VIII LA RIVOLUZIONE FRANCESE

La rivoluzione francese è, dal punto di vista della spiritualità cristiana in evoluzione, una uraganica esplosione di religio irreligiosa. Anche la irreligiosità assume a volte forme demoniche, vale a dire pseudoreligiose, con tutto l'apparato di quella grandiosità e di quella prodigiosa pompa esteriore, che già San Paolo diceva essere nell'armamentario di Satana.

Con la sua sagacia valutativa, il Tocqueville aveva già intravvisto questo. Egli ha scritto infatti: «La rivoluzione francese è una rivoluzione politica, che ha operato con i modi, e in qualche cosa ha preso l'aspetto, di una rivoluzione religiosa. Guardate attraverso quali segni particolari e caratteristici giunge a rassomigliarvi completamente: non soltanto si diffonde lontano come quelle, ma come esse penetra con la predicazione e la propaganda. Una rivoluzione politica che ispira il proselitismo ed è predicata tanto ardentemente agli stranieri quanto appassionatamente è attuata in patria, è davvero uno spettacolo nuovo. Fra tutte le cose sconosciute che la rivoluzione francese ha mostrato al mondo, questa è certamente la piú nuova... Le antiche religioni pagane, che erano tutte piú o meno legate alla costituzione politica o alle istituzioni sociali di ogni popolo e conservavano fin nei loro dogmi una certa fisionomia nazionale e spesso municipale, si sono ordinariamente circoscritte nei limiti di un territorio, dal quale non uscirono. Qualche volta produssero l'intolleranza e la persecuzione, ma il proselitismo fu loro quasi intieramente sconosciuto. Cosí non vi furono grandi rivoluzioni religiose nel nostro Occidente, prima dell'avvento del cristianesimo. Passando facilmente attraverso le barriere che avevano arrestato le religioni pagane, esso conquistò in poco tempo gran parte del genere umano. La rivoluzione francese ha operato in rapporto a questo mondo, come le rivoluzioni religiose agiscono in vista dell'altro. Ha considerato il cittadino in un modo astratto, fuori di ogni particolare società: cosí le religioni considerano l'uomo in genere indipendentemente dal paese e dal tempo. Essa non ha cercato soltanto quale fosse il diritto particolare del cittadino francese, ma quali fossero i diritti e i doveri generali degli uomini in materia politica. Dalla rivoluzione, la religione cristiana fu attaccata con una specie di furore, senza neppur tentare di mettere al suo posto un'altra religione. Si lavorò di continuo e con ardore a togliere dalle anime la fede che le aveva colmate, lasciandole vuote. Moltissimi furono quelli che si infervoravano in questa ingrata impresa. La incredulità assoluta in materia di religione, che è tanto contraria agli istinti naturali dell'uomo e pone l'anima sua in una posizione tanto dolorosa, parve attraente alla folla. Quello che fino allora aveva prodotto solo un languido malessere, vi generò questa volta il fanatismo e lo spirito di propaganda».

In tutto questo largo passo del Tocqueville vi è molto di vero, ma non vi è tutto il vero. Manca soprattutto alla visione dell'esperto storico e sociologo francese la familiarità con i principî che avevano retto attraverso quasi due millenni la storia civile della vita cristiana. Non è vero che soltanto il cristianesimo consideri l'uomo al di fuori di ogni contrassegno etnico o nazionale. Anche lo stoicismo faceva lo stesso. Ma non è neppur vero che tutte le religioni abbiano cercato di guidare l'uomo in vista di un al di là trascendente e inattuabile da forze umane. Come noi abbiamo visto attraverso questa lunga ricostruzione storica, la grande originalità del cristianesimo è stata quella di muovere la massa umana verso una forma superiore di vita associata, mercè lo spiegamento fascinans di un Regno trascendente di Dio, che può e deve essere il risultato unico e assoluto di un intervento soprannaturale. Finché l'elemento fascinans era stato prevalente nella trasmissione dell'eredità cristiana, la efficacia sociale e collettiva del cristianesimo stesso si era conservata intatta. La decadenza del cristianesimo era cominciata il giorno in cui gli elementi escatologici, vale a dire di natura finalistica e trascendentale, della esperienza cristiana, erano stati depauperati e neutralizzati da elementi diciamo cosí causalistici, attingenti cioè il problema delle cause e delle origini dell'universo, anziché quello della sua destinazione finale, il giorno cioè in cui la speculazione metafisica e la dialettica razionale si erano insediate sul terreno della riflessione religiosa e della collettiva comunicazione ecclesiastica, in vista della solidale fede in Dio e nella sua rivelazione.

Per quanto possa apparire superficialmente eccentrico, paradossale e magari ingiusto il nostro giudizio, noi, alla luce di quanto siamo venuti esponendo fin qui, dobbiamo riconoscere, come già abbiamo insinuato, che le origini remote dell'Illuminismo, che è il presupposto teoretico della Costituente, vanno ricercate molto lontano, in quel giorno in cui un monaco insigne, nella solitudine meditante della sua cella, credé di poter fare di Dio e del suo mistero ineffabile un oggetto ed un termine infallibile di dimostrazione concettuale.

Guai ad aprire il varco nella contemplazione mistica alle sottili trame del pensiero ragionante! Si apre il varco all'insidia e al pericolo. E la ragione, assisasi al posto di Dio, crederà di poterne surrogare la funzione e il magistero.

Se la rivoluzione francese ha qualcosa di quella parodistica contraffazione del divino che è il segno di Satana, ciò è dovuto precisamente al fatto che la ragione fatta autonoma e creatrice scatena nell'uomo gli istinti piú brutali in una forma orgiastica di sfrenatezza e di ebbrezza.

Uno dei segni riconoscibili del carattere, diciamo cosí per antifrasi, religioso, della rivoluzione francese, è in uno stesso particolare di fatto, che non può mancare di suscitare meraviglia. E questo dato di fatto è il seguente. È caratteristico dei grandi movimenti iniziali, spirituali e religiosi, genuini o parodistici, il suscitare tale vasta commozione di spiriti da dar luogo a vere pleiadi di anime eccezionali, che gettano il bagliore delle loro impareggiabili esperienze su tutta un'epoca storica. Il cristianesimo primitivo, come il primitivo francescanesimo, aveva conosciuto tutta una folla di spiriti, veramente fuori del comune, ai quali la temperie suscitata dal primo messaggio dovette opere rimaste cosí memorabili e in pari tempo cosí affini, che ne risultarono poi dubbia la paternità e, si potrebbe dire, intercomunicanti gli atteggiamenti.

La rivoluzione francese non presenta forse nelle sue varie fasi, dagli Stati Generali dell'89 alla svolta della decisiva giornata del 18 brumaio, una schiera veramente eccezionale di figure di prima grandezza, la cui eccezionalità però non è, come nei genuini movimenti religiosi, in un fulgore unico di bontà e di spiritualità, ma è in un abissalmente crudele sfondo di odi disumani e di violenze inconcepibili?

Ma c'è un tratto piú caratteristico ancora nello svolgimento della rivoluzione francese che ci interessa in maniera particolare ed è la funzione dei provenienti dal sacerdozio cattolico nella prima esplosione del movimento rivoluzionario.

Gli Stati Generali da cui doveva uscire la rivoluzione erano convocati, per le ben note ragioni finanziarie, da Luigi XVI, e si inaugurarono a Versaglia i1 5 maggio 1789. Non hanno bisogno di essere ricordate le questioni a proposito delle quali si delinearono i primi forti dissensi. Si sarebbe votato per Ordini o individualmente, e l'assemblea avrebbe costituito tre Camere separate col clero, la nobiltà, il Terzo Stato, o avrebbe preferito una sola adunanza per deliberare in comune? Ed ecco che compaiono sul proscenio della politica le prime figure di preti. L'abbate Emanuele Sieyès, che già nella campagna per la preparazione degli Stati Generali si era rivelato pubblicista di prim'ordine con i suoi libelli: Vues sur les moyens d'exécution dont les représentants de la France pourront disposer e Essai sur les privilèges, svolge un'azione preminente nell'attività degli Stati con la propagazione delle idee che egli aveva già formulato nel terzo suo e piú famoso libello: Qu'est-ce que le Tiers-Etat? Si sa come egli rispondesse a questo quesito. Il Terzo Stato era stato nulla, cominciava ad esser qualcosa: avrebbe dovuto esser tutto, cioè la nazione intera.

Non si può fare a meno di ricordare, nei lontani tempi del Medioevo cadente, una predicazione religiosa che aveva pure parlato di un Terzo Stato: la predicazione di Gioacchino da Fiore. Ma allora, nel sogno apocalittico del Veggente calabrese, l'idea del Terzo Stato non aveva un valore spaziale e, diciamo cosí, di casta e di classe, ma aveva soltanto e sublimemente un valore temporale. Il Terzo Stato non era una categoria di cittadini, vagheggiante il predominio politico sulle altre, ma era quella età nuova dello Spirito Santo, in cui tutti gli uomini e tutte le classi avrebbero finalmente, per l'intervento salutare di Dio, trovato pace, lavoro e giustizia. Tommaso d'Aquino aveva irriso al sogno fatidico del solitario della Sila, che pure non aveva fatto altro che rimanere fedele a quella interpretazione del dogma trinitario che era stata cara a scrittori cristiani antichi, come Tertulliano ed Ippolito Romano. Se sussistono nella natura divina un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo, non devono logicamente esistere anche tre epoche storiche, corrispondenti ciascuna al governo specifico di ciascuna delle tre divine persone? E il Terzo Stato, lo Stato cioè dello Spirito Santo, non è il sogno affascinante della fede e della speranza cristiane?

Il sogno dell'apocalittista calabrese era stato soffocato dalla alluvione della speculazione teologica. Il cristianesimo ne aveva sofferto inenarrabilmente.

Ora dal clero francese, su cui si era esercitata la corrosione spietata della campagna antigiansenistica e della casistica razionalistica del gesuitismo, uscivano preti i quali credevano di poter rimanere fedeli al loro sacerdozio, anzi di esplicarne la vocazione migliore, occupandosi di problemi politici e di rivendicazioni sociali.

Tristissimo sintomo quello di una Chiesa costituita, la quale dimentica che alla base della predicazione evangelica sta la consegna precisa, tassativa e perentoria di cercare il Regno di Dio e la sua giustizia unicamente ed esclusivamente, sapendo che tutto il resto viene da sé!

Né ci si dica qui che in quella parte di clero che si dimostrò sempre piú favorevole alle rivendicazioni della rivoluzione francese spesseggiarono i giansenisti: basta pensare a un Grégoire e a un Camus. Ché è facile la risposta. Si trattava di truppe leggere di retroguardia, anzi, diciamo meglio, di ultimi manipoli di un esercito sconfitto. Ed è singolare, ma facilmente constatabile legge della evoluzione cristiana nella storia, che i manipoli dei dispersi e dei vinti dalla autorità curiale vadano sempre a rinforzare, si direbbe quasi per spontanea rivalsa, o vòlti alla ricerca di un diversivo e di un appoggio di fortuna, i partiti anticuriali: da frate Elia da Cortona che si rifugia alla corte di Federico II, agli spirituali francescani che cercarono protezione alla corte di Ludovico il Bavaro, fino ai seguaci di Giovanni Huss. La politica, l'economia sociale sono, si direbbe, i succedanei e i derivati e i cascami dell'attività religiosa impedita e perseguitata, con il funesto e vendicativo e reintegrativo risultato che, gettandosi nelle agitazioni politiche, nelle rivendicazioni sociali, nelle partigianerie statali, gli amareggiati transfughi della milizia religiosa e cristiana si costituiscono avversari implacabili, anche se non sempre consapevoli, di quella autorità curiale, che ha conculcato in loro le prime aspirazioni, e vulnerato la superiore vocazione.

Gli Stati Generali sarebbero mai sboccati nella Costituente, con tutta quell'incalcolabile serie di conseguenze che questo sbocco portò con sé, se agli Stati Generali tre parroci del Poitou non avessero disertato l'Ordine del clero per andare verso il Terzo Stato, e se l'abbate Sieyès non avesse fatto la proposta di trasformare gli Stati in una assemblea nazionale? Non dobbiamo occuparci qui degli atti legislativi compiuti da questa assemblea, se non per quello che riguarda la vita della Chiesa francese e le riforme profonde introdotte in essa. La Costituente dura due anni e cinque mesi, dal 5 maggio '89 al 30 settembre '91 . Ma nella congerie dei decreti emanati, uno ebbe ripercussioni immense nelle sorti della Chiesa di Francia, e fu la Costituzione civile del clero, emanata il 22 luglio 1790. Qui, sí, le idee dell'Illuminismo signoreggiano in pieno. Non si tratta affatto di separare la Chiesa dallo Stato. Non si tratta affatto di perseguitare la religione e di attentare alle sorti del cristianesimo. Quel clero che ha preso, si potrebbe dire, l'iniziativa della fusione dei tre Stati in un sol corpo legislativo; che ha portato il Terzo Stato al suo trionfo incondizionato e alla sua identificazione totalitaria con la nazione, non ha bisogno di altro che di essere inquadrato perfettamente nella cornice della nuova nazione francese, perché sia quel che deve essere in una visione illuministica della società, strumento cioè e veicolo di «illuminazione» e di «elevazione» collettive. Il clero, in virtú di tale Costituzione, assumeva la veste giuridica e morale di un corpo di impiegati civili eletti come tutti gli altri, investiti di pubblici poteri e stipendiati dallo Stato. Non vi sarebbero piú stati voti monastici o diritti papali alla investitura spirituale. La Chiesa assumeva connotati, diciamo cosí, laici, e i preti dovevano tutti prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione. La Costituente veniva pertanto a distruggere alla radice l'organizzazione politica della Chiesa francese, rea in passato di aver troppo largamente fornicato con la corte e con i signori, rea di avere già per suo conto mondanizzato e profanizzato le mansioni dello Spirito. Si pensi come poteva essere chiamato alla carriera ecclesiastica un uomo come Talleyrand! La Costituente recideva bruscamente i vincoli tra la Chiesa di Francia e Roma, vincolandola col sistema elettivo alla causa della democrazia. E poiché il bilancio dello Stato era in uno spaventoso stato di carenza e la proprietà ecclesiastica si era enormemente impinguata, come suole succedere ogni volta che i poteri costituiti, per ingraziarsi i rappresentanti della religione, permettono alla manomorta di dilatarsi all'infinito, la Costituente, secolarizzando il ceto ecclesiastico, ne confiscò la proprietà, che fu devoluta alla collettività nazionale, come erede della sovranità reale. Si venne cosí a creare tutta una immensa rete di piccoli proprietari, acquirenti della soppressa proprietà ecclesiastica, che costituirono poi il nerbo e l'ossatura della nuova società francese rivoluzionaria.

Per la prima volta nella storia del cristianesimo, dall'epoca di Costantino e della sua politica filocristiana, la Chiesa rientrava cosí in una visione puramente umanistica e quindi paganeggiante della vita associata. Era ridotta alle norme del diritto comune, senza che si tenesse alcuna considerazione delle sue mansioni spirituali e dei suoi poteri carismatici. Altri paesi avevano conosciuto insurrezioni contro Roma e quindi di rimbalzo persecuzioni anticattoliche. L'Inghilterra, con la politica di Enrico VIII e dei suoi successori, specialmente in Irlanda, ne aveva dato esempi memorandi e tragici. Ma qui, nella Francia della rivoluzione, la situazione era completamente diversa. Là un sovrano o un dittatore come Cromwell infieriva contro individui o contro collettività ree di non conformarsi a formule di fede imposte con la forza, che si pretendevano cristiane. Qui un governo che sembrava uscito dalla volontà popolare, che anzi aveva avuto la sua prima origine nel pronunciamento del basso clero unitosi al Terzo Stato, pretendeva, in nome di quella ragione che aveva retto le Costituzioni illuministiche, di ridurre l'Ordine ecclesiastico ad una pura funzione civile. Il giuramento imposto ai preti dalla Costituzione civile del clero era cosí formulato: «Giuro di vigilare con cura sui fedeli della diocesi (o della parrocchia) che mi è stata confidata, di rimanere fedele alla nazione, alla legge e al re, di mantenere, per quanto nelle mie possibilità, la Costituzione decretata dall'Assemblea nazionale e dal re accettata».

Pio VI condannò recisamente tale giuramento, vietando con ciò al clero francese di pronunciarlo. E ne nacque quella divisione profonda tra clero giurato e clero non giurato, che rappresentò uno degli elementi piú drammatici nella Francia della rivoluzione e determinò nella vita intima di tutta la Chiesa ripercussioni incalcolabili.

Dalle viscere piú profonde della tradizione cristiana in terra di Francia eruppe allora una capacità di resistenza spirituale che annoverò pagine di martirio. In complesso, la situazione si delineò carica dei piú contraddittori elementi e delle piú singolari posizioni.

La Chiesa aveva abusato del suo potere. Con l'Inquisizione aveva esercitato le piú anticristiane persecuzioni contro i dissidenti da quella formulazione dogmatica della fede cattolica che aveva trovato, dalla scolastica in poi, una sistemazione ritenuta definitiva. La Chiesa aveva piú o meno palesemente e piú o meno solennemente tenuto mano e approvato quelle persecuzioni ufficiali contro i dissenzienti, che avevano avuto una volta, nella famosa notte di San Bartolomeo, una espressione barbaramente cruenta.

Oggi, proprio in nome di quella ragione alla quale la Chiesa ufficiale aveva per prima fatto appello, con l'illusione di rendere cosí il suo magistero invulnerabile e la sua autorità irresistibile, una collettività nazionale si assumeva il còmpito di legiferare in materia ecclesiastica e di tenere sotto di sé, al proprio servizio, le autorità e i poteri del clero. La resistenza da parte della gerarchia cattolica a queste usurpazioni civili non avrebbe potuto essere giustificata che in nome dei principi evangelici, risalenti molto al di là di quelle sfere razionali nelle quali la teologia ufficiale aveva trasportato le sue assise e dalla quale ora sorgevano le persecuzioni e le aggressioni. Ma la Chiesa stessa, cosí profondamente mescolata agli interessi della terra e alle forme naturali dell'umano pensiero, non avrebbe avuto la forza di mantenersi sulla linea di una intransigente resistenza, e dopo avere condannato il giuramento della Costituente sarebbe stata molto piú cedevole d'ora in poi, nel concedere, sotto l'impulso di considerazioni politiche, la liceità di altre formule di giuramento, che non avrebbero mancato di essere anch'esse espressioni di dedizione servile.

Ad ogni modo restò il fatto che il tentativo della Costituente, mirante alla creazione di una specie di cattolicesimo nazionale, scisso da Roma, e trasformato attraverso il principio della sovranità popolare applicato all'elezione dei preti e dei vescovi, fu frustrato dalla resistenza dei vescovi, che trascinarono con loro una porzione del clero e con esso una parte cospicua della popolazione credente. Per due anni la rivoluzione si ostina a mantenere tale Costituzione, rifiutando ai dissidenti, rimasti fedeli a Roma, quella libertà e quell'uguaglianza dei culti che essa non aveva affatto inserito nella dichiarazione dei diritti dell'uomo, dove non si era parlato che di tolleranza.

Se, come abbiamo visto, l'Illuminismo aveva permesso alla prima affermazione della Costituente di ritenere che fosse possibile ridurre a sua mercè la tradizione religiosa della storia di Francia facendo rientrare il clero nel novero delle mansioni civiche, l'illusione si rivelò fatua e vana. Si può dire che l'illusione era destinata a naufragare come tutte le altre illusioni coltivate dagli Stati Generali e dalla Costituente, sulla possibilità di conciliare monarchia e dichiarazione dei diritti dell'uomo, rivoluzione e tradizione monarchica e nobiliare. Dopo due anni e cinque mesi di effettiva durata la Costituente cedeva il posto all'Assemblea legislativa, la quale durava, dall'ottobre 1791, poco meno di un anno, fino al settembre del '92. Poiché l'Assemblea nazionale con decreto del 16 maggio 1789 aveva solennemente decretato che nessuno dei suoi membri avrebbe potuto far parte della successiva legislatura, l'Assemblea legislativa che prese il posto della Costituente risultò di una massa di quasi sconosciuti di cui, particolare straordinariamente significativo, piú che una decima parte, su 745 membri, era composta di preti aderenti alla Costituzione civile del clero e quindi ribelli a Roma. Si sa come questa Assemblea spingesse innanzi lo spirito pubblico francese verso le affermazioni antimonarchiche ed antiecclesiastiche.

Fra le ragioni che portavano ad uno stato di sempre piú minacciosa tensione i rapporti fra l'Assemblea e la monarchia, quella religiosa campeggiava in prima linea. Forse che il veto opposto da Luigi XVI al decreto tendente a privare di ogni stipendio e di ogni pensione i preti refrattari al giuramento, non determinò piú profondo screzio fra la corte e i membri dell'Assemblea? Le lotte in seno all'Assemblea tra Foglianti e Girondini non erano che il preludio di piú feroci lotte fra Girondini e Giacobini, questi ultimi impegnati fin d'ora, attraverso la stampa, in un sommovimento dell'opinione pubblica che doveva aprire le porte ai piú efferati eccessi. La debolezza della Assemblea legislativa al cospetto della Comune parigina permise che la Parigi dell'agosto 1792 conoscesse nel gennaio dell'anno successivo una caccia feroce al clero refrattario e un barbarico regicidio. Perquisizioni sfrontate furono in quell'agosto tragico compiute nei conventi, nelle cure parrocchiali, nelle case private, negli alberghi, negli ospedali, dovunque i rivoluzionari pensavano potessero essere rifugiati preti sospetti. Gli ex-conventi del Carmine, della famosa badia di San Germano dei Prati, il seminario di San Firmino, e altri edifici sacri, furono assegnati come luogo di prigionia a quanti membri del clero trovati a Parigi parvero indiziati di mancato giuramento civile.

Non esiste una documentazione esatta sul numero dei dignitari ecclesiastici di tutti i gradi della gerarchia che il 2 settembre del '92 subirono la morte per la loro inconcussa decisione di non sottostare all'imposizione delle autorità civili, ritenuta incompatibile con la professione cristiana e con la dignità sacerdotale dopo una esplicita sentenza ecclesiastica. Il Pontefice Pio XI ne innalzò 191 agli onori degli altari. Fu una consacrazione ufficiale di quel che sia il doveroso comportamento del clero di fronte alle esorbitanze dello Stato, in materia spirituale e religiosa. Ma fu d'altro canto la Chiesa stessa di Roma fedele all'atteggiamento assunto al cospetto del giuramento richiesto dalla Costituente?

All'Assemblea legislativa, scioltasi a pochi giorni di distanza dalle barbariche scene della Comune, succedeva la Convenzione nazionale. Il 10 agosto '92 l'Assemblea legislativa aveva lasciato cadere la monarchia costituzionale. La Convenzione proclamava senz'altro la repubblica. Le lotte dei partiti dovevano continuare in essa piú violente che mai, esasperate si può dire dalla minaccia che dall'Europa, coalizzata contro la Francia rivoluzionaria, veniva contro la ancora caotica e vulcanica situazione creata dalla rivoluzione e soprattutto dal regicidio. Il pericolo era veramente mortale. Come reagire e come resistere agli avversari interni e agli avversari esterni? La Convenzione procedette radicalmente. Mentre i preti giurati e costituzionali si stringevano ai Girondini, cercando di fare argine alla marea estremista, i Montagnardi, constatata la inattuabilità del sogno conciliatorista e civico consegnato nella Costituzione civile del clero, concentrarono i loro sforzi nel proposito di mettere i preti tutti, giurati e non giurati, nella impossibilità di costituire un qualsiasi fronte di resistenza al tirannico predominio dello Stato rivoluzionario. E chiusero le chiese. Ma, persistendo ancora nel presupposto e nel pregiudizio illuministici, che un qualsiasi culto fosse utile e fosse capace di sostituire i piú venerati riti della Chiesa cattolica, credettero di poter soppiantare la celebrazione della messa domenicale con liturgie civiche e profane, assegnate ad ogni decimo giorno in conformità al sistema metrico decimale introdotto per sostituire tutto quel che rappresentasse una traccia del passato. Il 5 ottobre 1793 la Convenzione, compiendo uno dei gesti piú irreligiosi della rivoluzione francese, approvava il calendario repubblicano, elaborato da una commissione di cui facevano parte, fra gli altri, il Lagrange e il Lalande. La nuova êra repubblicana era cominciata, si proclamò, il 22 settembre 1792, il giorno in cui era stata riconosciuta la repubblica, che rappresentava l'equinozio vero di autunno per Parigi. Quel giorno divenne il capodanno dell'anno primo. Fu stabilito che ogni anno avrebbe avuto il suo inizio precisamente con l'equinozio autunnale. Erano conservati i dodici mesi, tutti di trenta giorni, divisi in tre decadi.

Con questo veniva soppresso il calcolo delle settimane. Il calendario repubblicano, cosí inaugurato, doveva rimanere ufficialmente in vigore fin sotto il Consolato. Il concordato del 1802 lo avrebbe naturalmente abrogato.

Man mano che la resistenza del ceto ecclesiastico e vescovile alle misure progressivamente repressive degli organi rivoluzionari si pronunciava piú risoluta, questi stessi organi erano indotti a porre sempre piú allo scoperto lo spirito fondamentalmente anticristiano che animava il mo vimento e le sue riforme legislative. E d'altro canto i pronunciamenti rivoluzionari sempre piú palesemente anticristiani mettevano sempre piú allo scoperto quanto nella religiosità ufficiale del cattolicesimo francese fosse inquinato e quanto ancora dalla parte opposta fosse capace di resistenza. Appariva ben chiaro che se la Chiesa e le forme ufficiali del suo insegnamento e della sua disciplina si erano venute attraverso i secoli cosí profondamente allontanando dalle loro tradizionali capacità di resistenza ad ogni deformazione profana e laica, si da permettere la scandalosa dedizione del clero mascherata sotto l'etichetta di quel giuramento voluto dalla Costituente che riduceva il ministero ecclesiastico ad una pura mansione civile, d'altro canto l'inquinamento e la deformazione non erano giunti cosí a fondo da soffocare qualsiasi istinto di difesa e qualsiasi monito di coscienza di fronte al dilagare della laicizzazione rivoluzionaria.

In fondo, i provvedimenti della Costituente avevano rappresentato una transazione perfettamente comprensibile, alla luce dei presupposti illuministici che avevano preparato la temperie rivoluzionaria. Con la Costituzione civile del clero la Costituente aveva voluto creare una specie di cattolicesimo nazionale in rottura con l'autorità centrale di Roma. Se circa una metà del clero prestò giuramento civico, e si era quindi separata dalla disciplina romana, l'altra metà era rimasta fedele a Roma, impegnando contro la rivoluzione una lotta senza quartiere. D'altro canto, gli stessi preti giurati inorridirono ben presto di fronte al corso fatale degli avvenimenti. Molti ritrattarono il loro operato. E i perseveranti nella loro posizione si allearono quasi tutti ai Girondini, resistendo ai provvedimenti ad oltranza che la situazione precaria del '93 suggeri alla Convenzione e ai suoi dittatori.

Il periodo del Terrore, che imperversa a Parigi per quindici mesi dal maggio del '93, segna, lo si sa, il momento culminante della follia anticristiana ed irreligiosa, a cui gli orientamenti dell'Illuminismo possono portare quando siano stati trasfusi e per questo stesso fatti piú funesti in una massa aberrante, tratta a sostituire con le espressioni della piena laicità o con le mostruosità del culto della Ragione, le tradizioni carismatiche della disciplina cattolica.

È puramente vano ed accademico discutere sul maggiore o minore spirito di «scristianizzazione» dei vari gruppi estremi della Convenzione o degli uomini del Comitato di salute pubblica

Soltanto preoccupazioni di indole politica o diplomatica poterono indurre Robespierre a rimproverare gli eccessi della fazione Hebertista. Il suo memorabile discorso alla Convenzione per dimostrare l'esistenza di Dio, o la festa dell'Essere Supremo da lui pomposamente inscenata, non equivalevano affatto ad una resipiscenza di fronte a tutte quelle che erano state le misure della precedente legislazione rivoluzionaria contro la Chiesa costituita. Basta a dimostrarlo il discorso da lui pronunciato il 15 frimaio, quando la Convenzione approvò la risposta ai manifesti dei re collegati contro la repubblica, sottopostale da Robespierre stesso in nome del Comitato di salute pubblica. In fondo anch'egli non faceva che rispecchiare quei medesimi principî di totale asservimento delle forze spirituali della nazione francese alle autorità statali, che avevano rappresentato il caposaldo pubblico della filosofia illuministica.

Il Terrore doveva declinare sotto il peso orrendo delle sue stesse malefatte. Ci sono limiti estremi alla deformazione della disciplina collettiva, oltre i quali è dalle stessi leggi elementari della vita associata impedito di andare.

Dopo le giornate dell'8 e 9 termidoro del '94, la Convenzione riprendeva direttamente i poteri che aveva infaustamente demandato ai Triumviri, e iniziava la via di un vero e proprio ritorno. Sopprimeva cosí il tribunale rivoluzionario, toglieva il sequestro alle proprietà degli stranieri, sospendeva la vendita dei beni confiscati in forza di giudizi politici, restituiva agli eredi quelli dei condannati, rendeva libero l'esercizio dei culti.

Nel preambolo della grande legge del 7 vendemmiaio dell'anno quarto è detto testualmente cosí: «Considerando che a termini della Costituzione a nessuno può essere tolto il diritto di praticare, in piena conformità alle leggi, il culto da lui prescelto, e d'altra parte nessuno può essere costretto a contribuire alle spese di alcun culto, mentre la repubblica non ne sovvenziona alcuno; considerando che, poste tali basi al loro esercizio dei culti, necessita da una parte ridurre a leggi le conseguenze necessarie che ne derivano, e quindi, a tale scopo, riunirle in un solo corpo, modificando o completando quelle che sono state emanate, e d' altra parte aggiungere le disposizioni penali atte ad assicurarne l'esecuzione; considerando che le leggi alle quali è necessario di conformarsi nell'esercizio dei culti non investono affatto quel che è di puro dominio del pensiero, relativamente ai rapporti dell'uomo con gli oggetti del suo culto, e che esse non possono avere altro scopo e non hanno di fatto altro scopo che quello di una sorveglianza contenuta nelle misure di polizia e di sicurezza pubblica, si deve ritenere che tali leggi debbano mirare solamente ai seguenti scopi». E gli scopi sono cosí elencati: «Garantire il libero esercizio dei culti mercè la punizione di coloro che ne turbano lo spiegamento cerimoniale o che oltraggiano i ministri nell'esercizio delle loro funzioni; esigere dai ministri di tutti i culti una garanzia puramente civica contro l'abuso che essi potrebbero fare del loro ministero per indurre a disobbedire alle leggi dello Stato. Prevenire, arrestare o punire tutto ciò che tendesse a rendere un culto esclusivo o predominante e persecutore, come le decisioni dei Comuni in nome collettivo, le dotazioni, le tasse forzate, le vie di fatto relativamente alle spese di culto, l'esposizione delle insegne particolari in determinati luoghi, l'esercizio delle cerimonie e lo spiegamento delle consuetudini fuori del recinto destinato alle cerimonie stesse, e le iniziative dei ministri relativamente allo stato civile dei cittadini. Reprimere tutte le reità in cui si può incorrere in occasione o per abuso dell'esercizio dei culti».

La resistenza di tanta parte del clero era venuta inducendo l'autorità rivoluzionaria a retrocedere dai primitivi propositi di fare del clero un cieco strumento dell'autorità, e della pratica religiosa una pura espressione di attività civica. Le autorità rivoluzionarie si contentavano oramai semplicemente di premunirsi da qualsiasi azione sediziosa della gerarchia ecclesiastica.

Sapevano di poter contare su larghe zone di quello stesso clero refrattario che, uscito ormai dalla terrificante atmosfera creata dall'azione del Comitato di salute pubblica, era disposto a riconoscere nella resipiscenza della Convenzione l'alba di una nuova ripresa di vita religiosa. I culti teo-filantropici non erano cosa da destare preoccupazioni ed allarmi. Accettando una qualsiasi liturgia, si è in anticipo condannati irremissibilmente ad una condizione di inferiorità di fronte alla liturgia cattolica. Roma stessa, del resto, non era venuta adagio adagio attenuando il suo primitivo atteggiamento di irriducibile opposizione ai provvedimenti religiosi dei vari organi legislativi rivoluzionari? Se Pio VI aveva condannato il giuramento richiesto ai preti dalla Costituente, determinando cosí nelle file del clero francese uno scisma costituzionale destinato a rimanere fino al momento del concordato napoleonico, si era pertinacemente rifiutato di sottoporre alla medesima condanna il giuramento anche piú impegnativo imposto dall'Assemblea legislativa dopo il 10 agosto. Il partito dei «soumissionaires» ebbe modo di andare cosí sempre piú ingrossando. La politica papale si avviò sempre piú ad una forma di conciliazione, che ebbe una formulazione precorritrice del concordato nel Breve Pastoralis sollecitudo del 5 luglio 1796, che Pio VI sembrò dare come pegno di buona volontà nel momento stesso in cui il generale Bonaparte negoziava con lui l'armistizio di Bologna.

Il Direttorio aveva chiesto il ritiro puro e semplice della primitiva condanna della costituzione civile del clero. Ma il Papato non può mai ritrattare apertamente le sue decisioni; può soltanto nascondere con nuovi pronunciamenti le sue palinodie. Pio VI enunciava in questo Breve un riconoscimento dei poteri costituiti, che molte volte in seguito sarebbe stato ripetuto nelle decisioni pontificali in quella temperie concordataria in cui si sarebbero sempre piú uniformemente svolti da ora in poi i rapporti fra Papato e Stati politici, in un'atmosfera cioè sempre piú pervasa da quei principî liberali e idealistici, che sono, dei principî illuministici, una piú raffinata e insidiosa elaborazione.

Vi diceva il Papa: «Noi crederemmo di mancare a noi stessi se non cogliessimo a volo con la piú accorta sollecitudine tutte le occasioni per esortarvi alla pace e per farvi sentire la necessità di essere sottoposti alle autorità costituite. È infatti dogma ricevuto nella religione cattolica che la instaurazione dei Governi è opera della Sapienza divina, mirante a prevenire la anarchia e la confusione, e ad impedire che i popoli siano sballottati qua e là come le onde del mare. Cosí San Paolo parlando, non di un sovrano singolo, ma della sovranità stessa, afferma esplicitamente non esistere potere il quale non venga da Dio, ed essere quindi una cosa stessa col resistere ai decreti di Dio, il resistere alle potenze della terra. Pertanto, nostri cari figli, non vi lasciate deviare e non vogliate fornire, sotto lo stimolo di una pietà male intesa, ai novatori, la occasione di screditare e di bistrattare la religione cattolica. La vostra disobbedienza e la vostra insubordinazione sarebbero un crimine punito severamente non solo dalle potenze della terra ma, quel che è peggio, da Dio stesso, che condanna all'eterna pena coloro che resistono alle autorità costituite. Noi pertanto vi esortiamo, nostri cari figli, nel nome del Nostro Signore Gesù Cristo, ad applicarvi con tutto il vostro cuore e con tutte le vostre forze ad esibire la vostra sottomissione a coloro che vi governano. Con ciò voi renderete a Dio l'omaggio di obbedienza che gli è dovuto e convincerete i vostri governanti che la vera religione non è fatta per rovesciare e per vulnerare le leggi civili».

Con questo Breve eravamo già, si potrebbe dire, in regime concordatario. È vero che il Breve non fu giudicato sufficiente dal Direttorio e Pio VI non lo promulgò ufficialmente, ma il testo ne fu pubblicato in Francia e il Papa non sconfessò la pubblicazione. Occorreva ancora un non molto lungo periodo di maturazione, accorrevano gli eventi legati al nome e alla fortuna di Napoleone, perché le disposizioni del Pontificato espresse in quelle frasi del Breve si concretassero in un patto concordatario. Ma vale la pena di segnalare le frasi del Pontefice che aveva precedentemente condannato la Costituzione civile del clero, per rilevare ancora una volta come l'evoluzione politica dell'Europa al tramonto del Settecento spostasse sempre piú verso le intese con gli Stati laici quel Pontificato che in altri tempi, forte della sua investitura carismatica, forte soprattutto della forza ecumenica dei trascendenti valori dell'esperienza cristiana associata, non aveva esitato a sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà ai propri sovrani, quando il governo di questi appariva in antitesi con le leggi elementari della socievolezza cristiana. Sarebbe mai venuto in mente ad un Gregorio VII di ricordare le parole dell'Apostolo Paolo, secondo cui ogni autorità costituita sulla terra viene da Dio e deve essere quindi obbedita e rispettata, nel momento stesso in cui scomunicava Enrico IV e autorizzava alla ribellione? La verità è che le parole famose della Lettera di San Paolo ai Romani, nelle quali è detto che ogni potere viene da Dio e quindi esige rispetto, sono parole le quali, per assumere il loro vero significato, devono essere scrupolosamente inquadrate nelle visuali dell'Apostolo Paolo. Esse sono le equivalenti delle altre, sul terreno sociale, con le quali San Paolo dice allo schiavo di rimanere schiavo, al libero di rimanere libero, perché tutti siamo schiavi di Dio, il quale solo ha il diritto e il potere di livellare le classi e di accomunare gli uomini nello splendore pacifico del suo Regno. Per il cristiano che vive unicamente dei valori di Dio, non c'è diversità di classe, non c'è diversità di casta, non c'è diversità di rango politico. Il cristiano vive nel mondo, secondo le parole della vecchia lettera a Diogneto, come se non vi vivesse. Le leggi e i poteri li subisce, ma ne è profondamente alieno, perché non incidono sulla vita profonda della sua anima che è in diretto ed immediato contatto con Dio. La Cristianità medioevale era riuscita in qualche modo a introdurre nell'esperienza associata la sensazione costante della subordinazione dei valori politici ai valori religiosi. E un Papa che scomunicava un imperatore non scandalizzava nessuno: destava soltanto ammirazione. E nessuno pensava che egli violasse la consegna di San Paolo. Ora che il razionalismo, di cui era responsabile in certo modo la tradizione cattolica stessa con le sue posizioni teologali, era già riuscito molto innanzi nella sua opera di dissacrazione della vita associata, il Papato, per timore del peggio, non poteva far altro che riconoscere la legittimità dei poteri civili anche se palesemente anticristiani, lusingandosi poi di poterne estorcere, brevi manu, concessioni e privilegi, che se davano illusioni di compensi e di fasto alla sua ricerca di prestigio, finivano con l'essere pesanti gravami e funesti impedimenti alla sua libertà d'azione.

E il concordato venne. Con questo non vogliamo dire che l'azione personale di Napoleone in materia non sia stata efficiente, diciamo meglio, risolutiva. La vicenda epica di questo razziatore di genio non poteva non pesare sulle sorti della politica religiosa ed ecclesiastica in quella fosca e complessa alba del secolo decimonono che vedeva ripristinata in Francia cosí bizzarramente l'autorità accentratrice di un ambizioso candidato all'Impero, dopo la furente e squassante follia della rivoluzione sanguinaria. Il Pontificato ebbe duramente a soffrire delle velleità assorbenti e tiranniche del sovrano che aveva captato il suo potere innalzato poi ad una effimera corona, imponendosi al Direttorio e sfruttando il fascino obliquo e fatuo dei principi rivoluzionari. La lotta della repubblica contro quel clero francese, che non aveva accettato di piegarsi alle imposizioni violente delle correnti illuministiche salite al potere, era riuscita ad alienare profondamente gli spiriti dalla tradizione del cattolicesimo. Le stesse funeste scissioni portate dalla Costituzione civile del clero nelle file della gerarchia cattolica, tra preti costituzionali giurati e preti refrattari, e piú particolarmente le scissioni fra i refrattari piú devoti al re che al Papa, recalcitranti a qualsiasi riconoscimento della repubblica e a qualsiasi sottoscrizione delle dichiarazioni richieste per ottenere l'uso delle chiese, e gli altri, avevano vulnerato in pieno e fatto cadere in una esiziale desuetudine le tradizioni viventi dell'amministrazione carismatica e sacramentale. La propaganda fittizia, ma ad ogni modo raccomandata a buoni nomi della cultura, della teofilantropia, e lo spiegamento delle cerimonie civico ufficiali, come la celebrazione della decade, avevano contribuito anch'esse ad affievolire il millenario attaccamento francese alla sede romana. Lo Chaptal, che fu ministro dell'Interno agli inizi del Consolato e che si trovò quindi ad essere nella condizione piú favorevole per osservare da presso le correnti della opinione pubblica e darcene ragguagli, ebbe a dichiarare nei suoi Ricordi che «il gesto piú ardito compiuto da Bonaparte agli inizi del suo regno fu il ristabilimento del culto sulle vecchie basi. Per valutare adeguatamente l'importanza e in pari tempo la difficoltà di simile iniziativa non c'è che da ricordare come a quell'epoca l'odio piú profondo e il disprezzo piú accanito pesassero sul clero».

Nessuno pertanto potrebbe contestare il valore dell'apporto personale del dittatore all'indomani del 18 brumaio nel ristabilimento ufficiale della Chiesa cattolica, della sua gerarchia, dei suoi poteri, del suo libero culto. Ma si tratta qui, nella linea di sviluppo della nostra esposizione, di porre in luce e di individuare i moventi della politica religiosa del primo console, sulla via della restaurazione imperiale. Ora tutto autorizza a pensare che i principî informativi della politica ecclesiastica napoleonica non siano sostanzialmente difformi da quelli che avevano retto la Costituzione civile del clero. L'Illuminismo, con i suoi postulati della necessità pragmatistica della religione come mezzo pedagogico e strumento di disciplina per la tutela dell'ordine collettivo e per il mantenimento delle classi inferiori nel loro stato di sudditanza alla classe scelta e colta; della opportunità di mantenere l'organizzazione ecclesiastica solo per farne strumento della esteriore disciplina associata; continua a determinare gli orientamenti della politica religiosa. Si può benissimo riconoscere che, favorendo il riavvicinamento con la Chiesa, Napoleone non la rompeva affatto con la piú schietta e riconoscibile tradizione rivoluzionaria. La quale, come abbiamo visto, non mirava affatto a separare la Chiesa dallo Stato, bensí semplicemente a subordinare quella a questo.

All'indomani di Marengo, Bonaparte inscenava una solenne celebrazione di Te Deum e annunciava ostentatamente all'arcivescovo di Vercelli, Martiniana, di voler fare al Papa un regalo mai visto, quello di 24 milioni di francesi.

In verità, Pio VII avrebbe avuto tutte le ragioni di diffidare di simile dono. Il suo predecessore Pio VI aveva amaramente sperimentato di quali insidie e di quali drammatiche imboscate fosse capace la fortuna militare napoleonica. Povero Papa Braschi! Il suo cuore di Papa ultranepotista non aveva goduto senza traversie dolorose delle fortune che egli aveva fatto aleggiare sul capo del nipote Luigi, primogenito di sua sorella Giulia Francesca e del di lei sposo Girolamo Onesti. Aveva lungamente esitato prima di condannare la Costituzione civile del clero, e la condanna che alla fine era giunta, il 10 marzo 1791, era sembrata dover essere soltanto il preambolo della protesta trasmessa a tutte le Potenze contro l'annessione rivoluzionaria di Avignone e del suo territorio. Adagio adagio la tensione con il governo rivoluzionario di Parigi si era trasformata in aperta rottura, il giorno in cui Pio VI si era rifiutato di sostituire a Roma l'emblema della repubblica francese alle armi dei Capetingi. Aveva aperto l'animo alla speranza quando Spagna, Portogallo e Inghilterra erano entrati in guerra contro la repubblica. Ma l'astro ascendente di Napoleone lo costringeva all'armistizio durissimo del 1796 e ad un riconoscimento ultra-opportunistico del nuovo Stato francese. Il peggio non era ancora venuto. Il vecchio Pontefice Braschi conobbe l'ordine di esilio e la prigionia di Grenoble dove, logorato dalle sofferenze e dai disinganni, si spegneva piú che ottantenne.

Simile odissea comunque non scoraggiava il successore, il benedettino Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti, e il suo intraprendente segretario di Stato, Consalvi. Napoleone dovette capire di poter avere, con uomini di raffinato gusto politico come monsignor Spina e il Consalvi stesso, partita vinta. E il concordato fu apprestato nel giro di otto mesi: il 15 luglio 1801 fu sottoscritto.

Il Consalvi subito dopo la sottoscrizione scriveva a Roma: «Tutti i ministri delle Potenze straniere qui presenti, come tutto il pubblico colto e bene ispirato, considerano la conclusione del concordato come un vero miracolo. Godono soprattutto che lo si sia concluso in una maniera cosí vantaggiosa quale sembrava impossibile vagheggiare nell'attuale stato di cose. Io stesso che lo vedo sottoscritto quasi non posso credervi!».

Pio VII dal canto suo tripudiava cosí infantilmente che il ministro francese a Roma, volendo descriverne l'euforia in quei giorni, non trovava accenti piú convenienti di questi: «Il Papa è in un tale stato di trasbordante gioia e nel medesimo tempo di incredula inquietudine di fronte al fatto avvenuto, che rassomiglia ad una giovane sposa la quale non osi mostrare il suo tripudio per il gran giorno delle nozze».

Il concordato napoleonico che, come si sa, insieme col nuovo codice rappresentò una delle piú insigni innovazioni napoleoniche e che doveva rimanere in vigore fino al 1905, diede indubbiamente cospicui vantaggi materiali ed economici e disciplinari alla Chiesa cattolica francese e al governo della Curia romana in Francia. Ma non è da credere che fossero tutte rose quelle che apparivano tali. Nel concetto stesso di concordato quale si era venuto e si veniva praticamente infiltrando e insediando nella disciplina esteriore e nella politica internazionale della Santa Sede, si nascondeva un'insidia di cui la Chiesa stessa avrebbe subìto fino all'estremo le esiziali conseguenze.

Alla partita dell'attivo possiamo registrare i seguenti dati. Il concordato arrestava una volta per sempre quello scisma costituzionale fra clero giurato e clero non giurato, fra Chiesa leale allo Stato e Chiesa ribelle, che aveva durato undici anni e che sarebbe potuto diventare una letale cancrena. Il clero riprendeva il suo posto nella vita pubblica e riguadagnava gli assegni statali. Evidentemente calcolando sulla cedevolezza degli uomini al miraggio dei guadagni pecuniari, Napoleone largheggiò generosamente in stipendi e in compensi al clero reintegrato. Il bilancio dei culti salí rapidamente da poco piú di un milione di franchi a diciassette milioni.

Questi non erano che vantaggi materiali. Il concordato ne portava anche di cospicui dal punto di vista morale. Le superstiti conventicole teofìlantropiche furono espulse dagli edifici pubblici; fu loro vietato anzi di nascondersi perfino in locali privati. La classe delle scienze morali e politiche dell'Istituto fu soppressa, perché sospetta di spirito anticattolico. I principî della religione cattolica furono iscritti come elementi fondamentali dell'insegnamento pubblico. I vescovi furono autorizzati ad ispezionare le pubbliche scuole secondarie. Ai curati fu assegnato l'onere di esercitare una sorveglianza morale e pedagogica sui maestri. L'istruzione primaria fu su vaste zone francesi affidata alla congregazione dei Fratelli della dottrina cristiana. Per soprassello lo Stato fu messo a disposizione della disciplina ecclesiastica considerandosi invalido civilmente il matrimonio degli ex-preti.

Ma a quale caro prezzo la Chiesa di Pio VII pagò questi vantaggi! Quei concordati che erano nati come benigna elargizione dei Papi, si erano già trasformati di fatto oramai in convenzioni bilaterali per le quali, come è voluto dalla natura stessa della cose, la parte spirituale perdeva, nell'atto stesso e nel momento in cui credeva di vincere.

Si entrava cosí in una fase della vita ecclesiastica destinata a essere caratterizzata dall'abbondanza dei concordati, la stipulazione dei quali sarebbe stata celebrata dalla Curia di Roma come una serie gloriosa di successi. In realtà il regime concordatario può essere ritenuto un successo per la Chiesa cattolica solo a patto di partire dal presupposto che il mondo politico circostante con cui si vengono a stringere rapporti concordatari sia funzionalmente laico e pertanto indifferente, religiosamente parlando, alla spiritualità della religione, e solamente interessato a far sí che la religione rientri nel piano delle forze da utilizzare, o quanto meno da dominare, in vista di finalità extrareligiose. Di modo che il regime concordatario, nella sua stessa definizione e nella sua stessa concezione primordiale, in tanto è un successo in quanto il governo ecclesiastico che lo accetta e lo sottoscrive riconosce in anticipo che, nonostante le professioni ufficiali della religiosità collettiva, la religiosità cristiana non la si considera come forza di per sé dominante e cogente nella esplicazione della vita associata. E noi che siamo venuti passo per passo seguendo lo sviluppo della Cristianità, dalle ore della sua storica grandezza e della sua immacolata efficienza come fermento operante nel cuore stesso della vita associata, possiamo ormai logicamente riconoscere che se i concordati rappresentano altrettanti successi per la Chiesa, sono anche l'estremo successo di un vinto.

Possiamo dire anche di piú: precisamente che il regime concordatario sul terreno della vita politica e delle relazioni internazionali della Chiesa romana, rappresenta un derivato e una trasposizione concreta di un regime concordatario ben piú grave ed oneroso, instaurato preliminarmente su quel terreno delle realtà spirituali, fra sacro e profano, fra grazia e natura, fra peccato e salvezza, fra secolo presente e secolo futuro, fra cui a norma delle prescrizioni evangeliche e di tutto l'insegnamento cristiano primitivo da San Paolo a Gregorio Magno non sarebbe mai dovuto intercedere patto di qualsiasi natura. Di modo che se si vuole avere un sintomo indubitabile e una riprova indiscutibile della decadenza cristiana, tale sintomo e tale prova si possono riscontrare, per una lunghissima serie di casi e per una secolare e logorante decadenza di valori, proprio nel fatto stesso della disciplina concordataria.

Tutto naturalmente per un concatenamento di cause storiche, la constatazione delle quali è un dato di fatto prima che un giudizio di valore.

Il concordato napoleonico si iniziava con una enunciazione di fede che era in fondo unicamente politica. Fedele, forse neppure in piena consapevolezza, allo spirito dell'Illuminismo, Napoleone riusciva là dove non era riuscita la legislazione religiosa rivoluzionaria: a fare cioè della Chiesa cattolica uno strumento del suo governo.

«Il governo della Repubblica francese», era detto nel preambolo del concordato, «riconosce che la religione cattolica apostolica romana è la religione della grande maggioranza dei cittadini francesi. Sua Santità il Papa riconosce parimenti che questa stessa religione ha ricavato e attende ancora in questo momento di ricavare il piú grande vantaggio e il piú luminoso fulgore dalla restaurazione del culto cattolico in Francia e dalla professione particolare che ne fanno i consoli della Repubblica. In conseguenza di che, sulla base di tale scambievole riconoscimento, cosí per il vantaggio della religione come per il mantenimento della tranquillità interna, il governo della Repubblica e la Sede romana convengono insieme sui seguenti articoli». Seguono i diciassette articoli fra i quali i piú importanti sono quelli che concernono la nuova costituzione della gerarchia episcopale in Francia e le prescrizioni ufficiali a cui essa dovrà sottostare.

«Si procederà dalla Santa Sede», è detto negli articoli secondo e seguenti, «di mutuo accordo col governo, ad una nuova delimitazione delle diocesi francesi. Il Papa annuncerà agli attuali titolari dei vescovadi francesi che egli attende da loro, con solida fiducia, per il bene della pace e dell'unità, ogni genere di sacrifici, compreso quello delle loro sedi. Posta tale esortazione, qualora poi essi in pratica si rifiutassero di accondiscendere a tale sacrificio richiesto dal bene pubblico della Chiesa (rifiuto al quale Sua Santità non vuole neppure pensare) si provvederà con nuovi titolari al governo delle diocesi nuove, mercè nomina a cui procederà il primo console della Repubblica nei tre mesi che seguiranno la pubblicazione della Bolla di Sua Santità agli arcivescovadi e ai vescovadi della nuova circoscrizione. Sua Santità poi conferirà l'istituzione canonica a norma delle forme stabilite per la Francia prima che sopravvenissero i cambiamenti governativi. Le nomine ai vescovadi che vacheranno in séguito saranno ugualmente fatte dal primo console, e l'investitura canonica sarà data dalla Santa Sede in conformità dell'articolo precedente. I vescovi prima di entrare in funzione presenteranno direttamente nelle mani del primo console il giuramento di fedeltà espresso nei termini seguenti: – Giuro e prometto a Dio sui santi Vangeli di mantenere obbedienza e fedeltà al governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica francese. Prometto in pari tempo di non mantenere alcun contatto e di non assistere ad alcun consiglio e di non conservare alcuna lega sia all'interno sia all'estero che sia contraria alla tranquillità pubblica. E qualora nella mia diocesi o altrove io venga a sapere che si trama qualche cosa ai danni dello Stato, lo farò immediatamente sapere al governo –».

Uno speciale articolo faceva obbligo alla Santa Sede di rinunciare allora e per sempre a qualsiasi rivendicazione di quei beni ecclesiastici che erano stati incamerati dal regime rivoluzionario. C'erano parecchie cose che erano passate sotto silenzio nel concordato. Non vi si parlava infatti delle congregazioni religiose che pertanto risultavano tuttora soppresse, e non si diceva se il Papa fosse premuto dall'obbligo di dare l'investitura e la consacrazione cattolica a tutti indiscriminatamente i vescovi nominati dal primo console. La nomina restava, sí e no, in definitiva, in potere della Santa Sede, la quale naturalmente sottilizzò sul testo del concordato e introducendo nelle Bolle di investitura la clausola «nobis nominavit» alludendo alla designazione governativa, riprese, come proprio sostanzialmente, il diritto di nomina.

Rinasceva cosí quella che era stata la vecchia questione dell'investitura nel Medioevo. Ma ora la risoluzione non era affidata a colpi di scomunica o a resistenze pubbliche, bensí a un pronome possessivo introdotto quasi capziosamente in evasione alla stessa formula concordataria. Doveva del resto sopravvenire di peggio. Quasi consapevole della possibilità che il concordato offrisse il destro alla Curia romana di riprendere con la dritta quello che aveva dato con la mancina, Bonaparte introduceva, a pochi mesi di distanza dalla sottoscrizione del concordato, quegli articoli organici che, pur non essendo mai ufficialmente riconosciuti da Roma, spingevano la gerarchia cattolica francese e in genere tutta la vita carismatica del paese sulla via di una autonomia nazionale, che non seguita dal clero avrebbe un giorno portato alla separazione e con questo stesso ad un indebolimento della compagine nazionale di cui si sarebbero veduti i risultati a pressoché un secolo e mezzo di distanza.

Questi cinquantaquattro articoli organici ripartiti sotto tre titoli definiti rispettivamente: «Del regime della Chiesa cattolica nei suoi rapporti generali con i diritti e il regime interno dello Stato», «Dei ministri di culto», «Del culto», erano tutti stati escogitati e formulati al fine di impedire che qualsiasi Bolla, Breve o documento della Santa Sede fosse pubblicato in Francia senza il debito permesso del governo. Con essi si impediva in pari tempo che qualsiasi delegato del Papa potesse svolgere in Francia azione giurisdizionale, senza il medesimo permesso. E di nuovo gli articoli impegnavano gli ecclesiastici francesi a non procedere ad alcuna assemblea deliberante senza il prescritto e preventivo consenso governativo. Neppure donativi e lasciti la Chiesa avrebbe potuto ricevere senza il consenso ufficiale. E i lasciti, anche autorizzati, avrebbero dovuto essere sempre investiti in titoli di Stato. I ribelli alle prescrizioni di tali articoli erano sottoposti a procedimento presso il Consiglio di Stato. In complesso la potestà laica si atteggiava a giudice della dottrina dei candidati all'episcopato, obbligandoli ad un esame preventivo presso una speciale commissione. Il governo entrava perfino nella stilizzazione delle istruzioni catechistiche facendo onere che vi si contemplasse il dovere dei fedeli di pagare le imposte al governo sotto pena di commettere peccato mortale. Nessuna festa, vi si prescriveva, si sarebbe potuto instaurare, né alcuna preghiera solenne introdurre, senza speciali permessi del governo. I rappresentanti del primo console avrebbero avuto diritto ad un posto d'onore nelle cerimonie, e tutti i preti in cura d'anime si sarebbero ben guardati dal pronunciare dal pulpito qualsiasi parola di critica agli atti del governo. Il matrimonio religioso stesso non avrebbe potuto aver luogo che al séguito del matrimonio civile. cosí l'onere della sudditanza implicitamente compreso e sanzionato nelle formule ufficiali del concordato veniva minutamente e pesantemente specificato negli articoli organici.

Le velleità e le intenzioni del primo console non avrebbero potuto essere piú manifeste. L'Illuminismo, quell'aberrante autarchia della ragione che aveva fatto credere al popolo di Francia di poter raggiungere l'età dell'oro mercè la diffusione dei cosiddetti lumi; quell'Illuminismo che non era altro che l'estrema propaggine e l'ultima ebbra celebrazione della ragione che da parecchi secoli aveva assunto sul dominio stesso dell'apologetica religiosa fin dai tempi di Abelardo in terra di Francia la sua spietata signoria e che pure in terra di Francia con la dottrina di Cartesio aveva trovato una formulazione singolarmente capziosa; era al fondo della politica napoleonica. Alla Chiesa possono lasciarsi le posizioni della sua dogmatica trascendente e della sua amministrazione carismatica considerate tutte in fondo come espressione di facoltà inferiori dello spirito umano. Nella sua azione pubblica e nei suoi rapporti col mondo politico la Chiesa non può che servire le finalità dello Stato in cui è la pienezza dei poteri, perché è in certo modo la pienezza della sapienza e della giustizia.

Pio VII fu longanime e condiscendente fino alla fine. Trasalí di gioia all'annuncio della firma del concordato, andò, nonostante gli articoli organici, a coronare imperatore Napoleone il 2 dicembre del 1804, a Parigi. E come si sa, quel giorno in Notre Dame Napoleone assunse da sé la corona, dopo avere il giorno innanzi acconsentito che il rito della Chiesa riconoscesse segretamente il suo matrimonio civile con Giuseppina. Ma quanto quella coronazione fosse una miserabile parodia di quella lontana coronazione che Leone III aveva fatto di Carlo Magno in San Pietro nel Natale dell'800, non solo lo si poté vedere dal gesto arbitrario e presuntuoso dell'irriverente e ambizioso sovrano, ma lo si vide molto meglio quando, a cinque anni di distanza, l'imperatore decretava la fine del dominio temporale dei Papi e faceva arrestare nella notte fra il 5 e il 6 luglio del 1809 il Pontefice, per una prigionia che conobbe a Fontainebleau. Quella prigionia ebbe scene di violenza, di minaccia, diciamo pure la parola, di codarde condiscendenze, riscattate forse unicamente dall'appellativo di commediante che il Pontefice Chiaramonti avrebbe gettato una volta sulla faccia pallida di Napoleone. Il ritorno trionfale di Pio VII a Roma e l'ingresso imponente nella sua Sede eterna il 24 maggio 1814, apparvero ai popoli una rivincita clamorosa, e tale fu di fatto. L'astro di Napoleone si avvicinava al suo tragico epilogo.

Ma in tutta questa vicenda movimentata della Chiesa cattolica fra l'esplosione rivoluzionaria e l'effimera meteora napoleonica, apparve ben chiaro che se in nome della ragione si poteva passare dalle scene cruente del Terrore alla dittatura del primo console, la Chiesa era entrata ormai in un periodo lacrimevole di palese incapacità a pronunciare per la difesa dei valori cristiani una parola che, appellandosi unicamente ai motivi trascendenti a cui essa per prima aveva abdicato, non si impelagasse in quelle anguste risorse della ragione pura e della diplomazia realistica, rappresentanti per definizione l'insidia permanente di Satana al Regno di Dio.

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