Nella storia del cristianesimo tutto si tiene indissolubilmente a vicenda. Non potrebbe essere diversamente. Un fatto spirituale che è alle radici stesse della nostra civiltà, che, dopo avere creato sulla base dei propri presupposti e dei propri principî una civiltà dai tratti non confondibili, e che pur nella sua decadenza continua ad irraggiare da sé tanta virtú normativa e tante capacità di edificazione spirituale collettiva, non può non essere presieduto nel suo sviluppo da una dialettica salda e da una coerenza non consumabile.
Appunto questa dialettica e questa coerenza noi abbiamo cercato, attraverso tutte le pagine di quest'opera, di scoprire e di individuare. Anche ora ci sforziamo di essere ad esse aderenti.
Nell'epilogo della prima parte del precedente volume noi, parlando della rivoluzione spirituale e teorica segnata dalla teodicea e dalla soteriologiadi Sant'Anselmo d'Aosta, ci siamo permessi di parlare di «albori dell'Illuminismo». La frase non era usata a caso. In quel tentativo anselmiano di fare della dimostrazione apodittica di Dio un risultato indeclinabile dei procedimenti razionali, noi abbiamo creduto effettivamente di poter additare la prima comparsa di quella fiducia consapevole e organicamente costituita nella ragione, che, sostanzialmente difforme in radice dalla posizione centrale della esperienza evangelica e cristiana, era fatale dovesse condurre una volta alla proclamazione dei diritti illimitati e delle possibilità sconfinate della ragione umana, avida di sostituirsi alla nozione della grazia divina e del suo dominio sovrano nel mondo.
Le vecchie concezioni antropologiche e morali di Sant'Agostino subiscono un oscuramento da cui non si sarebbero piú riavute. Tutto quel che era rimasto nella antropologia agostiniana di dualistico e di manicheo è sopraffatto e sostituito da una visione del male e della redenzione che ha perduto quanto di realisticamente drammatico c'era nelle concezioni che avevano retto tutta la impalcatura dottrinale e pratica dell'associazione cristiana medioevale.
Noi abbiamo cercato anche d'intravvedere i collegamenti fra questa trasformazione teologica del patrimonio cristiano e la profonda trasformazione demografica ed economica che si viene delineando su tutto il territorio europeo dopo il Mille. Del nuovo ciclo di sviluppo iniziatosi allora noi siamo qui ora a registrare le estreme ripercussioni.
Se il giansenismo e la polemica pascaliana avevano rappresentato, a un secolo di distanza dai grandi movimenti della riforma luterana e calvinistica, l'ultima risurrezione agostiniana nell'ambito della Chiesa cattolica, la reazione gesuitica al giansenismo doveva vieppiú spianare la strada alla celebrazione della ragione, al rinnegamento della soluzione data da Agostino e dei suoi epigoni al problema del male e della grazia, alla concezione integralmente razionalistica del mondo e dell'uomo, dei poteri del primo, delle capacità del secondo.
Che cosa è mai il cosiddetto «Illuminismo», se non lo sforzo di afferrare e di canonizzare una presunta inte grale razionalità dell'universo? e che cosa è mai l'«Idealismo» che ne prende il posto, se non il tentativo consapevole di ridurre l'universo fisico e storico, la completa realtà a pura spiritualità, vale a dire se non lo sforzo di profanizzare integralmente il sacro, o, meglio, di sacralizzare integralmente il profano?
La indissolubile solidarietà instaurata fra il problema di Dio e il problema del male aveva dato un connotato specifico all'eredità spirituale del cristianesimo nella storia. Tale solidarietà era, per definizione, condizionata da una visione latentemente e tendenzialmente dualistica, per cui qualcosa del divino sfuggiva inesorabilmente alla presa e al dominio della nostra capacità cogitante e delle categorie che questa capacità cogitante presuppone, in quanto la impossibilità di risolvere l'incognita del male mercè una teologia dialettica che ponesse l'accento sulla onnipotenza divina esigeva che la fede in Dio si mantenesse librata al di sopra di qualsiasi tentata risoluzione della teologia in teologia razionale. Decisa a lasciare minorata la nozione della onnipotenza divina, pur di salvare l'assoluta anche se sofferente sua bontà, la tradizione mistica cristiana aveva sepolto la soluzione del problema del male in un atteggiamento di fiducia escatologica, tutto affisato nella visione messianica finale del Regno di Dio. Di rimbalzo, tutta la vita spirituale della società credente ne veniva ad essere trasferita in un'atmosfera di esperienze sacramentali e carismatiche, che automaticamente collocavano l'amministrazione ecclesiastica al disopra di qualsiasi costituzione politica, diretta alla disciplina esteriore degli uomini.
La irruzione della razionalità nel dominio della pura coscienza religiosa, quale noi l'abbiamo constatata fin dai tempi di Sant'Anselmo, doveva fatalmente esporre le posizioni cristiane ad un lento, ma inevitabile processo di logorìo e di consumazione. Ora, nel secolo decimottavo la crisi giungeva alla sua ora di trapasso.
Non per nulla i corifei dell'Illuminismo, Pietro Bayle e Francesco Maria Arouet de Voltaire, compiono il loro tirocinio culturale nelle forme già profanizzate della tradizione cristiana: il primo passando dal calvinismo al cattolicesimo e da questo al pensiero libero, il secondo uscendo da una scuola gesuitica.
Il Dictionnaire historique et critique, pubblicato dal Bayle fra il 1695 e il 1697, può benissimo essere considerato come l'anticipazione della Enciclopedia.
Nel Discours sur l'histoire universelle Bossuet, pochi anni prima, aveva presentato nella sua travolgente eloquenza una vigorosa interpretazione religiosa universale della storia. Era l'ultimo sprazzo di luce di una consapevolezza del divino operante negli eventi umani, cui però era venuto a mancare tutto quel preliminare apparato di concezioni antropologiche, morali e teologiche che molti secoli prima aveva dato al De Civitate Dei di Santo Agostino le sue capacità normative. Ora, al discorso di Bossuet mancava quel senso dualistico della vita universa, presa costantemente nel dissidio di due superiori forze antitetiche, la cui rivalità si placherà soltanto nel trionfo definitivo del Regno di Dio. E allora l'impalcatura della filosofia della storia patrocinata dal grande oratore dell'epoca di Luigi XIV appariva menomata da un circolo vizioso, in quanto la soprannaturalità provvidenziale della storia era poggiata su quel concetto trascendentista della tradizione vivente, che deve per definizione appoggiarsi e sostenersi mercè quella stessa visione provvidenziale della storia che vuol dimostrare.
Il Bayle aveva buon giuoco nel denunciare questo circolo vizioso e nell'additarne le perniciose conseguenze. È stato giustamente osservato che egli ha di fronte alla storia la stessa posizione che Galileo aveva assunto al cospetto della conoscenza della natura. Galileo aveva chiesto che nella esplorazione dei fatti naturali si restasse completamente autonomi di fronte alla testimonianza biblica. Il Bayle, dal canto suo, fonda la «verità della storia» prescindendo completamente da qualsiasi testimonianza biblica ed ecclesiastica, e riferendosi esclusivamente alle testimonianze obbiettive e alle circostanze ambientali del flusso storico dei fatti.
Non può dirsi che il Bayle abbia tracciato una filosofia della storia. Quel che Giambattista Vico avrebbe fatto con i suoi Principî di una Scienza nuova sulla comune natura delle nazioni nel 1725, rimane estraneo completamente al proposito di Bayle. Caso mai, il proposito di porre le fondamenta di una vera e propria filosofia della storia noi lo possiamo trovare in quegli che consideriamo come il secondo corifeo dell'Illuminismo, vero mediatore tra il Bayle e il Voltaire, Carlo Luigi de Sécondat, barone di Labrède e di Montesquieu, il cui Esprit des lois e le cui Lettres persanes mirano effettivamente ad accertare e a dimostrare che le istituzioni civili e politiche sono sottoposte a leggi naturali e invariabili, non difformemente da tutti gli altri fenomeni cosmici, obbedendo a leggi immanenti e inderogabili, che dànno ai fatti dello spirito e della ragione conformemente ai fatti della natura, un'autarchia ed un'autosufficienza escludenti qualsiasi potere superiore e qualsiasi dialettica trascendente.
Noi vediamo cosí come nel processo di profanizzazione della tradizione cristiana procedano di pari passo l'evoluzione della fede cristiana tradizionale verso un deismo razionalista, che fa di Dio una riproduzione esatta del motore immobile quale era stato nella fisica e nella metafisica di quell'Aristotele che gli scolastici del secolo decimoterzo avevano cosí incautamente e indiscriminatamente riabilitato; la negazione del problema del peccato e della grazia, del male e della sua distruzione nel Regno di Dio, per patrocinare i quali postulati l'agostinismo giansenista aveva combattuto l'ultima battaglia cristiana; infine quel processo di secolarizzazione politica, che portava automaticamente le forme politiche della vita associata a prendere il sopravvento sulle forme religiose per asservirle al proprio imperio.
Non è senza profondo significato che il Voltaire sia un avversario irriducibile di Pascal. In questo, egli si conserva fedele allievo dei gesuiti.
È stato giustamente messo in luce come la critica indefessa all'opera di Biagio Pascal accompagni, senza un istante di sosta, tutti i successivi periodi in cui si divide la fecondissima attività letteraria del cinico principe degli scrittori enciclopedisti.
La critica antipascaliana si inizia fin dal primo scritto voltairiano, vale a dire fin dalle Lettres sur les Anglais. E ancora cinquant'anni dopo, il Voltaire ritorna su quell'opera giovanile, per arricchirla con nuovi argomenti con le sue Remarques sur les Pensées de M. Pascal.
Voltaire chiama Pascal un «sublime misantropo»: e non si accorge che quel misantropo era vissuto in uno stato di permanente sete di comunicazioni umane, sí da volere perfino vicino al suo letto di morte un pezzente che fosse nelle sue stesse condizioni fisiche e nel medesimo suo dolore, tremante al cospetto dell'al di là. E non si accorge neppure che il cristianesimo ha insegnato agli uomini a vincere in maniera definitiva qualsiasi velleità di egoistica misantropia, proprio dando a tutti il senso della comune miseria e della comune nullità dinanzi a Dio operante nel mondo.
Non è detto che il Voltaire giunga nella valutazione della natura umana all'ottimismo di Gian Giacomo Rousseau. Ma non riesce neppure a mantenersi coerente nella sua posizione mediana fra il pessimismo e l'ottimismo. Se lo Schopenhauer attinge dal Candide di Voltaire per accampare i suoi argomenti contro l'ottimismo, in realtà tutta la visione voltairiana, pregna di fiducia illimitata nelle possibilità della ragione, è contro un pessimismo radicale che imponga un appello qualsiasi all'intervento di Dio nella vita e nella storia.
Quando nel 1763 Voltaire scrive il suo trattato sulla tolleranza, dà prova di sentirsi in un'atmosfera di trionfante universale riconoscimento del dominio incontrastato e incontrastabile della ragione. Noi, egli proclama, viviamo ormai in una età nella quale la ragione invade quotidianamente cosí le dimore dei grandi, come i fondachi dei borghesi, come i mercati dei commercianti. Il progresso irresistibile della ragione non potrà piú incontrare dinanzi a sé ostacoli che le sbarrino il cammino. E i risultati della universale ragionevolezza toccheranno immancabilmente i frutti della piena maturità. La venerazione del passato, l'ossequio per la tradizione, non possono impedire l'utilizzazione di tali opimi risultati. Poiché è legge capitale delle realtà spirituali che il mondo dello spirito esista e sopravviva, in quanto è da noi nuovamente creato ogni giorno. «I tempi passati sono come non fossero mai esistiti. Bisogna sempre partire dal punto in cui si è e da quello al quale le nazioni sono giunte... La filosofia, la filosofia sola, questa sorella gemella della religione, ha strappato le armi alle mani che la superstizione aveva macchiato di sangue. E lo spirito umano, al ridestarsi dalla sua ubbriacatura barbarica, ha dovuto trasalire di stupore dinanzi agli eccessi a cui l'aveva sospinta il fanatismo... La ragione è mite ed è umana. Essa educa infallibilmente alla indulgenza, come distrugge le discordie: rafforza la virtú e rende piacevole l'obbedienza alle leggi, invece di mantenerla soltanto mercè la costrizione».
A pochissimi lustri di distanza la rivoluzione francese e poi tutto il corso della successiva storia europea, fino al secolo ventesimo, avrebbero dimostrato di quali efferatezze sia capace la natura umana, guidata dalla sola ragione.
Del medesimo ottimismo fondamentale dinanzi alle possibilità della natura umana abbandonata e lasciata alla sua primitiva e istintiva ragionevolezza è in fondo imbevuto lo stesso Rousseau. Il suo Contratto sociale appare a prima vista come una voce discorde nel piano generale dell'ottimismo razionalistico dell'Illuminismo francese. Ma in fondo si tratta di un'illusione. Perché se il Rousseau fa di tutti i mali di cui l'uomo è capace ed è solo apparentemente responsabile, la conseguenza della società e del vivere in essa, in realtà, con una implicita e palese contraddizione, sogna una società nella quale l'uomo possa con le sole sue forze e con la sola bontà delle istituzioni esplicare senza difficoltà le potenzialità buone che sono nella sua natura.
Siamo sempre nel piano di quella profanizzazione della vita a cui aveva fatalmente portato la trascrizione in sede razionale di tante posizioni tradizionali cristiane, trascrizione di cui la tradizione stessa ufficiale del cristianesimo si era resa rea.
In fondo, Rousseau faceva in certo modo, dell'ingresso dell'uomo nella società, l'equivalente laico del dogma del peccato originale. L'uomo istintivamente e naturalmente buono si perverte attraverso il suo ingresso nella vita aggregata. E da un certo punto di vista gli si sarebbe potuto dare anche ragione se egli avesse semplicemente avvertito che in tanto l'entrare nella vita aggregata alterava le qualità primigenie dell'essere umano, in quanto l'amore egoistico della creatura umana per se stessa si trovava automaticamente e cogentemente in contrasto con l'amore altruistico della collettività, che è la stessa cosa che l'amore di Dio. Sant'Agostino non aveva detto niente di diverso. Ma Sant'Agostino aveva parlato avendo presente nello spirito una sensazione viva di quegli elementi impalpabili e trascendentali che operano cosí, in permanenza, al di là della pura empirica appariscenza delle cose, e che fanno di ogni nostro gesto e di ogni movimento della natura altrettanti simboli e altrettanti sintomi di operazioni superiori di Dio e di Satana.
Rousseau ha questo invece di originale nel movimento illuministico, di avere messo al centro delle sue preoccupazioni intellettuali il problema del diritto e della società empiricamente e autarchicamente.
Egli dice di sé nelle Confessioni: «Io ho compreso che tutto dipende in fondo dall'arte politica e che, si pensi come si vuole, ogni collettività umana sarà sempre soltanto quella che ne fa la sua forma di regime statale. Mi sembra pertanto di dover riportare la grossa questione della migliore forma di governo all'altra: quale cioè sia la forma statale piú acconcia a rendere un popolo virtuoso, esperto, saggio, a farne cioè il popolo piú perfetto che sia possibile nel piú alto significato del termine».
Curioso osservare come nel suo Discorso sulla ineguaglianza degli uomini, il Rousseau arieggi il pessimismo pascaliano: «Dovunque soltanto una vernice di parole; dovunque soltanto il desiderio di acciuffare una felicità apparente, che esiste esclusivamente nella nostra illusione. Nessuno piú si cura della concreta ed oggettiva realtà e tutti ne pongono l'essenza nell'apparenza. Vivono folli e schiavi del loro amor proprio non per vivere, ma per far credere ad altri di essere vissuti».
Ma il pessimismo di Rousseau può essere messo a fronte a quello di Pascal solo in queste constatazioni esteriori del mal fare umano. Pascal, l'ultimo grande santo e l'ultimo grande apologista della modernità, era partito da queste constatazioni esteriori per individuare nella natura stessa primordiale dell'uomo le sue originarie deficienze e le sue inguaribili antinomie. E altra speranza di sollievo e di salvezza non aveva potuto e voluto salutare che quella scaturiente dalla grazia e dall'intervento costante e paterno di Dio.
Rousseau è illuminista perché vede la salvezza nell'uomo stesso. Per lui l'individuo quale viene fuori dalla matrice della natura è ancora al di qua del contrasto fra bene e male. Non porta in sé che un naturale istinto di conservazione. Ma questo amore di sé non diventa amor proprio e non degenera che quando, entrato nella società, si compiace dell'altrui oppressione e cerca in questa oppressione il proprio malsano appagamento. È soltanto la società che fa dell'uomo un tiranno contro la natura e contro se stesso. Non occorre però aspettare alcuna redenzione dal di fuori di noi. L'uomo è chiamato a diventare il salvatore di se stesso, in un significato etico, il creatore di se stesso. Nessun bisogno di fare appello a potenze salutifere extraumane ed extrasociali, se la forma coatta della società è la genesi del nostro pervertimento. Una forma di comunità etico-politica nella quale ogni individuo invece di soggiacere all'altrui arbitrio ubbidisca soltanto alla volontà universale, sorgente da un mutuo patto che egli riconosce per proprio, ci dirà che l'istante della redenzione è scoccato e la vita collettiva entra nella fase della sua matura e piena normalità.
Ecco l'Illuminismo sociale che si abbina all'Illuminismo filosofico. Il problema di Dio è razionalizzato; il problema della vita associata è normalizzato sulle basi di un ottimismo radicale.
Le due piú insigni posizioni del cristianesimo erano smantellate. Si capisce come la terza posizione, quella della subordinazione dei valori politici ai valori religiosi, fosse nettamente e perentoriamente rovesciata.
Il primo paese uscito dall'unità cristiano-imperiale del Medioevo per darsi una coscienza circoscritta di nazione, l'Inghilterra; il primo paese nella famiglia europea che avesse tradotto in atto una rivoluzione religiosa la quale, anziché poggiare su posizioni dottrinali novatrici, si era limitata a lacerare violentemente i rapporti della disciplina unitaria con Roma, l'Inghilterra; fu anche il primo ad affermare culturalmente la sconsacrazione della rivelazione cristiana.
Con la sua opera Il cristianesimo spogliato dei suoi caratteri misteriosi, il Toland, nel 1696, dava per la prima volta effettivamente alla tradizione religiosa della Cristianità un saggio squisitamente e tipicamente deista, nel quale fra religione naturale e religione rivelata si sopprimeva qualsiasi divario che non fosse puramente formale, concernente cioè il modo della loro manifestazione.
Secondo il Toland la rivelazione non rappresenta una comunicazione dall'alto, una prodigiosa forma di contatto con il divino, che possegga in sé un peculiarissimo motivo e una forza cogente di certezza: non è altro che una speciale foggia di comunicazioni e di verità, la cui suprema giustificazione e la cui riposta attendibilità vanno ricercate e scoperte nella stessa ragione dell'uomo, dotata di possibilità illimitate.
A pochissimi decenni di distanza, il Tindal, anch'egli, in un'opera il cui titolo è già tutto un programma, Il cristianesimo altrettanto antico che la creazione, parte dal presupposto che religione naturale e religione rivelata non si distinguono affatto nella loro sostanza, bensí solamente nella maniera attraverso cui sono, l'una e l'altra, comunicate. La religione naturale è la manifestazione intima e riposta della medesima volontà di un Essere infinitamente sapiente e infinitamente buono che rivela il proprio volere nella religione rivelata, non piú nella intimità della coscienza, bensi nella esteriorità della vita aggregata. A questo Essere non si possono senza blasfema offesa imporre limiti cronologici e spaziali. Ogni concetto di rivelazione circoscritta ad un'epoca, ad un popolo, ad un libro, ad una tradizione, implica di per sé ed importa necessariamente una deviazione nell'antropomorfismo. L'Iddio che è l'Essere per eccellenza, sempre uguale a se stesso, di fronte alla natura umana che è una ed invariabile dovunque, non può che comunicare se stesso in maniera uniformemente e univocamente uguale. Ogni mistero lasciato sussistere intorno ai rapporti fra il divino e l'umano è una diminuzione di quella chiarità universale, che deve per definizione accompagnare ogni operazione di Dio. E il cristianesimo non può sottrarsi a questa legge fondamentale. Anch'esso è vero solamente nella misura in cui si conforma e si adegua alla legge naturale. La riconferma che il cristianesimo dà alla legge della natura, è tutta nella nuova consapevolezza di ciò che è naturalmente buono e naturalmente morale. Nell'opera del Tindal era stato il preannuncio esplicito di quel che sarà il contenuto tipico dell'opera consacrata da Kant alla religione razionalizzata.
Una continuità logica pertanto, inflessibile e stringata, presiede a tutto lo sviluppo del pensiero religioso in questo secolo decimottavo, che doveva sboccare nella rivoluzione francese e nella nuova posizione della Chiesa romana al cospetto dell'Europa napoleonica, nell'Europa del concordato e dei movimenti nazionali.
Come tutto sia collegato nella fenomenologia della vita associata, e come le oscillanti sorti del cristianesimo abbiano avuto negli ultimi secoli un'azione non sempre ponderabile, ma sempre efficiente nell'evoluzione generale delle idee e dei costumi, appare precisamente dalla solidale corrispondenza che sussiste tra i movimenti tendenti alla laicizzazione del cristianesimo e i movimenti tendenti a subordinare gli interessi della religiosità a quelli della politica. Si direbbe che sia fatale e inderogabile legge storica che la religiosità cristiana in tanto riesca a mantenere immune il proprio magistero e la propria vita carismatica dalle pressioni e dalle circonvenzioni dei poteri politici, in quanto mantiene i propri poteri nel dominio della pura spiritualità e in quello della trascendente e intransigente purezza. Ogni concessione fatta dalla disciplina carismatica alle seduttrici insidie della ragione o alla tecnica dei poteri empirici, si traduce automaticamente in un tentativo di sopraffazione da parte della ragione e di asservimento da parte degli stessi poteri politici esteriori.
I filosofi dell'Illuminismo non sono affatto, di fronte agli ordinamenti della società ecclesiastica, dei «separatisti». Nella loro propaganda razionalistica, nel loro programma illuminista di diffusione dei cosiddetti lumi della ragione, nella loro infatuazione di apostoli della pura capacità razionale umana, essi non pensano affatto ad abbandonare la religione al suo destino o ad espellerla risolutamente e violentemente dal novero delle forze operanti nel grembo delle collettività umane. Al contrario, essi vogliono che una forma qualsiasi di religiosità entri fra le forze disciplinatrici razionali.
Ma ecco a che cosa aveva condotto la progressiva razionalizzazione della tradizione teologica e l'annullamento del mistero della grazia per opera della morale casistica gesuitica. L'atmosfera mistica di impalpabile carismaticità in cui era vissuta la Chiesa medioevale, aveva dato a questa, si direbbe quasi per forza d'istinto, la indiscussa ed universalmente riconosciuta validità dei suoi poteri.
Il giorno in cui la Chiesa aveva fatto appello alle forze della ragione nell'illusione di mantenersi piú salda sulle sue basi, e il giorno in cui l'autorità della Chiesa era venuta a patti con l'autorità civile attraverso scambievoli accordi che nelle sue intenzioni volevano essere concessioni e finivano in pratica con l'essere dedizioni, il delicatissimo equilibrio tra spiritualità ed empiricità, che aveva retto l'edificio della Cristianità medioevale, si era spezzato, e la Ragione e lo Stato venivano automaticamente ad assumere una posizione di predominio. La Chiesa avrebbe resistito quanto piú le sarebbe stato possibile: ma la partita era perduta in anticipo, perché la Chiesa si era spogliata malauguratamente delle uniche sue vere capacità di resistenza che sono tutte nella trascendenza invulnerabile e irraggiungibile dei suoi presupposti e dei suoi fini. La resistenza vera non si sarebbe potuta riaffermare che il giorno in cui il cristianesimo fosse tornato a recidere tutti i suoi collegamenti col mondo.
Nessuno piú di Montesquieu ha seppellito sotto l'onda avvelenata dei suoi epigrammi il clero e la Chiesa dei suoi tempi. cosí nell'Esprit des lois come nelle Lettres persanes, egli si dilunga con visibile compiacimento a denunciare e a beffeggiare l'oziosità dei monaci, i pericoli della manomorta, lo sfruttamento degli Ordini religiosi, il peso passivo che ne deriva alla collettività umana. Egli addita i monaci sotto la descrizione delle comunità dei dervisci.
«I dervisci», scrive il suo persiano, «hanno nelle loro mani quasi tutte le ricchezze dello Stato. Si tratta di una comunità di individui avari, che tutto prendono e nulla rendono. Essi accumulano incessantemente le loro rendite per mettere insieme grossi capitali e, per dir cosí, questo ammontare di ricchezze è colpito da paralisi. Non c'è piú circolazione, non c'è piú commercio, non ci sono piu arti, non ci sono piú industrie manifatturiere». Cosí scrive il Montesquieu con allusioni piú che trasparenti. Si comprendono le conclusioni a cui egli giunge. I beni ecclesiastici debbono sottostare alle imposte come beni dei semplici privati. Limiti ben circoscritti devono essere imposti alla loro accumulazione. cosí quelli che sono i sarcastici accenni delle Lettres persanes divengono chiari suggerimenti di provvedimenti a carico della proprietà ecclesiastica nell'Esprit des lois.
Il Montesquieu scaglia i suoi strali piú furenti contro l'Inquisizione, specialmente nella sua spiritosa «très humble remontrance aux Inquisiteurs d'Espagne et de Portugal» . Egli patrocina con eloquenza calorosa la causa della tolleranza, ma non si sogna neppure di chiedere la libertà e l'uguaglianza di tutti i culti: «Come soltanto le religioni intolleranti spiegano un ardente zelo per propagare e piantare altrove le loro tende, poiché una religione, capace di tollerare le altre, non pensa affatto a fare del proselitismo, sarà una eccellente legge civile quella con la quale uno Stato, soddisfatto della religione già stabilita, sanzionerà di non permettere la instaurazione di un'altra. Perché questo è il principio fondamentale delle leggi politiche in materia religiosa. Quando si è in grado di ricevere o no nello Stato una nuova religione, bisogna guardarsi bene dall'introdurla: ma quando ve n'è una stabilita, bisogna ben tollerarla».
Dichiarazioni queste di cui bisogna fare il massimo conto nel momento in cui noi, cercando di individuare l'intima posizione dell'Illuminismo al cospetto del fatto religioso e del fatto cristiano, ci apprestiamo non solamente a segnalare le posizioni illuministiche nel processo decadente della Cristianità europea, ma ci avviciniamo anche a quella esplosione della rivoluzione francese con tutte le sue conseguenze che dovevano dare un risalto cosí nuovo e cosí impressionante al già effettuato processo di scristianizzazione della nostra cultura e della nostra spiritualità.
Nelle dichiarazioni di Montesquieu si può già ben riconoscere un tal sentore di scetticismo sdegnoso, sui meriti comparati delle religioni costituite. Fedele alla sua pregiudiziale teoria della preponderante azione del clima e delle condizioni fisiche, Montesquieu considera le religioni in qualche modo come un fatale prodotto delle circostanze ambientali. Cosí egli dice, ad esempio, che la dottrina della metempsicosi si attaglia molto bene al clima indiano, poiché l'eccessivo calore fa morire il bestiame, che scomparirebbe, se le presupposizioni e le leggi religiose non lo conservassero. Atene, soggiunge altrove il medesimo scrittore, annoverava nel suo grembo una moltitudine innumerevole di popolo. Il suo territorio era sterile. Sicché fu saggia la prescrizione religiosa secondo cui coloro che offrivano agli dèi piccole e modeste oblazioni, li onoravano meglio che coloro i quali immolavano i buoi. A prescindere da queste differenze che sono in funzione dei paesi in cui esse si producono, tutte le religioni, in fondo, secondo Montesquieu, si equivalgono. La loro efficacia morale e sociale è la stessa. Nel suo scetticismo pieno di bonomia Montesquieu riconosce che ai fini pratici la religione merita di essere conservata e incoraggiata. Per cui egli si dilunga a confutare la tesi paradossale del Bayle, il quale nei suoi Pensieri sulla cometa si era compiaciuto di sostenere valer meglio essere ateo che idolatra, essere cioè in altri termini meno pericoloso non avere affatto religione che nutrirne una non sana.
Il Montesquieu ribatte che è un pessimo modo di argomentare contro la religione, credere di averla demolita, quando si sono messi insieme, in opere voluminose, elenchi ed elenchi delle malefatte che la religione ha prodotto. Un modo di ragionare corretto e logico sarebbe quello di mettere di fianco a simili enumerazioni, le enumerazioni, che potrebbero essere altrettanto nutrite, dei beni che la religione ha portato con sé per gli umani. E soggiunge maliziosamente: «Se mi mettessi a raccontare tutti i mali che hanno provocato nel mondo le leggi civili, la monarchia, il governo repubblicano, dovrei narrare cose raccapriccianti». «La verità è», conclude il Montesquieu, «che la religione, anche se falsa, è sempre la migliore garanzia che gli uomini possano innalzare sulla probità degli uomini. L'utilità della religione, anche se falsa e menzognera, è tutta nel fatto che essa agevola l'applicazione delle leggi civili. Una società è tranquilla e prospera soltanto quando le leggi civili e quelle religiose siano mantenute in una sostanziale ed armonica concordia scambievole. Perché», son parole testuali dello scrittore, «i dogmi piú veri e piú santi possono sortire conseguenze malefiche, quando non siano collegati con i principî della società, come al contrario i dogmi piú falsi possono sortirne di ammirabili quando siano riportati a questi stessi principî». Dal che si vede come Montesquieu, e in fondo tutto il pensiero illuminista con lui, lungi dal pensare alla separazione della Chiesa dallo Stato, non tenda che al loro riavvicinamento piú intimo. Ma badiamo bene: simile avvicinamento non è piú una propinquità che rassomigli, neppure da lontano, a quel che era stato nelle primitive visuali cristiane l'affiato animatore che la religiosità evangelica avrebbe dovuto e potuto rappresentare nel mondo e nella totalità della vita civile. Là, nei grandi secoli della conquista cristiana e nell'età medioevale della originale creazione civile operata dal Vangelo, la Chiesa e la sua amministrazione carismatica avevano rappresentato effettivamente il tessuto connettivo della collettività umana e, si direbbe, la colorazione del suo volto.Ora qui, razionalizzata la religione e di rimbalzo attribuita una onnipotenza alla capacità razionale, la religione veniva, sí, ad essere dichiarata indispensabile alla vita civile, ma come un ingrediente per il perfetto funzionamento delle leggi e come uno strumento e una sanzione posticcia per il mantenimento e la tutela di una qualsiasi esteriore moralità pubblica.
Nei grandi secoli cristiani del Medioevo la Chiesa aveva preteso ufficialmente e canonicamente un predominio sulla società civile, che è un diritto senza dubbio inalienabile della spiritualità religiosa, ma sol quando la spiritualità religiosa sia essenzialmente ed esclusivamente tale, aliena cioè da qualsiasi apparato dialettico come da qualsiasi armamentario giuridico. La Chiesa aveva creduto, al culmine del suo dominio medioevale, di poter raccomandare i suoi carismatici poteri ad una apologia razionale e ad una giurisdizione canonica. La ragione e le leggi empiriche si prendevano la loro vendetta. Che la religione fosse da ora in poi al loro servizio. Non è già un subordinare la religione alla società riconoscerle una pura utilità formale ed esteriore? Montesquieu dice esplicitamente che qualora si delinei disaccordo tra leggi naturali e leggi religiose, le leggi naturali debbono avere il sopravvento. Da buon magistrato francese, Montesquieu proclama in tutte lettere il primato del potere civile e patrocina un'alleanza ragionevole fra lo Stato e il cattolicesimo. L'Illuminismo chiudeva cosí il ciclo delle sue idee tipiche. L'età della ragione albeggiante non doveva far altro che chiamare la religione come ancella al proprio servizio e cooperatrice al raggiungimento dei propri fini.
Il deismo illuminista rappresenta veramente in sé un sistema organico e completo. Lo vediamo molto bene in Voltaire, l'aggressivo impugnatore di quel che egli chiama l'infamia. Egli può ben irridere ad ogni religione costituita, scoprendo in ogni fondatore di religione un ciarlatano e in ogni ministro della vita carismatica un ipocrita o un imbecille. Ma la sua fustigante incredulità deve essere retaggio di una circoscritta casta sociale: di quella casta sociale – nobiltà, clero, alta borghesia – per la quale il far dello spirito sulle cose piú sacre è espressione di raffinatezza intellettuale. Ma piú ancora di Montesquieu, proclama la necessità di una religione per la massa e per i minorenni. Egli scriverà una volta: «Noi abbiamo creato i preti perché siano i precettori dei nostri figli. Dobbiamo pertanto pagarli e tenerli in rispetto. Ma essi non debbono pretendere né capacità giurisdizionali né mansioni ispettive né onori pubblici. Mai si riterranno pari a chi copre dignità di magistrato. Un'assemblea ecclesiastica che presumesse di tenere prostrato dinanzi a sé un cittadino qualsiasi, si arrogherebbe la funzione di un pedante che bistratta dei ragazzi o di un tiranno che osa punire degli schiavi. Pronunciare le parole: governo civile e governo ecclesiastico significa pronunciare un insulto alla ragione e alle leggi. Si deve dire piuttosto: governo civile e regolamenti ecclesiastici, tenendo conto che simili regolamenti ecclesiastici non devono e non possono essere emanati che dalla potestà civile. Poiché non ci possono essere due poteri in uno Stato, ed è un vero abuso quello che si fa, introducendo una distinzione tra potestà spirituale e potestà temporale. O che forse si riconoscono due padroni, a casa mia, dove sono io padre di famiglia e dove c'è il precettore dei miei figli? Voglio bene che si usino tutti i riguardi al precettore dei miei figli, ma per mio conto mi guardo bene dal permettere che egli eserciti una qualsiasi autorità a casa mia».
E in fondo aveva ragione. Se un precettore deve avere un'autorità in una casa, questa può instaurarsi sol quando il precettore la imponga col fascino della sua figura morale e con la prepotente imperiosità della sua virtú intima e si direbbe quasi sacrale. La Chiesa aveva vinto il mondo, non chiedendo un posto di preminenza nella casa, ma lasciando che la preminenza trionfasse attraverso il senso carismatico dei suoi poteri insurrogabili. Il giorno in cui aveva chiesto alla ragione un titolo diremo quasi accademico e ai privilegi esteriori un piedestallo granitico, aveva semplicemente indossato una livrea ed era perfettamente comprensibile che gli «illuministi» le ricordassero che essa l'aveva voluta, questa livrea, e che quindi non aveva piú alcun diritto a posizioni di privilegio che solo lo Spirito garantisce e tutela.
Era perfettamente comprensibile che, avendo accettato di scendere a competizioni con i sistemi puramente razionali sul terreno della nuda dialettica concettuale, e avendo raccomandato i suoi titoli alla meccanica virtú sillogistica del pensiero cogitante, l'eredità cristiana sentisse impugnati i suoi valori soprannaturali, e vedesse celebrate al suo fianco, e magari in posizione di preminenza, le manifestazioni piú alte della speculazione e della moralità precristiane. Montesquieu nell'Esprit des lois aveva fatto l'elogio specialmente dello stoicismo. «Le varie sètte filosofiche dell'antichità», scriveva egli, «possono pure, senza difficoltà, essere ritenute altrettante forme di religione. Fra tutte non ce n'è una, i principî della quale siano stati piú degni dell'uomo e piú acconci a formare individui esemplari, che lo stoicismo. E se io potessi pensare un istante di non essere cristiano (era una pura formula verbale, ché cristiano non lo era piú, come non lo era la cultura del suo tempo), non potrei in alcuna maniera impedire a me stesso di considerare la distruzione della scuola di Zenone come una delle piú grandi iatture che siano capitate al genere umano. Quella scuola non patrocinava che cose in cui era vera grandezza, disdegno superiore verso ogni piacere e verso ogni dolore. Solo lo stoicismo seppe creare il perfetto cittadino. Solo lo stoicismo seppe creare i grandi uomini. Solo lo stoicismo seppe dare all'Impero insigni imperatori. Se voi fate, per un istante solo, astrazione dalle verità rivelate, non troverete, cercando in tutta la storia, soggetti piú alti degli Antonini. Giuliano stesso, Giuliano (un riconoscimento cosí irresistibilmente strappatomi, dichiara a buon conto Montesquieu, non mi costituirà complice della sua apostasia) è tale imperatore che dopo di lui è impossibile riscontrare sovrano altrettanto degno di governare gli uomini. Mentre gli stoici consideravano cosa vana le ricchezze, la grandezza umana, il dolore, i piaceri, in pratica non miravano ad altro che a contribuire alla felicità degli uomini e ad assolvere scrupolosamente i doveri sociali. Si direbbe ch'essi riguardassero quel sacro spirito che ritenevano di possedere in se stessi come una specie di Provvidenza propizia, vigilante sul genere umano. Nati per la società, essi pensavano tutti che il loro destino era quello di lavorare per essa: con tanto minor carico della vita associata in quanto ritenevano che la loro ricompensa fosse in se stessi e che già di per sé felici e beati in virtú della loro professione filosofica, non potessero ricevere altro aumento di felicità che quello proveniente dalla felicità altrui».
Cosí, con formule non sgombre di cautela, Montesquieu mirava a contrapporre, all'ideale cristiano, l'ideale stoico: quell'ideale stoico che in verità rappresentava il culmine della speculazione e della moralità anteriori all'avvento del cristianesimo, ma che appunto per ciò era in fondo l'antitesi del cristianesimo stesso. Che cosa del resto potesse produrre l'Illuminismo stoico resuscitato, lo si sarebbe visto ben presto. Funzionalmente pertanto anticristiano, l'Illuminismo precedente alla rivoluzione non era però in grado di contrapporre al cristianesimo razionalizzato che una celebrazione astratta delle migliori forme spirituali precristiane. Un passo piú in là si sarebbe fatto quando l'idealismo avrebbe sostituito alla vantata razionalizzazione del reale, la vantata spiritualizzazione del reale, piú vasta e insidiosa.
La china era fatale e indeclinabile. La religiosità, tutta sprofondata nel senso del mistero e dal senso del mistero continuamente alimentata, non si può abbandonare impunemente al controllo della ragione. La ragione ne diviene la tiranna e la dissolvitrice. La scolastica, chiamando a sussidio delle sue posizioni teologali e carismatiche l'esercito razionale, veniva implicitamente a porre la tradizione cristiana in una condizione di inferiorità, di cui si dovevano vedere cosí, a distanza di secoli, le conseguenze funeste. Non è priva di significato la circostanza che i piú apprezzati rappresentanti dell'Illuminismo mandino innanzi, insieme con la celebrazione della ragione, l'apologia di quello stoicismo che non aveva impedito all'Impero di Marco Aurelio di esercitare la piú dura persecuzione anticristiana.
Se la filosofia, nella visione e nella pratica della scolastica, doveva essere semplicemente la serva della teologia, la logica dello sviluppo associato della società europea induceva fatalmente questa ancella a trasformarsi in signora. Kant dichiarerà l'ideale filosofico racchiuso nella «autoconoscenza della ragione». Una volta chiamata a soccorso della apologia religiosa, la ragione doveva inesorabilmente trovare in se stessa la piú completa sufficienza e la piú intransigente autonomia. Questa autonomia si doveva ripercuotere in tutte le forme della spiritualità, dalla forma estetica alla forma morale. Per voler troppo disciplinare e infallibilmente controllare la metodica religiosa della Chiesa cattolica, la ragione era venuta a dare le armi piú insidiose e piú taglienti alla incredulità e all'ateismo. Non per nulla uno dei tratti caratteristici dell'epoca illuministica è la creazione di una estetica come scienza del gusto. Si dimenticava cosí che le migliori creazioni di arte erano nate nell'epoca in cui, senza alcun bisogno di teorie estetiche, dalla collettiva partecipazione umana alle grandi realtà del Trascendente vissuto e sperimentato nell'intima profondità della coscienza, si era, di ogni sensazione empirica, fatto veicolo ad un attingimento superiore di valori e di realtà, che, misteriosamente assimilate, traevano su dallo spirito quei fantasmi di bellezza di cui ridondarono le grandi età della fede.
Ma pure con tutta la sua vantata fiducia nelle illimitate possibilità della ragione, l'Illuminismo non osava toccare le istituzioni religiose vigenti, perché, come sempre, la ragione è fondamentalmente e borghesemente apatica e incoerente, pavida, di fronte ai rischi e alle incognite delle soluzione radicali.
Noi vediamo cosí che l'Illuminismo voltairiano predica la tolleranza per tutti i culti, subordinandoli però allo Stato, il quale è, in certo modo, investito della missione di sorvegliare, riformare, purificare la religione. In fondo, la tolleranza illuministica per le forme religiose costituite è una tolleranza fittizia e superficiale, che il corso dei fatti durante la rivoluzione francese costringerà a smascherare.
Voltaire si era limitato a raccomandare che i conventi fossero ridotti, che la manomorta fosse sottoposta al fisco, che i preti fossero utilizzati nella vita collettiva in interessi pratici quali potevano essere le misure profilattiche dell'igiene pubblica o la tecnica della cultura terriera. I magistrati ad ogni modo non avrebbero dovuto permettere ai preti di insegnare che cose ragionevoli o anche misteri irragionevoli, ma socialmente benefici. È assioma di Voltaire: «La religione esiste soltanto per mantenere gli uomini nella disciplina e nell'ordine». Il prete è pertanto il cooperatore del gendarme. Era cosí completamente dimenticata la regola aurea del cristianesimo che aveva fatto della religiosità una disciplina, è vero, ma una disciplina completamente a sé, immune ed esente da qualsiasi controllo e da qualsiasi interferenza statale.
L'atmosfera spirituale che il cristianesimo aveva creato trasportava gli uomini in una tale temperie superiore di idealità, di orientamenti e di preoccupazioni, da fare della vita empirica un succedaneo trascurabile e un effetto preterintenzionale delle aspirazioni ultraterrene.
Tutti gli scrittori dell'epoca illuministica, che hanno trattato in maniera particolare di religione, si sono attenuti alla medesima consegna e hanno patrocinato il medesimo postulato: la religione al servizio dell'organizzazione statale e dei suoi poteri.
Gli scrittori piú audaci, i sovvertitori piú spietati e piú sfrontati, non divergono sostanzialmente dalla posizione patrocinata da Voltaire.
Paolo Enrico de Holbach nel suo Sistema della natura e nel suo Sistema sociale come nel suoSacro contagio, pur definendo il sacerdozio «una lega costituita da pochi impostori contro la libertà, la felicità, e la quiete del genere umano», non pensa affatto a suggerire che sia radicalmente e prontamente soppressa una istituzione dalle origini cosí equivoche e cosí inique.
Anch'egli, come Voltaire, non ama le disturbanti soluzioni intransigenti. A lui basta che si riformi il sistema dell'educazione. Lo Stato lascerà dunque sussistere quella «lega di impostori» che si è trovato fra i piedi. Ma le costituirà al fianco una censura morale, vale a dire una specie di comunità ecclesiastica, laica e ufficiale, che dirigerà gli uomini verso il ben fare, mercè un insieme di sanzioni concrete e reali diverse da quelle sanzioni immaginarie e fittizie che la credulità del volgo ha permesso che il clero gli insegnasse. «Cosí», son parole dell'Holbach, «il magistero assumerà la figura di prete utile alla comunità e il legislatore eserciterà un sacerdozio molto piú profittevole alla nazione di quello che, sotto il pretesto di condurre gli spiriti alla salvezza, li pasce di vane chimere e inculca virtú mentitrici».
L'Illuminismo non pretende pertanto affatto di sopprimere la religione costituita con mezzi violenti: la dovrà vincere con la emulazione e la superiorità morale e spirituale.
Vana illusione della ragionevolezza adoratrice di se stessa!
Anche Claudio Adriano Helvétius considera tutte le religioni esistenti come funzionalmente nocive e pregiudizievoli. Ma non si pensi che una simile asserzione lo conduca a proporre la soppressione violenta e radicale di una forma della spiritualità associata riconosciuta e definita come funzionalmente perniciosa. La sua conclusione pratica è molto diversa. Poiché nessuna associazione umana può essere governata sapientemente da due poteri supremi e indipendenti, e poiché è impossibile far concorrere e convergere le due potestà, la spirituale e la temporale, verso il medesimo scopo, vale a dire verso il bene pubblico, bisognerà che la disciplina religiosa sia energicamente sottoposta alla disciplina statale e lo Stato riassorba in sé gli scopi e le funzioni della religiosità.
L'Illuminismo del resto si può dire che abbia avuto le sue prime origini nel mondo ecclesiastico depauperato nella sua vocazione e nella sua temperie mistica dalla diuturna persecuzione ufficiale contro quella rinascita agostiniana che era stata il giansenismo. Un prete, Giovanni Meslier, curato d'Etrépagny nella Champagne, era morto nel 1733, lasciando un iconoclastico testamento. Voltaire ne pubblicava nel 1762 i frammenti piú sconcertanti e l'opera appare effettivamente di una audacia sfrenata. È stato definito il piú perfetto manuale dell'ateismo che sia stato mai scritto. Ebbene: neppure in questa opera si concepisce altra possibilità per lo Stato che quella rappresentata dalla subordinazione completa della religione. Per la massa, il Meslier pensa che le forme tradizionali della religione siano appannaggio inevitabile e indeclinabile. «Mi si domanderà», scrive il prete, «se l'ateismo ragionato possa convenire alla moltitudine. Ed io rispondo che qualsiasi sistema presupponga la discussione, non può essere adatto alla moltitudine. Gli argomenti di un ateo non sono meglio attagliati al gran pubblico, incapace di ragionare, di quel che lo siano i sistemi di uno scienziato, le osservazioni di un astronomo, l'esperienza di un chimico, i calcoli di un geometra, le arringhe di un avvocato, ché tutti lavorano per il popolo, però a sua insaputa. Sarebbe iniziativa folle scrivere per la massa e pretendere di guarire di colpo i suoi inveterati pregiudizi. Si scrive soltanto per coloro che leggono e che ragionano. Bisognerà dunque mettere a profitto il sacerdozio, facendogli compiere funzioni ragionevoli. Nelle mani di un governo illuminato i preti sono in grado di diventare utilissimi cittadini. Poiché individui stipendiati dallo Stato, dispensati quindi dall'onere di provvedere alla loro quotidiana sussistenza, possono essere lasciati ad istruirsi il meglio possibile per poi contribuire all'istruzione degli altri».
Ma chi ha piú esplicitamente e brutalmente di ogni altro, alla vigilia della rivoluzione francese, proclamato la superiorità dello Stato a qualsiasi tradizione religiosa e il diritto statale di asservire a sé ogni espressione religiosa, è quel Guglielmo Tommaso Raynal che, dopo aver compiuto i suoi studi nel collegio dei gesuiti di Pézenas ed essere stato ordinato prete, abbandonava la carriera ecclesiastica nel 1747 a Parigi per entrare nella redazione del «Mercure de France». La sua Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes è senza dubbio una delle opere piú significative dell'Illuminismo francese. Ebbe, al momento in cui apparve, un clamoroso successo, sí da provocare l'intervento dell'autorità regale di Luigi XVI, che diede ordine si procedesse contro l'autore. E infatti il Raynal dovette ramingare all'estero, fino al momento in cui Marsiglia lo nominava deputato agli Stati Generali.
In formule nettissime si può dire che Raynal ha veramente riassunto e sistematicamente fissato le opinioni del suo tempo, sui rapporti fra autorità politica e autorità religiosa. «Lo Stato», egli scrive, «non è fatto per la religione. Piuttosto, la religione è fatta per lo Stato. Ecco il primo principio. Il secondo principio è questo: l'interesse generale rappresenta la norma assoluta e infallibile di tutto ciò che deve sussistere nello Stato. Terzo principio: il popolo, o l'autorità sovrana che rappresenta la depositaria della sua autorità, possiede da solo il diritto di giudicare e di sentenziare sulla conformità o meno all'interesse generale di qualsiasi istituto. Questi tre principî mi appaiono tali da possedere una evidenza incontestabile, sí che le proposizioni che ne susseguono debbano ritenersi come loro logici corollari. A questa sola autorità popolare dunque spettano il còmpito e il diritto di sottoporre ad esame e a vaglio i dogmi e la disciplina di una religione. Sottoponendo al vaglio i dogmi, tale autorità deve accertare se, in contrasto con il senso comune, essi non siano causa di turbamento per la tranquillità pubblica, turbamento tanto piú pericoloso in quanto le visuali di una futura felicità celeste verrebbero automaticamente a complicarsi con uno zelo immoderato per la gloria di Dio e per la sottomissione comune a verità considerate come rivelate. In pari tempo tale autorità deve sottoporre a controllo la disciplina, per accertarsi che essa non ripugni ai costumi vigenti, non estingua lo spirito patriottico, non indebolisca la virtú del coraggio, non allontani dall'attività industriale, dal matrimonio, dai pubblici affari, non nuoccia allo spirito di socievolezza, non ispiri il fanatismo e l'intolleranza, non semini le divisioni tra i consanguinei della stessa famiglia, tra le famiglie della stessa città, tra le città del medesimo reame, tra i differenti reami della terra, non diminuisca il rispetto dovuto al sovrano e ai magistrati, non predichi massime di una lugubre austerità né consigli capaci solo di condurre alla pazzia. Tale autorità, e solo tale autorità, può dunque proscrivere il culto stabilito, adottarne uno nuovo, farne a meno, se un giorno ciò le convenisse. Poiché la forma generale del governo preesiste al primo istante dell'adozione di una religione, questa non potrebbe mai fare appello alla propria durata, come ad un argomento di prescrizione. Lo Stato riveste un potere di primato e di supremazia su tutto. La distinzione di una potenza temporale e di una potenza spirituale rappresenta un assurdo palmare. In realtà non esiste che una sola ed unica giurisdizione là dove non risponde che all'utilità pubblica, la funzione di comandare e di proibire. Non esistono altri concili al di fuori dell'assemblea dei ministri del sovrano. Quando gli amministratori dello Stato sono adunati, è la Chiesa stessa che è adunata. E quando lo Stato ha pronunciato il suo verdetto, la Chiesa non ha piú nulla da dire. Non esistono altri canoni che gli editti dei sovrani e le sentenze delle corti giudicatrici».
Nella sua essenza pertanto l'Illuminismo, quell'Illuminismo che spalancò le porte alla rivoluzione francese e a tutte le successive conseguenze nella vita europea, non è l'annullamento della religione, è piuttosto il travasamento dei valori religiosi nella costituzione dello Stato, illuminato dalle luci della pura ragione. Nulla di piú tragicamente sarcastico che il controsenso nascosto nelle parole dell'ex-abbate Raynal là dove egli dice che lo Stato deve intervenire per impedire che la religione crei dissensi nelle famiglie oppure negli Stati. Questo Illuminismo che credeva di poter soppiantare la fede religiosa con le luci della sua fede cieca nelle possibilità dell'umana ragione, era destinato ad aprire il varco a conflitti di popoli e di nazioni ben diversi da quelli che avevano contrassegnato la civiltà medioevale, la civiltà tutta imbevuta di credenza pratica nelle forze mistiche del divino, operante costantemente nella vita dell'universo e nella vita degli uomini.
L'Illuminismo faceva dello Stato il gendarme della religione, quasi che la religione potesse essere causa di iattura per la collettività umana. E non sapeva rilevare che la religione può essere causa di iattura solo quando dimentica la sua natura inconfondibile per assumere essa, dallo Stato e dalla sua ragione, poteri che le sono inibiti, per meglio dire che essa può esercitare ripudiando qualsiasi concorso della forza bruta e della forza dialettica, per fare assegnamento soltanto sulle potenze inerenti alla consapevolezza della comunione carismatica in Dio, nella sua rivelazione, nella sua grazia.
Le idee centrali dell'Illuminismo continueranno ad operare lungamente nella vita europea, anche al di là della rivoluzione francese, ma attenueranno quelle espressioni audaci e brusche che avevano assunto nei corifei francesi del movimento, per mascherarsi sotto la formula piú blanda, ma non meno corrosiva, della assoluta eticità dello Stato e della illimitata autonomia della ragione.