziazione. Accennando al postulato della giustificazione per fede, gli articoli, tradendo palesemente la preoccupazione di mantenere i contatti con le posizioni cattoliche, facevano della contribuzione e della carità elementi necessari del perdono e della rinascita. Il culto delle immagini vi era riconosciuto lecito come mezzo di edificazione collettiva. Ai santi era lecito rivolgere preghiere e onoranze, purché, gli articoli lo dicono esplicitamente, ci si guardasse scrupolosamente da ogni infiltrazione superstiziosa. In un articolo speciale, il nono, si autorizzava il mantenimento delle cerimonie tradizionali ecclesiastiche e dei cosí detti sacramentali: acqua e pane benedetti, ceneri, ceri, palme, genuflessioni, con esplicito riferimento però al loro valore simbolico e spirituale. L'articolo decimo autorizzava la preghiera per i defunti.

Come si vede, i passi del re che aveva rotto i ponti con Roma sulla via della nuova configurazione confessionale anglicana, erano timidi e calcolati. Enrico VIII si illudeva cosí di mantenere la concordia e l'unità. Era pura illusione. A pochi mesi di distanza una nuova riunione di ecclesiastici era tenuta, per compilare una nuova professione di fede. Ne usciva quella «divina e pia istituzione dell'uomo cristiano» che costituiva nella sua sostanza una conferma e una amplificazione degli articoli precedenti. In fondo, la dottrina cattolica usciva da questa codificazione ancor piú confermata, in quanto nell'articolo dedicato alla giustificazione si diceva, in aperta antitesi alla formulazione luterana, che « le buone opere sono necessarie per il raggiungimento della vita eterna».

La sinistra riformatrice ne fu piú che mai insoddisfatta. Il re dovette dare ad essa una certa soddisfazione. Il Parlamento convocato a Westminster il 28 aprile del 1539 svolse azione prevalentemente religiosa. Fra i còmpiti assegnati all'assemblea vi era, con gli altri, anzi in prima linea, la compilazione di articoli capaci una buona volta di portare all'unità religiosa. Furono proposti alla considerazione dell'adunanza sei articoli e alla discussione intervenne personalmente il re. Il 2 giugno gli articoli, approvati dal Parlamento, furono presentati per la approvazione alla adunanza del clero, il quale non mancò di dare ad essi, quasi unanime, la sua adesione. L'autorità reale in materia religiosa funzionava in pieno. «Il re», era detto nella nuova legge, «mirando alla tutela della Chiesa, nella vera, schietta e uniforme dottrina della religione cristiana, considerando la grande e serena sicurezza, l'universale prosperità e gli altri innumerevoli beni che derivano e nascono dalla concordia, dall'accordo, dall'unità di opinioni, e d'altro canto considerando i molteplici pericoli e i disordini derivati in molti luoghi dalla diversità di pensiero e di opinione relativamente alla religione cristiana, desidera, per spirito di carità, fissare tutto al riguardo, in onore di Dio onnipotente, autore e sorgente di ogni vera unità, di ogni schietta concordia, e a beneficio del nobile regno d'Inghilterra».

I sei articoli affermavano: la presenza reale e corporea di Cristo nel Sacramento eucaristico; la non necessità della comunione in entrambe le specie; l'obbligo del celibato per il clero; la validità, a norma delle leggi divine, dei voti di castità e di vedovanza consapevolmente emessi; la necessità della messa privata; l'obbligo della confessione auricolare.

Era una virata di bordo a destra, ma non rappresentava affatto una rinuncia alla politica antiromana. Lo dimostrarono apertamente alcune condanne a morte di abbati cistercensi, accusati di tradimento. Era la situazione generale europea e di rimbalzo la situazione politica dell'Inghilterra, che consigliavano al re piú vaste concessioni alla fede cattolica. Ma non fu neppure questa la formulazione definitiva di fede della nuova Chiesa nazionale. Poiché «la divina e pia istituzione dell'uomo cristiano» del 1537 era stata approvata e autorizzata da Enrico VIII per un triennio, nel 1540, allo scadere del termine fissato, si iniziavano discussioni per la sua revisione.

Diciassette quesiti furono proposti all'esame di una commissione ecclesiastica. Essi riguardavano la dottrina dei Sacramenti e in particolar modo la dottrina dell'ordine e della dignità vescovile. Le discussioni in argomento si protrassero a lungo. Le risposte del clero furono tutte rivedute e postillate dal re. Ne uscí un testo, dopo un periodo di tre anni, noto col nome di Libro del re, che il Parlamento dal canto suo confermò e convalidò. Di nuovo la dottrina cattolica era riconfermata, per ciò che concerne il valore della fede. La promessa della salvezza è condizionata dal concorso dell'uomo all'azione della grazia. Il libero arbitrio è proclamato, la predestinazione è ripudiata. La necessità delle opere buone per la spirituale salvezza è solennemente e perentoriamente riconfermata. E intorno al simbolo di fede e intorno ai Sacramenti, e intorno alle preghiere per i defunti, il Libro del re non faceva che confermare l'Istituzione o Libro dei vescovi del 1537.

Può dirsi fosse questo l'ultimo pronunciamento di Enrico VIII sul terreno teologale. Il 28 gennaio 1547 Enrico VIII moriva, assistito dal Cranmer, il quale incoronò il figlio che aveva avuto da Giovanna Seymour, Edoardo, facendo poi parte del Consiglio di Reggenza. Ora sí che Cranmer poteva darsi a suo agio all'attuazione dei suoi piani. Fu a capo della commissione eletta per la riforma della liturgia. Si diè a tradurre in inglese il catechismo luterano di Giusto Giona. Chiamò in Inghilterra due riformatori spinti, il Butzer e l'ex-Generale dei cappuccini italiano, Bernardino Ochino; negò apertamente la transustanziazione, apprestò i quarantadue articoli di religione del 1553, come i due Libri di Preghiera del 1549 e del 1552. È in questo breve periodo che corre dalla morte di Enrico VIII alla morte precoce del suo figlio fanciullo Edoardo VI nel 1553, che le posizioni piú spinte della riforma continentale sono autorizzate nella Chiesa d'Inghilterra.

Ma la successione di Maria Tudor ad Edoardo, della figlia cioè di Caterina d'Aragona e di Enrico VIII, possiamo immaginarci animata da quale rancore contro tutti coloro che erano stati gli strumenti e i manutengoli della rovina di sua madre, con nelle vene quel sangue spagnuolo che doveva farle odiare tutto ciò che aveva sentore di ribellione germanica all'impero di Carlo V, disperse in rapidissimo tempo l'opera affrettata e radicale di Cranmer. Cranmer stesso non si salvò dalla vendetta di questa regina ultracattolica, riconciliata con Roma, ma implacabile e vendicativa sí da meritare il nome di «sanguinaria». Pur cedendo ad una ritrattazione dopo l'altra, Cranmer era sconsacrato, per sentenza di Roma. Solo di fronte al rogo si incaponí nella sua ribellione antiromana, come a poco meno di un secolo di distanza si sarebbe irrigidito, dinanzi al supplizio, a Roma, Giordano Bruno.

Tuttavia le ragioni che avevano spinto Enrico VIII sulla via del suo allontanamento da Roma erano troppo profonde e troppo radicate nei bisogni della politica inglese, perché la restaurazione di Maria Tudor potesse avere lunga durata. Carlo V non mancava di raccomandare alla sua cugina di oltre Manica moderazione e prudenza. Ma la voce del sangue era troppo forte in Maria perché essa non si lasciasse andare alle piú rischiose aberrazioni: tra le quali bisogna mettere al primo posto il suo matrimonio con Filippo di Spagna. Richiamando dall'esilio Reginaldo Pole, Maria aveva creduto di porre al proprio fianco un consigliere sagace ed una autorità indiscutibile. Ma il Pole si rivelò altrettanto malaccorto che la regina, ed entrambi tennero troppo in non cale il fatto che la spoliazione dei cenobi, l'abolizione delle decime, la sospensione delle ablazioni e dei contributi a Roma, avevano creato un nuovo ceto di proprietari, a tutto disposti fuorché ad abbandonare il maltolto. L'avere riesumato le leggi penali, fu errore politico che costò caro a Maria: il popolo si alienava completamente da lei. La morte la incolse nel 1558 quand'essa aveva soltanto 42 anni. Le succedeva Elisabetta, la sorellastra nata dal matrimonio di Enrico con Anna Boleyn. L'orientamento religioso dell'Inghilterra riprendeva la via della riforma, questa volta senza piú resipiscenze e senza piú attenuazioni.

Un atto di supremazia restaurava l'autorità della Corona sulla Chiesa, quale era stata sanzionata da Enrico VIII, ed un atto di uniformità prescriveva l'uso del Libro di Preghiera del 1552.

Ma la situazione era ormai troppo cambiata politicamente e dinasticamente, e in Europa e nelle isole d'oltre Manica, perché gli orientamenti religiosi anch'essi non dovessero assumere un ritmo nuovo e colorazioni diverse. Noi non possiamo qui indugiarci sulle complesse vicende che accompagnarono i rapporti tra Inghilterra e Scozia in questo momento. Quel che ci interessa osservare ora è che lo spirito riformatore, scatenato da Enrico VIII e da Cranmer in Inghilterra, veniva improvvisamente a raccogliere il contributo di quell'elemento scozzese, che, etnicamente diverso, ha sempre rappresentato nell'evoluzione della spiritualità britannica, cosí dal punto di vista politico e imperialista come da quello letterario ed estetico, un perenne coefficiente di fermentazione e di dinamismo.

La politica della riforma, che prende sotto Edoardo VI un abbrivo cosí vigoroso, chiama a Londra un prete scozzese che già aveva al suo attivo nel 1549, sebbene non contasse piú di trentacinque anni, movimentate peripezie: Giovanni Knox. Seguace di Wishart, l'eretico bruciato ad Haddington in Scozia nel 1546, consapevole, se non partecipe, della congiura che aveva portato all'assassinio del suo accusatore, il cardinale Beaton, aveva già capitanato un manipolo di innovatori religiosi quando fu fatto prigioniero a St. Andrews nel 1549. Liberato, si trasferiva sotto la tutela di Edoardo VI. E nel gruppo dei riformatori operanti al séguito del Cranmer aveva assunto una posizione di rilievo, con le sue tesi estremiste. Nettamente contrario alla messa, che giudicava atto superstizioso di culto escogitato dal cervello umano, al di là di ogni comando divino e quindi idolatrico, ripudiava ogni gesto e ogni pastura che nell'esplicazione del culto assumesse per lui sentore di idolatria. La reazione di Maria Tudor lo costringeva all'esilio. Dove indirizzare i suoi passi, se non a Ginevra? Di là Calvino aveva cominciato ad irraggiare su tutta l'Europa, molto piú di Lutero, indifferente in fondo alle vicissitudini e alle ripercussioni della sua predicazione, il fascino della sua personalità e l'eco dei suoi insegnamenti. Lo Knox avrebbe detto piú tardi che Calvino aveva fatto della sua città «la piú pura e ideale scuola di Cristo che mai si fosse organizzata sulla terra dai tempi degli Apostoli».

Solenne giorno per la storia della Cristianità europea, possiamo dire di piú, per la storia della civiltà moderna, quel giorno della primavera del 1554 in cui i due riformatori si trovarono di fronte l'uno all'altro, a Ginevra. Knox sarebbe stato il trasmettitore dello spirito calvinista a tutto il mondo parlante inglese. Calvino era allora nella pienezza delle sue forze e nel massimo esplicamento della sua attività di predicatore, di esegeta, di moralista, di pedagogo: possiamo dire di piú, anche di economista. Quattro anni prima, interpellato da un tal Sachinus, Calvino aveva messo fuori un piccolo scritto destinato ad incalcolabili conseguenze. Gli era stato chiesto cioè se l'usura fosse moralmente consentita. Anche Lutero era stato interpellato in argomento. Ma con uno di quei suoi spontanei movimenti verso alcune posizioni medioevali, che fanno di lui una delle piú sconcertanti figure nella storia della religiosità cristiana, Lutero aveva risposto con un no reciso e indeclinabile. Non cosí Calvino. In questo suo scrittarello, che per lo sviluppo del mondo moderno ha altrettanta importanza che la Institutio chri stiana, Calvino sosteneva non potersi accampare alcun testo biblico a condanna di chi tragga dal denaro un interesse, che gli consenta di vivere e di accrescere le sue ricchezze. Riferendosi a quegli scrittori ecclesiastici antichi, come Sant'Ambrogio e San Giovanni Crisostomo, che avevano formalmente fatto oggetto di condanna e di rampogna ogni interesse ricavato da un capitale mobile, Calvino giudicava futili i loro argomenti e sentenziava che simile ripudio costituiva una violazione della equità. Naturalmente Calvino non mancava di raccomandare che ci si astenesse dallo spremere interessi dai poveri a cui si fosse prestato denaro, e raccomandava inoltre che le operazioni di prestito ad interesse non fossero mai incompatibili con le leggi della carità fraterna e del bene collettivo. Comunque, anche se Butzer aveva sostenuto la stessa tesi prima di lui, anche se ormai il riconoscimento della legittimità di un prestito era nell'aria, sta di fatto che Calvino è il primo teologo nell'età moderna a dare una giustificazione religiosa a quello che doveva essere il presupposto e il dato iniziale del capitalismo moderno. Tornandosene in Iscozia, Knox non portava soltanto principî teologici: portava con sé legittimazioni economiche di cui, al di là della Manica come al di là dell'Atlantico, i parlanti inglese avrebbero fatto larghissimo tesoro.

Secondo il suo consueto modo di prendere termini di comparazione e di analogia per le sue istruzioni di morale religiosa dai fenomeni della vita corrente, non per sanzionarli e convalidarli, ma unicamente per servirsene a una piú chiara inculcazione dei suoi dettami, Gesù aveva detto una volta che nel dí della revisione finale, quando si sarebbe trattato di sapere chi meritava di essere ammesso nel Regno del trionfo e chi invece ne doveva essere escluso per sempre per andare a gemere nella geenna del fuoco, Dio avrebbe chiesto a ciascuno conto dei talenti affidatigli, per sapere se li avesse messi al debito frutto. E fra questi aforismi circolanti nel seno delle comunità cristiane primitive come parole autentiche del Maestro, che sono invece motti ricalcati secondo le tendenze delle singole comunità sugli autentici dettati di lui, uno ve n'è che paragona la vita del cristiano alla vita di uno scrupoloso banchiere, che soppesa meticolosamente il valore delle monete che deve cambiare e la fruttificazione possibile dei capitali a lui affidati.

Ma con questo stesso consueto paradosso che noi incontriamo nello sviluppo della pedagogia e della metodica sociale del cristianesimo primitivo, con questo stesso avere preso a prestito dall'uso della quotidiana economia pubblica termini di confronto per fissare graficamente il comportamento del cristiano al cospetto del tesoro che solo sollecita le sue inquietudini e il suo desiderio, il Regno di Dio, Cristo era venuto a detronizzare la funzione stessa economica, subordinandola ad una funzione supereconomica, quella della valorizzabilità della nostra vita empirica unicamente in vista della vita superiore nel Regno di Dio.

È risaputo: l'antichità cristiana e molto piú il Medioevo sono stati nettamente ostili a qualsiasi profitto si volesse ricavare dai capitali mobili. Le vecchie prescrizioni canoniche vietavano formalmente qualsiasi forma di interesse sul denaro. Nessuna delle organizzazioni cristiane del Medioevo avrebbe tollerato come lecita l'usura, indugiandosi a distinguere un tasso legale dall'illegale.

San Tommaso ha affrontato la questione dell'interesse sulla moneta in una delle fondamentali questioni di quella Secunda Secundae Partis della sua Summa Theologica, che Goffredo Leibniz ha definito una volta la piú perfetta opera di filosofia morale che sia uscita da cervello umano.

È la questione LXXVIII. Si riferiscono ad essa in genere tutti i trattatisti storici di quel che è lo sviluppo della dottrina e della pratica dell'interesse nel Medioevo. Ma si suoi designare comunemente San Tommaso come un avversario indiscriminato e irreconciliabile della pratica del prestito del denaro ad interesse, il che non è esattamente vero.

In realtà la questione è trattata da San Tommaso con quella bifronte sensibilità al passato e all'avvenire, che fa di tutta la sua speculazione, come di tutte le sue dottrine pratiche, il vero ponte di passaggio fra il Medioevo e la modernità.

Egli comincia, è vero, con l'asserire in tutte lettere che riscuotere un interesse per il denaro dato a prestito, è un vero e proprio peccato. «Ricevere un interesse», egli scrive, «per il denaro dato a prestito, è cosa di per sé ingiusta. Poiché ciò facendo si vende quel che non è. La qual cosa rappresenta una palese ingiustizia, nettamente contraria alla giustizia. A dimostrarlo basta pensare che vi son cose il cui uso consiste, puramente e semplicemente, nella loro distruzione. Noi usiamo cosí il vino nel bere e usandolo, lo consumiamo. Allo stesso modo usando il grano nel cibo, lo consumiamo e lo annulliamo. In tali cose è impossibile considerare e calcolare separatamente l'uso della cosa e la cosa stessa. Di modo che a colui al quale si concede l'uso di tali cose si concede anche la cosa stessa. Di tali cose, trasferendosi la prestazione, si trasferisce in pari tempo il dominio. Che direste di chi volesse vendere, separatamente, il vino e l'uso del vino? Non farebbe che vendere due volte la stessa cosa, e per una volta almeno venderebbe quel che non esiste. E di conseguenza peccherebbe contro la giustizia. Ecco perché commette ingiustizia colui che, dando a prestito del vino e del grano, pretendesse due ricompense: vale a dire la restituzione di una cosa uguale e una seconda ricompensa in forma di prezzo, di quel prezzo che è chiamato interesse. Vi sono altre cose invece il cui uso non corrisponde alla loro consumazione. cosí la casa, il cui uso non equivale alla sua dissipazione. Per tali cose si possono ben richiedere le due ricompense. Chi ad esempio dà ad altri il possesso della propria casa, può però riservarsene l'uso per il tempo che gli convenga. E parallelamente si può dare a qualcuno l'uso della propria casa, riservandone però a sé il possesso. Per questo l'uomo può lecitamente ricevere un prezzo per l'uso concesso della sua casa, e oltre a ciò può anche a buon diritto richiedere la sua casa in ordine. Il che tutto si verifica nei contratti di affitto delle case. Il denaro, invece, a norma della dottrina aristotelica nel quinto libro degli Etici e nel primo dei Politici, è stato principalmente escogitato come mezzo di scambio, per cui lo specifico e peculiare uso della moneta consiste nella sua consumazione, vale a dire nella sua dissipazione, nella misura in cui viene speso, attraverso gli scambi. E per questo è essenzialmente illecito ricavare un prezzo dall'uso della moneta data a prestito, quel prezzo che è chiamato interesse. E come l'uomo è tenuto a restituire tutto quello che ha acquistato ingiustamente, cosi è tenuto a restituire il denaro ricevuto come interesse di un prestito fatto».

La condanna tomistica dell'interesse ricavato da un prestito di capitale mobile è dunque chiara e precisa. Ma per una strana contraddizione, che ci è misura veramente eloquente della singolarissima situazione di San Tommaso in un mondo che si va rapidamente trasformando e spostando, nella medesima questione LXXVIII della Secunda Secundae Partis, il doctor angelicus all'articolo IV riconosce che si possa moralmente accettare denaro in prestito e pagare un interesse su di esso, mettendo in essere cosí quell'atto che poco prima egli ha condannato come peccaminoso. In tale articolo infatti si domanda se sia lecito prendere denaro in prestito, pagandovi su un interesse. Ed ammette che sí. E ne adduce, testualmente, questa ragione: «Indurre un uomo al peccato è assolutamente vietato. Ma è lecito però usare del peccato altrui per uno scopo buono. Anche Dio», son parole di San Tommaso, «usa di tutti i peccati per qualche cosa di buono. Poiché da ogni male spreme qualche bene, come è detto nell'Enchiridion di Sant'Agostino, onde il medesimo Sant'Agostino, a Publicola che gli domanda se fosse lecito avvalersi del giuramento di chi giura per dèi falsi, nel che è manifesto peccato, esibendo a questi dèi falsi l'ossequio dovuto a Dio, risponde: – Chi usa della fede di colui che giura per gli dèi falsi non per un fine malvagio, bensí per un fine buono, non si rende correo della colpa di lui che giurò nel nome dei demoni, ma usa del suo contratto onesto e leale a cui mantenne fede: peccherebbe soltanto se lo inducesse a giurare nel nome di falsi dèi. – Cosí, anche nella questione che ci è dinanzi, si deve ritenere che in nessun modo è consentito indurre alcuno a dare denaro in prestito ad interesse. Ma è ben lecito, da chi è disposto già a farlo ed esercita la usura, prendere denaro a prestito per qualche fine buono, come sarebbe il sovvenire ai propri bisogni o ai bisogni altrui, come anche è lecito a chi capita nelle mani di briganti, esibire quel che ha e che i briganti prenderanno in cambio, per evitare la morte».

Lasciamo stare il valore, non sappiamo quanto malizioso, di questa comparazione tomistica. Sta di fatto che c'è qui una contraddizione stridente ed una posizione che ricorda molto da presso la dottrina del fine che giustifica i mezzi. San Tommaso reputa peccaminoso il dare denaro a interesse, ma autorizza a ricorrere a qualsiasi usuraio per prendere denaro in prestito.

Siamo comunque molto lontani ancora dalla giustificazione fatta da Calvino, cosí dal punto di vista morale che da quello religioso, del prestito ad interesse. Ma di quella trasformazione del concetto della moneta e delle sue possibilità che traspare nella dottrina calvinistica, noi cogliamo qui in San Tommaso il primo chiaro sentore. La società che si trasforma intorno a lui, le nuove condizioni della vita economica nel disfacimento progressivo dei grandi istituti politici medioevali e nell'erompere delle nuove forze comunali, con il loro traffico mercantile, con le loro intensificate comunicazioni internazionali, col febbrile conunercio mediterraneo e continentale, determinato dalle Crociate, son tutti elementi che fanno comprendere le ragioni per cui i vecchi ostracismi canonici al denaro ricavato dal denaro, al capitale cioè che si impingua di se stesso, appaiono ormai anacronistici ed inefficienti. Nel secolo XVI questa trasformazione dei tradizionali principi economici e delle vecchie anguste e circoscritte legislazioni ecclesiastiche è giunta alla sua piena maturità, e per una singolarissima coniugazione e fecondazione di motivi economici e di motivi religiosi, dalla posizione spirituale della riforma calvinistica, uscirà, ormai non ne possiamo piú dubitare, il capitalismo moderno.

Noi abbiamo già visto sopra come Lutero abbia dato della vocazione religiosa una definizione in antitesi perfetta con quella medioevale.

Abbiamo visto come, affidando il problema intimo della spirituale salvezza alla imputazione puramente esteriore dei meriti indefettibili e infallibili del Cristo, egli ha travasato quella sacralità, senza cui si può dire che la vita umana non possa sussistere, in tutte le forme dell'attività e dell'esperienza quotidiana degli uomini. Mentre il cristianesimo tradizionale, essenzialmente e fondamentalmente dualistico, distingueva in maniera nettissima la sfera del sacro e la sfera del profano, la sfera di Dio e la sfera di Satana, la sfera dell'eterno e la sfera del mondo, e non ammetteva altra possibilità di comunicazione fra le due sfere se non quella realizzantesi attraverso la comunione delle cose sante che è la società ecclesiastica, corpo mistico di Cristo, questa dottrina luterana della salvezza operantesi nell'intimo della coscienza individuale, senza alcun bisogno di mediazione carismatica, veniva automaticamente a fare di ogni situazione della vita un possibile punto di partenza per la trasfigurazione, nei meriti imputati del Cristo.

Calvino, dal canto suo, con la dottrina della elezione di Dio, in virtú di un misterioso e arcano decreto primordiale di predestinazione, sottraendo anch'egli ad ogni connotazione esteriore e ad ogni visibile e costituita amministrazione sacramentale il riconoscimento del proprio decreto di grazia, veniva a trasferire su altri mezzi e su altri strumenti di registrazione anagrafica spirituale, la propria destinazione alla salvezza.

Ed è qui che la dottrina soteriologica di Calvino veniva, senza averne alcuna consapevolezza, ad aprire le porte ad una sensazione religiosa della vita che, in aperta antitesi alla sensazione sacrale del mondo medioevale, avrebbe costituito il tratto differenziale, dal punto di vista economico e politico, della civiltà moderna. Il quesito che si presentava a queste nuove forme di esperienza religiosa introdotte dalla riforma, forme essenzialmente non sacramentali, poteva formularsi logicamente cosí: Come posso essere io sicuro di essere salvato? O meglio, nella formulazione calvinistica: come posso essere sicuro di appartenere alla categoria degli eletti?

Nel vecchio cattolicesimo romano la Chiesa si costituiva mediatrice e garante, di fronte alla coscienza del credente, del diritto alla salvezza guadagnato e conservato, attraverso i Sacramenti, e in particolare attraverso il Sacramento della penitenza.

Nella predicazione calvinistica, messi da canto tutti i possibili intermediari autorevoli, l'anima è lasciata sola alla presenza del suo Creatore. E la volontà e i decreti del Creatore sono per definizione inscrutabili. Come dunque avrebbe potuto l'anima acquistare la certezza della sua elezione? Al primo momento la questione non si presentava tanto pressante nel pensiero calvinista. Le promesse di Dio nella Scrittura, la stessa inalterabile fede di Calvino nell'opera redentrice del Cristo, rendevano impossibile qualsiasi dubbio. Ma quando il calvinismo venne sviluppandosi, il bisogno di una risposta si fece sempre piú propinquo e sempre piú evidente. E allora si diedero due risposte: o la certezza della salvezza può essere ottenuta in virtú della testimonianza dello Spirito Santo, vale a dire mercè la intima consapevolezza del singolo che la potenza di Dio è in lui, o per la capacità persistentemente constatata di operare cose buone, mercè cioè la consapevolezza del singolo che la potenza di Dio opera attraverso lui. Nel primo caso il credente si sente veicolo di Dio; nel secondo caso se ne sente strumento. Mentre il primo metodo di certezza spirituale fu messo in rilievo con particolare enfasi da Calvino e spiegò sempre, quanto meno teoreticamente, larghissima azione nella teologia calvinistica, il secondo metodo si fece ogni giorno piú importante nella pratica quotidiana.

Qui veramente si possono cogliere le differenze peculiari tra calvinismo e luteranesimo. Si può dire che la pietà luterana tradisce segni di appartenere al tipo piuttosto della contemplazione passiva e mistica. Ha in comune con la mistica del cattolicesimo l'idea dell'unione intima con Dio, dell'assorbimento progressivo dell'anima in Dio, che dà fiducia e certezza.

Ma il calvinismo professa una concezione di Dio troppo trascendentemente alta perché possa dar luogo a una qualsiasi idea di unione mistica, e d'altro canto è troppo satura di preoccupazioni razionali e dialettiche per poter abbandonarsi senza ritrosia e senza scrupolo alle fantasime della vita emozionale.

Per queste ragioni, cosí la logica come la filosofia del calvinismo si alienavano sempre piú da qualsiasi idea della sicurezza della fede basata sull'esperienza intima, per poggiare piuttosto su una certezza della elezione ricavata dai segni esteriori di una vita pia.

La certezza deve essere affidata, nel calvinismo specialmente anglosassone, molto piú all'azione che al sentimento. Vale la pena di rilevare a questo proposito che, mentre la cosiddetta confessione di fede di Westminster poggia ancora sulle promesse della Scrittura e sulla testimonianza dello Spirito, come sulle basi specifiche della sicurezza interiore, nella sezione consacrata a questo soggetto, si dice poi, nel capitolo delle opere buone, che queste rafforzano e convalidano la certezza.

Discostandosi dal luteranesimo e in certo modo riavvicinandosi al cattolicesimo, il calvinismo fa cosí delle opere buone un mezzo di riconoscimento del decreto di eterna salvazione, con cui Dio ci ha insignito e favorito.

Ma a differenza del cattolicesimo che invoca le opere come testimonianza della nostra candidatura alla salvezza, non uscendo dal campo delle opere spirituali in quell'orientamento ascetico che lo aveva accompagnato durante tutti i secoli della sua conquista medioevale, il calvinismo, in questo riavvicinandosi al luteranesimo, vede le opere buone da costituire e da riguardare come segno infallibile del decreto di elezione di Dio, nel fascio delle attività quotidiane, nel significato piú empirico e piú terreno della parola.

Gli storici protestanti delle forme sociali ed economiche suscitate dal messaggio delle riforme cosí luterana come calvinistica, parlano di un'ascesi riformata che è legata a tutte le manifestazioni della vita usuale umana e che le permea. C'è qui una stridente contraddizione in termini. L'ascesi, nel significato consacrato da quindici secoli di esperienza cristiana, significava e doveva necessariamente significare rinnegamento del mondo e allontanamento da esso. Anzi, come noi abbiamo visto lungo tutta la nostra precedente trattazione, l'ascetismo organizzato, nel cristianesimo partito alla conquista del mondo, non era stato altro che un surrogato ed un equivalente di quel superascetismo di marca originalissima, con cui il cristianesimo era entrato nella storia, deciso a debellare il mondo, pregiudizialmente rinnegandolo e concependolo come votato ad una imminente catastrofe. La riforma, dovremmo dire, e ci si perdoni il neologismo, ha voluto «ascetizzare» il mondo. Possiamo dire che ne è uscita la mondanizzazione completa dell'ascesi. L'ascetismo del mondo moderno è l'ascetismo dei grandi capitalisti, per i quali accumulare ricchezza è diventato un còmpito che non può effettuarsi senza rinunce, senza sforzi, senza logorio, senza astinenze, ma che deve effettuarsi come un segno, anzi il segno infallibile per eccellenza, del decreto di predestinazione di Dio alla salvezza. Sebastiano Franck ha detto una volta che il significato della riforma è tutto nell'aver voluto fare di ogni cristiano un monaco, per tutta la sua esistenza. E l'ambasciatore genovese in Inghilterra all'epoca di Cromwell, il Fieschi, ebbe a dire una volta che l'esercito del Protettore non era che un esercito di monaci.

Cosi è nato il puritanismo: quel puritanismo che è intimamente collegato alla floridezza economica del mondo parlante inglese e di questa floridezza, vincolata alla piú energica e intraprendente attività economica e commerciale, è stato lo strumento piú effettivo e il coefficiente piú operoso.

Riccardo Baxter, il teologo puritano inglese che fu definito una volta dallo Stanley «il principe dei pedagoghi britannici», in tutte le sue opere, ma specialmente nelle sue opere classiche L'eterno riposo dei santi e Il Di rettorio cristiano, non fa che celebrare l'azione e additare nel successo pratico la manifestazione inappellabile dell'elezione predestinatrice di Dio. La parabola dei talenti è interpretata nel suo significato piú letterale e piú aderente all'attività empirica di ogni giorno.

Se Lutero aveva additato in ogni forma della vita quotidiana un mezzo adeguato per attuare la propria salvezza, costituendoci insieme peccatori per la impossibilità carnale di praticare la legge e giusti per la capacità di costituirci soggetti, cui imputare i metodi salutiferi del Cristo (salvatio in vocatione), Calvino dirà qualche cosa di piú efficiente, proclamando che la salvezza si effettua, non soltanto nella qualsiasi vocazione a cui ci portino le condizioni della nostra vita esteriore, ma proprio in virtú di questa nostra qualsiasi professione nel mondo (salvatio per vocationem).

Nelle sfumature di queste due posizioni, nella differenza di accento, nel modo di considerare la realizzazione della propria salvezza, è la differenza fra luteranesimo e calvinismo, fra mondo germanico e mondo anglosassone. Le conseguenze di queste differenze noi le abbiamo dinanzi ai nostri occhi.

Passeranno due secoli, e uno dei tipici rappresentanti anglosassoni dell'Illuminismo del secolo decimottavo, una delle piú eminenti figure del mondo puritano inglese trasmigrato in America, Beniamino Franklin, scriverà, nel suo classico Monito ad un giovane commerciante, testualmente cosí: «Ricòrdati che il tempo è denaro. Chi potrebbe guadagnare dieci scellini al giorno col suo lavoro e se ne va a spasso per la metà del tempo o se ne sta ozioso nella sua stanza, anche se spende per il suo sollazzo soltanto due soldi non deve contare soltanto questo come perdita, perché egli ha per soprassello rinunciato a cinque scellini, o meglio li ha buttati via. Ricòrdati che il credito è denaro. Se qualcuno mi lascia il denaro oltre il prefissato, costui mi fa dono degli interessi. Il che finisce col portare ad una considerevole somma, se un uomo gode credito e ne sa fare buon uso. Ricòrdati che il denaro genera denaro (Aristotele e San Tommaso avevano insegnato il contrario). Cinque scellini manovrati diventano sei, e cosí via fino a diventare cento sterline. Chi dissipa cinque scellini uccide tutta la loro progenie, vale a dire una prosapia immensa di sterline». E ad avvalorare il suo monito, non per nulla Franklin accampa un dettato della piú esperta e sagace esperienza pratica ebraica, il versetto 29 del Capo XXII del Libro dei Proverbi: «Hai veduto tu un uomo diligente ed accorto negli affari? Costui potrà restare diritto davanti ai re».

Qui sí che la dottrina dell'elezione di Calvino aveva trovato il suo sbocco e la sua consacrazione. Franklin non faceva altro che scrivere la formula tipica del capitalismo moderno.

Il teologo e legislatore di Ginevra aveva amato racchiudere la somma dei suoi ideali e il programma della sua azione nella formula solenne e sacra: «A Dio solo gloria».

Per un singolare rovesciamento di parti, fatale quando si dimentichi che la gloria di Dio è la umiliazione e il rinnegamento del mondo, la formula calvinistica aveva finito praticamente col trasformarsi in quest'altra: «Solo a Mammona gloria».

Tanto che vien fatto spontaneamente di domandarsi se il vasto movimento di riforma determinato nel secolo XVIII nel mondo religioso anglosassone da Giovanni Wesley debba considerarsi un movimento che ha portato alle ultime sue conseguenze sul terreno economico-sociale la rivoluzione religiosa di Calvino, o se invece non ha rappresentato un movimento di reazione mirante a frenare gli inconvenienti incalcolabili che l'ascetismo «innerweltlicher», noi diremmo l'ascetismo «immanente al mondo», in altri termini «l'ascetismo capitalista», portava con sé. Sta di fatto che noi da un punto di vista pratico possiamo individuare l'essenza della riforma wesleyana in questo frammento di un discorso tipico dell'eloquente predicatore del Revival:

«Io temo che ogni volta che le ricchezze aumentano, nella medesima proporzione diminuisca l'essenza della religione. Perciò io non vedo come sia possibile, dato lo stato delle cose, che una rinascita di vera religione possa continuare a lungo. Poiché la religione produce necessariamente tanto l'industriosità che la frugalità, e queste non possono non produrre ricchezze. Ma con l'aumentare delle ricchezze aumenteranno anche la superbia, la tensione nervosa e l'amore per il mondo, in tutte le sue diramazioni. Come dunque è possibile che il metodismo, cioè una religione che proviene dal cuore, sebbene per il momento sia rigogliosa come un verde lauro, possa continuare in questo stato? Poiché in ogni luogo i metodisti diventano industriosi e frugali. Conseguentemente, essi aumentano i loro beni. Quindi, in proporzione, essi aumentano in superbia, in tensione nervosa, nella concupiscenza della carne, nel desiderio degli occhi, e nell'orgoglio della vita. E cosí, sebbene rimanga la forma della religione, lo spirito se ne va e si dissipa rapidamente. Non c'è modo di prevenire questo continuo decadimento della religione pura? Noi non dobbiamo impedire alla gente di essere industriosa e frugale; noi dobbiamo esortare tutti i cristiani a guadagnare tutto quanto possono, ad accumulare quanto possono, vale a dire, effettivamente, a divenire ricchi. Che cosa possiamo fare affinché il nostro ammassare denaro non ci sprofondi nel piú basso inferno? Vi è una sola via e non ve ne sono altre sotto il firmamento. Se coloro che guadagnano tutto quanto possono dànno tutto quanto possono dare, allora, quanto piú essi guadagnano, tanto piú cresceranno in grazia, e tanto maggiori tesori essi avranno accumulato in cielo».

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