VI L'ULTIMA REVIVISCENZA AGOSTINIANA

Abbiamo visto come le varie correnti riformatrici del secolo XVI in tanto erano state capaci di trasformarsi in forme normative di organizzazioni ecclesiastiche confessionali, in quanto erano venute inserendosi sui conflitti e sulle rivalità nazionali, in cui era sfociata automaticamente la dissoluzione delle grandi unità politiche e spirituali del Medioevo cristiano.

Lo stesso trionfo della rivoluzione luterana in Germania era stato possibile solo perché aveva trovato appoggio nella sollevazione dei principati teutonici contro la unità imperiale, impersonata in un sovrano spagnuolo. L'emulazione inestinguibile fra Carlo V e Francesco I aveva avuto anch'essa la sua parte nella espansione vittoriosa della riforma di Lutero nella nazione teutonica.

Abbiamo visto come la riforma calvinistica e le sue propaggini francesi avessero trovato il terreno acconcio e la temperie propizia nello sviluppo delle circostanze politiche ambientali. Poi le definizioni del Concilio tridentino avevano, per un singolarissimo paradosso, accomunato, molto piú di quanto non si sarebbe potuto pensare aprioristicamente, i destini della morale associata cosí in territori riformati come in territori cattolici.

Questa similarità e questa convergenza di orientamenti pratici appaiono tanto piú evidenti quando si pongano in parallelismo fra loro il movimento pietista da una parte nella Germania riformata, e il movimento giansenista nella Francia, immunizzata per merito della monarchia dalla infiltrazione della riforma evangelica, e affidata alla direzione dello spirito ortodosso e tridentino, rappresentato dal gesuitismo.

Il movimento giansenista ha tale rilievo nello sviluppo moderno della tradizione cristiana e nei destini del cattolicesimo nei paesi latini, che ben merita una trattazione minuta e coscienziosa.

Nella sua opera classica su Port-Royal, Sainte-Beuve si è espresso a volte in maniera contraddittoria nel giudicare i rappresentanti classici del giansenismo.

Una volta egli ha scritto: «Dall' alto della loro torre di Ippona, essi (Giansenio, Saint-Cyran, Pascal) vivevano già molto avanti al di là del XVII secolo. Scorgevano arrivare confusamente e ingrossarsi la grande invasione, qualora non ci si fosse messi in guardia, e gettavano come gridi di terrore e di formidabile difesa, gridi però, è vero, che, denunciando troppo energicamente il nemico, correvano rischio forse di stimolarlo e di affrettarlo» . E altra volta ha scritto: «Giansenio non ha fatto che provocare una sommossa in grembo al cristianesimo, mentre Descartes ha scatenato una rivoluzione universale».

Questo secondo verdetto è ingiusto, e, anche se il qualificativo suona iconoclasta, inintelligente: perché in tanto Cartesio ha provocato una rivoluzione, in quanto lo spirito del tempo ha isolato, per fas et nefas, il fuoco della sommossa giansenistica. E se oggi nelle scuole di tutto il mondo si legge ancora il Discorso sul metodo, mentre solo qualche malinconico «ritardatario» ha il coraggio di sfidare il pondo del grave in folio su cui è scritto Augustinus, ciò non vuol dire che questo non sia un capolavoro di chiaroveggenza psicologica e di erudizione storica; vuol dire soltanto che da tre secoli, per lo meno, il programma morale e carismatico del cristianesimo si è rattrappito e atrofizzato, come un organismo cui sono venute meno le funzioni del ricambio, e che, nell'agonia cui il gesuitismo ha ridotto la tradizione dell'Evangelo, il dissolvimento della speculazione razionale può celebrare, impunemente e senza contrasto, i suoi coreografici trionfi.

Quando nel 1604, diciassettenne, Cornelio, figlio di Giovanni, intraprendeva a Lovanio, sotto il magistero dei Padri della Compagnia di Gesù, lo studio della filosofia, eran già quasi sessant'anni che il Concilio di Trento aveva emanato i suoi decreti intorno alla colpa di origine e alla giustificazione ed eran quasi quaranta che la Bolla Ex omnibus afflictionibus di Pio V aveva condannato settantanove proposizioni di un professore lovaniense, Michele di Bay, relative ai medesimi capi della dottrina cattolica.

La malignità fatua e untuosa del gesuita Rapin si è compiaciuta di dipingere il giovane Giansenio, tutto preso dal fascino dell'insegnamento e dell'esempio della Compagnia, in atto di chiedervi l'ammissione. E poiché per una serie di ragioni che l'amabile Padre enumera con compunta progressione («son esprit, sa santé, son humeur, sa constitution naturelle»), alla richiesta sarebbe stato opposto un netto rifiuto, Giansenio, deluso e mortificato, avrebbe giurato di vendicarsi. E avrebbe mantenuto fede all'impegno.

La storiella può fare il paio con quella del complotto che, a detta dei polemisti gesuiti, Giansenio e sei amici avrebbero ordito a Bourg-Fontaine nel 1621, per riformare la religione e propagare il deismo, impugnando accortamente la disciplina sacramentale della Chiesa. Ma essa può servir di simbolo alla raffigurazione del conflitto ideale che scindeva, sugli albori del secolo XVII, la teologia cattolica, e che deve essersi ripercosso drammaticamente nell'anima precoce del giovane, educato nel collegio che portava il nome del Papa olandese salito fugacemente sul seggio di Pietro col proposito di strappare alla riforma il pretesto e lo stimolo della sua disseminazione: la mondanità della Curia.

Il passaggio di Adriano VI sulla cattedra pontificia fu un passaggio meteorico. Ai suoi successori incombeva l'onere di fare qualcosa di piú che correggere le deviazioni mondane della Curia ecclesiastica. Si trattava di contrapporre al dilagare delle dottrine riformate una formulazione decisiva delle ufficiali posizioni ortodosse. E fu, lo abbiamo visto, il còmpito del Concilio tridentino. Il quale Concilio doveva rappresentare effettivamente una svolta nello sviluppo della Cristianità europea: forse, possiamo dir meglio, doveva rappresentare la consacrazione ufficiale di una svolta già effettuata. Lo dimostrò il fatto stesso del rilievo che le decisioni sinodali vennero ad assumere nel processo ulteriore della nostra evoluzione cristiana.

Nel periodo infatti della loro conquistatrice ascensione, le istituzioni, specialmente religiose, non si arrestano mai sulle singole tappe del loro cammino verso la chiarificazione e il consolidamento normativi. Neppure per la tradizione cattolica nella fase della sua trionfale disseminazione, i verdetti dei Concili avevano mai rappresentato linee di sbarramento contro la logica di piú complesse elaborazioni dottrinali. Le definizioni del Concilio tridentino segnarono invece in concreto un arresto insormontabile.

Si può dire che esse portarono lo spegnimento nella vitalità concettuale mistica del cattolicesimo: non tanto per una loro funzionale inadattabilità a ulteriori induzioni e precisazioni, quanto perché l'Ordine religioso, che sembrava essersi assunto il còmpito privilegiato della campagna antiprotestante, si lasciò cosí malcautamente prendere dall'ebbrezza dei suoi repentini trionfi e si inoltrò cosí pericolosamente nella via di concepire militarmente la disciplina religiosa e di realizzare l'accaparrante programma della conquista del mondo col mondo, che finí col paventare, quale trabocchetto di Satana, ogni rivendicazione di quella dialettica dei contrari e di quella realizzazione per antitesi, in virtú delle quali il cristianesimo dell'età aurea mantenne la sua illibatezza e la sua capacità di conquista.

Nei paesi piú prossimi alla propaganda riformata i teologi avvertirono sollecitamente il bisogno di contrapporre ai capisaldi della soteriologia «evangelica» una raffigurazione delle potenzialità umane e della virtú riscattatrice della grazia, che, evitando di incappare nelle aberrazioni pietistiche della giustizia imputata o della predestinazione immutabile, non compromettesse però la trascendenza inviolabile della vita carismatica e della sua specifica economia. Il Concilio di Trento non era ancora definitivamente chiuso, quando Baio cominciò ad insegnare dalla sua cattedra Jovaniense che senza la cooperazione efficace di una supernaturale assistenza dall'alto l'uomo è dannato, sotto la funesta e pervertitrice azione della colpa d'origine, ad una ininterrotta sequela di colpe; che, secondo una desolata ma sapientissima sentenza di Agostino, le opere degli infedeli, non ravvivate dall'alito di quella palingenesi interiore, che l'iniziazione cristiana e il carisma dello Spirito introducono nelle contaminate e cupide velleità delle umane energie, sono miserabili espressioni di colpa; che le presunte virtú dei filosofi sono vizi splendidamente camuffati; e che la sola libertà cui può aspirare la creatura ragionevole è quella di pervenire, anche qui secondo un felice inciso agostiniano, a provare compiacimento e diletto negli atti virtuosi, che la giustizia, trasfiguratasi e incorporatasi in noi, suscita dalle nostre attitudini obbedienziali.

Un profondo pessimismo avvolgeva le convinzioni del baianesimo. Un pessimismo cui solo possono aprire lo spirito gli esperti della umana funzionale incapacità al cospetto di ogni alto programma di bene, i conoscitori di quell'abisso mostruoso di menzogne e di viltà che è il sentimento dell'uomo chiuso come in un cesto di serpenti, nel dedalo delle sue fumiganti cupidigie e delle sue fameliche passioni. Ma dal df in cui la religiosità, per essere universalmente normativa, è divenuta dottrina e pratica di mistero, il pessimismo è divenuto, per definizione, la sorgente e il presupposto di ogni esperienza del Sacro.

Non cosí dovevano pensarla i gesuiti, che, postisi alle calcagna del luteranesimo per controbatterne la propaganda con le stesse armi e con gli stessi metodi, guadagnando il favore dei príncipi piú che confortando anime e investendo l'ingiustizia sociale, rifuggivano da ogni deprezzamento delle innate capacità umane, che infirmasse in radice il qualsiasi successo del loro proselitismo. Con quale spirito la milizia di Ignazio avesse portato a Trento l'impazienza fermentante della sua crociata, apparve ad una ripresa delle sessioni: quando Laynez, al cospetto dei vescovi convocati, osò combattere apertamente una decisione attinente alla grazia efficace, sí che fu generale il grido contro di lui: «Via il pelagiano!». In quell'occasione, l'arcivescovo di Parigi, il De Bellay, poteva, non isolato, deplorare che una Compagnia pur mo' nata, fosse venuta al Concilio a patrocinare dogmi nuovi, a turbare la pace della Chiesa, a sgretolare la compagine della gerarchia.

I seguaci di Ignazio non erano disposti a darsi mai per vinti. Una delle fortezze avanzate del cattolicismo, l'Università di Lovanio, riconosciuta dallo stesso Pallavicini come l'«arsenale della Chiesa contro gli eretici», aveva appena condannato Lessius e Hamelius, assumendo la difesa di Sant'Agostino, «suscitato dalla Provvidenza per essere il duce sotto l'insegna del quale l'esercito cattolico avrebbe infallantemente marciato verso la vittoria», quando Luigi Molina pubblicava a Lisbona il suo: Liberi Arbitrii, cum gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione concordia. Qui sí che il gesuitismo tradiva tutto il naturalismo pelagiano, nascosto sotto il cosmetico di un'unzione accomodante, di cui era saturato! I domenicani spagnuoli insorsero a rivendicare la dottrina tomistica della grazia, e tribunali ecclesiastici furono istituiti a dirimere la controversia. La morte di Clemente VIII prevenne la condanna immancabile del molinismo e l'acquiescenza diplomatica di Paolo V preferí imporre silenzio ai contendenti.

La giovinezza di Giansenio si temprò tra queste lotte. Qualcosa del suo stesso temperamento o nella dura esperienza di adolescente lo predisponeva al partito piú rigido? I fattori psichico-fisiologici che presiedono oscuramente alla formazione di un pensiero e all'adozione di un atteggiamento sono i meno facilmente segnalabili. Le vecchie edizioni dell'Augustinus dànno il profilo scarno ed aristocratico di Giansenio: fronte ampia e prominente, occhiaie profonde, naso aquilino, gote infossate, labbra serrate, destano l'impressione di una squisitissima sensibilità e di un diuturno tirocinio di auto-disciplina. Questo figlio di contadini, alla cui intelligenza precocissima erano state di cosí aspro impedimento le condizioni familiari, da costringerlo a interrompere una volta gli studi per andare a procacciarsi da vivere in una officina da falegname, aveva bene esperimentato le amare e stupefacenti ingiustizie di cui s'intesse la vita. Una morale facile ai diversivi e feconda di sotterfugi, pronta a scambiare il successo esteriore per bontà e la soddisfazione dell'egoismo per la vittoria dell'ideale, non poteva attagliarsi a lui. Molina doveva averlo avversario implacabile: l'ambiente lovaniense, tutto pervaso di sdegno e di animosità contro l'insidia e la concorrenza dei gesuiti, doveva intensamente alimentare e sovraeccitare i germi che egli già portava in sè.

E ad essi una solidarietà amichevole d'eccezione doveva infondere un particolare rigore. Giansenio aveva conosciuto a Lovanio uno studente suo coetaneo, di nobile lignaggio: Giovanni du Vergier de Hauranne, nato nel 1581 a Baiona, conosciuto piú tardi come Saint-Cyran, dal nome del suo beneficio ecclesiastico, la Badia di Saint-Cyran-en-Brenne, in Touraine. Le sensibili difformità dei loro caratteri, sulla base di un comune orientamento spirituale, strinsero fra loro un vincolo che non doveva piú essere spezzato. Eccentrico e paradossale, «piú capace di bruciare che di illuminare», il Du Vergier era piú portato all'azione viva e diretta del ministero fra le anime, che allo studio paziente e al lavoro intellettuale di lunga lena. Capace di soggiogare potentemente gli spiriti e di rendersene dominatore avveduto ed intransigente, egli era nato per la direzione di cenacoli spirituali, anziché per la vasta propaganda e per l'azione pubblica. L'iniziale amicizia con Richelieu non l'asserví all'ascensione trionfale di questi. E quando, divenuto onnipotente, il ministro cardinale gli offrí ripetutamente una sede vescovile, egli rifiutò. Nulla voleva aver di comune con la politica ultrarealistica di questo principe della Chiesa romana, che per primo atto del suo governo aveva rimesso la Valtellina cattolica sotto il dominio protestante dei Grigioni; che dichiarava cinicamente di preferire un ugonotto, ma buon francese, ad un cattolico supernazionale; che aiutava clandestinamente le pubblicazioni gallicane, ma accarezzava in pari tempo i gesuiti, proclamando di non voler assolutamente aver mai nulla da dire con loro; che, in definitiva, era nato completamente per la politica di questo mondo, ed era funzionalmente refrattario ai valori assoluti ed eterni, cui aderisce la politica del Regno di Dio.

Saint-Cyran invece era un sognatore di perfezione cristiana, sperduto in un mondo di procaccianti e di opportunisti. Egli diceva un giorno, tristemente, a San Vincenzo de' Paoli: «Da cinque o sei secoli la Chiesa non esiste piú. Era essa una volta un largo fiume dalle acque limpide e monde. Ma oggi quel che ci appare come Chiesa è un pantano. Il letto del fiume è il medesimo, ma le acque sono altre». Un programma aveva sorriso alla vocazione giovanile di Saint-Cyran: ricercare, sotto i ciottoli e la melma, il letto primitivo, e fare ripullulare in esso l'onda della primitiva purezza. La conformazione del suo spirito lo portava d'istinto a ricercare l'attuazione di simile ideale attraverso la formazione di esigue comunità, decise a rinnegare spietatamente il mondo nell'isolamento e nella rinuncia. Le stesse sue opere antigesuitiche e antiromane rappresentavano forme di attività marginali, che dovevano piuttosto preparare le situazioni acconce alla disseminazione della sua ascesi evangelica.

Giansenio era fatto per completare e mitigare le unilateralità e le malaccortezze pratiche nel troppo ardente temperamento dell'amico. L'uomo di studio e di riflessione, scrittore forbito ed efficace, pure attraverso le ridondanze della sua squisita formazione letteraria, poteva portare al programma della rinascita cristiana l'appannaggio di una scrupolosa erudizione patristica. Agostino era, naturalmente, lo scrittore cristiano preferito dai due amici. Nel periodo di tempo che essi trascorsero insieme nella solitudine di Champré, fra il 1611 e il 1617, le opere dell'Ipponese furono lette e rilette con passione disperata. Giansenio poteva vantarsi piú tardi di avere scorso tutti gli scritti agostiniani non meno di dieci volte, e non meno di trenta quelli antipelagiani.

Formato a Lovanio, Giansenio si mantenne in una corrispondenza che, sottratta poi agli scrigni del Du Vergier, quando questi fu chiuso nelle prigioni di Vincennes dal Richelieu, immemore di ogni amicizia, formò la delizia della malignità gesuitica.

In una di queste lettere – del 14 ottobre 1620 – Giansenio annunciava misteriosamente che se un giorno gli fosse stato consentito di divulgare l'interpretazione di Sant'Agostino che si era venuta delineando nel suo spirito, il «mondo ne avrebbe trasalito di sorpresa». Quel giorno doveva coincidere quasi con quello della sua morte.

Frattanto i due amici sentivano il bisogno di comunicarsi a quattr'occhi i risultati della loro esperienza e gli orientamenti della loro maturata cultura. Nel 1611 Saint-Cyran raggiungeva Giansenio a Lovanio. Concretarono cosí insieme un cifrario per rendere la loro relazione piú sicura: si scambiarono probabilmente le loro impressioni sulla situazione politica e religiosa generale dei rispettivi paesi. Giansenio accompagnò poi l'amico sulla via del ritorno. E allo spirare dell'autunno si trovarono entrambi a Bourg-Fontaine con altri cinque amici in un convegno spirituale, di cui i gesuiti favoleggiarono poi che fosse stata una congiura per propagare il deismo, essi, i veri inconsapevoli patrocinatori del deismo del secolo XVIII.

Reduce a Lovanio, Giansenio fu, tra il 1626 e il 1627, investito di una missione alla corte reale di Spagna per difendere l'Università dalla invadenza dei gesuiti. Tornato alla cattedra polemizzò con i ministri calvinisti di Bar-le-Duc.

E quando il re di Francia non si peritò di stringere alleanza con i protestanti di Svezia, onde procedere insieme ai danni di casa d'Austria, il professore fiammingo, che poneva nettamente la solidarietà religiosa al di sopra dei calcoli politici, scrisse un eloquente libello antigallico, che non doveva pesare a vantaggio di Saint-Cyran, il giorno in cui Richelieu, stanco della sottile denigrazione del vecchio amico incorruttibile, avrebbe deciso di sbarazzarsene. Fu il Mars Gallicus, seu de justitia armorum et foederum regis Galliae. L'autore vi prese lo pseudonimo di Alexander Patritius Armachanus. Il motto ne era desunto, naturalmente, da Sant'Agostino: «Non è tratto di presunzione il cercare o il proclamare la verità».

E l'introduzione era una magnifica prova di coraggio: «Come il mare è instancabilmente mosso da due generi di movimenti, la marea ininterrottamente operante tra il flusso e il riflusso e le tempeste prorompenti ad intervalli, di cui il primo ha cause cosí recondite che nessuna indagine scientifica è riuscita mai finora a scoprirle, il secondo invece ne ha di cosí appariscenti che nessuna industria riuscirebbe a nasconderle, allo stesso modo il cuore dell'uomo, similissimo al mare, genera due tipi di azioni. Il primo tipo poggia su basi cosí profondamente sepolte nei recessi dei precordi, dalle quali pure dovrebbero desumersi i criteri onde giudicarle buone o malvage, che solo può scoprirle Colui il quale legge, quasi disegnato dalla luce del sole, tutto che sia pure avvolto in mille veli e in mille sinuosità. Il secondo invece reca cosí patentemente segnati in fronte i connotati della iniquità, che è arduo nasconderli agli occhi dei meno esperti con le caligini della accortezza o della parola. Poiché le azioni di questo secondo tipo urtano cosí crudamente nei principî centrali della religiosità cristiana, che a qualunque sotterfugio si ricorra per camuffarne e dissimularne la turpitudine non si ottiene altro che ingigantire la malvagità dei dissimulatori, non si riesce mai a rendere innocente l'operato. A questo secondo tipo, sembrano appartenere, a giudizio di molti esperti e non esperti, quelle alleanze e quegli interventi gallici, mercè cui gli avversari della fede romana nelle due Germanie hanno messo già da molti anni a ferro e a fuoco la Chiesa cattolica, fino all'ultimo eccidio di Tournemont ed all'assedio di Lovanio. Che cosa effettivamente il mondo cristiano pensi di simili gesta lo si potrà apprendere molto piú oggettivamente dai gemiti dei cattolici, anziché dalle opere scritte. Perocché quelli sgorgano direttamente dalle viscere della religiosità cristiana; queste sono tributarie di quelle deficienze spirituali, cui espone fatalmente o il turbamento dell'animo o l'ignoranza della verità. È per questo, credo, che non ho visto finora neppure un cattolico francese levare la voce, scoperta la verità dei fatti, contro i soccorsi della Francia alla causa protestante. E solo pochissimi ho veduto tentare di proteggerli col manto di una timida difesa, quasi coprendosi con mano vereconda la faccia. Ebbene: non è minor colpa tacere, quando occorre parlare, che il parlare quando occorra tacere. Tanto piú che io mi propongo in pari tempo di colpire, in un atto solo, gli errori delle menti e lo strazio dei corpi.

«Si dirà che parlo contro il re. Ma la verità è come il sole, è un bene pubblico. Nulla può farla deviare dalle sue leggi: non volontà di sovrani e di privati, di angeli o di uomini. Se la prenda piuttosto con la situazione pubblica, non già con gli scritti miranti a controbatterla, chi mal sopporta che simile situazione sia investita dalla divina luce della verità e condannata dai principî della religiosità cristiana. Va bene al di là dei limiti concessi alla umana tirannide il voler tu pretendere di fare quel che vuoi, e poi osare di spegnere la fiaccola alla cui luce le tue azioni sono giudicate, e osare di soffocare la voce della libertà della fede. Né mi si dica (come vedo che si fa, per ottundere l'impressione di un aperto misfatto): il tal principe, il tal re, il tale imperatore ha fatto lo stesso. Chi ha fatto lo stesso, sarà giudicato alla stessa stregua. È un pessimo patrocinio, la moltitudine dei peccatori. Là dove la verità non fa distinzione di persone, non la voglio fare neppure io. Io condanno e riprovo quel che essa ha condannato e riprovato: chiunque sia che abbia dato di cozzo in essa, re o privato. Non temerò la rappresaglia della prepotenza. Dal momento che non dobbiamo dilungarci dalla verità né con la vita né con la morte, né con le azioni né con le parole, chi vorrà sottrarsi al suo giudizio sulla pubblica cosa o lo tollererà male, se non colui il quale ci vorrà cacciare in una tale angustia di tempi da non permetterei piú di pensare come vogliamo o di professare quel che pensiamo? Anzi, da non permettere di pensare quel che la verità suggerisce e di proclamare quel che la verità comanda? So benissimo che ai governanti si deve timore, onore, riverenza: ma ben piú se ne deve alla verità. Non è affatto virtú civica coprire con la turpe cecità dell'adulazione obbrobriosa le sregolatezze nefande dei pubblici costumi. È pietà cristiana denunciarle, e coraggiosamente riprenderle. Ed è riprovevole eccesso di umiltà paventare la riprensione dei mali, che portano la religione allo sfacelo».

Se il Mars Gallicus doveva riuscire di pregiudizio all'amico di Giansenio vivente a Parigi, giovò in qualche modo all'autore in Fiandra. Essendo morto il 19 dicembre 1634 il vescovo di Ypres, Giorgio Chamberlain, i vescovi e il Consiglio di Stato designarono a succedergli Giansenio. Come conte di Fiandra, il re di Spagna aveva il diritto di nomina dei vescovi, sotto riserva, si intende, dell'investitura pontificia. Il governatore dei Paesi Bassi trasmetteva la designazione a Madrid il 6 ottobre 1635. A pochi giorni di distanza la designazione era sanzionata. Urbano VIII confermava la nomina reale il 21 luglio 1636. Nell'ottobre successivo Giansenio era consacrato a Bruxelles dall'arcivescovo di Malines, assistito dai vescovi di Gand e di Namur. Il 30 novembre entrava solennemente in sede, preceduto dalla divisa «In veritate et charitate». Anche i gesuiti, quel giorno, gli offrirono, ostentatamente, i loro omaggi e le loro felicitazioni.

Giansenio non godette a lungo la sua fortuna ecclesiastica. Logorato dall'indefesso lavoro, che era venuto accumulando nel suo Augustinus, in segreto e trepidazione, egli si spegneva mentre ne stava apprestando la stampa, dopo solo diciotto mesi di episcopato, il 6 maggio 1638. Affidava, sul letto di morte, la sua opera a Reginaldo Lammée, che l'aveva già aiutato nella preparazione del materiale, a patto che la stampa ne procedesse sotto la sorveglianza di Liberto Frormont e di Enrico Colenus, gli amici degli ultimi anni. Mezz'ora prima di esalare l'ultimo respiro, aggiungeva al testamento una clausola intesa a formulare la sua dichiarazione di sottomissione alla Chiesa, qualunque fosse per esserne il verdetto. Per una singolare coincidenza, Giansenio era morto da appena otto giorni, che Saint-Cyran era arrestato a Parigi.

Nonostante le opposizioni intriganti ed astute dei gesuiti, dell'internunzio Paolo Stravio, del cardinale Francesco Barberini, e della stessa Università lovaniense, l'Augustinus compariva a Lovanio nel 1640. Un anno dopo era ristampato a Parigi con l'approvazione entusiastica di cinque dottori. Dal fondo della sua prigione di Vincennes, Saint-Cyran salutava l'opera postuma dell'amico: gli sembrava un po' povera d'ispirazione sotto il gravame della erudizione sconfinata e geometricamente disposta, ma ciò nonostante egli non esitava a proclamare che «dopo San Paolo e Sant'Agostino, nessun dottore poteva paragonarsi a Giansenio; che la sua opera era destinata a divenire il libro di devozione degli ultimi tempi; che sarebbe vissuta quanto la Chiesa; che, infine, qualora pure re e Papa si fossero uniti insieme per dannarla alla rovina, essa avrebbe avuto sempre ragione di tutte le opposizioni e di tutte le condanne».

Se dobbiamo attribuire un valore profetico alle valutazioni del prigioniero di Vincennes, la Chiesa è vicina al suo occaso: perché l'Augustinus ha finito da un pezzo di circolare nel mondo. Il letto del fiume che Saint-Cyran si illudeva ancora di poter sgombrare dai ciottoli e dalla melma, si è inabissato sotto i detriti e i rottami di un cataclisma.

Aveva scritto Giansenio: «Io mi sono avvicinato a Sant'Agostino, sperando in Dio che io non sarei defraudato del frutto del mio lavoro, vale a dire della conoscenza della verità e della dottrina, mercè la quale l'Ipponese trionfò dei pelagiani e della quale la Chiesa ha tessuto il piú alto elogio. A tal fine occorreva attingere a questa fonte con la conveniente semplicità di spirito e con una insaziata avidità del vero. Occorreva deporre i pregiudizi dei vani sistemi dei quali ero stato imbevuto nella mia adolescenza, frequentando le scuole di teologia. Occorreva che io non mi atteggiassi a giudice dei suoi scritti, ma a suo discepolo: che io non cercassi se le mie precedenti opinioni potessero essere collocate sotto il suo patrocinio. Bensí che mi ponessi a seguirlo piú che ogni altro, a correggere tutte le mie idee e tutte le mie parole sulla norma del suo pensiero». Ed aveva mantenuto fede alla consegna.

Ma in uno strano modo. Dipingendo, sotto le fattezze dei pelagiani, i gesuiti e i gesuitanti del suo tempo. E ricavando da Agostino la interpretazione del cristianesimo che meglio si prestava ad essere contrapposta idealmente all'involuzione pagana della modernità.

I contemporanei colsero le allusioni. La campagna antigiansenistica fu la congiura del paganesimo redivivo, in combutta col gesuitismo, per soffocare Agostino per sempre.

Il successo le ha arriso. Da un oceano all'altro il mondo è oggi tutto pelagiano: e proprio per questo il pelagianesimo pare la bizzarria ereticale piú remota da noi. Perché gli uomini hanno creato le due categorie dello spazio e del tempo per poter fare evaporare nella indistinzione nebbiosa della seconda le constatazioni spiacevoli che può suggerire l'applicazione della prima.

Ma il giorno in cui il mondo moderno, arena di trionfo per gli antigiansenistici, si dovrà, suo malgrado, accorgere di essere fino al midollo pelagiano, segnerà di per sé in anticipo il suo inglorioso decesso. E la vita associata sarà purificata dal contagio che da quattro secoli la inquina.

Esiste nell'uomo una capacità a mal fare piú ripugnante di quella di chi trasgredisce patentemente i comandamenti delle tavole mosaiche. Ed è la capacità subdola e raffinata di nascondere la propria originaria perversione sotto l'apparenza della pietà; di negare a Dio il pregio della Sua infusione carismatica sotto la pretesa della umana virtú di ben fare; di impastare la propria esistenza di superbia e d'ipocrisia. Ecco il vero peccato contro lo Spirito Santo. Ne furono rei a' tempi loro i pelagiani; ne sono rei, insinua Giansenio, ai nostri tempi, i gesuiti. Scoprire fino in fondo tutte le risorse e denunciare tutte le espressioni di questa satanica voluttà umana nella menzogna e nella finzione, è il miglior modo di giungere alla vera ed oggettiva conoscenza della natura dell'uomo e del mistero portentoso della grazia e del riscatto. Se la vita e l'universo sono il tempio di Dio, gli uomini vi stan sempre divisi in due grandi categorie: quella dei farisei, tronfi e pettoruti, i quali, al cospetto degli angeli scandalizzati e beffardi, reclamano la purezza e la santità della loro ipocrita uniformità alle leggi scritte, e quella dei publicani, umili e contriti, i quali riconoscono l'immenso loro debito alla generosa e paterna bontà del Padre e da essa implorano, umilmente, il perdono.

Il Vangelo è la sanzione e la celebrazione della religiosità publicana: la filosofia e il paganesimo la celebrazione dell'untuosità e della falsità farisaiche.

Pelagiani e gesuiti, secondo Giansenio, sono pertanto al di qua del Vangelo. La sostanza del pelagianesirno come del gesuitismo, per quanto l'asserzione possa apparire paradossale, non è che nuda e semplice speculazione etica pitagorica, stoica, aristotelica. Per cui appare compiutamente vero dei pelagiani quel che una volta Tertulliano affermò degli eretici in generale: «Patriarchi degli eretici, i filosofi». Di fatto, alla base della predicazione pelagiana sussiste il postulato che all'uomo sia consentito di raggiungere lo stato dell'assoluta perfetta giustizia, fino all'impeccabile impassibilità. Ora, che cos'è mai questo postulato se non la quintessenza della pedagogia di Zenone? Contro il quale peripatetici e nuovi accademici combattono unicamente per sostenere che i commovimenti dell'anima possono essere non sradicati, ma disciplinati e frenati dal paziente tirocinio dell'uomo saggio e vigile. Libertà dell'arbitrio, secondo Pelagio, è possibilità e indifferenza dell'uomo per ogni genere di azioni, buone o malvage, oneste o obbrobriose. E qui, di nuovo, che cosa è simile presupposto, se non la comune sentenza dei filosofi, dover l'uomo chiedere a Dio tutto, ma la virtú solo a se stesso? Seneca aveva ben detto prima di Pelagio: «Suprema felicità della vita, aver fiducia in se stesso». Il monaco scoto e i suoi prossimi o remoti seguaci, son tutti, piú o meno scopertamente, scesi in campo contro la vera e umana concezione del peccato originale. Donde han preso lo spunto se non dalla filosofia pagana? I corifei di questa, infatti, non solamente non hanno mai avuto sentore di una trasmissione di colpe di padre in figlio, ma hanno magnificamente spianato la strada all'ottimismo pelagiano. Muovendo infatti dalla premessa che nulla vi sia di riprovevole, se non ciò che è nelle possibilità di chi è riprovato, dovevano necessariamente, come Aristotele, sboccare nella conclusione che nulla può essere meritevole del nome di colpa o di pena, che sussista fin dalla nascita.

Del resto, tutta per intiero la concezione dello stato di natura pura, che per primi Pelagio e Giuliano di Eclano introdussero nel mondo della speculazione teologica, è un parto della filosofia pagana. Perché solo il paganesimo poteva pensare della natura umana che nascesse, a norma della medesima legge onde è disciplinata l'universa vita animale, senza alcuna virtú o alcun vizio congeniti, senza grazia e senza colpa; dell'una e dell'altra, invece, capace, secondo la decisione del proprio libero arbitrio, non accompagnata dal pudore e dall'ignoranza, dalla concupiscenza e dalle libidini, dal corteggio immancabile dei mali e dei dolori, degli affanni e della morte, destinata agli Elisi per un ordine irrevocabile. E non solo i propri dogmi, ma anche le armi della propria propaganda il pelagianesimo ha mutuate dalla filosofia profana. Si può dire di piú: se tu gli sottrai la loquacità burbanzosa che gli viene dalla filosofia, l'avrai annullato. Le elucubrazioni della apologetica razionale sono state sempre nel cristianesimo un diversivo insidioso alla semplice e rude limpidezza del precetto e dell'ideale evangelici. La troppa filosofia fu sempre un'interpolatrice e una contaminatrice della verità cristiana, anziché una sua integratrice, perché mentre non crede sufficientemente divine e solide le verità in cui viene insinuando le sue interpolazioni, non scopre neppure la fragilità umana di quel che viene costruendo, sotto l'impulso del suo prurito di novità.

Come la vecchia filosofia, il pelagianesimo, terribile contraffazione del cristianesimo, è una mostruosa esplosione di albagia. Che esso sia stato possibile dopo la rivelazione del Vangelo, costituisce la prova lampante che un terribile cancro è alle radici stesse della spiritualità umana, che l'elemento titanico non è nell'uomo in un piano distinto da quello dionisiaco, ma che piuttosto lo ha invaso nel suo dominio e lo ha avvelenato alle sue scaturigini. Per il fatto stesso della sua esistenza il pelagianesimo appella contro se medesimo; perché nella sua essenza e nei suoi connotati, esso costituisce la riprova apodittica della perversione organica e funzionale dell'uomo.

Che cosa è esso infatti se non vanità e frode? Se non adulazione e viltà? Se non acquiescenza e neghittosità? Non indebitamente il pelagianesimo (e, suggerisce cautamente Giansenio, sulle sue orme il gesuitismo) può e deve dirsi la creatura primogenita di Satana. Perché come questo precipitò per superbia, pretendendo quel che era proprio di Dio, e fece cadere la prima coppia umana, facendo balenare dinanzi ai suoi occhi un destino divino, cosí il pelagianesimo, esautorando la grazia, ha strappato agli uomini l'unica possibilità di riscatto. E di orgoglio satanico è satura tutta la letteratura pelagiana. Ne fa fede quella lettera a Demetriade, che Pelagio scrisse dall'Oriente. Il suo esordio annuncia esplicitamente di volere additare la stupenda forza della natura umana e misurare il suo vastissimo raggio d'azione. Ma tutto questo non porta che al mimetismo della virtu, non alla virtú genuina che è umiltà, mitezza, disinteresse. Invece i pelagiani (leggi, i gesuiti) ostentano una santità formalistica sotto il cui drappeggiamento si nascondono iattanza, ipocrisia, avidità, bisogno di predominio terreno. La loro saccente perizia dialettica li fa altrettante scimmie di Aristotele, povere di ogni capacità spirituale.

Costoro hanno impudentemente contraffatto i metodi e le finalità della scienza sacra. Esistono infatti due metodi per penetrare nella profondità di quei misteri divini, che la rivelazione di Dio propone alla fede dei credenti. Il primo si svolge mediante l'umano raziocinio, ed è quello adottato analogamente dai filosofi. Si tratta di un metodo esposto a una quantità di pericoli, come dimostra perentoriamente il caso capitato a molti grandi scrittori sia recenti, sia del Medioevo, sia dell'antichità patristica. Costoro, postisi a scrutare con scarsa discrezione le sublimi verità del divino, ne furono schiacciati. Proprio in indagini di questo genere occorre porre un freno alla propria curiosità e approfondire con quella sobrietà la quale non permette ad un'anima schiettamente, cristianamente umile, di inoltrarsi, sotto il prurito di una stolida curiosità, sul sentiero di quelle realtà soprannaturali intorno a cui deve dominare il velo del silenzio impenetrabile. Il secondo metodo sgorga automaticamente da una bruciante carità. Questa purifica il cuore dell'uomo, ne aguzza l'intuito, si che scorga i segreti piú intimi di Dio, quali sono gelosamente chiusi sotto la corteccia della parola biblica. Questa maniera di esplorare e di intendere le realtà trascendenti è familiare ai veri cristiani. È constatato che negli uomini e nelle donne dediti alla spiritualità, col crescere della carità si sviluppa la sapienza, finché pervenga al meriggio pieno. Poiché allo stesso modo che l'albero viene su dal seme, e a propria volta il seme cade dall'albero, e si moltiplica cosí all'infinito la produzione, l'approfondimento della fede cristiana accende il fuoco della carità e a propria volta la carità suscita rinnovata luce di cognizione, e l'uno e l'altra con alterna vicenda guidano alla pienezza della sapienza. Parallelamente alle diversità che intercedono fra i due metodi conoscitivi, debbono riconoscersi le difformità che separano le verità conosciute con l'uno o con l'altro. Le verità guadagnate col primo metodo sono di solito aride e spinose, affidate alla nuda speculazione, e quindi pressoché frivole ed inutili: le seconde, invece, sia che coinvolgano la realtà divina, sia che attingano la natura umana, sia che comprendano le regole dell'azione, sono sempre turgide di sapore e ridondano intimamente ad incremento di quella vena sentimentale donde emanarono. Ripetutamente questo secondo metodo viene designato e raccomandato da Sant'Agostino come il piú sicuro e il piú sacro: unico da inculcarsi a chi aspira a raggiungere l'intelligenza dei valori umani e divini. Nei suoi trattati su Giovanni egli dice una volta: «Non può essere amato quel che è del tutto ignorato, ma quando si ama quel che si conosce in infima parte, l'affetto fa si che si conosca sempre di piú». E soggiunge : « Sarà in virtú della carità che riuscirete a intuire e a possedere con le forze autonome del vostro spirito tutto quello che apprendeste estrinsecamente attraverso le letture e le audizioni, intorno alla incorporea ed infinita natura di Dio».

Psicologicamente – è sempre Giansenio che espone il suo sistema morale e religioso – la cosa è comprensibilissima. Per il fatto stesso che strappa l'anima del fedele al fascino malefico delle creature e la sospinge risolutamente verso Dio, la carità purifica l'occhio del cuore dalle nebbie e dalle tenebre delle terrene cupidigie, onde lo spirito è gravato fino a smarrire ogni possibilità di fissare lo sguardo nei misteri divini. Soccorre anche qui la testimonianza di Sant'Agostino: «Vuoi vedere? Ricorda: beati i mondi di cuore, perché solo essi vedranno Dio. Pensa prima, quindi, in anticipo a purificare il cuor tuo. Dàtti a questo lavoro, richiàmati a questo còmpito, insisti su tale proposito. Quel che tu vuoi scoprire è mondissimo: il mezzo a tua disposizione invece è immondo».

E chi potrebbe revocare in dubbio essere proprio la carità del vero, cioè di Dio, quella che purifica i cuori? È ancora un motto di Sant'Agostino: «La verità purifica, la vanità contamina». Come infatti tutte le cupidigie terrene sono opache e tenebrose, la carità, funzionalmente antitetica alla cupidigia, possiede la virtú di dissipare la zona delle tenebre e di accendere un faro nel cui alone di luce cadano le realtà soprasensibili. Rimosse le ombre delle cupidigie affumicate, voi scoprite, con occhi estasiati, la luce. Dio è pronto ad accendere questo sprazzo di luce purificatrice. Siamo noi che non ci addimostriamo disposti ad accoglierlo, dispersi come siamo e ottenebrati dall'avidità delle cose temporali. È del tutto fatuo pertanto che individui, i quali son fasciati dalle oscurità delle materiali concupiscenze, rivolgano i loro occhi ciechi nella direzione dei misteri divini, tentando di esplorare, di comprendere, di penetrare, di definire, prima che la luce arcana, onde pullula la santità, irrompa nei loro cuori. Caso codesto sorprendente di presunzione temeraria. Perché occorre non dimenticarlo: anche in questa vita l'intelligenza di quelle realtà che alla fede sono proposte, è a sua volta premio di un atto di fiducia. E la fiducia implica ognora la santità della vita che rampolla dalla carità e sgombra dalle tenebre l'orizzonte del cuore. Onde a buon diritto Agostino chiama la carità una sconfinata fonte di luce.

E Giansenio continua: luce sull'infinito: luce sul non io: luce, innanzi tutto, sull'io. Perché – qui l'aspetto paradossale della natura umana – l'uomo porta in sé la ricapitolazione del mistero universale, e il dramma onde è dilacerata la vita del cosmo pulsa piú violento nella clausura, spazialmente circoscritta, entitativamente sconfinata, delle sue volontà e delle sue aspirazioni. E il primo enigma che egli deve risolvere è nel contrasto implacabile di sé con se stesso. È qui, prima e piú che in qualsiasi altra sfera di conoscenza, che l'uomo deve fare appello al metodo della inçlagine attraverso l'operare buono, se vuole scoprire le ragioni del suo essere e la traiettoria del suo destino.

Psicologo perspicace e moralista squisito, Giansenio getta lo scandaglio della sua analisi sensibilissima negli strati piú profondi e piú impervi del sentimento e della passione. La sua dottrina della colpa e del riscatto è una fedele proiezione e descrizione dei dati elementari della spiritualità umana in azione. È un'anticipazione religiosa della laica antropologia criminale.

Nulla di piú pregnante che quell'aforisma di Sant'Agostino: «Due amori costituirono due città: l'amore di Dio, spinto fino al rinnegamento di sé, creò la città celestiale; l'amore di sé, spinto fino al disconoscimento di Dio, creò la città del secolo». Sono parole già da noi ricordate. Giansenio ha attribuito ad esse la concreta loro importanza.

La genesi di simile dicotomia è nel fatto che occorre riconoscere, egli dice, doversi ogni azione volontaria della creatura ragionevole riportare in ultima analisi a Dio o alla creatura finita. Perché, non consentendo le categorie dei mezzi e dei fini il processo all'infinito, è necessario che l'ordine della serie sia determinato dalle due estremità. Infatti, se nel novero delle posizioni mediane e dei mezzi convergenti al fine non ci fosse un principio, in realtà nessuno comincerebbe ad agire e nessuno tradurrebbe in atto un proposito, che in tanto può essere realizzato, in quanto è raggiunto ciò che inizialmente è stato concepito e voluto. Parimenti, se nella serie dei fini non si desse l'ultimo, nulla solleciterebbe l'umano desiderio, perché, venendo a mancare il primo movente, verrebbero meno tutti gli altri, e l'operazione non avrebbe mai il suo coronamento. Ora il termine di ogni appagamento, senza possibilità di scampo, o è Dio o è una creatura. Nel primo caso, già siamo nel dominio dell'agape, nel secondo, siamo nelle caligini della cupidigia.

I filosofi precristiani ebbero già un vago sentore di questa duplice polarizzazione tra cui si muove lo spirito. Essi riconobbero infatti che l'anima umana è incapace di attingere la perfezione della sapienza se prima non si applica, con tutte le sue riserve di energie, alla purificazione del proprio tenore di vita attraverso l'esercizio dei buoni costumi, onde conglutinarsi a Dio nella fiamma di uno spiritualissimo amore. Agostino dice di Socrate che disdegnava gli spiriti ravvolti nelle cupidigie terrene, come refrattari ed indocili a ogni raggiungimento di quelle cause supreme, che riposano unicamente in Dio. Onde è a dirsi, che, a norma della stessa filosofia pagana, è vietata pure quella felicità naturale che è nella comprensione spontanea del primo principio delle cose, a quelle intelligenze che non abbiano subìto un diuturno processo di affinamento, a quelle anime che non siano state affrancate dal fondo delle torbide e deprimenti cupidità fisiche. Ma i grandi filosofi del paganesimo sono andati anche piú in là nello scoprimento dell'economia, che disciplina l'ascensione spirituale dell'uomo. Non solamente, infatti, essi scorsero la necessità di una propedeutica morale al conseguimento della verità razionale, ma presentirono anche, stupendamente, la radicale incapacità dell'uomo di compiere da solo il processo dell'autopurificazione e quindi l'esigenza sua profonda e l'appello ineluttabile ad una superiore assistenza. I platonici si fecero il dovere di venerare dèi inferiori, vale a dire demoni, affinché potessero impetrarne il soccorso nel conseguimento di quella spirituale mondizia, che sapevano indispensabile alla contemplazione del divino. Era cosí oscuramente preavvertita la necessità del riscatto, operato dal sacrificio di Cristo.

Nessun grande merito del resto in tutto questo. Basta infatti riguardare con occhio spassionato, non velato dalla superbia e dalla presunzione, allo sfacelo della nostra spiritualità, abbandonata all'irruzione attossicante della passione, per misurare di colpo l'abisso della nostra miseria e la inguaribilità del nostro male.

Noi siamo impastati di concupiscenza e fasciati di ignoranza, proclamava Giansenio. La vita intiera dell'uomo è un poema tragico di cecità e di passione. Quanto la nostra esistenza sia funzionalmente viziata in radice lo dimostra perentoriamente il nostro vivere quotidiano, «si vita dicenda est». Dal grembo della propria madre, ogni infante che viene alla luce corporea è sepolto in un tale abisso di tenebre spirituali, da ignorare che cosa sia, da chi sia stato creato, da chi sia stato generato, già gravato di colpa, pure prima di conoscere o di praticare un qualsiasi comandamento. Cosí densa è la caligine che l'avvolge d'ogni intorno, che non è possibile ridestarlo di colpo come da un sonno. Occorre che passino degli anni perché egli si riabbia dalla sua singolarissima ubriacatura. Da questa resistente caligine promana l'infinito errore della vita umana, che assorbe ed inghiotte senza misericordia la progenie intiera di Adamo. L'esperienza di ogni giorno dimostra come pesante sia il fardello della ignoranza, con cui la natura umana entra nel mondo. Per cui, se uno sia lasciato ai suoi istinti, la sua pratica sarà una sentina di vizi. La pedagogia non è che la disciplina di una turbolenta inclinazione a mal fare. Si dirà che se cosí fosca e cosí impenetrabile è la zona di tenebre in cui l'uomo nasce naturalmente imprigionato, sarà impossibile assegnargli alcuna responsabilità del suo male operare. Ecco un'obiezione pelagiana: «L'oblio e l'ignoranza affrancano il peccato». Insospettabile dottrina agostiniana è invece quella espressa in queste parole: «È immeritevole di qualsiasi scusa, sia a causa dell'originario reato, sia sotto il gravame della propria sopraggiunta complicità volontaria, cosí chi sa come chi ignora, cosí chi giudica come chi non giudica. Dappoiché la stessa ignoranza, in coloro che non vollero comprendere, è peccato: in coloro che non poterono comprendere è pena di peccato. Onde negli uni e negli altri non vi è luogo a scusante: non v'è che un unico giusto decreto, quello della condanna».

L'incapacità umana di discernere il vero e il buono è cosí profondamente insita nel midollo della natura, che mai e poi mai, comunque si affinino e perfezionino l'intendimento e la cultura, riesce possibile agli uomini, infedeli o credenti, debellarla e sostituirla con una sana e inerrabile norma di valutazione. Si può giungere fino al paradosso nel riconoscimento della realtà di questa funzionale ignoranza. E si può dire che l'ignoranza invincibile, lungi dal redimere dalla imputabilità della colpa, la rende piú onerosa e piú severa. Per cui tale ignoranza, attingente le ragioni stesse del nostro vivere, le finalità immanenti del nostro operare, è in continuità diretta con la colpa cui fece séguito, e che ottuse per sempre la propensione connaturale dell'uomo primordiale verso il suo adeguato destino, Dio. «Ciò che vien fatto di male nell'ignoranza e ciò che vien fatto di male da chi vorrebbe fare il bene e non vi riesce, è ugualmente peccato, perché trae origine dalla prima colpa della libera volontà, la quale merita simili conseguenze».

Cause ed effetto sono in questo caso strettamente, indissolubilmente amalgamati. La dottrina del peccato di origine è la dottrina, la piú realistica che si possa escogitare, della universale solidarietà nell'abiezione. Perché nulla di piú realistico e di piú ossessionante di quella legge dell'attrazione dei sessi, che ne disciplina e ne fa violenta e funesta la continuità, attraverso la trasmissione della vita corporea.

L'universo non è che una permanente fermentazione di libidini. La colpa del primo uomo vi si è ripercossa sinistramente. Adamo ha fatto il mondo, anch'esso, vittima del proprio peccato. Perché l'insieme delle creature sensibili è divenuto il campo della sua cupidigia morbosa. S'identifichi o no con lo stesso appetito sensibile e con la volontà naturale, che, orbati della grazia, la quale innalza e raffrena, pencolano fatalmente, come per una forza irresistibile di gravità, verso le cose create; sia invece qualcosa di sopraggiunto alle capacità naturali; sta di fatto che la concupiscenza è una consuetudine che si volge prepotentemente al godimento dei piaceri. Tutta la progenie del primo uomo ha contratto, a causa del suo fallo, un morboso e raffinato compiacimento nel mal fare. E la passione per le cose create, che è stata la colpa di Adamo, è divenuta l'abito connaturale dei suoi discendenti. A questa infausta passione non si deve pensare che servano solamente i sensi esterni. Le stesse facoltà nobilissime dell'animo sono ormai miserabilmente asservite nei figli di Adamo alla oscura forza del peccato. Se, ad esempio, l'esercizio dell'intelligenza e l'avidità di conoscere sono preziose virtú della natura cogitante, sono fonte ormai e mezzo di compiacimenti libidinosi. Perché anche nella pura contemplazione intellettuale l'uomo ha introdotto una certa inquietudine cupida, da cui l'animo è eccitato e solleticato. L'Apostolo ha dato del mondo una definizione pratica perfetta, quando ha detto che esso è tuffato fino alla cima dei capelli nella concupiscenza della carne, nella concupiscenza degli occhi, nella superbia della vita. La concupiscenza della carne comprende le colpe che si commettono onde conseguire il diletto che scaturisce dai sensi. La concupiscenza degli occhi è la curiosità del sapere. La superbia è l'avidità tirannica del predominio. A nessuna di queste concupiscenze può il cristiano, mai, lasciare libero adito. E il voler cavillare per legittimarne in qualche modo il parziale e misurato soddisfacimento è un rinnegare l'essenza stessa del precetto evangelico. È qui veramente il cardine su cui poggia la somma della pedagogia cristiana. E per intendere come questa investe e trasfigura le radici stesse dell'azione spirituale dell'uomo, occorre scendere fino in fondo alla coscienza e scoprire le forze che vi operano, prima e dopo la interiore rinascita. Giansenio scende cosí in fondo alla coscienza dell'uomo.

E osserva: «L'amore è la prima e centrale fra tutte le affezioni umane. Da esso tutti gli altri sentimenti promanano e ricavano la loro colorazione. Esso non è altro, in sostanza, che una prima propensione del sentimento verso il bene e un certo vincolo mercè il quale il sentimento si stringe al bene, e, quando è intenso, vi aderisce profondamente. – Che cos'è mai l'amore – dice Sant'Agostino – se non una vita che fonde due realtà, o tende a fonderle, la realtà amante e la realtà amata? – Non lo si sente tale però, se non quando lo solletica il bisogno. Il sentimento infatti è, può dirsi, immobile: e il movimento è piú sensibile del riposo. E il movimento è provocato da altri sentimenti che emanano dall'amore. Come la realtà amata è contrassegnata da molteplici circostanze, cosí il soggetto amante e l'amore stesso assumono molteplici aspetti e difformi volti. Mancando l'oggetto del proprio vagheggiamento, è rôso dalla brama; della sua presenza, si rallegra; del suo pericolare, trepida e si rattrista; della limitatezza della sua libertà, si irrita; della sua perdita, si dispera. Come un girasole, si atteggia diversamente secondo i movimenti dell'oggetto amato. Per cui non si ha torto asseverando che in tutte le forme e le espressioni della sensibilità umana, è l'amore che signoreggia, sia che queste forme concretizzino di fatto una propensione amorosa, sia che, come dalla propria causa, sgorghino dall'amore, a norma delle molteplici vicende e variazioni della realtà amata».

Se l'amore è cosí al fondo e cosí al principio nel piano di sviluppo della vitalità umana, il primo quesito che si offre alla riflessione è questo: «Le leggi divine autorizzano la creatura ragionevole a rivolgere l'affetto del suo amore verso una qualsiasi delle cose create?». Occorre intendersi sul significato dei vocaboli. «Amore qui non va preso nel senso di una qualsiasi cupidigia, con cui bramiamo un oggetto comunque ottenuto. Va inteso piuttosto unicamente come la brama di una realtà creata per se stessa, per la sua propria bellezza, per la sua seducente attrazione, per il piacere che offre. Ché se tale realtà invece sia riferita ad altro fine, non essa, ma questo fine sarà amato. Ad esempio, ama le ricchezze colui, il quale ama diventare ed essere ricco; ama gli onori, chi trae compiacimento dal loro fastoso spiegamento; ama le dignità, chi è lusingato dal potere che esse conferiscono agli uomini; ama la voluttà colui il quale non vagheggia e non sogna altro che il suo titillamento. Ha scritto Sant'Agostino: – Se in vista di altro fine, che deve essere amato, l'amore è amato, non si chiama piú giustamente amore. Perché amare è unicamente desiderare una cosa per se stessa. – Orbene: su nessuna cosa creata il sentimento dell'amore può essere collocato senza peccato». Per quanto l'asserzione possa apparire audace e paradossale, sostiene Giansenio, essa sgorga logicamente dagli stessi presupposti fondamentali della religione cristiana. La consegna del Cristo è chiara e perentoria: occorre che gli uomini si sottraggano alla potestà delle tenebre, perché siano trasferiti nel regno della luce. A coloro che si presentano sulla sua soglia, ad invocare l'iniziazione, la Chiesa domanda di rinunciare pubblicamente a Satana e a tutte le sue pompe, in altri termini, alla seduzione di tutte le realtà sensibili. Si può dire di piú. Non v'è altro scopo, al mondo, per la religione cristiana, se non quello di liberarci dal fascino pericoloso delle cose create. In due modi: o lacerando e spezzando bruscamente, in virtú della grazia, i lacci dell'amore inferiore, o trattenendo l'animo dallo stringerli. Sant'Agostino lo proclama ripetutamente. Parlando, nei sermoni sulle parole del Signore, della vocazione dei cristiani, egli dice: «La nostra speranza non poggia sul secolo presente. Non lo dobbiamo pertanto amare. Dall'amore del secolo (vale a dire, di tutte le cose appartenenti al secolo), siamo stati chiamati al Cristo e alla Chiesa, ché il vocabolo Chiesa deriva da chiamare, onde vagheggiamo ed amiamo un altro mondo». Orbene: se la disciplina cristiana ci comanda di rinunciare al secolo, vale a dire, secondo l'esposizione agostiniana, di non amare il secolo, di non apprezzare i suoi valori, logicamente c'è una colpa nell'amare quello e nell'apprezzare questi. Perché quel comandamento della disciplina e della rinunzia è desunto unicamente dalla Scrittura, la quale apertamente comanda, sulle labbra dell'Apostolo Giovanni: «Non amate il mondo e le sue cose». Dove Agostino commenta: «Non dice già l'Apostolo: – Non vogliate usare del mondo, – bensí: – Non vogliate amare il mondo. – Perché chi usa, non amando, usa quasi non usasse, perché non ne usa in vista della cosa stessa, ma in vista dell'altra cosa, cui dà il suo amore, e il suo uso è senza passione». Perfettamente imbevuto degli obblighi, di cui s'intesse la chiamata cristiana, Sant'Agostino inculca ad ogni passo che in ogni affetto chiuso e circoscritto delle cose terrene, si nasconde, velenoso, il peccato, e che a Dio solo deve andare l'amore dell'uomo. «Il peccato anzi non è altro che questa deviazione immonda della sentimentalità umana, fatta per Dio e per l'Assoluto, e precipitante, invece, verso la caducità e l'abbominio». La dottrina agostiniana dei due amori era cosí risuscitata da Giansenio e spinta alla sua formulazione piú recisa.

Infatti la condizione naturale e primigenia della creatura ragionevole, continua il vescovo di Ypres, è tale, da essere costituita sotto Dio, di fianco alle altre creature ragionevoli, e sopra il mondo della materia. La legge eterna non è altro che la codificazione dei rapporti nascenti dalla gerarchia di questo ordine naturale. E l'ordine delle cose si traduce e si celebra attraverso lo spiegamento di un intreccio armonioso di movimenti amorosi. Il che è tanto vero, che può dirsi recare la gravità universale l'effigie dell'amore, piú che non l'amore l'effigie della gravità. Alla creatura ragionevole Dio infuse il peso della volontà e dell'amore; alla creatura corporea, ma suscettibile di impulso razionale, impresse la legge della gravità. Ne è risultata una cosí armonica e vasta distribuzione degli esseri, che in proporzione della maggiore o minore loro pesantezza gli oggetti tendono, inquieti, a raggiungere il gaudio della loro stabilità in luogo piú alto o piú basso. La creatura ragionevole è stata collocata nel mezzo tra la natura corporea e la incorporea. E le è stato inoculato un gravame di amore che la sospinge a raggiungere, nell'ordine universale, il posto che le spetta e a difenderlo quando l'abbia raggiunto. Ora, di superiore alla ragione e alla creatura ragionevole non v'è che la verità immutabile, vale a dire il Dio vero. Onde solo a Lui, cui è naturalmente soggetta, deve rivolgersi, e verso di Lui protendersi. La virtú è a questo patto. Ché se la creatura ragionevole alieni la sua inclinazione amorosa dalle realtà supreme, che sono Dio e la legge eterna della immutabile verità, e la arresti su se stessa, o, precipitando ancora, la devii sulle realtà inferiori, getta il perturbamento e lo scompiglio nel mondo universo.

È accaduto una volta nell'Eden. Ha continuato ad accadere ininterrottamente nella vita. Perché la colpa di origine – tremenda tragedia della storia – per un fenomeno di scissiparità psichica e di mimetismo morale, si è ripercossa in tutta la progenie degli uomini, non solamente per l'azione di un malefico impulso insito nella legge dell'imitazione familiare, bensí per l'azione irresistibile di una morbosa deformazione organica, per cui i discendenti di Adamo non sono stati capaci d'altro che di ripetere per l'eternità il gesto folle e seducente insieme del loro primo padre. Il peccato, pena ed espiazione del peccato! Ecco il paradosso della spiritualità umana in cammino.

Qualcosa di tragico accompagna ed avviva cosí la visione universale di Giansenio. È stolto e vano interpretare in qualsiasi altra maniera la essenza della primordiale aberrazione di Adamo e delle sue conseguenze. Se si nutrissero ancora dei dubbi al riguardo, dice il vescovo fiammingo, basterebbe considerare le conseguenze perniciose che accompagnano, infallantemente, questo dilungare la capacità amorosa da Dio, per declinarla verso le creature. Esse sono: la perdita della libertà; la contrazione di una greve corruttibilità; la materiale assimilazione alle realtà periture; la difficoltà del sollevamento; l'inquietudine intima; la contaminazione inguaribile; l'incapacità definitiva a scorgere la vera destinazione e a praticare il retto uso delle cose.

In ciascuno di noi pertanto Adamo rinnova il gesto della sua temeraria rivolta. Germinati da una semenza in putrefazione, noi siamo incapaci di innestarci, con le nostre forze, sul piano delle realizzazioni che Dio aveva imposto all'ordine delle cose create. «Agostino ha insegnato ripetutamente come il peccato originale, vale a dire la concupiscenza, che per lui è la stessa cosa con il peccato originale, si trasmette e si propaga attraverso la libidine ribelle alla volontà. Il che si può spiegare in due modi. O nel senso che il violentissimo trasporto della concupiscenza preesistente in tutta la capacità sensitiva, protesa verso la voluttà del corpo, contro ogni controllo di volontà, possiede una cosí tremenda potenza, da trasmettere al feto una proprietà consimile; cosa tutt'altro che impossibile, sapendosi molto bene quanto possano l'amore e il timore nel trasformare il tenuissimo corpo della prole e avendo i medici minutamente indagato e inoppugnabilmente constatato la trasmissibilità delle affezioni per via di generazione. O nel senso, piú verosimile e piú aderente al pensiero dell'Ipponese, che la semenza stessa di Adamo, come la natura sua tutta, ha contratto, a causa della colpa, un pervertimento cosí radicale, da non potersi trasmettere senza una automatica comunicazione di peccato, di corruzione e di condanna. Anche in questa seconda ipotesi, la cosa è perfettamente comprensibile e empiricamente dimostrabile. Noi vediamo tutti i giorni come si trasmettano nella prole non solamente le malattie del corpo, bensí anche le acquisite pravità dell'anima, le inclinazioni al male che i genitori contrassero vivendo malvagiamente, e, cosa ancor piú sorprendente, quelle fatuità cerebrali, provenienti spesso non già da perturbamento organico, ma da semplice sconvolgimento dei fantasmi. Se ne deve concludere che la semenza umana contrae, dai vizi inerenti al corpo e all'appetito sensibile, una capacità intima, che la rende atta a trasmettere la qualità che ne era in essa ridondata. Allo stesso modo il colore e la conformazione dei negri agisce misteriosamente sul seme, si da riprodurre nella prole il medesimo colore, il medesimo aspetto, le identiche inclinazioni dell'animo. Non si creda però che le qualità spirituali si trasmettano automaticamente come tali di padre in figlio. La qualità trasmessa è qualità che investe la carne e implica qualcosa dell'anima che è mescolata alla carne ed è inferiore alla volontà». La nozione della delinquenza ereditaria è dunque in Giansenio.

Avvinti cosí da una solidale eredità di peccato, che ha lasciato la sua impronta maledetta sul nostro essere intimo, non possiamo lusingarci di accampare mai, al cospetto di Dio, meriti morali, che non siano suffragati e corroborati dalla grazia. Se in ciascuno di noi Adamo pecca nuovamente all'infinito, non possiamo salvarci dal fango della nostra natura che in virtú di una rinascita carismatica.

Il cristianesimo è molto piú che una «rivelazione» nel significato concettualistico della parola: è un mistero di salvezza e un principio di risurrezione. È molto piú che una acquisizione faticosa di teoremi astratti o una illuminazione esteriore di facoltà raziocinanti: è un affrancamento interiore e un mezzo prodigioso di rinnovamento intimo.

Se la colpa di origine è stata essenzialmente uno sconvolgimento profondo e inguaribile delle forze elementari dell'uomo; una deformazione e una deviazione inarrestabile nella gerarchia dei sentimenti connaturali della creatura ragionevole; una sostituzione morbosa di affetti all'unica passione degna dello spirito, la passione di Dio e dell'Assoluto; il mistero della grazia restauratrice deve essere, in essenza, un prodigioso e gratuito intervento di Dio, per ricostituire l'essere umano nella sua iniziale e connaturale inclinazione.

Dopo la colpa d'origine l'umanità è una «massa disperatamente dannata». La frase è usata molte volte da Sant'Agostino, il quale l'attinse da San Paolo. Questi, infatti, in un inciso della Lettera ai Romani, aveva domandato: «Non possiede forse il vasaio il potere di ricavare dalla medesima massa di argilla vasi destinati ad usi dignitosi, vasi destinati ad usi innominabili?». In questa metafora l'Ipponese non vede che una raffigurazione del genere umano, che, a somiglianza di una massa, di argilla o di farina, s'intende inquinato ed esposto alla putrefazione del fermento del peccato. L'immagine è veramente pregna di forte significato. L'intiero genere umano, stretto ad Adamo nella solidarietà della natura da lui generata, è simile ad una pasta o ad una massa di farina di frumento, ed è viziato, perduto, dannato, a causa del peccato che è in esso come un fermento. Non solamente a causa della colpa importata dalla prima trasgressione, bensí, molto piú, a causa della concupiscenza, attraverso la quale, implacabilmente, la colpa viene trasmessa alla prole e l'anima, miseramente pervertita, nasce schiava della carne sovrana.

L'immagine aiuta alla perfezione a intuire, parallelamente, il mistero della redenzione. Sant'Agostino continua cosí a parlare di discernimento e di scelta nella massa: volendo significare il decreto eterno della predestinazione invisibile, per cui, di tra la massa sceverata, Dio trae, nel tempo, i designati alla restaurazione e alla gloria. La grazia è precisamente lo sbocco e l'epilogo della predestinazione. E con l'augusto nome di «Grazia» è indicato tutto ciò che la grazia stessa opera in vista della liberazione e della salvezza dell'uomo, non solamente cioè i meriti delle opere buone, bensí anche la perseveranza in esse e la beatitudine stessa. I risultati della grazia nell'anima han qualcosa effettivamente di stupendo. Non implicano infatti soltanto la remissione e il condono della colpa, bensí anche l'eliminazione di tutti i mali che piombarono sulla massa della perdizione, come una inevitabile pena, della concupiscenza e della ignoranza, innanzi tutto, domate e fugate dal tocco della onnipotente ed efficace assistenza di Dio.

Di questo mistero prodigioso, che è la rinascita cristiana nella grazia, Sant'Agostino è stato interprete esauriente e definitivo. Egli ha proclamato solennemente i quattro presupposti fondamentali del cristianesimo: l'unità del capo della Chiesa; l'unità del corpo della Chiesa; l'unità del battesimo che incorpora nella Chiesa; l'unità della grazia che circola nella Chiesa. Primo fra i grandi scrittori ecclesiastici, Agostino ha dischiuso ai fedeli la comprensione della grazia di Dio e del Nuovo Testamento. La dottrina agostiniana intorno alla grazia ha caratteri irrefragabili: è evangelica, apostolica, cattolica, di un'autorità non revocabile, sanzionata da uno stuolo di Pontefici, corroborata da una dinastia di seguaci. L'eloquenza, l'erudizione, la sapienza dell'Ipponese hanno ricevuto nella tradizione un riconoscimento grandioso. La virtú del tutto mirabile della grazia ha irraggiato sulla sua vita quasi piú che sui suoi scritti, soprattutto nella sua conversione che lo ha fatto simile alla Maddalena e a San Paolo, e nella istituzione di religiosi, che si sono moltiplicati poi in centocinquanta Ordini. Agostino è scrittore sicuro, perché poggia su principi incrollabili tutte le proprie concezioni teologiche; sottile, perché riflette una luce abbagliante su tutti i problemi che imprende ad indagare; incrollabile, perché nella tutela dei misteri della grazia e della predestinazione ha sostenuto l'autorità inconcussa dei Papi, dei canoni sinodali, schiacciando di volta in volta tutti gli eretici; angelico, perché visse come un angelo, brillando di celestiale luce; serafico, perché nessuno, dopo gli Apostoli, si sottrasse meglio di lui alle passioni terrene, per aderire piú saldamente alla verità e per rifrangere il colore dell'amore divino; eccellentissimo e superlativamente mirabile, perché tutti ha superato in lucente capacità di intuizione e di visione negli abissi della vita soprannaturale.

Spetta alla Chiesa proporre ed enunciare al cospetto dei fedeli gli articoli di fede impugnati dagli eretici e annebbiati dalla negligenza degli uomini. Ma, con singolare spostamento di mansioni, sul terreno della grazia, Dio ha scelto a tale missione, dal grembo della madre sua, un nuovo vaso eletto, Agostino. Mentre in tutte le altre zone dell'insegnamento cristiano, i dottori, quando sono assaliti dagli avversari della ortodossia, sogliano ricavare ed attingere dalla Chiesa la loro scienza e il decreto supremo della verità, in questo caso, al contrario, la Chiesa trae la propria scienza non già da tutti quei Padri e Dottori cui fa abitualmente ricorso per dirimere le controversie, ma da Sant'Agostino solo. Dai sinodi di Cartagine e di Orange al Concilio di Trento, Agostino è la fonte della dottrina ecclesiastica, e i suoi scritti rappresentano l'arsenale dell'armamentario ortodosso.

Occorre rifarsi a lui quando piú viva e petulante si fa l'insidia del pelagianesimo, che è paganesimo, e che il cristianesimo si porta, perennemente, alle calcagna; quando, ebbro dei suoi successi e folle delle sue passioni, l'uomo si lusinga di possedere in sé le sacre capacità delle realizzazioni assolute, o quando la Chiesa, sollecitata da prurito di potere o da avidità di ricchezze materiali, inclina a rendere piú agevole l'aspra consegna del Vangelo, o a immaginare suscettibile di universale allargamento il limitato recinto della sua clausura.

No. La rinascita cristiana non è, per definizione, privilegio di tutti e la Chiesa non può essere, in un mondo infettato da Satana, l'ospizio dell'universale.

La grazia è una trasfigurazione miracolosa, e una dilettazione vittoriosa in Dio e nei suoi comandamenti, la quale prende il posto della dilettazione viziosa, che il germe di Adamo aveva deposto in noi dopo la sua caduta dallo stato di piena indifferenza, in cui era stato inizialmente creato. Questa dilettazione vittoriosa che Dio suscita in noi, a Dio ritorna prepotentemente. Essa dà inizio nell'uomo alla volontà buona; poi la riscalda e la fortifica, fino a renderla capace di praticare i divini comandamenti. Questa soave infusione di grazia, che desta dentro di noi l'amore di Dio, è il vero ed unico soccorso mediante il quale Dio ci fa compiere il bene. Simile intima dolcezza, attratti dalla quale noi amiamo Dio e l'Assoluto, costituisce l'autentica grazia medicinale con cui Gesù Cristo ci ritrae dal male e ci sospinge al bene.

Poiché uno solo è il mezzo per farci trionfare dal male di cui portiamo dentro di noi la semenza inestinguibile: il gusto del bene che gli è contrapposto. Tale trasfusione di dolcezza elimina il timore e ci fa agire sotto l'impulso dell'amore, donde le opere buone, che solo da esso traggono alimento e carattere. Questa grazia è tutt'altra cosa cosí dalla natura come dalla legge, cosí dalla conoscenza dei precetti, come dal condono della colpa.

Essa non distrugge in noi la libertà e la padronanza delle nostre azioni. Perché, se esser liberi significa non essere prigionieri e non esser schiavi; se implica l'esclusione di qualsiasi dominio estraneo; se importa il possesso e la signoria di se stessi; ogni atto che è nel raggio di azione della nostra volontà e quindi è in nostro potere, è, per questo stesso, atto libero. Ogni volizione è essenzialmente libera, perché è, per definizione, in potere nostro; è una contraddizione in termini non volere quando vogliamo, e la volontà non è, se non è libera. L'azione cessa di essere libera solo quando non cade piú nell'ambito del nostro potere, quando si compie nonostante la positiva nostra volontà di non compierla; quando procede e sgorga da una costrizione che sopraffà e schiaccia, dall'esterno, la nostra capacità volitiva. Orbene: esistono due generi di necessità. Il primo, semplice e volontario, il quale non distrugge la libertà dell'arbitrio; l'altro coattivo, astringente, involontario, che annulla e soffoca la libertà. La necessità coattiva produce fatalmente il suo effetto, opprimendo la volontà, come un peso che abbatte e paralizza. Invece la necessità semplice e volontaria ci lascia liberi, sebbene in tal caso i nostri gesti siano determinati. Perché se la volontà non reagisce e non recalcitra, se desidera al contrario quello che fa, se anzi vi aderisce strettamente, essa opera sempre liberamente, sebbene necessariamente, perché, nonostante quella necessità semplice, vuole quel che fa, si compiace del suo gesto, non resiste. La grazia, che soffonde il nostro ben operare di un intimo godimento e lo rende quasi necessario, non distrugge pertanto il nostro libero volere. Lo accresce anzi e lo moltiplica; perché, se agire liberamente è agire con gioia intima e con gusto, quanto piú forte è la gioia del ben operare, altrettanto impotente è la libertà dell'adesione ad esso.

La Chiesa è la federazione dei riscattati dalla grazia; è la famiglia di coloro che la grazia trae dolcemente al compimento del bene. Col suo sacrificio cruento il Cristo ha versato un prezzo di affrancamento indubbiamente bastevole alla cancellazione di tutti i peccati degli uomini. Ma effettivamente Egli non li ha riscattati tutti, mercè una applicazione indiscriminata dei propri meriti. Egli si è dato per tutti, cioè per ogni categoria di esseri umani. Ma non è vero che tutti gli esseri umani portino nel mondo la lucentezza della grazia. Di fatto, nella realtà dei suoi risultati, il prezzo di riscatto è stato versato unicamente per la Chiesa. Questa Chiesa è nel mondo un gruppo di eletti e una comunità di privilegiati: lo è per la sua intima costituzione, lo è in virtú del suo specifico destino. Nella immensa massa dannata, variamente ripartita e meccanicamente disciplinata, che brancola sulla terra mendicando l'acchetamento della propria insaziabile libidine e non riuscendo a conseguirlo, nonostante le forme piú raffinate del reciproco sfruttamento e dell'altrui manomissione, la Chiesa, conglutinata nella grazia, è la raccolta di coloro che hanno gustato una volta la gioia della rinuncia e la beatitudine del disinteresse. Essa attesta e celebra nella babele immonda della organizzazione empirica degli uomini la restaurazione dell'ordine primigenio, il quale esige che la creatura ragionevole sia vòlta unicamente verso là dove è il principio e la fine della sua dignità: verso Dio.

Per definizione, pertanto, la Chiesa è società di minoranze, è raccolta di esuli spirituali dal secolo. Il giorno in cui essa dimenticasse questa sua qualità fondamentale, che è in pratica una gelosa e ardua consegna, guai per essa; guai per il mondo!

Cosí Giansenio.

Chi oggi si appressa, non senza coraggio, al suo grosso in folio, Augustinus, e segue, con pertinacia non incompensata, il ricco e minuto spiegamento di pensiero che vi circola per entro, non riesce a sottrarsi alla impressione di essere bruscamente piombato in un mondo del tutto diverso, di essersi improvvisamente posto a contatto con preoccupazioni ed intenti di un'altra età, esulati ormai completamente dal fascio delle attitudini e dalla atmosfera spirituale della vita odierna. Il vescovo di Ypres, che logorò pazientemente la sua esistenza nel distillare in queste pagine, lucide ed ornate, il succo sostanziale dell'insegnamento agostiniano, tradisce il profilo di un superato. Le sue geremiadi cupe, uniformi, deprimenti, sul destino lacrimevole dell'uomo, condannato da un fato inesorabile a trascinare, attraverso un'odissea di dolori e di passioni, l'eredità del suo tràduce viziato, sembra non possano lusingarsi di destar piú alcuna eco di consenso in un mondo come il nostro, ebbro di successi e folle di presunzione, tutto tuffato nella celebrazione indiscriminata delle potenzialità conquistatrici dell'uomo.

Ma questo chiunque deve riconoscere in pari tempo che se le posizioni contrapposte da Giansenio al pelagianesimo gesuitico, caligine ammorbante che ha viziato in radice i germogli della spiritualità moderna, sono veramente e definitivamente superate, l'anacronismo investe qualcosa di piú e di meglio che gli scritti del vescovo di Ypres e la propaganda del suo amico Saint-Cyran. Occorre, di buono o di cattivo grado, accettare in tal caso la conseguenza: che è uscita ormai dal tempo e dalla vita anche la visuale principe dell'insegnamento tradizionale del Vangelo. In questo caso l'Augustinus e i Pensées sarebbero stati gli ultimi scritti cristiani. Se il loro fondamentale pessimismo, confinante col dualismo; se la loro visione ultrarealistica della perversione e del riscatto, sono, proprio, destinati a scomparire per sempre dal novero dei fattori viventi della spiritualità associata, diviene un semplice onere di lealtà riconoscere che il cristianesimo, proprio nei suoi connotati essenziali, è morto per sempre. E riconoscere anche che nel destino agitato del movimento giansenista è il dramma agonico della superstite vitalità cristiana ai nostri giorni.

Il cristianesimo infatti è nella sua essenza primordiale una religione di mistero. Non lo fu che potenzialmente nella iniziale predicazione di Gesù, spiritualizzazione sublime della aspettativa messianica e segnalazione abbagliante dell'etica perfetta, per lo spiegamento della vita associata. Ma il messaggio del Maestro Galileo, lo abbiamo visto, non avrebbe potuto tradursi in una norma valida e permanente per la disciplina di vasti aggregati umani, se non si fosse stilizzato sullo schema dei misteri, nei quali, già prima di Cristo, si era venuta concretando nella civiltà mediterranea l'aspirazione alla universale fraternità nei carismi. Paolo fu il potente stilizzatore. Gli se ne fa addebito. Ma solo da chi, abbacinato dalla stupenda semplicità della prima esperienza neotestamentaria, dimentica che la vita storica è adattamento e trasformazione, e che un organismo spirituale è fedele a se stesso finché si attiene ai valori centrali della sua costituzione. La soteriologia e l'ecclesiologia paoline sono i piloni su cui si è levato l'edificio del cristianesimo ecclesiastico. L'antropologia e la soteriologia di Sant'Agostino ne sono state la traduzione acconcia alla disciplina cristiana della società medioevale, che la costituzione autonoma delle nazioni moderne ha lentamente corroso e disgregato.

Giansenio non si è preoccupato di sapere se l'esumare e il rivendicare, nella sua interezza, il pensiero militante dell'Ipponese, quale questi l'aveva formulato durante l'implacabile crociata antipelagiana, poteva avere o no ripercussioni sensibili sullo sviluppo coetaneo della organizzazione ecclesiastica. Il suo Augustinus è senza dubbio un'opera di battaglia. Ma gli strali vi sono nascosti, e le allusioni velate. Il vescovo fiammingo ha la sagoma tranquilla e sorridente dello storico, che registra e spiega il pensiero di un antenato. Ma fra le sue righe si coglie di istinto la formulazione precisa del problema, al di fuori dei cui termini non c'è piú cristianesimo.

Il quale, dal primo bando della riforma, era stato realmente gettato in un mortale repentaglio: repentaglio cosí nella parte degli innovatori, come in quella dei suoi presunti patrocinatori. Se nella assegnazione dei mezzi per il conseguimento della rivelazione giustificatrice, riformati e gesuiti erano agli antipodi – i primi inclinati ad un individualismo incompatibile con ogni forma di etica collettiva, i secondi spinti ad una raffigurazione aridamente militaresca delle tradizioni – in pratica, nel fare del regno di Dio un valore immanente alla configurazione dei rapporti empirici fra gli uomini, procedevano edificantemente d'accordo. Qui il peccato di origine della spiritualità contemporanea.

L'Augustinus, attraverso l'apparato pesante delle sue digressioni storiche e psicologiche, era una esplicita insurrezione contro la possibilità di mescolare gli interessi di Dio ai contaminati interessi degli uomini, una pregiudiziale impugnazione di qualsiasi programma tendente a conferire ai figli di Adamo la pretesa di costruire il Regno di Dio, con quelli che sono i macabri rottami di Satana. I gesuiti colsero a volo la minaccia al crescente potere del loro farisaismo, e si abbatterono con ferocia sui seguaci del vescovo, cui avevano cosí ipocritamente inneggiato il dí del suo ingresso in sede. La lotta è arsa per due secoli circa. Giansenio è stato debellato: ma la sua sconfitta ha allargato e approfondito il conflitto. Le sorti del quale sono la vera crux della spiritualità odierna.

Non essendo riusciti ad impedire la stampa dell'Au gustinus, i gesuiti di Lovanio ne attaccarono decisamente il contenuto nelle tesi che furono sostenute nel loro collegio il 22 marzo 1641. Fu la prima avvisaglia: ma fu una nitida presa di posizione. I molinisti vi sostenevano che la natura pura, una natura umana cioè come l'attuale, ma senza imputazione di colpa, non è mai, di fatto, esistita, ma è teoricamente possibile; che il peccato originale non si trasmette necessariamente attraverso il fomite della carnale concupiscenza, bensi in virtú del volere positivo di Dio; che gli infanti morti senza battesimo non possono godere della visione beatifica, ma non soggiacciono alla pena del senso; che Dio vuole, con decreto positivo e assoluto, salvare tutti gli uomini, concedendo a tutti indistintamente la grazia sufficiente; che tale grazia sufficiente è gratuita, ma può essere ripudiata dall'uomo; che simile concetto della cooperazione fattiva dell'uomo alla grazia non è affatto un concetto pelagiano; che al carattere libero di un'azione occorre la libera scelta della volontà, quando tutte le condizioni postulate dall'agire siano presenti; che non esistono precetti impossibili; che Dio sarebbe un tiranno se costituisse l'uomo responsabile della violazione di precetti riconosciuti impossibili; che l'ignoranza invincibile può talora compiutamente scusare; che senza la grazia, l'uomo può compiere qualche atto moralmente commendevole e la «carità» non è perentoriamente richiesta, affinché ogni atto umano possa meritare la beatitudine del Paradiso, essendo a volte sufficienti la speranza o il timore; che è falso sostenere essere tutti i gesti degli infedeli peccati e tutte le virtú dei filosofi vizi; che, a norma del Concilio di Trento, esiste un timore dell'inferno il quale può essere efficace; che l'amore di Dio in quanto utile a noi, pure essendo meno perfetto della disinteressata carità, può costituire un motivo legittimo di contrizione imperfetta o di attrizione; che infine l'attrizione accompagnata dal Sacramento della penitenza è sufficiente al conseguimento della remissione delle colpe.

Sembrerebbe, alla enunciazione di queste tesi, che il conflitto si riducesse ad una controversia di astrusa teologia. Non era cosi. Sotto le formulazioni contorte e lambiccate del linguaggio teologico si nascondeva, come sempre, un'opposizione radicale fra due maniere di concepire i poteri dell'uomo al cospetto dell'Assoluto e quindi, di rimbalzo, fra due maniere di valutare il presente al cospetto dell'avvenire, la realtà empirica al ragguaglio della perfezione ideale. È l'uomo capace di creare, con le sue nude capacità naturali, che si muovono nel dominio dell'empirico e del transitorio, qualcosa di organicamente buono e di universalmente valido? O esso è cosí viziato per natura che anche le apparenti virtú del suo operare, pubblico o privato, sono beni fittizi, cupidigie mascherate, sepolcri spalmati di bianco? Rispondendo di sí al primo quesito, di no al secondo, sembra a prima vista che si esalti la natura dell'uomo e la si autorizzi alle piú seducenti conquiste. In realtà si tarpano le ali ad ogni volo di conquista spirituale; si uccide ogni libertà delle anime, al di là della crassa e schiacciante valutazione della politica realistica; si preclude il cammino adogni superamento della configurazione attuale dei rapporti vigenti fra gli uomini. Rispondendo di no, invece, al primo quesito, di sí al secondo, può sembrare a prima vista che si deprimano, senza possibilità di risollevamento, le virtú innate e fattive dell'uomo e lo si condanni al piú cupo e disperato nichilismo. In realtà, contrapponendo alla radicale infermità funzionale dell'uomo la vittoriosa espansione della grazia restauratrice di Dio; al mondo dei valori effimeri e delle istituzioni naturali il miraggio trascendente dell'economia dei carismi, unico bene assoluto e incontaminato, si sanziona il progresso, che è superamento dell'empirico nel trascendente.

Le grandi rivoluzioni spirituali sono state sempre il risultato di una fede cieca nella predestinazione e nella chiamata. Abbattendosi, senza misericordia, sul soprannaturalismo giansenistico, i gesuiti hanno precluso la via ad ogni vera grande nuova conquista spirituale, la quale, se la storia non mente, non può nascere da due sentimenti solo in apparenza divergenti: l'assoluta sfiducia nella natura, l'assoluta fiducia nella grazia.

Hanno avuto, nella loro bisogna, consenziente la Curia. Un decreto della Inquisizione del primo agosto 1641 proibiva la lettura dell'Augustinus. La Bolla In Eminenti di Urbano VIII ribadiva, sanzionava, conferiva solennità alla condanna inquisitoriale. Allora entrava in lizza l'infaticabile Arnauld. Contro di lui, tutto uno sciame di polemisti, gesuiti, fra cui quel padre Nouet, cui i vescovi, convocati a Parigi, imposero di leggere, in ginocchio, al cospetto della consueta adunata di fedeli, una ritrattazione esplicita dei propri sermoni.

La Compagnia non dimenticò piú quell'affronto sanguinoso. La sua rivincita fu la condanna delle cinque proposizioni colpite il 31 maggio 1653 con la Bolla Cum Occasione.

E allora l'Europa credente assistette a uno spettacolo strano e apparentemente inesplicabile: lo spettacolo di uno stuolo, sempre rinnovantesi, di anime pie e timorate, addestrate alla esplorazione della piú alta tradizione patristica, consumate dal desiderio della perfezione cristiana, che, colpite implacabilmente dal potere ecclesiastico, si profondevano in testimonianze di attaccamento, per rivendicare la inattaccabilità del loro maestro venerato: Sant'Agostino. Il loro programma poteva dirsi incisivamente fissato dal Quesnel in una lettera scritta al Fénelon nel 1711, due anni prima della Bolla Unigenitus: «Ho orrore per qualsiasi partito, cosí nello Stato come nella Chiesa. Il mio nome è: cristiano. Il mio soprannome: cattolico. Il mio partito è la Chiesa. Il mio capo è Gesù Cristo, la mia legge è il Vangelo. I vescovi sono i nostri padri, e il sovrano Pontefice è il primo fra tutti».

Una linea di condotta di questo genere fu giudicata, a scadenza fissa, come un monumento di perfidia e un capolavoro di abilità e di finzione.

Ancora nel 1842, a due anni di distanza dalla pubblicazione della prima parte del Port-Royal di Sainte-Beuve, un redattore de La Gazette de France asseverava che i giansenisti erano settari orgogliosi, i quali, mal guariti della vanità della terra, avevano consumato la loro vita nel patrocinare e nel propagare un'eresia venti volte colpita da anatema; sudditi dominati da un pervicace spirito di insubordinazione, immutabilmente ostili alla regalità, la clausura dei quali aveva servito di ricetta a tutte le ribellioni; rigoristi che, inculcando una morale troppo aspra, avevano sospinto numerose anime verso l'abisso del dubbio e della disperazione; scrittori che avevano attinto la loro importanza unicamente dal carattere paradossale delle massime che avevano difeso.

Non mancarono gli spiriti illuminati che riconobbero i meriti di Port-Royal e la nobiltà di ispirazione che aveva guidato quanti, fra le sue mura, avevano cercato di salvare, dalla condanna di Roma, lo spirito della vecchia antropologia agostiniana. Nel 1845, Victor Hugo, dando all'Accademia il benvenuto a Sainte-Beuve, ne pronunciava, non senza malevola intenzione contro il neo-accademico, il panegirico piú appropriato: «I solitari di Port-Royal miravano a riformare Roma, obbedendole; a compiere dall'interno e con amore quello che Lutero aveva tentato dall'esterno, con collera. Essi avevano in pari tempo attinto da Francesco di Sales la dolcezza estrema e da Saint-Cyran l'estrema severità. Onde costituire la società secondo la fede, tra le verità necessarie, la piú necessaria ai loro occhi, la piú luminosa, la piú efficace, quella che dava piú invincibile risalto alla loro convinzione e al loro ideale, era l'infermità funzionale dell'uomo, spiegata dalla colpa di origine, la necessità di un Dio restauratore, la divinità del Cristo. Tutti i loro rinnovati sforzi convergevano su questo punto, quasi divinassero che là s'addensava il pericolo. E il passaggio dei port-royalisti non è stato sterile. Essi hanno lasciato la loro orma nella teologia, nella filosofia, nella lingua, nella letteratura. Oggi ancora Port-Royal è, per cosí dire, la luce intima e segreta di qualche spirito eletto. La loro casa è stata demolita, il loro territorio devastato, le loro tombe violate. Ma la loro memoria è santa; le loro idee sono in piedi; dei germi che han seminato, molti hanno attecchito nelle anime, qualcuno ha posto radice nei cuori. Donde questa vittoria attraverso gli infortuni, questo trionfo a dispetto della persecuzione? Non solamente perché di tempera superiore; ma perché sinceri. Perché credevano; perché nutrivano una convinzione; andavano, diretti, al loro scopo, saturi di una volontà unica e di una fede profonda».

Può darsi che nella valutazione del successo postumo dei giansenisti Victor Hugo si lasciasse prender la mano dalla fantasia del poeta. L'ultima storia del movimento, quella del Gazier, ha l'andatura di un epicedio. Può darsi che nella esaltazione dei loro meriti, egli si lasciasse sopraffare dall'antipatia per Sainte-Beuve, che non aveva risparmiato loro l'accusa di puntigliosi e personalisti. Sainte-Beuve se ne vendicò, battezzando il discorso del poeta: un discorso «senza pietà e a contro senso».

Ma l'Hugo non aveva visto male quando aveva definito il programma di Giansenio e dei suoi seguaci il programma della riforma dall'intimo, il programma del ritorno, in pieno, alla teologia dell'Ipponese. Tale programma, di fatto, ha sopravvissuto. Ma dove e come?

Il giansenismo ha avuto un altro avversario, oltre il gesuitismo. E probabilmente chi l'ha invisibilmente consunto, non è stato il nemico esterno, bensí il bacillo che si portava nelle proprie viscere. Aveva in sé qualcosa di intrinsecamente viziato: ospitava cioè due anime che non riuscirono mai a saldarsi e ad amalgamarsi l'una con l'altra. Il prelato fiammingo gli aveva infuso l'anima universale di Sant'Agostino, l'abbate della Guascogna gli aveva trasmesso il virus dello spirito gallicano, lo spirito della Question royale e delle Vindiciae Facultatis parisiensis. E poiché ogni spirito particolaristico è funzionalmente in contrasto con la visione e la esperienza del cristianesimo, quale religione di universale e «portentoso» riscatto, il giansenismo fu in permanenza dilacerato da un dissidio intimo che lo logorò fino a perderlo. Poiché il dissidio lo portò a compromissioni e a condiscenze, che impedirono alle esigenze universali del suo contenuto antropologico e ideologico di svolgere il loro potere, raccomandato alla legge delle realizzazioni per antitesi. Fu anch'esso, a suo modo, pelagiano, di quel pelagianesimo che è per definizione in ogni tentativo di manomettere i valori universali della salvezza cristiana a vantaggio di una qualsiasi circoscritta configurazione politica, in ogni sforzo di avvicinare e di mescolare gli interessi di Cesare agli interessi di Dio. I gesuiti ebbero pertanto buon giuoco contro di esso; perché ebbero complici e cooperatori il suo inclinare a compromissioni coi poteri terreni e la sua mancata capacità di vivere e di praticare con coerenza integrale e con consapevolezza perspicace i dettami che erano logicamente espressi dai suoi presupposti.

Onde, nel contrasto delle tendenze dalle quali è apparso pervaso e scosso il cattolicesimo postridentino, si è insinuato uno strano paradosso. Un'anima cioè senza forma ha lottato contro una forma senz'anima. L'anima era l'universalità della concezione agostiniana: col suo particolarismo sempre piú angusto, e sempre piú banale, culminante nelle piaggerie del vescovo Ricci al cospetto di un granduca, il giansenismo ne ha mortificato e ottuso la vitalità. La forma è stata la tendenza accentratrice dello spirito curiale, culminante e trionfante nella definizione della infallibilità pontificia. Il probabilismo gesuitico ha svuotato in anticipo questo dogma di ogni concreta efficienza universale. Perché l'infallibilità degli organi supremi del magistero cattolico è un principio valido di disciplina unitaria nella solidarietà dei carismi, sol quando al suo esercizio presieda la visione netta dell'azione trascendente della grazia e dell'autonomia assoluta, sovrana e incontrollabile del Regno di Dio, di fronte al regno della natura e di Satana, che è la politica realistica del mondo.

Comunque, questa improvvisa e ardente reviviscenza dell'agostinismo nei secoli XVI e XVII per opera di Giansenio e dei solitari di Port-Royal, mentre tutto il mondo europeo si avviava verso una profanazione inguaribile del tradizionale messaggio cristiano e di rimbalzo verso una consacrazione paganizzante di tutte le forme della vita empirica, ben dimostrava a chiarissime note come il vescovo di Ippona non fosse morto nel 430. L'esperienza che egli aveva drammaticamente vissuto e di cui aveva affidato il ricordo alle Confessioni, si rivelava ancora una volta come una esperienza base, in cui viene a risolversi, si direbbe di istinto, ogni spiritualità consapevole. Il problema al quale nello spiegamento della polemica con Pelagio aveva imposto una soluzione duramente dualistica, a cui le circostanze storiche avevano conferito eccezionalissime capacità di realizzazione, si rivelava ancora una volta come il nucleo vitale di ogni etica associata e di ogni religiosità universalistica.

Il problema è sempre il medesimo. È l'uomo, si o no, un essere armonico e completo in se stesso? Le sue forze vitali e le sue possibilità naturali posseggono la capacità e la potenza di adeguarsi alle leggi e ai fini del proprio autonomo sviluppo? Le velleità che pullulano su dal fermento incessante della sua composita vitalità sono in grado di tradursi senza lacerazioni e senza discontinuità in gesti e in opere felicemente rispondenti e aderenti al piano delle sue esigenze, della sua natura, degli specifici suoi destini o non piuttosto in ogni atto umano è la deformazione di un proposito non attuato, la contraffazione di una meta non raggiungibile? In ogni movimento psichico non sarebbe l'oscura reminiscenza di una potestà smarrita, il rimpianto di un'armonia carpita, l'eco e il residuo di una grandezza depravata? L'uomo, quale attualmente è, sarebbe mai potuto uscire dalle mani di Dio, il quale essendo perfezione per essenza non può riflettersi che in esseri armonici e in possibilità concordanti? O non si deve piuttosto pensare che le fonti stesse del vivere umano sono state misteriosamente inquinate da qualcuno e da qualcosa, forse dallo stesso fatto dell'ingresso «inevitabile e insopportabile» dell'individuo nella vita aggregata, e che quell'avvelenamento iniziale si trascina e si ripercuote senza mercè, seguendo passo passo il flusso inesausto dell'esistenza che si rinnova?

Non è a credere che questo quesito sia una sottospecie ed una applicazione del problema piú vasto che viene imposto dalla presenza del male nel mondo. In realtà il vero procedimento è l'inverso. Il problema ontologico e metafisica del male è piuttosto la proiezione in astratto dell'oscuro mistero di peccato e di morte che ogni coscienza responsabile chiude nell'abisso della sua quotidiana esperienza.

Noi non definiremmo mai gli episodi puntuali in cui si rifrange la vita del cosmo col soccorso di categorie e di connotazioni attinte dal quadro dei valori che disciplinano propriamente il nostro umano operare, se non avvertissimo oscuramente che l'inserzione e la preminenza dell'uomo nell'universo equivalgono all'intervento di un corruttore e di un tiranno. Il dolore del mondo rappresenta la moltiplicazione all'indefinito della tragica eredità di ignominia e di perversione che l'uomo reca in se stesso, dal suo primo affacciarsi alla luce.

Come noi abbiamo visto nei primi capitoli di quest'opera, la rivelazione cristiana non ha enunciato affatto alle sue origini neotestamentarie una esplicita dottrina della colpa ereditaria. La predicazione iniziale di Gesù la ignora, come in fondo ignora una qualsiasi raffigurazione dualistica della natura umana e un qualsiasi tirocinio di disciplina ascetica. Ma nella sua formale consegna di guadagnare la propria vita spirituale, frusto a frusto, ponendola e gettandola quotidianamente allo sbaraglio, e riscattandola incessantemente, mercè l'abnegazione e la fiducia, da tutte le corrompitrici insidie dell'avidità, dell'interesse e dell'acquiescenza, era contenuta in embrione tutta la posteriore antropologia ecclesiastica. Perché chi inculca la mutilazione volontaria, in vista di un Regno dove sono accolti gli storpi e gli orbi, ma non gli ingordi e i contaminati, giustifica evidentemente in anticipo la teoria che colloca nell'organismo l'onnipresenza di una permanente possibilità di scandalo, sanabile unicamente con il rinnegamento e la rinuncia. Gesù, parimenti, non ha mai lasciato intendere di voler assegnare una magica virtú di esteriore riscatto alla immolazione cruenta della propria vita. La vocazione del suo insegnamento era tutta nell'additare la via sulla quale i figli di Dio avrebbero dovuto incamminarsi risolutamente, per meritare e favorire l'avvento del Regno. Ma nell'offerta volonterosa ch'Egli aveva fatto della sua esistenza, in testimonianza della verità morale da Lui bandita, erano latenti tutti i valori che la soteriologia posteriore avrebbe spiegato e tesaurizzato.

Il cristianesimo precostantiniano dal canto suo non aveva avuto bisogno di tradurre in teoremi antropologici il pessimismo di cui era ricca la sua morale. La contrapposizione che il Vangelo ha proclamato, irriducibile, fra i non valori di questo mondo e i valori trascendenti del Regno; l'ideale che esso ha bandito della palingenesi nella conversione; l'assoluto disprezzo che esso ha inculcato per l'economia della terra, in vista della economia del Cielo; inducevano ogni giorno al periglioso cimento della convivenza con i figli di Satana. Il problema della astratta naturalezza della presente condizione degli uomini non aveva alcuna ragione di porsi in una configurazione politica che portava impresso sulla fronte il marchio della iniquità e della condanna. Nessuno avrebbe mai potuto precipitare in questa illusione: che rappresentasse il risultato immediato di un atto creativo di Dio un'umanità che si prostrava ad idoli ipostatizzati del proprio egoismo e della propria cupidigia.

Ma quando, con la conversione calcolata di Costantino, l'Impero trovò modo di sanzionare nel nome del Vangelo quella costituzione politica che Paolo aveva dipinto come l'avversaria naturale di Dio, la pedagogia del cristianesimo, se volle salvare, in qualche modo, l'eteronomia della propria concezione della vita associata, fu lentamente condotta a formulare in una esplicita e confessata sistemazione dottrinale i dogmi della iniziale corruzione umana e della trasfigurazione in virtú della grazia, senza cui l'idealità trascendente del Regno si sarebbe irrimediabilmente dissipata, e la società dei carismi avrebbe esulato dal fascio delle esperienze collettive. Sant'Agostino giunse nell'ora provvidenziale.

Ma la sistemazione dottrinale, scaturita dalla coscienza profonda del manicheo convertito, conteneva in germe un pericolo mortale: quello di degenerare in una assimilazione magica della virtú salutifera del Cristo e della sua grazia, indipendentemente da qualsiasi partecipazione e cooperazione dell'individuo e del gruppo credente. Il giorno in cui la sociologia del De Civitate Dei avesse compiuto il ciclo delle sue possibili applicazioni storiche, e le istituzioni che ne erano rampollate fossero risultate impari ed inadatte agli istinti delle nuove configurazioni politiche europee, fermentanti per entro ai confini delle grandi unità medioevali, era fatale che qualcuno si lusingasse di ripristinare l'annuncio della salvezza di Paolo e di Agostino, conferendo alla consapevolezza del singolo quella prodigiosa virtú di rinnovamento nella grazia, che il cristianesimo del IV secolo aveva celebrato nella pietà operosa della massa credente.

Roma cattolica si levò, colpita a morte, contro il messaggio di Lutero. Ma – come suole accadere a tutti gli organismi associati, che giunti alla piena maturazione e alla esauriente trascrizione concettuale delle impalpabili esperienze e degli elementari atteggiamenti di cui vissero e di cui vivono, non amano piú dilungarsi dai postulati teorici delle loro sistemazioni scolastiche, e rifuggono spietatamente da ogni reviviscenza delle forme predialettiche in cui si alimentarono i periodi iniziali del loro processo evolutivo – la controriforma, che fu lotta di teoremi nell'ambito dei medesimi metodi, issò a vessillo la speculazione di San Tommaso, e respinse nell'ombra la vivente e drammatica antropologia mistica di Sant'Agostino.

Il Concilio di Trento poté rappresentare, fin da principio, la stilizzazione meccanica e la disciplina irrigidita della cattolicità italiana. L'annuncio della riforma aveva destato fiacchissimo e sporadico spirito di proselitismo nella terra dell'universale magistero cattolico. E la configurazione politica del paese non offriva il destro a nessuna di quelle opposizioni militanti, che trasferiscono nel dominio delle passioni e delle competizioni religiose la loro battaglia, proprio quando le condizioni di lotta si fanno piú pressanti e si avviano a divenire disperate. Non poté però rappresentare la pietra sepolcrale della spiritualità agostiniana in Francia, dove un evangelismo nazionale aveva già minacciato di offrire uno sbocco naturale alle contese irriducibili, che facevano schierare le une contro le altre le classi e le caste. D'altro canto la nazionalità in Francia non era una forza nuova, tratta, come in Germania, ad insorgere con ogni mezzo, anche con lo straripamento del piú pulviscolare individualismo religioso, contro la pressione dell'Impero e l'ingerenza dei suoi garanti spirituali. La Francia godeva invece, da secoli, di una costituzione nazionale e una rivendicazione della propria autonomia ai danni della sua proficua adesione all'ecumenicità del cattolicismo romano sarebbe stata un assurdo suicidio. La notte di San Bartolomeo passò pertanto, senza vendetta, ed Enrico IV riconobbe graziosamente che Parigi valeva una messa. Di altro spirito si doveva saturare, nella Francia di Richelieu e di Mazarino, l'opposizione allo strapotere della regalità, all'indomani delle guerre di religione. Se la contaminazione di politica e di religione degenerava in un farisaismo pietista, fatto di convenzionalità e di ipocrisia; se il fasto della corte calava come un sipario, a dissimulare le peggiori vergogne; quanti sentivano la religiosità ed il Vangelo, come celebrazione dell'Assoluto nella rinuncia e nella partecipazione della grazia, non avevano altro scampo che esumare, nella solitudine, le voci e gli atteggiamenti delle vecchie esperienze ecclesiastiche, logorate da un millennio di accomodamenti. Gli attentati aprivano il varco a forme piú tiranniche di potere regio e a uno sfruttamento pubblico, sempre piú sfacciato, perpetrato da cortigiani irresponsabili. La Fronda, secondo la frase di Bossuet, appariva come la gestazione della Francia, pronta a partorire il regno «miracoloso» di Luigi.

Il giansenismo fu pertanto il luogo di raccolta ideale per quanti spiriti si ostinavano a pensare che religione fosse midollo e non corteccia; che il cristianesimo fosse solidarietà nel riscatto, non finzione associata nella superstizione, che la rinascita fosse effettivamente risurrezione dal sepolcro della perversione, nella luce del trascendente. Se Trento canonizzò la controriforma tomistica, il giansenismo fu un tentativo di controriforma agostiniana. E se le circostanze storiche lo fecero restare allo stadio di tentativo, questo non vuol dire che il suo programma non fosse piú coerente e idealmente piú valido di quello elaborato dai teologi del Concilio. Esso solo contrapponeva veramente al messaggio della giustizia imputata, che era dell'agostinismo mutilo e deformato, un agostinismo consapevole e integrale.

Pascal fu giansenista nel pieno senso della parola. Se il giansenismo, secondo l'esplicita dichiarazione dell'Arnauld, non fu un partito, ma un gruppo di intelligenze e di cuori, legati ad un atteggiamento anziché ad un formulario, saldati dalla carità anziché da una disciplina esteriore, non v'è ragione di contestare l'appartenenza ad esso di Biagio Pascal. Ci sarebbe stato, anzi, da rimanere meravigliati, qualora egli non vi avesse appartenuto. Tutto, infatti, ve lo spingeva: la sua fragile e precaria costituzione fisica come il suo prodigioso e sconcertante tirocinio intellettuale; i suoi strani casi di famiglia e le sue ineffabili esperienze personali; la logica maturazione del suo pensiero e la progressiva conoscenza del mondo circostante.

Come Paolo, Pascal ha cercato di evadere dalla sua vocazione e ha tentato di dar di calci contro il suo infallibile destino. Ma questo era stato irrevocabilmente segnato quel giorno del gennaio 1646, in cui il Boutellerie e il Des Landes, già guadagnati alla morale religiosa di Saint-Cyran dall'eloquenza del curato di Ronville, entrarono nella casa di Stefano Pascal, per curarlo di una frattura alla coscia, e vi portarono i Discours sur la réformation de l'homme intérieur di Giansenio, il trattato De la fréquente communion di Arnauld, Les Lettres spirituelles e Le coeur nouveau di Saint-Cyran. Le cosiddette due conversioni di Pascal non sono altro che le due date salienti e appariscenti di quel processo di approfondimento e di superamento sulle aspirazioni antitetiche della sua inquietudine spirituale, in che è il dramma palpitante della sua vita.

Chateaubriand ha disegnato incisivamente la carriera del suo génie effrayant. «A dodici anni, con delle sbarre e dei tondi, Pascal aveva creato le matematiche; a sedici anni aveva composto i Traités des coniques, il saggio in materia piú dotto che si fosse mai visto dall'antichità; a diciannove tradusse in un meccanismo una scienza che esiste tutta e unicamente nel cervello; a ventitré dimostrò i fenomeni della pesantezza dell'aria, e distrusse cosí uno degli errori capitali della fisica antica; all'età in cui gli altri uomini cominciano appena a nascere, questo, avendo già percorso il ciclo completo delle discipline umane, avvertí il loro miserabile nulla e orientò il suo pensiero verso la religione. Da quel momento fino alla morte, Pascal, incessantemente infermo e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, e offrí il modello della perfetta ironia, come del piú robusto ragionamento. Infine, nei fugaci intervalli dei suoi mali, diede una soluzione, quasi per distrazione, ad uno dei piú ardui problemi della geometria, e gettò sulla carta pensieri che rispecchiano altrettanto del divino che dell'umano».

Ma cosí non è svelato ancora il segreto di questa intelligenza formidabile che, giunta alla assoluta padronanza di sé, quando nella pienezza delle sue forze prodigiose avrebbe potuto accingersi ai cimenti piú alti, ripiega volontariamente dal campo delle esplorazioni fisiche e matematiche, per gettare lo scandaglio della sua inquietudine inappagata negli abissi del cuore umano e per ricavare dalle tenebre del proprio scetticismo razionale l'unica certezza dello scettico, la fede religiosa. Pascal ha trasvolato dal cielo delle sue felici indagini scientifiche in quello delle burrascose polemiche apologetiche e dogmatiche, forse solo perché, avendo percorso la traiettoria di tutte le speculazioni concettuali e avendo in qualche modo esaurito le capacità delle analisi numeriche e razionali, era automaticamente tratto a tuffarsi in un dominio parallelo e complementare di ricerche e di speculazioni, quello della filosofia religiosa e della dogmatica cattolica? Impegnandosi a fondo nella polemica antiprobabilistica e gettando audacemente i piloni asimmetrici della sua sconcertante rivendicazione del cristianesimo, Pascal è passato, forse, semplicemente, senza soluzione di continuità, dal piano delle sue ipotesi scientifiche in quello delle induzioni morali, senza scosse interne e senza rinnegamenti laceranti? Affermarlo significherebbe arrestarsi alla superficie di quello che è il mirabile dramma della sua tipica esistenza.

Attesta uno dei suoi pensieri autobiografici: «Io avevo trascorso lungo tempo nello studio delle scienze astratte: me ne disgustò il ben poco di comunicazione che se ne può ricavare. Quando ho intrapreso lo studio dell'uomo, ho constatato che simili scienze astratte non sono affatto il retaggio suo specifico, e che io mi straniavo dalla mia condizione molto piú familiarizzandomi con esse, di quel che non se ne straniassero gli altri, ignorandole. Per cui ho agevolmente perdonato agli altri di saper poco. Ma ho creduto in cambio di trovare almeno numerosi compagni nello studio dell'uomo, che è il vero studio che a lui si confaccia. Mi sono ingannato. Vi sono molto meno studiosi dell'uomo, che studiosi di geometria. Anzi, si va a ricercare il resto, proprio perché non si sa studiare quello. Ma forse non è neppure questa la scienza che l'uomo deve avere e val molto meglio per lui, onde essere felice, l'ignorarsi».

Queste caustiche ed amare parole non tradiscono solamente la perizia sconfortata che Pascal aveva acquistato nella sua inesauribile scienza dello spirito umano: non esprimono, solamente, in virtú di quale intimo capovolgimento egli era passato dalle analisi del calcolo alla esplorazione di quella indissolubile equazione che è il cuore dell'uomo; ma mostrano anche, lucidamente, quali sono stati lo stimolo segreto e l'impulso profondo delle sue ansiose peregrinazioni di ricercatore insoddisfatto.

Pascal andava famelicamente in cerca di «umane comunicazioni». Il mistero della vita associata era il solo che sollecitasse intimamente l'ago della sua esperienza e della sua inquietudine. Ma quali erano le «comunicazioni» che avrebbero potuto placare l'avidità insaziabile del suo sentimento? Non andava egli anche qui concretando la paradossale esperienza che le supreme possibilità del rapporto fra gli uomini si consumano nella contemplazione della solitudine e che il vero contatto interumano si celebra nella impalpabile solidarietà di una consapevolezza del comune dolore e del comune destino nella grazia?

Il suo passaggio esteriore e sensibile nel mondo e nella società non era stato foriero di risultati favorevoli e di lezioni che si ricordassero con gioia. Nel 1638 Pascal quindicenne aveva attraversato un periodo di oscure preoccupazioni familiari. Suo padre, compromesso in una dimostrazione politica, era incorso nell'iraconda rappresaglia del cardinale Richelieu. E si era dovuto rifugiare nell'Alvernia, rimanendovi nascosto un anno, per sottrarsi alla prigione di cui era minacciato. Il perdono e la reintegrazione, conseguiti ad un anno di distanza, erano il frutto di circostanze che non sappiamo se non lasciarono nell'animo sensitivo dell'adolescente una traccia piú amara ancora di quella impressavi dall'esilio paterno. La duchessa di Aiguillon, infatti, nipote dell'onnipotente cardinale, incaricata di organizzare per lui una rappresentazione teatrale con attori giovanetti, chiese che fra questi figurasse la deliziosa Giacomina, sorella minore di Biagio, appena quattordicenne. Gilberta, la sorella maggiore, che nell'assenza forzata del padre teneva le redini della famiglia, rispose fieramente: «Il cardinale veramente non ci dà tanta gioia, perché noi siamo disposti a darne a lui». Ma poi, pensando al vantaggio che poteva derivarne alla famiglia, depose il suo sdegno e Giacomina partecipò alla rappresentazione. Ella aveva studiato sotto la guida di Montdory, l'attore favorito del cardinale, il quale era, come i Pascal, nativo di Clermont e si era interposto in favore dell'esule. Giacomina stessa raccontò a suo padre l'incontro con Richelieu: «Mentre io recitavo la mia parte, il cardinale rideva, e tutta la sala con lui. Quando la rappresentazione fu finita, scesi dal palcoscenico col proposito di parlare a Madama d'Aiguillon. Ma il cardinale se ne andava, e io mi trovai alla sua destra. Il De Montdory dal canto suo mi spingeva a parlargli. E io andai, e gli recitai i versi che vi mando e che egli ricevette con una straordinaria effusione e con tali carezze che non si riesce ad immaginarle. Poiché dapprima, non appena mi vide venire, esclamò: – Ecco la piccola Pascal. – Poi mi abbracciò e mi baciò, e mentre io recitavo i miei versi, egli non smise di tenermi fra le braccia e di baciarmi ad ogni momento con visibile soddisfazione. E poi, quando ebbi finito di recitare, mi disse: – Ebbene, vi concedo tutto quello che mi chiedete; scrivete pure a vostro padre che se ne torni tranquillamente. – Dopo di che, mentre Madama d' Aiguillon se ne andava, mia sorella andò a salutarla. Ed ella la carezzò molto e le domandò dove era mio fratello, ch'ella avrebbe voluto vedere. Mia sorella glielo condusse. E Madama gli fece grandi complimenti, molto lodandolo per la sua scienza. Mi reputo straordinariamente felice di avere in qualche modo contribuito a cosa che vi può dare soddisfazione. È quel che io ho desiderato sempre con estrema passione, mio signor padre». Andato a portare i suoi ringraziamenti a Sua Eminenza, Stefano Pascal non fu ricevuto dal cardinale se non con le sue figliuole. Agli inizi del '40 era investito delle funzioni d'intendente a Rouen. Biagio Pascal era troppo precocemente intelligente e fiero, e in pari tempo troppo affezionato alla sorellina cresciuta con lui in una casa orbata prestissimo del sorriso materno, per non avvertire la iniquità di un regime che poneva la libertà e la posizione di un onesto funzionario alla mercè di un uomo strapotente, guadagnato dalle grazie e dalla bellezza di un'adolescente. La sua anima non avrebbe mai piegato alla venerazione di poteri terreni. E un giorno, nel piú fitto della sua campagna antigesuitica, avrebbe scritto: «Nulla spero dal mondo, e nulla ne voglio. La Dio mercè non ho bisogno né delle sostanze né del potere di alcuno». Cosí Pascal si vendicava dell'umiliazione inferta a suo padre. E pure nessuno come lui anelava alle gioie della comunicazione con gli uomini e nessuno come lui era disposto per esse a chiudere nell'ombra la sua personalità e il suo merito.

Se la prodigiosa sua capacità di assimilazione aveva spontaneamente inclinato l'intelligenza di Pascal fanciullo ad assumere l'atteggiamento che l'ambiente familiare, aperto a tutte le questioni scientifiche del tempo, prediligeva, si direbbe che anche nei piú astratti e teorici trattati egli cercasse invariabilmente soprattutto il contatto e la solidarietà con coloro che ne seguivano con lui la spiegazione e la dimostrazione. Molto spesso, scrivendo, Pascal si rivolge ai suoi lettori come a compagni di cui stimola lo zelo e incoraggia la vocazione. Uno di questi trattati conclude espressamente con una profferta di amicizia. Amato di Gaignières aveva scoperto un metodo per determinare quante volte un numero si cambia in un altro. Pascal risolve il medesimo quesito mediante un metodo piú semplice, mediante, cioè, il triangolo aritmetico. Ma si limita modestamente a riconoscere la concordia dei due procedimenti: «Questa conclusione acquisita, io rinuncio volentieri a pubblicarne i risultati, che dapprima mi pesava di sopprimere, tanto dolce mi è qui di poter richiamare il lavoro di un amico».

Ma cosí ricca volontà di armonia, di concordia, di benevolenza, doveva urtare nella piú arcigna ostinazione dell'invidia e della gelosia. Solo perché il padre di Biagio Pascal figurava fra gli amici di Roberval, Cartesio accoglieva seccamente l'annuncio entusiastico datogli dal Mersenne del lavoro sulle coniche. A Rouen l'allestimento della «macchina» aritmetica, che pure era costata tanta fatica e che aveva dato la prima scossa alla salute dello scopritore, offre ad un orologiaio della città l'occasione di una contraffazione. Pascal ne fu amareggiatissimo: «La vista di questo miserabile aborto mi spiacque a tal punto e intiepidí sí l'ardore con cui in quel momento lavoravo al compimento del mio modello, che sull'istante congedai i miei operai, deciso ad abbandonare intieramente l'impresa, nel timore che una simile sfrontata audacia venisse ad altri, e le false copie che si sarebbero potute produrre non ne facessero cadere il credito dal principio, a causa del vantaggio che il pubblico poteva ricavarne». Le vicende che accompagnarono le esperienze del vuoto non furono meno deprimenti e scoraggianti. Pascal le aveva iniziate con uno spirito di fiduciosa cooperazione con gli amici di suo padre, Adriano Auzoult e Salle de Monflaines. I primi risultati ottenuti a Rouen erano stati da lui comunicati in una serie di conferenze. E ne nacquero subito delle rivendicazioni di priorità in cui egli, se pur non direttamente preso a partito, scoprí un attentato alla sua dignità morale, oltreché alla sua probità scientifica: «Nel novero di coloro che fan professione di lettere, attribuirsi una scoperta altrui non è crimine minore di quello perpetrato in seno alla società civile, da chi usurpa l'altrui proprietà. L'accusa di ignoranza come quella di indigenza è ingiuriosa solamente per chi la formula. Ma quella di mariuolo è di tal natura, che un uomo d'onore non può tollerare di esserne accusato, senza esporsi al rischio che il suo silenzio sia scambiato per riconoscimento». I dotti piú sperimentati e piú apprezzati dovevano tradire, al cospetto di Pascal, il medesimo spirito di prevenzione cieca, di intransigenza ostinata, di gelosia piccina.

In un'anima delicatissima, cosí villanamente urtata dalla goffa e grossolana presunzione degli uomini, come dovevano fermentare efficacemente i germi del pessimismo e della sfiducia, gettativi dalla propaganda sottile degli amici Guillebert! Sicché è ragionevole pensare che tra i motivi che allontanarono Pascal dalla scienza deve essere annoverata, per una parte non trascurabile, l'amarezza sottile di una speranza delusa.

Può essere sembrato a lui preliminarmente che l'uomo «destinato all'infinito» potesse dalla dimostrazione matematica e dal controllo sperimentale attingere la certezza di un progresso, capace di continuità di sviluppo attraverso la catena delle successive generazioni. Ma la vita di ogni giorno e le traversie della sua carriera scientifica si sono incaricate di mostrare a Pascal che la condizione dell'uomo non sembra capace di gustare un soddisfacimento completo nell'idea astratta di una conoscenza pura e disinteressata. «La ragione ha un bel gridare, ma non sarà mai capace di imporre un prezzo alle cose». Impadronendosi di originali metodi geometrici e fisici, che gli apparivano come un dominio naturalmente accessibile all'universalità dell'umana ragione, Pascal ha finito col destare la gelosia e la diffidenza degli emuli. La superiorità del suo genio l'ha duramente condannato all'isolamento. Pascal si è vendicato, trasferendo nella carità le risorse della sua intima vita.

Un motivo piú profondo ve lo doveva, in definitiva, condurre; un prosaico contrasto di interessi familiari, che deve aver pesato sulla sua coscienza sensibile come un rimorso tanto piú pungente, quanto meno confessato.

Al primo contatto con le opere edificative di Giansenio, di Arnauld, di Saint-Cyran, Biagio Pascal era stato guadagnato a quella concezione austera della morale, a quella inquieta brama di interiorità e di distacco dal mondo, in cui era l'anima di Port-Royal, e del suo felice innesto di spirito agostiniano sul tronco della piú rigida disciplina monastica. E nel primo entusiastico fervore della sua religiosità rinnovata, dominato anche questa volta dal bisogno assiduo della «comunicazione», egli aveva spiegato intorno a sé uno zelo caldo e impetuoso. Il pelagianesimo grossolano di Giacomo Forson fu cosí da lui denunciato all'arcivescovo di Rouen. Ma molto piú degna e, comunque, molto piú fruttifera positivamente, l'azione che Pascal venne allora esercitando sui membri della sua famiglia, sulla ventenne Giacomina in particolare, che, in procinto di entrare nel giro consuetudinario delle preoccupazioni e degli ideali borghesi, ne fu bruscamente ritratta per essere sospinta sulla via della contemplazione e dell'ascesi. Un nuovo vincolo, il piú vivo, venne cosí a stabilirsi fra la sua anima candida e pura e lo spirito ardente del fratello: un vincolo di devozione tenera e filiale che però le stesse idee e le stesse aspirazioni, instillate da Biagio nel cuore della sorella, dovevano esporre a un duro repentaglio.

Giacomina è, al fianco di Biagio, un po' quel che Santa Scolastica è al fianco di San Benedetto e Santa Chiara al fianco di San Francesco: lo spirito femminile che assorbe e rivive l'ideale della trasfigurazione degli affetti nella grazia e nella rinuncia, e che, con tenacia irriducibile, ne attua le conseguenze fino alle ultime possibilità. Convertita all'esperienza giansenistica dall'affetto e dalla virtú persuasiva del fratello, condotta da lui stesso ai discorsi del Singlin e incoraggiata nella sua improvvisa vocazione religiosa, Giacomina procrastina l'esecuzione del suo proposito per non separarsi dal padre.

Nel frattempo, Biagio, costretto dalla salute malferma e dolorante ad allontanarsi del tutto dalle occupazioni delle sue indagini scientifiche, si tuffa nella vita di società e ne va mendicando gioie effimere ed attossicate. La morte del padre, il 24 settembre 1651, fa risorgere dal suo cuore esacerbato i sentimenti desolati al cospetto della caducità e della fralezza umana, di cui la iniziazione giansenistica aveva destato e alimentato in lui i sentori istintivi. «Consideriamo la morte», egli scriveva ai coniugi Périer, «nella verità che lo Spirito Santo ci ha insegnato. Noi possediamo l'inestimabile vantaggio di sapere che veramente ed effettivamente la morte è una pena del peccato imposta all'uomo affinché espii il suo delitto, necessaria all'uomo per purgarlo dal peccato. Noi sappiamo che la morte sola può affrancare l'anima dalla concupiscenza delle membra, senza cui i santi non vivono in questo mondo. Noi sappiamo che la Vita, e la vita dei cristiani, è un sacrificio permanente, al quale solo la morte può imporre un fine. Noi sappiamo che come Gesù Cristo, comparendo al mondo, si è considerato e si è offerto a Dio quale olocausto e quale vera vittima; che come la sua nascita, la sua vita, la sua morte, la sua risurrezione, la sua ascensione, la sua presenza nell'Eucaristia, il suo seggio alla destra del Padre, costituiscono un unico sacrificio; cosí pure quanto si è realizzato in Gesù Cristo deve riprodursi in tutte le sue membra. Non consideriamo dunque piú la morte come pagani, bensí come cristiani, animati di speranza. Dio ha creato l'uomo avvivato da due amori, l'uno rivolto a Dio, l'altro rivolto a se stesso. Ma l'uno e l'altro disciplinati da questa legge, che l'amore di Dio dovesse essere infinito, vale a dire senza altro fine che Dio stesso; che l'amore invece rivolto a se stesso, fosse finito e riportato a Dio. In questo stato non solamente l'uomo poteva amare se stesso senza colpa, ma non avrebbe potuto amarsi colpevolmente. Poi, sopraggiunto il peccato, l'uomo ha smarrito il primo dei due amori. L’amore di se stesso, rimasto solo in questa grande anima capace di un amore infinito, questo amor proprio, si è dilatato e ha trasbordato nel vuoto, che l'amore di Dio aveva lasciato dietro di sé. Cosí l'uomo ha amato solo se stesso e tutte le cose in vista di sé: vale a dire, si è amato infinitamente. Ecco la genesi dell'amor proprio. Era naturale in Adamo ed era giusto nella sua innocenza: è divenuto criminale e smodato in séguito al suo peccato». In queste parole di una lettera che è di partecipazione di morte e di lutto familiare, sono tutta l'esperienza religiosa e tutta l'apologia pascaliane. Il matematico disincantato, scrivendola, non era ancora giunto alla suprema attuazione degli stimoli spirituali che egli si portava in grembo. Era destinato egli stesso a scoprire quale dura ostilità la natura opponga pervicacemente alla grazia.

Quando Giacomina volle tradurre in atto il proposito nato nel fervore della iniziazione ricevuta dal fratello, di cui solo la tenerezza per il padre aveva fatto differire il compimento, proprio il fratello sollevò una resistenza dura e male ispirata. Insensibile ad essa, Giacomina entrava come postulante a Port-Royal il 4 gennaio 1652. Il 26 maggio successivo era ammessa ad assumere l'abito. Dopo un anno di noviziato fu chiamata alla professione solenne. Allora l'opposizione della famiglia si rivelò nei suoi motivi banali e nei suoi interessi grossolani. Giacomina stessa ha registrato in proposito particolari salienti. Quando essa manifestò ai parenti la volontà di disporre della parte che le spettava dell'eredità paterna, come dote religiosa, i parenti mostrarono di offendersene, come di una preferenza accordata senza ragione ad estranei. «Essi», confida Giacomina alla priora di Port-Royal, «riguardarono la cosa con spirito umano e profano, come avrebbero potuto fare persone del mondo, ignare fin del nome della carità, e considerarono la carità che io mi proponevo di fare a una determinata comunità, di cui pur non ignoravano le strettezze, come espressione di amicizia per essa, senza voler riconoscere il motivo che mi spingeva. E ciascuno di loro mi scrisse a parte, sullo stesso stile, una lettera in cui, senza confessarsi colpiti, mi trattavano tuttavia come se lo fossero di fatto. Per tutta risposta alle mie richieste, mi facevano un prospetto rigoroso della mia situazione finanziaria, annunciandomi che la natura della mia sostanza era tale che io non potevo disporne in nessuna maniera in favore di chicchessia. Ne adducevano a ragione il fatto che, nelle nostre ripartizioni, avevano convenuto le singole parti dover rispondere solidalmente l'una per l'altra di tutte le porzioni che fossero venute a mancare per un lungo lasso di tempo. Addussero anche altri pretesti che sarebbe noioso ripetere, e che non sarebbero stati invocati se chi li andava raccattando non fosse stato mal disposto. Soggiungevano che qualora, nonostante le loro rimostranze, io mi fossi attentata di disporre di qualcosa, li avrei posti gli uni contro gli altri, e tutti contro coloro ai quali io avessi destinato la mia donazione. Mi ammonivano infine che avrebbero provveduto a far si che mi fosse interdetto di disporre della mia sostanza, riducendo cosí tutte le mie disponibilità a una meschina somma che io avevo fatto venire antecedentemente alla mia vestizione e che essi non sapevano essere stata già da me impiegata in anticipo in alcune opere di carità».

Quando Biagio Pascal partecipava cosí alla mobilitazione della famiglia contro la professione solenne di Giacomina e gli oneri finanziari che essa importava, le sue condizioni economiche, dato il tenore mondano di vita a cui si era abbandonato, dovevano essere effettivamente imbarazzanti. Ma simile circostanza non doveva che accrescere, negli strati del suo subcosciente, il sordo risentimento contro fogge di vita che lo costringevano, a causa del loro fasto costoso, ad un'attitudine cosí antipatica e cosí grossolanamente interessata, di fronte alla vocazione della sorella, che egli stesso aveva inizialmente provocato. Pur rimanendo esteriormente mescolato alla mondanità cui lo costringeva la compagnia dei Roanne e del Méré, Biagio cambiò ben presto contegno di fronte a Port-Royal. Le visite di Giacomina si fecero piú assidue e piú cordiali. Méré gli apparve sempre piú circoscritto; Montaigne gli si rivelò sempre piú inconseguente; Mirton, arido e ripugnante. La vergogna del suo egoismo borghese lo invade e lo macera. La sete di Dio lo divora. Il contatto con la sorella lo trasfigura. Il 23 novembre del '54, per due ore, Biagio fu trasportato dal fervore intimo della sua meditazione in una specie di rapimento estatico, nel quale la dedizione a Dio fu celebrata fino alla perfetta consumazione. Biagio ne volle fissare per iscritto la memoria convulsa e palpitante. È la sua pagina piú toccante, fatta di singulti e di trasalimenti: «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non già dei filosofi e dei sapienti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io sí. Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia. Io me ne sono separato: Dereliquerunt me fontem aquae vivae. Dio mio, mi abbandonerai tu? Che io non ne sia separato in eterno. Questa è la vita eterna, che ti conoscano solo vero Dio e quegli che tu hai inviato, Gesù Cristo. Me ne sono separato: l'ho sfuggito, rinnegato, crocefisso. Che non ne sia piú separato. Non lo si conserva che attraverso le vie aperte dal Vangelo. Rinuncia totale e dolce».

Giacomina aveva vinto. E con lei, Port-Royal. L'adesione completa di Biagio all'Istituto cui Saint-Cyran aveva infuso l'ideale della universale riforma cristiana cadeva in un momento burrascoso. Appena sei mesi prima Roma aveva condannato cinque proposizioni come contenute nell'A ug us t i n us di Giansenio. Poche settimane piú tardi un prete della parrocchia di San Sulpizio negava la comunione ad un parrochiano, reo di ospitare un eretico di Port-Royal, un eretico quindi. Arnauld ne fu spinto a stendere in fretta, sotto forma di Lettre à une personne de condition, un'apologia, nella quale si revocava in dubbio che le cinque proposizioni condannate nella Cum Occasione si ritrovassero di fatto nell'Augustinus. La lettera fu violentemente attaccata dai gesuiti, specialmente dal padre Annat. Arnauld rispondeva il 10 luglio del 1655, con una Seconde lettre d un duc et pair de France. Questa seconda lettera fu deferita alla Facoltà di teologia, la quale, per costituirsi in corpo giudicante, si aggregò una quarantina di religiosi degli Ordini mendicanti, tutti seguaci delle idee molinistiche. Arnauld era condannato in anticipo. Nel gennaio del '56 la sentenza veniva pronunciata contro di lui.

Appunto allora Pascal, invitato dai suoi amici ad intervenire sotto il nome di Luigi di Montalto, dettava quella prima Lettre à un Provincial par un de ses amis sur le sujet des disputes présentes de la Sorbonne, con la quale era ingaggiata una delle piú aspre controversie religiose, che la teologia cattolica moderna ricordi. Nel giro di un anno, altre diciassette lettere seguirono, ugualmente anonime. Biagio le componeva stando nascosto, col nome di Monsieur de Mons, in un albergo della Rue des Poiriers, sotto l'insegna di Re David, di fronte al collegio dei gesuiti. Perrault esprimeva piú tardi su di esse il parere dei contemporanei, scrivendo: «Fra un milione di persone che le hanno lette, si può garantire che non ve n'è una la quale, alla lettura, si sia annoiata. Io le ho lette piú di dieci volte; e nonostante la mia naturale impazienza, le piú prolisse sono state sempre quelle che mi sono piaciute di piú. Tutto vi traspira purezza di linguaggio, nobiltà di pensiero, solidità di ragionamento, finezza nel sarcasmo». In verità, tutto quello che v'è di grossolano, di contorto, di menzognero e di opportunistico, di falso e di anticristiano, nella morale lassistica del probabilismo gesuitico, è, in queste lettere, segnalato, scoperto, impugnato, esposto al ridicolo con una logica implacabile e con una vena ironica inesauribile. Pascal aveva scritto una volta: «Fortunati coloro nei quali lo spirito di finezza si accoppia allo spirito geometrico!».

Le Provinciali dimostrano meglio di ogni altra sua opera in quale eccezionale misura egli appartenesse al novero di questi fortunati.

La serie delle Provinciali veniva accompagnando le durissime traversie di Port-Royal, dopo la condanna di Arnauld. Il 24 marzo un evento miracoloso sopraggiunse, quasi a conferire ad esse una sanzione soprannaturale. A Port-Royal di Parigi, una nipote di Pascal era risanata da una penosa ulcera lacrimale, al semplice tocco di una spina della corona del Signore. L'emozione ne fu vivissima, nel monastero e fuori. Biagio ne attinse incoraggiamento e fiducia.

Ma i suoi occhi scorgevano con angoscia sempre piú amara la desolante situazione della Chiesa. Nel settembre egli scriveva alla giovane De Roanne: «C'è una parola sconcertante: – Quando voi vedrete l'abbominio là dove esso non avrebbe mai dovuto essere, allora che ciascuno se ne fugga, senza neppure rientrare in casa a prendere checchessia. – Mi sembra in verità che qui siano perfettamente segnati i tempi in cui ci troviamo, nei quali la corruzione della morale si è infiltrata nelle case della santità e nei libri dei teologi, dove proprio meno dovrebbe trovarsi. Occorre uscirne, al cospetto di un tale disordine: sfortunate coloro che in simili giorni sono gestanti o nutrici, che, cioè, persistono nei deprimenti collegamenti col mondo. È ben giusto che la preghiera sia incessante, mentre incessante è il pericolo. Coloro scorgono praticamente i miracoli, ai quali i miracoli dan profitto: poiché i miracoli non si vedono, se non se ne trae vantaggio».

Ma l'esperienza religiosa di Pascal, diuturnamente affinata dalle sofferenze fisiche, dal travaglio intellettuale, dalla sconsolata conoscenza del mondo, non poteva esaurirsi in una polemica. «Tutto», scriveva egli nell'ottobre del '56, «nasconde intorno a noi un mistero. E tutto, nell'universo, rassomiglia ad un velario che nasconde il volto di Dio. I cristiani debbono oltrepassarlo, e scoprire Iddio nel tutto».

All'affannoso disvelamento di questo tremendo mistero, in cui l'universo è avvolto, Pascal dedicava gli estremi anni della sua consunta e fragile vitalità. Ma la stessa esasperante attività del suo sentimento tragico della vita e del divino; la stessa lucidezza chiarissima della sua conoscenza del cuore umano; l'incomparabile acume con cui aveva visto in faccia la brutale assurdità della natura e dell'uomo, abbandonati al corso folle dei loro istinti primordiali, al di qua di ogni trasfigurazione della grazia; lo rendevano impotente a costruire di sui materiali della sua inenarrabile esperienza una qualsiasi apologia organica e suscettibile di ufficiale sanzione. La sua fede era in un atteggiamento e in una intuizione. Non poteva essere rifatta che in pensieri: non poteva essere stilizzata in un sistema. Fosse vissuto cent'anni, Pascal non avrebbe potuto, sulle scintille incandescenti del fuoco divorante della sua religiosità, forgiare un solo capitolo di una trattazione logica e coerente della rivelazione cristiana.

Les pensées sono gli sprazzi della sua agonia ragionante. E sono l'espressione dell'agonia permanente cui Dio e l'ideale sono ininterrottamente sottoposti nel mondo, straziati dalla cupidigia mai satolla, dalla neghittosità mai calpestata, dall'egoismo mai domo dell'uomo.

Contro la condanna delle Provinciali Pascal aveva interposto un appello: ad tuum, Domine, tribunal appello. Sul letto di morte, delle Lettere inobliabili egli assumeva in pieno la responsabilità. I Pensieri erano molto piú che una polemica contro l'ordine, reo di accomodare a tutte le grandezze terrene la purezza intransigente del Vangelo. Erano una insurrezione lacerante contro lo sforzo satanico di naturalizzare e laicizzare il miracoloso paradosso cristiano, in cui la modernità si sarebbe incaponita fino al suicidio.

Lotta impari e destino lacrimevole. Anche Port-Royal avrebbe abbandonato Pascal. Giacomina moriva trentaseienne per il dolore di aver firmato, con le compagne, il formulario insincero. Biagio doveva seguirla da presso. Quel giorno, 19 agosto 1662, in cui si spegneva trentanovenne, egli non aveva effettivamente che un solo vero fratello: il pezzente ch'egli avrebbe voluto gli fosse stato posto d'accanto, a condividere con lui la sofferenza e la speranza. I Pensieri di Pascal sono gli ultimi guizzi dell'incendio cristiano nel mondo.

«L'essenza della natura umana è nella sproporzione, la verità è, pertanto, nel paradosso: e la legge, nel rinnegamento. Noi siamo qualche cosa: ma non siamo tutto. Il contingente di essere che possediamo ci nasconde la conoscenza dei primi principî, che sgorgano dal nulla. Ma in pari tempo la esiguità di quel contingente ci sbarra la percezione dell'infinito. La nostra intelligenza occupa nel quadro delle realtà intelligibili il medesimo posto che il nostro corpo occupa nella tela della natura. Limitati come siamo in ogni capacità, questa condizione nostra, gittata a terra fra due estremità, traspare in ogni gesto e in ogni attitudine. Nulla pertanto ha una consistenza fissa per noi. E questa nostra condizione naturale è di fatto la piú contraria alla nostra naturale inclinazione. Noi ardiamo dal desiderio di toccare una positura ferma e di raggiungere un fondamento saldo, per costruirvi su una torre che si slanci all'infinito. Ma ogni fondamento crolla e la terra si spalanca dinanzi al nostro passo, fino ai suoi abissi. Vano è dunque ricercare la sicurezza e la salvezza. La nostra ragione è irrevocabilmente ingannata dall'incostanza delle apparenze, dalla vanità delle sue pretese, dalla seduzione delle sue fantasime. È anche viziata dal soffio contaminante di una perversione organica. L'uomo, di per sé, è un soggetto impregnato di errore. Nulla riesce a scoprirgli la verità. Egli è impastato di dissimulazione, di menzogna, di ipocrisia. Nei rapporti con se stesso, nei rapporti con gli altri. Non vuole mai che gli si dica la verità ; ma non vuole neppure dirla agli altri. E simile disposizione, cosí remota dalla giustizia e dalla ragione, ha la sua radice naturale nel suo cuore, avvelenato da una concupiscenza famelica, la quale è il risultato della lacrimevole lacerazione dell'iniziale equilibrio fra l'amore di sé e l'amore di Dio, da cui fu animato nell'istante della creazione. Per questo gli uomini sono, sí, come degli organi: ma in realtà, molto bizzarri, mutevoli, con delle canne non collegate a gradi. Onde, ignorando dove sono i tasti, è impossibile trarre degli accordi. Né angelo né bestia, l'uomo finisce per essere bestia, quando vuole rivelarsi angelo».

«Ecco dunque l'uomo: un nulla al cospetto dell'infinito, un tutto al cospetto del nulla. In realtà, la mediazione fra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, cosí il fine delle cose come il loro principio sono per lui irrevocabilmente nascosti in un mistero impenetrabile. L'uomo è ugualmente incapace di scorgere il nulla donde è tratto e l'infinito dal quale è inghiottito. Per uscire da questa tragica situazione, per districarsi da questo soffocante groviglio di possibilità contrastanti ed elidentisi a vicenda, l'uomo non aveva, non volendo accettare risolutamente il paradosso della sua natura e l'apparente illogicità del suo destino, che uno scampo: chiudere gli occhi al mistero dell'universo che lo schiacciava (– il silenzio dei mondi infiniti fa rabbrividire –); serrare le orecchie al monito delle voci che rompevano la congiura della sua istintiva acquiescenza; crearsi idoli che surrogassero i valori assoluti della sua finalità compromessa. C'è riuscito a meraviglia. Aiutato dalla consuetudine, complice l'inerzia del vivere associato, ha scelto la via della paffuta, sonnecchiante, indolente mediocrità. E guai a chi si attenta di uscirne. È acciuffato e morto senza nessuna misericordia; sortire dalla mediocrità è un sortire dall'umanità. La grandezza dell'anima umana consiste probabilmente nel sapervi restare, non già nel sortirne. Ma significa questo forse ignorare il meccanismo della sua vita associata e chiudere gli occhi alla dialettica dei suoi processi spirituali? È vero: denudare quel meccanismo, disegnare questa dialettica, implica aprire gli occhi a verità spaventose e indurre l'osservazione a constatazioni agghiaccianti. Ma scocca l'ora in cui è necessario farlo. Disgraziati coloro che costringono a parlare dal fondo intimo della religione!».

«Gli uomini sono cosí necessariamente pazzi che sarebbe un esser pazzo, di un altro genere di pazzia, il non esserlo. E la forma specifica della loro pazzia si concreta negli effimeri sostegni istituzionali, che essi impongono a disciplina della loro vita associata, e nella validità che si inducono ad attribuir loro. Qual è la genesi della proprietà? – Questo cane è mio; questo posticino di sole è mio – dicono per via certi poveri ragazzi. Ecco il principio ed il simbolo della usurpazione di tutta la terra. Qual è la solidità della giustizia umana? Nessuna. Popoli, paesi, uomini se la raffigurano nella maniera piú cangevole. E chi la studia da presso, non può fare altro che constatarne la continua mutabilità. Che cosa di piú iniquo della guerra e del diritto di uccidere che essa sanziona, sol che fra due gruppi umani sia levata una barriera? Che cosa di piú fatuo delle umane convenzioni, delle differenze di casta, delle dignità ufficiali? Ma tutto ciò non può dirsi a tutti e dovunque. È molto pericoloso dire al popolo che le leggi non sono fondate su una giustizia assoluta ed incrollabile; perché esso obbedisce loro solamente in quanto le crede giuste. E del resto i veri cristiani obbediscono anche alle follie di cui il mondo è impastato e di cui è intessuta la disciplina collettiva. Non già perché possano nutrire del rispetto per le umane follie. Ma perché si inchinano all'ordine di Dio, il quale, per punirli, ha assoggettato gli uomini alla vanità e alla stoltezza. Ma non sarà di certo la ragione che condurrà l'uomo a questo atteggiamento. La ragione! È una malattia naturale dell'uomo darsi a credere di possedere la verità direttamente. Per questo egli è sempre disposto a negare tutto ciò che gli riesce incomprensibile. Sta di fatto che l'uomo conosce naturalmente solo la menzogna e che a rigore egli dovrebbe considerare come vere solamente quelle enunciazioni, il cui contrario appaia alla sua intuizione patentemente falso. Le proposizioni piú vere potranno essere proprio le meno comprensibili. Perché, fra l'altro, proprio esse mortificano piú a dovere questa nostra tirannica serva-padrona, la ragione infida e lusingatrice, che non sarà mai sufficientemente calpestata, rinnegata, irrisa, anche se il farlo espone al ludibrio e all'irrisione. Non genera essa forse la vanità umana, questa vanità tronfia e fatua dell'universale, questa vanità che è un cosí risibile e cosí funesto retaggio dell'uomo? Perché, di fatto, le bestie non sono capaci di pavoneggiarsi e di ammirarsi vicendevolmente, l'una al cospetto dell'altra. Un cavallo non si piega mai alla vanità del compagno. La emulazione nella corsa non ha conseguenze. Alla stalla, il piú pesante e il peggio tagliato non cede la propria avena all'altro, come suol farsi fra gli uomini. La virtú dei cavalli, come quella degli stoici, è soddisfatta di se stessa. I filosofi trovano, cosí, il piú adeguato parallelismo nello strame».

«Tutto il mondo pronuncia a destra e a manca una quantità di giudizi su una infinità di cose, perché è tuffato fino ai capelli nell'ignoranza naturale, sede appropriata dell'uomo. Ma il mondo non è retto da giusti giudici e da questi sentenziatori fanfaroni e inconcludenti: poggia piuttosto su due situazioni estreme ed antitetiche. La prima è rappresentata dalla pura ignoranza naturale, nella quale si trovano tutti gli uomini al momento della nascita. La seconda è quella a cui assurgono le grandi anime, che avendo integralmente percorso tutto il ciclo di ciò che gli uomini possono sapere, riconoscono di non saper nulla e si trovano in quella medesima ignoranza da cui avevano preso le mosse. Ma si tratta di una ignoranza sapiente e di una insipienza confessata. Scien ter inscii et sapienter indocti. Qui la vera dottrina. Come però pervenirvi?».

«Vi sono nell'uomo due capacità conoscitive; uno spirito geometrico, dalle vedute lente, dure, inflessibili, e uno spirito di finezza, fatto di duttilità e di comprensione intima. Privilegiate le nature che posseggono entrambi! Ma quanto rare fra gli uomini! Nello spirito geometrico, i principî sono palpabili, ma remoti dall'uso comune, di modo che a stento si concentra l'attenzione su di essi, per mancanza di abitudine. Non appena però la si concentri su di essi, si rivelano appieno. Occorrebbe avere uno spirito funzionalmente falso per ragionare scorrettamente su principî tanto appariscenti, che è quasi impossibile sfuggano alla comprensione. Ma quanto poco conta tutto ciò nella esplicazione della spiritualità umana! Vi sono principî su cui urta ad ogni istante l'esperienza individuale e collettiva. Si tratta di principî incommensurabilmente piú familiari delle definizioni geometriche, di principî che circolano nell'uso comune e sono spiegati dinanzi agli occhi di tutti. Ma questa loro propinquità e dimestichezza non vuol dire intelligibilità e perspicuità. Occorre una buona vista per scorgerli distintamente e per assimilarli: soprattutto per coglierli nel loro concatenamento. Sono infatti cosí staccati l'uno dall'altro, che è quasi impossibile non ne sfugga alcuno. E l'ometterne uno solo nel proprio procedimento di sintesi, significa esporsi infallibilmente all'errore. Non ogni spirito dotato di capacità geometrica è dotato di finezza; e non ogni finezza implica spirito geometrico. V'è una virtú atta a penetrare vivamente e profondamente le conseguenze dei principî, e v'è una virtú atta a comprendere un grande numero di principî senza confonderli; una virtú sintetica e una virtú analitica. La perfezione della spiritualità è nella fusione delle due virtú, nell'accoppiamento dei due poteri, poiché anche al procedimento geometrico presiede una capacità di intuizione, che attinge le sue ragioni dal sentimento anziché dall'astrazione dialettica. Purtroppo coloro che sono abituati a giudicare sulla base del loro sentimento, nulla comprendono in cose di puro ragionamento, poiché sogliano di colpo giungere alla conclusione e non sono addestrati a indagare i principi. Quelli al contrario che sono accostumati a ragionare di principî, nulla comprendono in cose di sentimento, cercando principi che non vi sono e non potendo vedere con una vista chiara e distinta. Lo spirito di finezza conduce alla soluzione dei massimi e piú urgenti problemi della vita, non lo spirito della geometria. E il credere val piú del pensare. La vera eloquenza si burla della eloquenza, come la vera morale si burla della morale. Il sentimento è l'arbitro delle valutazioni e ridersela della filosofia è il vero modo di filosofare».

«Nessuna meraviglia che anime semplici credano senza ragionare. Dio infonde in esse l'amore sacro per Lui, il disprezzo santo di sé. Qui la sorgente della pietà e della religione. Le quali, nella loro versatile ricchezza, sono per natura proporzionate ad ogni genere di spiriti. Alcuni si arrestano soddisfatti sulla soglia ufficiale dell'edificio. Gli altri ne esplorano la costituzione, risalendo fino agli Apostoli. Altri giungono fino al principio del mondo. Gli angeli, evidentemente, ne sanno molto di piú. Ma tutto ciò è superfluo e sterile. La fede cristiana non ha bisogno di essere filtrata attraverso i lambicchi della speculazione, per tradire i connotati sorprendenti della sua soprannaturalità.

Essa sola costituisce la vera scienza contro il senso comune, contro la natura, contro i nostri piaceri, contro i nostri sofismi; per questo è vera, e per questo la si deve considerare come sempre esistita, come sempre trionfante del tempo e dello spazio».

«Il cuore possiede delle ragioni che la ragione non conosce. Lo si può constatare in mille evenienze... Noi conosciamo la verità non solamente mediante la ragione, bensì anche mediante il cuore. È proprio in questo secondo modo che noi conosciamo i primi principî, e invano il ragionamento, che non ha alcuna parte in questa conoscenza, si sforza di impugnarli. I pirroniani che mirano solamente a questo scopo, sprecano il loro tempo. Noi siamo perfettamente consapevoli di non sognare. Comunque disperata sia l'impotenza in cui noi ci troviamo di mostrare qualcosa mercè la ragione, simile impotenza implica, unicamente, la debolezza della nostra ragione, non già l'incertezza della nostra conoscenza. Poiché la conoscenza dei primi principî, come della esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri, è altrettanto solida che la conoscenza scaturita dal ragionamento. Occorre che la ragione faccia leva su simili conoscenze del cuore e dell'istinto. Il cuore, che è intuizione e immediatezza, avverte che esistono tre dimensioni nello spazio e che i numeri sono infiniti. Solo piú tardi la ragione dimostra che non esistono due numeri quadrati, uno dei quali sia doppio dell'altro. I principî si sentono, le proporzioni si concludono: sempre con certezza, sebbene per vie differenti».

Queste ineffabili ragioni sepolte nel cuore racchiudono in embrione la segnalazione del nostro destino. E questo destino è bene al disopra di tutte le esigenze dei nostri interessi caduchi e di tutte le finalità del nostro esteriore vivere associato. Noi siamo molto fatui nell'affidarci alla comunità visibile dei nostri simili. Miserabili non meno di noi, impotenti proprio come noi, costoro non sono in grado di offrirei alcuna cooperazione o alcun soccorso. La morte ci coglierà soli. N emo alii nascitur, mori turus sibi. È parola di Tertulliano. È necessario pertanto comportarsi nella vita come se si fosse soli. Se simile comportamento fosse, realmente, nel nostro programma, chi mai si darebbe ad innalzare case superbe e ad accumulare sostanze vistose? Ben altra sarebbe allora l'ispirazione dei nostri atti, ben altro lo sbocco delle nostre aspirazioni.

La Chiesa merita, con Gesù Cristo che ne è inseparabile, la conversione e l'adesione di coloro che sono lungi dalla verità, come sono i convertiti, da lei liberati, che accorrono al suo soccorso. La storia della Chiesa può essere piú propriamente chiamata la storia della verità. Essa è cresciuta nel grembo dell'umano genere in proporzione dei progressi da questo compiuti nella esplicazione del proprio destino trascendente e del proprio còmpito soprannaturale. Ma dopo che la Chiesa si è mescolata al mondo, i suoi connotati si sono grossolanamente alterati e le sue risorse si sono minacciosamente assottigliate. Alle origini, si vedevano soltanto cristiani perfettamente consumati in tutte le esigenze necessarie alla salvezza. Oggi invece, rileva Pascal, non si scorge dovunque che una ignoranza cosí crassa, che quanti nutrono sentimenti di tenerezza per la Chiesa ne gemono accoratamente. Allora si entrava nella Chiesa dopo diuturni sforzi e pertinaci desiderî; oggi uno vi si trova senza pena, senza che se ne curi, senza che ci si adoperi. Allora era necessario un esame preliminare. Oggi vi si è inseriti quando non si è in grado di sostenere alcun esame. Allora, per essere ricevuti, era necessario abiurare la propria vita trascorsa, rinunciare di fatto, non a parole, al mondo, alla carne, al demonio. Oggi si è introdotti in essa molto prima che soccorra la possibilità di fare alcuna rinuncia. Infine era altra volta necessario uscire dal mondo per entrare nella Chiesa. Oggi si entra nella Chiesa nel medesimo tempo che nel mondo. Si aveva allora, empiricamente, la riprova viva e palmare del contrasto insanabile fra il mondo e la Chiesa. Apparivano come due entità nettamente antitetiche, come due avversari implacabili; uno dei quali perseguitava l'altro senza interruzione, e dei quali il piú debole in apparenza era destinato un giorno a trionfare del piú forte. In tal modo era necessario gettare la propria opzione fra l'uno e l'altra; smettere i sentimenti dell'uno per assumere quelli dell'altra; abbandonare la precettistica dell'uno per assoggettarsi a quella dell'altra; in una parola, si abiurava il mondo nel quale si era nati fisicamente, per la Chiesa, alla quale si rinasceva. cosí si avvertiva d'istinto l'abisso dischiuso fra il mondo e la Chiesa. Oggi è tutt'altra cosa. Si aprono gli occhi alla luce e ci si trova contemporaneamente nell'uno e nell'altra. Quando la ragione sopravviene è naturalmente incapace di istituire una qualsiasi distinzione fra i due mondi, cosí funzionalmente ostili. Si frequentano i Sacramenti, ma in pari tempo si assaporano senza scrupolo i piaceri del mondo. Là dove altra volta si scorgeva un dissidio implacabile, si scopre oggi una mescolanza seduttrice. Per questo altra volta i cristiani erano esperti e ricolmi di cultura. Oggi sono sepolti in una ignoranza che fa ribrezzo. Altra volta i rigenerati nel battesimo, esuli dal mondo, cittadini della città ecclesiastica, rarissimamente ricadevano negli abbominî del secolo. Oggi nessuno spettacolo piú consueto che quello dei vizi del mondo, fermentanti oscuramente nel cuore dei cristiani. La Chiesa dei santi è tutta maculata e fetida per la presenza dei contaminati. Quei figli che essa ha concepito e nutrito fin dall'infanzia nel proprio grembo, recano nell'anima propria, fin quindi nella partecipazione dei piú sacri misteri, il piú spietato dei suoi nemici, vale a dire lo spirito di vendetta, lo spirito di impurità, lo spirito di concupiscenza. L'amore compassionevole che la Chiesa nutre per i propri figli, la costringe, ahimè!, ad accogliere fra i suoi intimi il piú barbaro dei suoi avversari e dei suoi persecutori.

Tragico destino della Chiesa! Eppure, se essa deve essere la società della universale fraternità nella pace, se deve essere l'umanità spirituale, occorre che faccia rivivere in sé lo spirito intransigente dei suoi primordi. È una cosa veramente amara che ci si proponga l'odierna disciplina della Chiesa come talmente buona, da additare come un crimine il proposito di cambiarla. In altri tempi essa era infallibilmente buona; e pure si può osservare che poté cambiare, senza per questo derogare dalla sua natura. Ed oggi, qual essa è, non la si dovrebbe desiderare cambiata!

La vita della comunità primitiva non costituisce una pagina morta di storia: costituisce piuttosto un modello permanente di vita. Se v'è qualcosa che ci impedisce di stabilire confronti fra quello che si è verificato altra volta nella Chiesa e ciò che oggi vi si scorge, è questo: che ordinariamente si scorgono Sant'Atanasio, Santa Teresa come circonfusi di gloria e quasi come delle divinità. Oggi che le situazioni si sono chiarite e rasserenate, appare cosí. «Ma nell'ora nella quale egli era cosí duramente perseguitato, quel grandissimo Santo era semplicemente un uomo che si chiamava Atanasio, e Santa Teresa era una ragazza. – Elia era un uomo come noi, soggetto alle medesime nostre passioni – dice San Giacomo, per strappare dai cristiani la falsa idea che ci fa ripudiare l'esempio dei santi, come sproporzionato ed impari alla nostra condizione. Erano santi; noi diciamo dunque: erano diversi da noi. – In realtà, di che precisamente si trattava? Sant'Atanasio era semplicemente un uomo chiamato Atanasio, colpito dall'accusa di parecchi delitti, condannato in parecchi sinodi, sotto questa e quella imputazione. Tutti i vescovi consentirono nelle condanne, e il Papa pure. E che si disse di coloro che fecero opposizione alla condanna? Che turbavano la pace e alimentavano lo scisma. Ah, la strana dialettica della storia della Chiesa! La dominano quattro generi di persone: quelle che sono animate da zelo senza scienza; quelle che posseggono una scienza senza zelo; quelle che non conoscono né l'una né l'altro; quelle infine che sono ricche di zelo e di scienza. Le prime tre categorie, condannano: la quarta assolve, ed è scomunicata dalla Chiesa, che, essa pure, salva. In verità, assolutamente invano la Chiesa ha escogitato i termini di anatema e di eresia: son tutte armi che si ritorcono contro di lei. La Chiesa insegna e Dio ispira: entrambi infallibilmente. Ma l'opera della Chiesa serve unicamente a preparare e a disporre o la grazia o la condanna. La sua opera è sufficiente alla condanna: è funzionalmente insufficiente all'ispirazione».

«Ecco quel ch'io vedo e che mi turba. Volgo d'ogni parte intorno il mio sguardo e trovo per tutto oscurità. Tutto ciò che mi offre la natura è argomento di dubbio e di inquietudine. Se nulla vi segnalassi capace di contrassegnare una divinità, mi deciderei per la negativa; se invece scoprissi dovunque le tracce di un creatore, riposerei in pace nella fede. Ma, constatando troppo per poter negare e troppo poco per trincerarmi in un'assoluta certezza, io verso in una condizione veramente lacrimevole. Ho desiderato cento volte che, se un Dio sostiene la natura, questa lo additasse senza possibilità di equivoco. E d'altro canto ho desiderato che se le orme, quali la natura le tradisce, sono ingannevoli, fossero soppresse senz'altro. Ho vagheggiato che la natura dicesse tutto o niente, onde io vedessi bene il partito che debbo seguire. Invece, nello stato in cui mi trovo, ignorando quel che sono e quel che debbo fare, non conosco né la mia condizione né il mio dovere. E pure il mio cuore si protende tutto verso la conoscenza del vero bene, per seguirlo. E nulla mi sarebbe piú caro per tutta l'eternità».

«Ma Dio non lo cercheremo fuori di noi nello spiegamento della natura, nel concatenamento dei fatti. Dio è la consolazione del nostro cuore, è la grazia del nostro riscatto. Il cercarlo è un averlo trovato; il concepir la luce è già un esservi tuffati. E noi, tenebre siamo per natura. Cosí ci parla la Sapienza: – Non vi attendete verità o consolazione dagli uomini. Voi non siete più nella condizione nella quale siete stati formati. Io ho creato l'uomo santo, innocente, perfetto; l'ho colmato di luce e d'intelligenza; ho trasfuso in lui la mia gloria e le mie meraviglie. L'occhio dell'uomo scopriva allora la maestà di Dio. Esso non versava allora nelle tenebre che l'accecano e nelle miserie che l'affliggono. Ma egli è stato incapace di sopportare tanta gloria, senza cadere nella presunzione. Ha voluto costituirsi centro di se stesso e indipendente dal mio soccorso. Si è cosí sottratto alla mia signoria e pretendendo di equipararsi a me, mediante il desiderio di trovare la propria felicità in se stesso, si è rinvenuto abbandonato alle sue misere forze. Oggi l'uomo è simile alle bestie, in una tale lontananza da me, che appena un barlume del suo Creatore è rimasto nella sua anima impoverita. I sensi, ribelli alla ragione, spesso padroni della ragione, l'hanno trascinato alla ricerca ingorda dei piaceri. Le creature universe o l'affliggono o lo tentano o dominano su di lui, con la violenza o con la lusinga. Ecco la condizione degli uomini, oggi. É vano pertanto, o uomini, che voi cerchiate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutte le vostre luci saranno appena sufficienti a constatare che voi non riuscirete mai a trovare in voi stessi la verità o il bene. I filosofi ve l'avevano promesso; ma non han potuto farlo. Essi ignoravano qual sia il vostro autentico bene e qual sia la vostra genuina condizione. Io sola posso farvi comprendere chi voi siete. Ora, se riuscite ad essere uniti a Dio, è in virtú della grazia, non già in virtú della natura. Conosci dunque, o superbo, qual tremendo paradosso tu sia per te stesso. Umiliati, ragione impotente, taci, natura imbecille, e impara che l'uomo oltrepassa infinitamente l'uomo, ascolta dal tuo maestro la vera tua condizione, ché la ignori. Ascolta Dio. – Poiché in conclusione, se l'uomo non fosse stato mai corrotto, godrebbe, nella sua innocenza, e della verità e della falsità, con perfetta serenità: e d'altro canto, se l'uomo fosse stato sempre semplicemente corrotto, non possiederebbe alcuna idea né della verità né della beatitudine. Invece, disgraziati che noi siamo, possediamo una nozione della felicità, ma ci è impossibile attingerla; sentiamo una immagine della verità, e non tocchiamo che la menzogna. Siamo ugualmente incapaci di ignorare del tutto e di sapere con certezza. Tanto è evidente che eravamo una volta in uno stato di perfezione, da cui siamo miserevolmente caduti».

Il ricondurci alle possibilità, dissipate con la colpa primordiale, significava ripristinare un'armonia lacerata. E doveva essere il còmpito di una redenzione dolorosa. Ecco perché la rivelazione è un terrificante mistero. È possibile conoscere Dio, ignorando la propria miseria: ed è possibile conoscere la propria miseria, ignorando Dio. Ma è impossibile conoscere Gesù Cristo, senza conoscere in pari tempo Dio e la propria miseria. Il Dio dei cristiani non è affatto un Iddio semplice autore di verità geometriche, o di un ordinamento cosmico. Un Dio di tal fatta può essere il retaggio di pagani e di epicurei. Non consiste per nulla in un Dio che esercita la sua provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini, per garantire una prospera sequela di anni a coloro che l'adorano: è il retaggio degli Israeliti. «Ma il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio di amore e di consolazione, un Dio che ricolma l'anima e il cuore di coloro ch'Egli possiede, un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la propria misericordia infinita; che si unisce al fondo della loro anima; che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altra finalità che non sia Lui stesso».

La rivelazione del Cristo è tutta, anch'essa, in un piano di realizzazioni misteriose. Gesù Cristo è venuto ad accecare quelli che avevano la vista chiara e a dare la vista ai ciechi; a guarire i malati, per lasciar vuoti e deserti i ricchi. In questo còmpito paradossale; nella apparente illogicità ed ingiustizia della distribuzione delle grazie, è la riprova apodittica della soprannaturalità della sua opera. Perché la logica di Dio non è la logica degli uomini e la realizzazione della suprema giustizia non può non essere accompagnata da una brutale sfida alla superbia della ragione. Per questo la vera conversione consiste nell'annullarsi senza misericordia al cospetto di quell'Essere universale che tante volte abbiamo irritato e che può legittimamente perderci ad ogni istante; nel conoscere che nulla possiamo senza di Lui e che per conto nostro non abbiamo meritato da Lui che la sua disgrazia. Essa consiste tutta nel riconoscere che sussiste una opposizione insuperabile tra noi e Dio e che, senza un mediatore, un commercio fra i due remotissimi termini è impossibile. Ché in verità, tutta la fede consiste nel Cristo e in Adamo, e tutta la morale nella concupiscenza e nella grazia. Ben strano, evidentemente, il cristianesimo! Esso impone all'uomo di riconoscere di essere vile, abbominevole anzi, e in pari tempo gli comanda di essere simile a Dio. Senza lo scambievole contrappeso, l'elevazione lo farebbe orrendamente vano, o l'abbassamento lo renderebbe terribilmente abbietto. Ma in tale stranezza, la sua forza. E la sua vivente necessità.

Tutta la vita è un impegno. E allora vediamo. Poiché è necessario fare una opzione, vediamo ciò che interessa meno.

«Abbiamo due cose da perdere: il vero e il bene, e due cose da impegnare, la ragione e la volontà, la conoscenza e la beatitudine. E la natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La ragione non è piú vulnerata scegliendo l'uno o l'altro partito, dal momento che è giocoforza scegliere. Ecco un punto votato. Ma la beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita... Guadagnando, si guadagna tutto: se si perde non si perde nulla. Impegnamoci dunque per l'esistenza di Dio, senza esitazione. Ma forse si punta troppo. Vediamolo. Poiché v'è uguale rischio di guadagno o di perdita, qualora non ci fossero che da guadagnare due vite invece di una, voi potreste sempre puntare. Ma se ve ne fossero tre da guadagnare, data la necessità del giuoco, sarebbe imprudente non porre all'azzardo la propria vita per guadagnarne eventualmente tre. Di fatto, v'è una eternità di vita e di felicità. Ciò posto, qualora ci fossero un numero infinito di combinazioni di cui una sola a nostro favore, sarebbe sempre ragionevole puntare uno per avere due. E pure quel che giochiamo è finito». E questa circostanza cancella le ultime possibili esitazioni. Decidiamoci dunque per la fede nel destino immortale. Saremo fedeli, onesti, umili, riconoscenti, benefici, amici schietti e leali. Non saremo nei piaceri appestati, nella gloria, nelle delizie; ma non avremo altre gioie in cambio? Ne guadagneremo anche in questa vita. E a ogni passo che muoveremo, in questo sentiero, scopriremo progressivamente tanta certezza nella vincita e tanta nullità in quel che azzardiamo, che riconosceremo alla fine di avere scommesso per una realtà certa e infinita, offrendo in cambio un soffio ed un nulla.

«Gesù soffre nella sua passione i tormenti che procurano gli uomini: ma nell'agonia soffre i tormenti che Egli procura a se stesso: turbare semetipsum. Ecco un supplizio di mano non umana, ma onnipotente: ché non occorre meno della onnipotenza per sopportarlo. Gesù chiede un barlume di consolazione ai suoi tre piú cari amici, almeno. Ed essi dormono. Li scongiura di vegliare un po' con lui, ed essi lo abbandonano, con una disinvoltura unica, con in cuore cosí esigua pietà, che non riesce neppure a trattenere per un istante solo il loro sonno. Cosí Gesù è abbandonato solo alla collera di Dio. Gesù rimarrà agonizzante fino alla fine del mondo: bisogna guardarsi dal dormire in questo tempo. Gesù, nell'abbandono universale, nell'abbandono degli amici prescelti perché veglino su lui, trovandoli a dormire, se ne rammarica per il pericolo a cui essi espongono, non già lui, bensí se stessi, e li fa consapevoli della loro propria salvezza e del loro vero bene con una tenerezza cordiale che fa duro contrasto con la loro ingratitudine, e li avverte che lo spirito è pronto ma la carne inferma. Gesù prega nell'incertezza della volontà del Padre e teme la morte. Ma quando la vede in faccia, le si fa incontro: Eamus. Processit. Gesù ha pregato gli uomini: non ne è stato esaudito. Gesù ha operato la salvezza dei discepoli, mentre essi dormivano. Ha fatto il medesimo per ciascuno dei giusti, mentre dormivano; nel nulla prima della loro nascita, nei peccati dopo. Gesù implora una volta sola che il calice si allontani, e lo fa con parole di sottomissione; ma due volte implora che il calice venga, se è necessario. Gesù, scorgendo gli amici addormentati e i nemici all'erta, si abbandona tutto al Padre. Gesù non scopre in Giuda il suo senso di ostilità, ma l'ordine di quel Dio che vi ama, e lo confessa; poiché lo chiama amico. Gesù si strappa ai suoi discepoli per entrare in agonia. Occorre strapparsi ai piú vicini e ai piú intimi per imitarlo. Poiché Gesù è in agonia e nelle piú inenarrabili pene, preghiamo piú a lungo. – Consòlati! Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato. Io ho pensato lungamente a te, durante la mia agonia, e per te ho versato quelle tali gocce di sangue. Val piú un tentar me che sottoporre te a prove, domandarti se faresti bene la tale o la talaltra cosa assente: io la farò in te, all'occasione. Làsciati condurre dalle mie regole e vedi come bene io ho manodotto la Vergine e i Santi che mi hanno lasciato operare in loro. Il Padre ama tutto quello che io faccio. Vuoi tu che ci rimetta sempre del sangue della mia umanità senza una tua lagrima? È affar mio la tua conversione; non temere, e prega con fiducia, come per me».

Molti secoli prima di Pascal, un predicatore religioso, che era anche un immaginoso poeta, aveva anch'egli concepito Gesù come l'eterno agonizzante nel mondo, come il rivelatore del mistero del dolore, della morte, dell'abiezione.

Ogni potente esperienza religiosa è latentemente dualistica. Poiché la realtà «numinosa» che sollecita e stimola la tendenza dello spirito a reagire ad essa, esercita in pari tempo una contrastante azione di seduzione e di repulsione, in quanto è insieme letificante e terribile, ogni piena religiosità si polarizza verso una raffigurazione del supremo bene e una rappresentazione fantastica dell'estremo male. Ma appunto perché l'una e l'altra contribuiscono solidalmente alla genesi e allo sviluppo del senso religioso, non possono essere nazionalmente sdoppiate, senza che di rimbalzo non ne sia ottusa e dissipata la composita esperienza del Sacro.

Lo sdoppiamento delle attitudini deve coesistere nella complessità dell'unica esperienza spirituale e deve risolversi nella pratica «agonistica» dell'incessante rinnegamento di sé, per la conquista di sé, nella ininterrotta cancellazione dell'io titanico nell'io divino, nell'inesausto sforzo di superamento del caduco che è nell'io empirico, per il conseguimento dell'assoluto che è nel trascendente.

La forma suprema della religione è alogica per definizione, nel campo della riflessione astratta; e categorica e intransigente nel campo della disciplina morale. E il cristianesimo è questa forma suprema della religione. Tutte le religioni e le sètte del mondo hanno prescelto a guida la ragione naturale. I cristiani solamente sono tenuti ad attingere le loro leggi fuori di se stessi, ad informarsi di quelle che Gesù Cristo ha lasciato, per essere trasmesse ai fedeli.

La speculazione razionale e lo spirito casistico sono i naturali nemici della religiosità pura. I traduttori concettuali della rivelazione e i moralisti del probabilismo, che si illudono di aver distrutto la peccaminosità di una azione sottoponendola a dubbio, sono i genuini avversari del Vangelo. Per supremo affronto al Cristo che agonizza incessantemente nel mondo, questi addormentati al suo fianco hanno usurpato il suo nome.

Uno spirito come Pascal, che aveva cosí ferocemente fustigato la mediocrità universale; che aveva cosí duramente calpestato gli idoli trionfanti; che aveva cosí violentemente malmenato le mode dominanti; non poteva riscuotere consensi schietti e solidarietà consapevoli.

Come il vecchio apologista Tertulliano, Pascal fa spavento agli ortodossi, dà fastidio agli eterodossi. Sulla sua tomba sopravvissero gli odî della reverenda Compagnia di Gesù: sghignazzò l'irrisione del razionalismo, che è sempre l'immancabile alleato del gesuitismo.

Come avrebbe potuto suscitare echi di compiacimento incondizionato e formule di adesione completa il proclamatore della irrimediabile perversione dell'uomo, in un'età che andava affidandosi sempre piú alla celebrazione dell'assoluta, sovrana, inoffuscabile bontà di tutte le umane capacità e di tutti i naturali istinti?

Pur ammirando il genio matematico di Pascal, Leibniz gli rimproverava di aver soggiaciuto passivamente ai pregiudizi di Roma e di aver infirmato la lucidezza della sua intelligenza con le eccessive austerità ascetiche. Voltaire non farà che spingere al paradosso il medesimo giudizio, definendo Pascal un pazzo sublime, nato un secolo troppo presto, perduto dietro la chimerica pretesa di insegnare all'uomo ad essere piú che uomo. Curando l'edizione dei Pensées, Condorcet rimproverava crudamente a Pascal di essersi lasciato sopraffare dalla superstizione. Andrea Chénier gli imputa a colpa imperdonabile l'aver adoperato un genio eccezionale a bistrattare il buon senso e a ribellarsi alla legge del dubbio, l'aver nascosto l'orgoglio suo arrogante sotto le parvenze dell'umiltà. Come se il genio non sia per definizione lo sconquassamento del buon senso e come se il supremo orgoglio non sia appunto l'umiltà.

Ora, non è davvero una coincidenza fortuita che il piú sottile e coerente interprete di Pascal, il piú personale ermeneuta della sua visione umana, sia oggi un critico russo, Leone Chestov, che ha affidato il suo nome a due rapidi scritti di critica, l'uno racchiudente l'esegesi della notte del Getsemani, in cui Pascal vide il simbolo della storia; l'altro consacrato all'analisi del messaggio che Tolstoi e Dostoievski hanno enunciato nei loro romanzi.

Descartes è l'incubo di Pascal. Nei Pensées è formulato una volta il proposito: «Scrivere contro coloro che approfondiscono troppo le scienze». E il nome dell'autore del Discorso sul metodo è esplicitamente collegato con esso. Pascal stesso confessò piú apertamente la sua irriducibile ostilità: «Io non posso perdonare a Descartes. In tutta la sua filosofia, egli ha cercato di poter fare a meno di Dio. Ma non è riuscito a impedire a se stesso di fargli dare un buffetto, onde porre il mondo in movimento. Dopo di che, non sa piú che farne di Dio. Descartes è inutile e incauto».

La ragione profonda del dissidio incolmabile era nell'antitetico modo di concepire l'universo e la vita: alla geometrica in Descartes, all'etica in Pascal. «Quando un individuo», proclama quest'ultimo, «sia persuaso che le proporzioni dei numeri rappresentano verità immateriali, eterne e dipendenti da una prima verità nella quale esse sussistono, appellata Dio, io non vedo in che modo egli abbia fatto un gran passo sul sentiero della propria salvezza».

La filosofia invece, da Cartesio in poi, non ha vagheggiato che un ideale: quello di tradurre e d'esprimere in formule matematiche l'essenza riposta della creazione. Una verità unica, eterna e immateriale, da cui sgorghino, in virtú di una necessità naturale, copiose verità immateriali ed eterne esse pure: ecco, osserva il Chestov, una definizione eccellente della finalità cui ha voluto tendere la filosofia moderna. È vero: ancora oggi, a trecento anni da Descartes, gli uomini non hanno percorso un passo solo verso l'attuazione completa del loro ideale. Ma questo ideale evanescente è loro caro ugualmente. Pascal invece lo impugna con brutalità: quand'anche fosse conquistato, non aiuterebbe e non agevolerebbe di un grammo, secondo lui, il conseguimento della spirituale salvezza.

Ma oggi, Pascal redivivo si vedrebbe beffeggiato in viso. Di qual salvezza mai è consentito parlare al di fuori di quella che l'uomo celebra nello svolgimento sempre piú consapevole della sua spiritualità o che l'umanità realizza nel progressivo suo ascendere fuori della incoscienza e della barbarie?

Ecco dove il dissenso tra speculazione razionale ed esigenza religiosa, fra Descartes e Pascal, scoppia insolubile. Pur quando parla il linguaggio della filosofia, Pascal è agli antipodi dei filosofi. La riflessione cogitante, la morale autonoma, promettono all'uomo una visione irenica e atarassica dell'universo e di se stesso: visione comoda e borghese, che consente alla perversione pubblica e alla tirannia sociale di infierire senza freni e senza sanzioni. Di quella tranquillità posticcia ed egoistica, Pascal non sa che farne. Per lui, essa vale propriamente il nulla e la morte. La sua metodica è un'altra: cercare fra i gemiti. Spinoza inorridirebbe, egli che ha proclamato unico scopo della vita: «Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere». Pascal raccomanda un'altra consegna: ridere fino al cachinno (dalla sua risata omerica la Compagnia di Gesù sente ancora salire il rossore alle gote), piangere fino alla disperazione (l'agonia di Gesù è un pianto di sangue), odiare fino al parossismo (nessun odio adeguerà il male fatto al mondo dalla ragione presuntuosa e dalle convenzioni codificate). In cambio, Pascal promette la salvezza.

Il suo programma è stato sconfitto dallo sviluppo della spiritualità moderna? Si potrebbe rispondere affermativamente giudicando dalle apparenze. Nessuna età come la nostra, complici la filosofia e il gesuitismo, sembra avere esaltata di piú la ragione, che Pascal bollò come impotente, e la natura, che egli sbeffeggiò come imbecille. Ma è un'apparenza. Se come rappresentazione di vita e come indice di una situazione spirituale un romanzo val piú di un trattato filosofico o di un saggio di casistica, noi possiamo ben dire che i problemi che assillarono l'inquietudine di Pascal sono alle prese con le forze piú profonde della nostra spiritualità subcosciente.

«Cosa veramente meravigliosa», egli scrisse una volta, «che il mistero piú remoto dalla nostra capacità di conoscenza, il problema cioè della trasmissione del peccato, sia una realtà senza raggiungere la quale noi siamo nella impossibilità di conoscerci in qualsiasi maniera. In verità nulla potrebbe offendere piú duramente la nostra ragione di questa proposizione: che il peccato del primo uomo abbia reso colpevoli coloro che, di tanto lontani da una simile sorgente, sembrano funzionalmente incapaci di parteciparne. Una simile deduzione non solamente ci suona impossibile, bensí anche superlativamente ingiusta. Poiché nulla di piú contrario alle regole familiari della nostra miserabile giustizia che il condannare eternamente un infante incapace di volontà, per un peccato al quale egli sembra avere cosí poca parte, dal momento che è stato commesso seimila anni prima che egli fosse in essere. In verità nulla ci offende piú rudemente di questa dottrina. E pure, se prescindiamo da questo mistero, il piú incomprensibile di tutti, noi diveniamo irrimediabilmente incomprensibili a noi stessi. Il groviglio della nostra condizione attinge i suoi nodi in questo abisso, e l'uomo è molto meno comprensibile senza questo mistero, di quel che questo mistero non sia incomprensibile all'uomo».

La dottrina dell'ereditarietà non è che un'informe e depauperata trascrizione intellettualistica del dogma del peccato di origine. Ma che nessuna trascrizione cosiddetta scientifica di questo dogma sia riuscita ad annullarne il valore trascendente e la portata «numinosa», traspare dal fatto che il problema ad esso soggiacente sollecita ancora – piú sottilmente che mai, anzi – i grandi artisti, i quali sono, per definizione, i mezzi di trasmissione e di espressione delle esperienze associate e traggono i dati dalla vita per consegnarli trasumanati al monito dei profeti. Dostoievski ha dato alla letteratura moderna uno dei suoi capolavori, quando ha ritratto il duello epico che Sodoma e Gerusalemme – secondo la frase di uno dei protagonisti dei Fratelli Karamazov – combattono perennemente in ciascuno di noi. Il giorno in cui quel duello, in che è la radice della vita e della storia, da motivo di contemplazione estetica sia tornato ad essere motivo normativa della visione globale del carattere sacro del mondo, Pascal celebrerà la sua piena rinascita.

Egli ha scritto: «Il peccato originale è follia al cospetto degli uomini, ma è professato apertamente come tale. Pertanto voi non mi dovete, a proposito di questa dottrina, far rimprovero di difetto di ragione. Poiché sono io il primo a dichiararla priva di ragione. Ma simile follia è piú sapiente che tutta la sapienza degli uomini: sapientius est hominibus. Poiché senza una dottrina di questo genere che cosa mai si potrebbe dire che è l'uomo? Il suo essere è, tutto, in funzione di questo punto impercettibile. Ed egli sarebbe stato nella impossibilità di rendersene conto a norma di ragione, poiché si tratta di una realtà contro la ragione. E la ragione, lungi dal poterla escogitare attraverso le sue vie normali, se ne allontana non appena le si offra».

Questo sí che si chiama strappare l'essenza intima dell'esperienza del Sacro ai simulacri menzogneri e posticci della piatta ragionevolezza («come mi è caro di vedere la ragione superba umiliata e supplichevole!») e riportarla alle fonti imperscrutabili della vita subcosciente («noi ardiamo dal desiderio di rinvenire una positura solida e una definitiva base costante, per innalzarci su una torre capace di slanciarsi all'infinito. Ma tutte le nostre fondamenta crollano e la terra si spalanca fino agli abissi. Non cerchiamo dunque mai sicurezza e fermezza»).

Molti secoli prima di Pascal, Tertulliano aveva scritto anche lui: Crucifixus est Dei filius; non pudet, quia pudendum est. Et mortuus est Dei filius: prorsus credibile est, quia ineptum est. Et sepultus resurrexit: certum est, quia impossibile. Dio è profondamente vissuto, quando l'uomo dimentica la sua pretesa ragionevolezza e calpesta gli idoli delle idee chiare. «La piú crudele guerra che Dio possa dichiarare agli uomini in questa vita, è quella di lasciarli senza quella guerra che Egli è venuto a portare fra loro».

L'assurdo, il paradosso, l'implacabile tormento dell'agonia: ecco il retaggio della religione e del Vangelo. L'abbate Boileau ha raccontato di Pascal che «egli credeva di scorgere sempre un abisso alla propria sinistra e che per rassicurarsi, vi faceva porre costantemente una seggiola... i suoi amici, il suo confessore, non ristavano dal dirgli che nulla vi era da temere, che si trattava unicamente degli allarmi di una fantasia logorata da uno studio astratto e metafisica. Egli dava loro ragione, ma un quarto d'ora più tardi rispalancava dinanzi ai propri occhi l'abisso che lo spaventava». È impossibile controllare il racconto del Boileau. Ma esso ha ad ogni modo un preciso valore simbolico. Pascal stesso ha scritto: «Noi corriamo senza preoccupazione nel precipizio, dopo aver posto dinanzi ai nostri occhi qualcosa che ci impedisca di vederlo». Il pensiero e le consuetudini sono l'ostacolo sollevato dalla pigrizia e dal timore degli uomini onde nascondere il precipizio su cui siamo pencolanti e corrervi cosí all'impensata. Pascal ha preferito guardarlo in volto, anche se ciò dava la possibilità delle vertigini.

La religiosità, del resto, è una vertigine dell'anima. E il cristianesimo è la religione perfetta e invalicabile, perché ha esasperato fino al parossismo l'ebbrezza delle vertigini, verso cui si protende l'istinto «numinoso» dell'uomo.

L'ortodossia, asservita ormai allo spirito della Compagnia di Gesù, fu reiteratamente implacabile contro questa reviviscenza agostiniana che fu il giansenismo.

C'è da domandarsi se da tre secoli a questa parte la progressiva disfatta della causa cristiana nel mondo non è la lenta, agonizzante espiazione di quella implacabilità.

Share on Twitter Share on Facebook