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Gli albori unitari e la Giulia – Perché Trieste si stacca dalla storia d'Italia – Il portofranco cosmopolita – La ricostruzione nazionale e lo Stato – Il 1848: breve idillio fra Trieste e Venezia – Le antitesi del pensiero nazionale – La riscossa dell'austriacantismo e gli sdegni veneziani – Spunti di reazione nazionale – Francoforte e la costituzione viennese – Deputati di Trieste e deputati dell'Istria –Pietro Kandler e la Società dei triestini – Il trionfo dei fedeloni nelle elezioni amministrative – Le ripercussioni delle giornate viennesi d'ottobre – Le oscillazioni del «Giornale di Trieste» – Il giudizio di un osservatore competente sul 1848 giuliano – Il premio della lealtà: lo statuto del 1850 – Il consiglio decennale e l'involuzione della coscienza nazionale a Trieste – Mano di ferro e guanto di velluto – Solferino e il tramonto dell’assolutismo: la patente del 1860 e la costituzione del 1861 – L'unità d'Italia e il sentimento nazionale

Il movimento unitario italiano ha quasi una fede di nascita: nel luglio del 1799, diciannove cittadini di varie parti della penisola, inviano a Parigi, al consiglio legislativo dei cinquecento, un indirizzo chiedendogli di «dichiarare tutti i popoli d'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, liberi di darsi la forma di governo democratico che credono confacente alla loro felicità, mediante una convenzione nazionale».

L'idea unitaria, prima appetito di principi o aspirazione di poeti e di solitari, è diventata ormai sforzo collettivo d'uomini di pensiero e di azione, cioè sentimento e movimento politico.

Questi albori unitari, sorgenti nella penisola alla fine del secolo XVIII, irraggiano anche la regione Giulia e specialmente il suo centro massimo, Trieste?

Si potrebbe rispondere "no" e passar oltre; ma sarebbe, credo, inciampar sulla soglia. Non basta constatare che un sentimento unitario, comunque costituito, si rintraccia fra noi quasi un secolo dopo che nell'attuale regno d'Italia; occorre cercare il perché del ritardo. L'«irredentismo» come vocabolo nasce – si capisce – dopo fatta l'unità. Affinché gli italiani rimasti fuori dello Stato possano aspirare a venir «redenti» mediante l'annessione, occorre che questo Stato si formi. Ma necessario incubatore dell'irredentismo deve pur essere un preesistente sentimento unitario, fondato sulla coscienza, diffusa almeno in qualche strato sociale, di aver comuni coll'Italia i destini e sulla volontà di compierli insieme.

È a tale coscienza, lentamente elaboratasi nei secoli, portato di mille fattori confluenti, che si deve il movimento unitario prima, l'unità politica della penisola poi.

Tracce alquanto più remote di questo sentimento si possono forse trovare nell'Istria; ma a Trieste esso manca, si può dire, fino al formarsi del regno d'Italia.

Perché? Perché la ripugnanza all'unione con paesi italiani e l'attaccamento tenace ad organismi statali d'oltralpe costituiscono addirittura l'elemento caratteristico della storia triestina?

La città, colonia romana dedotta, municipio goto e bizantino, due volte conquista longobarda, poi feudo dell'impero dato in baronia maggiore ai suoi vescovi, infine comune riscattatosi progressivamente per danaro dal signore ecclesiastico – la città, dico, da quando (e fu lungo il 1200) può gettare libero lo sguardo al mare che la bacia, ai colli che la cingono, si trova di fronte, ai fianchi e persino alle spalle, un nemico che ne vuole, e deve volerne, per ragioni supreme di vita, la morte: Venezia.

La lotta fra Trieste e Venezia (occorre avvertirlo subito per la miglior comprensione della storia triestina) ha carattere specialissimo. Rotto l'ultimo vincolo che l'univa a Bisanzio, Venezia col secondo millennio si atteggia di fatto, se non ancora di diritto, signora dell'Adriatico, e tale rimarrà per sei secoli. Trieste stessa seguita a mandar tributo al doge, anche dopo la dedizione all'Austria, sino al 1500; ostinato simbolo esteriore di un predominio contro il quale la città riassume la sua storia.

La lotta esce dal cerchio delle contese comunali italiche alimentate da piccole gelosie confinarie o da ire e vendette di parte. Neppur le assomiglia il grande duello marittimo veneto-genovese. Genova domina il seno mediterraneo, Venezia l'adriatico; è lotta fra due espansionismi che si urtano al di fuori del loro mare interno e collidono, nella gara per la conquista di più ampie sfere di attrazione; duello che appunto per la latitudine sua permette ad ognuno dei due contendenti di vivere e di fiorire accanto e contro l'altro. Più affine è la contesa tra Genova e Pisa; infatti la morte di Pisa marinara alla Meloria assicura il primato mediterraneo di Genova. Fra Trieste e Venezia non decidono le armi; Trieste si apparecchia la lontana vittoria sfuggendo all'assorbimento veneziano, staccandosi cioè definitivamente dalla storia politica d'Italia. Non a caso, la seconda ed ultima dedizione all'Austria (30 settembre 1382) avviene l'anno seguente la pace di Torino, la quale – auspice un duca di Savoia – aveva riconosciuto l'indipendenza del comune. La riconosce, salvi per lei alcuni tributi feudali, anche Venezia che pure, dal 1200 in poi, aveva perduta e riconquistata quattro volte l'agognata città, con le armi o col danaro, lottando accanita contro i patriarchi temporali d'Aquileia, contro i duchi d'Austria, accorrenti alle invocazioni triestine ma arrestati dalle armi o dal denaro della repubblica, soprattutto contro i triestini stessi, sempre pronti alla riscossa dal giogo veneziano.

I reggitori di Trieste bene compresero che l'indipendenza voleva dire il prossimo dominio veneto, cioè la soffocazione definitiva della città. Il patriarcato d'Aquileia, fino allora contrappeso a Venezia e ancora signore feudale dell'Istria, stava per venir ingoiato dalla repubblica; la costa occidentale istriana, salvo brevi lacune poco dopo colmate, era di fatto terra di S. Marco; l'«imbottigliamento» di Trieste stava per diventare completo. Occorreva trovare una forza esterna interessata ad impedire la conquista veneziana di quest'ultimo sbocco libero dell'Adriatico superiore. Questa forza Trieste la trova nella famiglia degli Asburgo, che già per due volte aveva conseguita la dignità imperiale, padrona della Carniola e dell'Istria montana, e quindi confinante coi suoi domini, del territorio triestino, della Carinzia, della Stiria, paesi gravitanti economicamente verso Trieste. L'oligarchia triestina ebbe fede nella solidità dell'edificio statale che gli Asburgo stavano allora costruendo e, da trafficante accorta, vi accese un'ipoteca di cui doveva, a lunghissima scadenza, raccogliere i frutti.

La dedizione non muta il reggimento della città, le lascia per molto tempo la sua individualità politica di fronte ai terzi: soggetto internazionale capace di muover guerre, stringer paci, ecc. Infatti, anche dopo la dedizione, il duello con Venezia continua e Trieste sostiene, da sola o male aiutata, guerre ed assedi ed è costretta, coll'Austria o senza, a paci disastrose. Ma il vincolo, benché lentissimo, che la stringe ai dominatori del suo retroterra, la serba all'avvenire.

Bisogna dire – a spiegarci l'impotente tutela degli Asburgo – che quei principi non si erano assunti un compito lieve. Avrebbero dovuto, per fare onore alla firma della dedizione, difendere contro Venezia la libertà dei commerci adriatici; difesa, per molti secoli, impossibile. L'impero, che gli Asburgo conquistano definitivamente nella prima metà del secolo XV, non è potenza marittima adriatica neppure al suo fiore, quando il sole non tramonta sui domini di Carlo V. Avvenuta la divisione fra gli Asburgo d'Austria e di Spagna, gli oceani e la potenza marinara rimangono a questi ultimi. Di fronte a tale debolezza sta una gran forza, una superba organizzazione marinaresca: Venezia proclama e documenta con le sue ciurme e le sue galere: «L'Adriatico è mio; è il mio mare, anzi la mia "terra"; io, cioè, sull'Adriatico ho gli stessi diritti che gli altri Stati hanno sulle terre loro. Le navi non veneziane possono percorrerlo, se pagano a me i diritti che mi piacerà d'imporre; possono approdare nei porti e farvi traffico, se io lo consento. E, come il mare, miei sono i suoi prodotti». Fra questi, massimo il sale, la ricchezza di tutte le città costiere istriane, specie del comune triestino sorto sulle saline e circondato da esse.

Né l'ostruzionismo marittimo è la sola corda che lega la città; anche ai fianchi e alle spalle, in terraferma, sul Carso sassoso, nelle vallate carnioliche, Venezia vigila e inceppa. Ed ecco la seconda ragione economica della dedizione: Trieste vuole conservare almeno quello che oggi si chiamerebbe il suo Hinterland specifico, la sua particolare sfera d'attrazione, che allora era costituita dai mercati del Carso e della Carniola. E chiede ai suoi signori che ordinino a quei loro sudditi di approvvigionarsi a Trieste e non altrove, servendosi dei sistemi proibitivi dell'economia medievale cioè dello sbarramento delle vie conducenti ai porti veneti (Strassenzwang). E i duchi e poi gl'imperatori, infatti, ordinano e comandano, ma senza efficacia durevole. La loro organizzazione statale è ancora slegata, sprovvista di quei formidabili congegni unitari che oggi fanno coattivamente piegare l'interesse particolare dinanzi allo Stato. Venezia, d'altronde, offre tutte le attrazioni dei grandi mercati e, dove la ragione della distanza sarebbe troppo forte, contrappone a Trieste i suoi mercati istriani: Capodistria specialmente, congiunta anch'essa dalle stesse vie commerciali al Carso e alla Carniola. Così si aizzano gli odi fra Trieste e l'Istria veneta, la quale – si capisce – deve difendere tenacemente almeno le briciole che la Dominante le fa cadere dal banchetto della sua strapotenza marinara.

Per quasi quattro secoli insomma, Venezia può, impotenti o acquiescenti i sovrani austriaci, taglieggiare navigli, saltare gli sbarramenti di vie, distruggere saline, soffocare in una parola tutte le vie respiratorie della piccola ma temuta rivale, crescendo naturalmente col crescere degli anni la paura, tanto che, in una consultazione custodita negli archivi della repubblica, pubblicata sul cadere del 1600 e attribuita alla gran mente di Paolo Sarpi, si suggerisce ai dogi, «in congiuntura di qualche estremo bisogno e che spesso succede all'imperatore, di farne acquisto (di Trieste) per ragion di compra con grosso contante che, per quanto numeroso, non sarebbe mal speso».

Ma il consiglio viene troppo tardi. La scoperta dell'America, il passaggio del Capo di Buona Speranza, vanno via via spostando l'asse del commercio dal Mediterraneo agli Oceani. Col decader generale dell'Italia, decade Venezia. Perduto il primato del commercio mediterraneo, perde, col progredir della conquista turca, il suo ultimo mercato coloniale, l'Oriente. Né può trovare sostitutivi; la sua oligarchia, avvezza a governare col privilegio, teme anche della libertà dei traffici; l'idea del portofranco, comparsa per due volte in senato, svanisce senza lasciar traccia. Contemporaneamente, un'altra evoluzione matura: il ducato d'Austria s'è identificato nell'impero, che va divenendo a sua volta organizzazione capace di sviluppare una azione metodica dal centro alla periferia. L'impero, intorno alla metà del secolo XVIII, guarda, col Belgio, ai mari del nord, con la Lombardia e il Napoletano, all'Italia adriatica e mediterranea; la pace di Passarowitz con la Turchia (1718) gli apre i mercati d'Oriente. È a questo punto che la dedizione fruttifica, perché Trieste si trova ad essere l'unico scalo adriatico chiamato da una, sia pur modesta, tradizione commerciale e marinara, e da una secolare aspirazione, a divenire «l'emporio austriaco», il naturale succedaneo adriatico di Venezia; la quale non sa più reagire; essa, che ancora nel 1631 aveva vietato persino ad un imperiale corteo nuziale di solcare il suo golfo adriatico, lascia che nel 1702 – combattendosi la guerra della successione di Spagna – navi dell'impero, armate, lo attraversino e procedano oltre le foci del Po, lascia che nel 1717 Carlo VI proclami, con sovrana patente, la libertà dell'Adriatico, e manda suoi ambasciatori a complimentarlo a Trieste, quando l'imperatore vi viene a mirare i primi effetti dell'opera sua (1728). Quest'opera dapprima è sterile, perché imperniata sul privilegio anziché sulla libertà dei traffici. Il portofranco incomincia con Maria Teresa (1740-1780): è da allora che s'inizia l'ascesa vertiginosa della città e il suo contemporaneo trasformarsi da comune chiuso oligarchico in emporio statale cosmopolita.

La trasformazione costituisce un nuovo fattore che deve ripercuotersi largamente sul sensorio sociale triestino ed influenzarlo. Il portofranco era andato creando una città nuova accanto al vecchio comune: la città dei ricercatori di fortuna, venuti d'oriente e d'occidente; molti sfuggiti, grazie alla concessa immunità, alle leggi penali dei loro paesi; serbi e tedeschi, olandesi e greci, armeni e turchi, e francesi, e italiani d'ogni parte d'Italia. Questa città formava un tutto anche materialmente compatto, estendendosi presso il vecchio porto, sugli acquitrini delle antiche saline; Carlo VI ne aveva fatto politicamente un territorio separato, sottoponendolo all'immediata giurisdizione dell'impero col nome di «distretto camerale». Il patriziato, ancora reggitore del comune, viene a trovarsi, di fronte al distretto, in uno stato d'animo contraddittorio: da una parte non può che desiderare la fortuna dei nuovi venuti ad attuare il suo sogno secolare di emporio, dall'altra è profondamente urtato nel vedere i «distrettuali», quasi futuri padroni, sfuggire alla giurisdizione cittadina, colmarsi dallo Stato di privilegi tributari e fondiari, gloriarsi della propria ignoranza cosmopolita, deridere la dignità e le tradizioni patrizie.

L'accorto regime teresiano sa trarre partito da questo contrasto: disarma il patriziato unendo il distretto al comune ed estendendo su quello le minori giurisdizioni cittadine, ma, contemporaneamente, cancella la clausola fondamentale della dedizione, l'individualità politica di Trieste quale città immediata e autonoma dell'impero, e la unisce a Fiume, ad Aquileia e ad una parte della costa adriatica croata col nome, destinato a risorgere, di Litorale.

Il patriziato risponde intitolando il distretto, in omaggio alla sovrana, Borgo Teresiano. Il suo giudizio e il suo atteggiamento collimano, del resto, con quelli dei posteri; gli ordinamenti teresiani del 1749 sono considerati anche nel secolo XIX il germe della prosperità triestina, tanto che, compiendosi il secolo, se ne ricorda il centenario quale effettivo inizio dell'emporio.

Vi era, in realtà, contraddizione profonda fra le vecchie forme politiche, la vecchia gente e le necessità di quell'emporio che essa pure, a suo modo, voleva. Nello stesso anno in cui Maria Teresa ottiene l'abdicazione del comune, questo, invitato a dar parere sui mezzi di far fiorire i commerci, torna, in una sua consultazione, alla superstizione del privilegio, all'errore di Carlo VI e propone, fra l'altro, di inibire severamente l'ingresso di prodotti forestieri «della stessa sorte e qualità che abbonda negli Stati austriaci». Il che sarebbe stata la negazione del portofranco.

«L'imperatrice adottò sistema opposto, coronato da felicissimi successi. La consultazione dimostra quanto fosse necessaria l'abdicazione del comune e l'assunzione del governo in diretto reggimento». Sono parole caratteristiche del più acuto ricercatore di storia triestina, di quel Pietro Kandler che avrà tanta parte nella formazione della coscienza nazionale fino al 1860 e che uno scrittore non certo sospetto di tiepidità nazionale, il Caprin, chiama meritamente «il più grande ingegno paesano del secolo XIX».

Egli è che il Kandler avverte la rivoluzione che doveva compiersi, e si era anche compiuta, appunto col cadere del 1700, a Trieste e nei rapporti fra Trieste e l'impero. Il vecchio comune, a fondo etnico latino, ma d'animo profondamente austriaco, facile assorbitore degli scarsi elementi estranei, moriva sopraffatto dalle nuove forze che gli sorgevano intorno; la vittoria su Venezia, agognata da tanti secoli, lo uccideva perché proprio da quella vittoria sorgeva la città nuova, la città della turba mercantile cosmopolita, che dovrà passare attraverso un lungo e faticoso processo di assorbimento per acquistare coscienza, non dico unitaria, ma semplicemente nazionale.

Dal canto suo, l'impero, sino allora quasi assente, incomincia a spiegare sulla città oltreché un'azione economica anche una tendenza nazionale; cerca cioè di conguagliarne le diversità etniche nel germanismo. Infatti il Borgo Teresiano, nei suoi esordi, ha tedesca la chiesa parrocchiale, tedeschi i libri delle ipoteche, i nomi delle vie, eccetera. Giuseppe II sceglie il tedesco come mezzo di accentramento dello Stato, laicizza a Trieste l'istruzione, ma la intedesca fin nelle scuole inferiori, benché non completamente.

Questa germanizzazione, (lo vedremo meglio più tardi) senza alcuna base d'ambiente, senza alcun addentellato etnico indigeno, deve fallire. Anzi, il cosmopolitismo mercantile dominatore (benché fra esso l'elemento tedesco sia largamente rappresentato) adotta la lingua che sente usare per la strada, e italiana rimane la lingua degli affari, delle comunicazioni, degli spettacoli. Ma quest'assimilazione puramente esteriore può anche significare l'espressione di una qualsiasi coscienza nazionale? Evidentemente no. Come l'oligarchia comunale deve mancare, per il suo sviluppo storico, di ogni germe di sentimento unitario, così l'emporio mancherà lungamente di ogni coscienza nazionale. E sarà proprio nel secolo in cui l'Italia andrà maturando il suo pensiero unificatorio.

Ed anche qui le cause sono chiare. I nuovi cittadini vedono nella incorporazione della città all'impero la ragione massima delle loro fortune, nel cosmopolitismo accentrato a Trieste il documento del buon successo del portofranco; vedranno presto nella conquista austriaca di Venezia e dell'Istria la cresima dell'egemonia adriatica di Trieste, come nella breve cacciata dell'Austria dall'Adriatico la catastrofe repentina, e nel ritorno dell'impero il vertiginoso risorgere dei traffici e dei guadagni. In questo ambiente, la costruzione di una coscienza nazionale, anche ristretta a pochi nuclei eletti, deve necessariamente riuscir laboriosa e lentissima.

Durante la bufera napoleonica, il processo è ancora agli esordi. Marmont, il governatore dell'Illirio, ricordando nelle sue memorie la struttura etnica della bizzarra regione che Napoleone gli aveva dato da amministrare, ha un'impressione specificatamente cosmopolitica di Trieste: «I due milioni di abitanti – dice – eran composti di tedeschi, illiri (cioè slavi), italiani, albanesi» e, infine, «di persone di tutti i paesi», a Trieste.

Circa un ventennio dopo il ritorno dell'Austria a Trieste, troviamo formato un piccolo nucleo intellettuale, composto quasi tutto di non triestini, che si prefigge a missione la propaganda per la risurrezione della coscienza nazionale. Sono gli scrittori della «Favilla» (1836-1846). Nei suoi esordi, la stessa «Favilla» deve constatare l'aspetto cosmopolitico di Trieste: uno dei suoi scrittori descrive il mercato, e che cosa vi nota? «Lo sciame, e le fisionomie e le leggiadre acconciature, non pur delle leggiadre "mandriere", ma delle "mezze signore" carnioline, carintiane, renane, belgie (?), francesi, egiziane, greche», e designa la Trieste del 1836 una città «dove tutte le famiglie conservano senza ridicolo od opposizione le usanze del luogo donde vennero» (4 settembre 1836). Ancora nel 1846 (p. 497) il giornale instauratore della coscienza nazionale cittadina è tratto a chiamare la città «convegno di tre popoli contermini».

La «Favilla» muore, sperando di aver compiuto la sua missione. Francesco Dall'Ongaro dice nell'articolo di congedo (31 dicembre 1846): «Chi scrive queste parole si ricorda di essere stato interrogato, or sono sette anni, in una delle nostre primarie conversazioni, se Trieste avesse a chiamarsi città italiana o altrimenti. Alla sua risposta affermativa tutti gli risero in faccia; ora si riderebbe forse di chi facesse la stessa interrogazione».

Ma il sensorio cosmopolita non è estinto; lo vedremo resistere anche al 1848: l'inno alla costituzione e al sovrano, composto dal Gazzoletti nell'ebbrezza quarantottesca e cantato fra un delirio d'entusiasmo al Teatro grande, può ancor prendere le mosse dal poliglottismo austriaco e incominciare così: «O fratelli, di lingua diversi, / Ma di mente concordi e di affetto»...

Qui, per compier l'ambiente, va notato un altro fenomeno caratteristico della fase che la città attraversa: allo sviluppo della coltura italiana e quindi alla formazione della coscienza nazionale, prima del 1848, guarda benevolmente, anzi per qualche riguardo collabora anche lo Stato. La politica giuseppina di germanizzazione collettiva e forzosa; ha fatto fiasco. La burrasca napoleonica, più tardi la rivoluzione del 1830, scuotono le nazionalità assopite. Metternich sa già servirsi dello slavismo, appena risvegliantesi, per tenere in iscacco il magiarismo; sotto la verniciatura ancor tutta tedesca, il divide et impera incomincia a far capolino. A Trieste invece gli atteggiamenti statali appaiono bonari; è l'era dei luogotenenti «frondisti», come quel principe Porcia, di famiglia feudale friulana, grande spregiatore della città nuova, che chiamava «campo a baracche ove i forestieri insaccano i quattrini», grande amico delle tradizioni nazionali cittadine e degli uomini che volevano risuscitarle, cui apriva la casa a spettacoli teatrali e a conversazioni letterarie. La tattica del Porcia viene ripresa, con maggiore intelletto politico, dal conte Francesco Stadion che regge la luogotenenza del Litorale dal 1840 al 1847, proprio nel periodo d'incubazione del 1848. Lo Stadion, rampollo di nobile stirpe tedesca, spirito bizzarro, misto di esteta e di utilitario, grand seigneur di nascita e di maniere, accarezza gl'intellettuali mostrandosi amico della lingua e della musica italiana. Anfitrione signorile e gaudente raffinato, celibe e ricchissimo, sa servirsi anche del cuoco per amicarsi gli animi. Il Dall'Ongaro è tra i suoi commensali ed a lui il governatore commette la compilazione di un libro italiano di testo per le scuole elementari ed inizia la loro trasformazione da tedesche in italiane. Lo Stadion tenta pure di attenuare le asperità rimaste nei rapporti di Trieste con Venezia ed alla sua iniziativa si deve uno scambio di visite fra triestini e veneziani. Fra gli ospiti, festeggiatissimo dal governatore, vi è Cesare Cantù, che pubblica nella «Favilla» una caratteristica relazione di quelle gite, inneggiando alla fratellanza fra le due antiche rivali.

L'immaturità della coscienza nazionale e gli aiuti, anche statali, per svilupparla bastano ad escludere, nella Trieste prequarantottesca, ogni traccia di sentimento unitario. Anche per questo riguardo la collezione della «Favilla» ci offre indizi sufficienti. La sua eredità viene d'altronde trasmessa al giornale del governo, all'«Osservatore Triestino», il quale dal 1846 inaugura una rubrica letteraria in cui scrivono i migliori ingegni della città.

Accanto a questa corrente di pensiero prevalentemente letterario, ne serpeggia un'altra che ha le sue sorgenti nel passato e tenta di armonizzarvi il presente. Due uomini la incarnano e ne rappresentano due fasi successive: Domenico Rossetti e Pietro Kandler.

Domenico Rossetti (1774-1842) nasce di famiglia originaria dell'Albania immigrata a Trieste nel secolo XVIII; figlio di uno degli ultimi inscritti al patriziato, sente tutta la nostalgia dell'antico regime oligarchico e si illude di vederlo rinnovato. Alla vigilia dell'occupazione francese livellatrice del passato, mentre il patriziato muore di marasmo senile, il Rossetti compila un progetto di statuto mirante a ricostruire, per quanto si poteva, il comune antico: dai mercanti arricchiti e ritiratisi dai negozi, egli sogna di trarre un patriziato nuovo che dovrebbe riprendere la tradizione triestina, nazionale, austriaca e oligarchica. Pietro Kandler (1804-1872), storico, giurista, archeologo geniale, procede dalla città alla regione; vagheggia per lei autonomie, franchigie, privilegi compatibili coi tempi. Ma in ambedue questi uomini prevale e perdurerà tenace il convincimento che il fiorire della Giulia è indissociabile dall'unione politica all'Austria. Domenico Rossetti non vede il 1848 e il suo pensiero non può cimentarsi a quella pietra di paragone, ma il Kandler, che sente lo spirito del liberalismo quarantottesco e sopravvive al 1859, al 1866, al 1870, rimarrà refrattario alla neonata idealità separatista. Ciò non impedirà tuttavia né all'uno né all'altro di dare l'animo e l'intelletto alla riaffermazione, in ogni campo, della coscienza nazionale e dei diritti autonomici triestini. Dei quali, come accennai più sopra, la città era rimasta del tutto privata, dal 1809. La Mairie, istituita dai francesi, non visse che sulla carta. Tornata l'Austria nel 1813, si considera padrona per diritto di conquista e quindi non tenuta ad alcun precedente impegno; ripristinato il portofranco, il governo, quanto al resto, dà di frego ad ogni vestigio del passato. Trieste, insieme a Gorizia, a Gradisca, all'Istria, a Fiume e ad una parte della costa adriatica croata, scompare in un «Governo delle coste» o «Litorale» che è dato in balia dell'elemento burocratico. La città viene amministrata da tre assessori e da un preside, tutti di nomina governativa (i.r. Magistrato); funzionario del governo è anche il procuratore civico, carica politica affidata al Rossetti, l'uomo che, nell'atonia generale, avverte il danno della confisca autonomica. Nel 1826 si forma un embrione di vita comunale: la Deputazione consultiva, composta di 6 membri nominati dal governo e di altri 6 inviati dalla Borsa, la rappresentanza del nuovo ceto mercantile. È una lustra che dura fino al 1839. In quell'anno giunge da Vienna uno statuto civico vero e proprio: lo statuto ferdinandiano; ma anch'esso muta più i nomi che le cose; crea un consiglio di 40, scelti però sempre dal governo su 80 proposti dal magistrato e dalla deputazione: unico potere positivo del consiglio, l'esame dei bilanci. «Il consiglio ferdinandiano (cosi lo giudica il Kandler) non fece che accrescere di una le istanze inferiori amministrative, lasciando illesa l'azione delle superiori al governo».

Riassumendo: ceto mercantile senza coscienza nazionale e politica; coscienza nazionale ancora in formazione presso le classi più colte; classi popolari assenti; assolutismo paternalistico governativo. In quest'ambiente scoppia improvvisa la bufera del 1848.

Il 1848 a Trieste è fenomeno vario e complesso; passa per diverse fasi, ad ognuna delle quali corrispondono atteggiamenti particolari del pubblico. Il primo suo grido è «Costituzione». Questo vocabolo, assai vagamente e malamente compreso dai più, non urta tuttavia contro alcuna resistenza specifica, anzi la varietà della gente senza tradizioni da conservare, gli apparecchia uno spontaneo ambiente favorevole. Mancano l'aristocrazia o il clero feudali che sentano in pericolo i loro privilegi fondiari; il ceto mercantile, borghesia già capitalisticamente organizzata, nulla ha da temere, anzi non può che sperar vantaggi dalla propria partecipazione al governo dello Stato, dalla libertà di parola, di riunione, ecc., purché si instaurino alla lesta e senza torbidi dannosi agli affari; gli intellettuali vedono nella costituzione il più sollecito trionfo della coscienza nazionale e l'avviamento all'autonomia; la folla amorfa dal nuovo ed ignoto spera, al solito, qualche lenimento alle sue miserie. È dunque entusiasmo poco cosciente ma sincero quello che, nella notte del 16 marzo, accoglie, strappate ai passeggeri e ai postiglioni della diligenza di Vienna, le prime notizie confuse della costituzione e le lancia per la città che, subito, folgoreggia di lumi e risuona di evviva. Il giorno dopo la folla abbatte un ritratto di Metternich al Tergesteo e l'Albergo Metternich diventa Albergo Nazionale.

Giubilo e sdegno (occorre dirlo?) sono rigorosamente legalitari: il proclama imperiale del 15 marzo (che istituisce la guardia nazionale, sopprime la censura e annunzia la prossima convocazione di un parlamento) viene comunicato alla folla plaudente in piazza dal governatore e cresimato dai discorsi elogiativi del vescovo e del preside comunale. «L'Istria» di Pietro Kandler – il giornale che ricerca nel passato i documenti della nazionalità paesana – smette per un numero la compostezza della rivista storica e leva anch'essa l'evviva al sovrano liberatore in un articolo firmato dal Kandler e in un altro a firma di Tommaso Luciani, che diverrà, pochi anni dopo, l'apostolo dell'irredentismo istriano. E di lealismo austriaco – che ben presto si farà antiliberale e antitaliano – è compenetrata anche la guardia nazionale, altrove invece mente e braccio della rivoluzione.

Appartiene alle primissime giornate quarantottesche un episodio caratteristico: Trieste reca a Venezia le nuove di Vienna, la promessa solenne del regime costituzionale, per cui avrebbe dovuto convocarsi al più presto anche la Congregazione lombardo-veneta. La mattina del 18 marzo, mentre Trieste giubila, i passeggeri del piroscafo partito la notte prima da Venezia narrano che colà nulla si sa ancora, che la città freme e si agita e pare imminente uno scoppio. Subito un crocchio di giovani lancia l'idea: portiamo noi a Venezia l'annunzio della costituzione. Detto fatto, si chiede al Lloyd un piroscafo; il Lloyd, visto il patriottico scopo, mette gratuitamente a disposizione lo stesso battello allora allora arrivato; si imbarcano i più entusiasti, fra essi quel giovane raguseo «internato» a Trieste, futuro ministro del regno d'Italia: Federico Seismit-Doda. A sera il piroscafo è in vista di S. Marco; folla alle rive, ansiosa, alla vista del piroscafo triestino tornante in giorno ed ora insoliti. «Libertà, costituzione!» si grida da bordo; echeggiano le stesse grida da terra; i messaggeri sono portati in trionfo al palazzo del governatore Palffy al quale consegnano il testo del proclama imperiale che il Palffy legge, dal poggiolo, alla folla accalcata in piazza S. Marco: W. Venezia, W. Trieste, W. la Costituzione, W. Ferdinando.

Doveva essere, quest'ultimo, grido fuggevole in bocche veneziane. L'Austria, nella Venezia del 1848, voleva dire depressione e compressione, il tramonto di una potenza millenaria, lo scettro dell'Adriatico passato all'opposta sponda. E infatti già il 19 c'è conflitto fra la folla e i croati: 4 morti e parecchi feriti; il 22 sono gli arsenalotti che trucidano il colonnello Marincovich, odiato quale aguzzino soprattutto perché straniero; le autorità civili e militari, sbigottite, cedono i poteri al municipio e la Repubblica, evocata in piazza San Marco dalla voce possente di Daniele Manin, sembra alla moltitudine ed è in realtà il corollario logico e fatale del movimento. Non più la Serenissima però, la dominante gelosa e rinserrata in se stessa, nazionalmente amorfa, ma la repubblica democratica, parte integrante dell'unità politica italiana. A questo punto il breve idillio, tessuto in un'ora di ebbrezza, deve rompersi. Trieste, come Venezia, segue i richiami del suo passato, l'imperativo categorico del presente, ambedue ripugnanti all'impulso unitario.

Va notato però qualche guizzo fuggevole. Il triestino Orlandini, uno dei fondatori della «Favilla», trovandosi nelle giornate di marzo a Venezia, tenta di acclimatare il tricolore a Trieste. Ma la reazione succede immediata; il 24 marzo, nel ritrovo dei negozianti, il Tergesteo, avvengono colluttazioni; si propone di espellere dalla guardia nazionale alcuni militi od ufficiali che avevano osato ostentare i tre colori italiani in luogo del bicolore austriaco. A difesa del tricolore interviene... il governatore austriaco con un curiosissimo proclama diretto a quei cittadini «che hanno tentato di insultare delle persone che portano i colori della loro nazione», mentre conviene «rispettare l'estero nostro ospite nello spiegare gli emblemi della propria patria»!! Bizzarro riconoscimento austriaco della rivoluzione lombardo-veneta, contro la quale l'Austria stava affilando le armi!

È l'ora, d'altronde, dei confusionismi e delle incoerenze. Non aveva lo stesso giornale ufficiale riportato, quattro giorni prima, le strofe di un inno a Venezia con versi come questo: «O regina dell'Adria ti scuoti», ecc.?

Si iniziano le poche settimane vittoriose della riscossa italiana; la liquidazione del dominio austriaco sulla penisola può parere imminente, e solida l'unione dei principi italiani contro l'Austria e possibile la marcia di Carlo Alberto e dei suoi alleati fino all'Isonzo o anche più in là. È allora che la «Gazzetta di Vienna» parla del Lombardo-Veneto come di un regno perduto e propone di rivalersi sui principati danubiani, è allora che a Trieste un pezzo grosso della finanza, il Bruck, si fa sentir dire: «Chi ci assicura che domani non abbiamo qui la repubblica?».

La «repubblica» (cioè il distacco dall'Austria in una od altra forma) avrebbe potuto venire, ma soltanto per forze esterne di guerra, non per movimento interno. Negli stessi propagandisti del sentimento nazionale manca, in quell'attimo fuggente di vittoria, la identità di vedute e di speranze. Mentre l'Orlandini si illude di poter importare da Venezia, con le coccarde tricolori, l'idea e lo slancio unitario, il Dall'Ongaro da Udine propone a Trieste l'avvenire di città libera, né italiana, né austriaca, una «Amburgo dell'Adriatico».

E forse non a caso quest'idea, di apparenza conciliatrice, nasce anch'essa mentre dura il breve sorriso delle vittorie democratiche in Austria e in Italia e mentre le aspirazioni puramente nazionali del liberalismo triestino sembrano poter conciliarsi con quelle, separatiste ed unitarie, del Lombardo-Veneto. La nuova Austria riconoscendo il diritto all'indipendenza dei lombardi e dei veneti, ecco la nuova Italia riamicarsi con lei, e Trieste, in mezzo, unita intellettualmente alla prima, economicamente alla seconda. Ma le due voci, dell'Orlandini e del Dall'Ongaro, elidentisi a vicenda, cadono nel vuoto. A Venezia – dove l'ebbrezza dell'ora poteva aver fatto dimenticare la ragion ferrea degli interessi in contrasto – la delusione per il contegno di Trieste è viva e profonda; gli inni si mutano in maledizioni; ribolle l'odio tradizionale: «fratelli» del diciotto marzo al primo aprile sono già divenuti «ammasso di negozianti d'ogni nazione che con molto ardire, con finissima frode e coll'aperto sostegno dell'austriaco governo, tolsero a Venezia ed a tutta l'Italia una gran parte di floridissimo commercio... ammasso di male arrivati avventurieri». Trieste è l'«anfibia» che usa ogni mezzo, ogni tradimento per opporsi al risorgimento italiano... e tende ad imbarazzare le nostre relazioni col mare, per rendere meno pronta l'azione per terra». Si attribuiscono persino a Trieste, nel bollor dell'ira, delle colpe di cui la storia non le lasciò traccie di responsabilità; così quella di «tenere in ostaggio le navi da guerra venete e di aver rimandato spogli i marinai veneti».

A difesa della sua città interviene l'Orlandini. Accennai già al manifesto da lui lanciato ai veneziani per persuaderli che gli insulti alla sacrosanta coccarda tricolore si dovettero a traviamento di popolo «cui si volle far credere il rosso ed il bianco colori di S. Giusto». Più lunga e disperata è la paternale che l'Orlandini rivolge a Trieste, mostrando di riconoscere nell'animo dei triestini stessi la ragion massima del loro atteggiamento antiunitario. «Inalberate – dice fra l'altro – il tricolore, perché l'Austria più non esiste... ascoltate la voce di un concittadino che da venti anni vi ha sempre dimostrato che la vostra abnegazione per un governo, il più ribaldo della terra, vi condurrà a certa perdizione».

Il dissidio fra Trieste e Venezia invece era destinato ad esasperarsi. Il 24 maggio compare nel golfo di Trieste la squadra sardo-veneta-napoletana. Poco dopo le navi napoletane se ne vanno e la squadra rimane al comando dell'ammiraglio sardo Albini e del Bua, un ufficiale veneto già al servizio dell'Austria, passato il 22 marzo con gli equipaggi e i navigli che si trovavano nelle acque di Venezia alla causa della repubblica.

Quali istruzioni e quali ordini, indipendenti o subordinati ai casi della guerra terrestre, avesse l'Albini, non è, ch'io sappia, chiarito. Che la spedizione avesse anche intenti offensivi e non mirasse soltanto a impedire l'attacco delle forze navali austriache rimaste intatte a Pola, vien affermato esplicitamente nel rapporto che il Paolucci, ministro di guerra e marina della repubblica, presentò all'assemblea nella seduta del 4 luglio 1848. È noto che, contro l'eventualità di un bombardamento o di uno sbarco a Trieste, protestò in via diplomatica la Confederazione germanica, ritenendo Trieste territorio federale, e su di ciò (che è una delle complicazioni del '48 triestino) dovrò tornare più sotto. Meno noti sono gl'indizi che fanno presumere negli inviatori della squadra la speranza di un movimento insurrezionale a Trieste, da cui avrebbe dovuto prendere le mosse un'azione offensiva su territorio austriaco. Dal 24 maggio al 12 giugno la squadra sembra stare in attesa di eventi e appena dopo tre settimane dal suo arrivo nelle acque triestine, giustifica internazionalmente la sua presenza notificando il blocco della piazza.

In quello stesso mese di giugno, nei giornali patriottici (per esempio la «Concordia» e il «Pio IX» di Milano) si deplora che Trieste non abbia avuto il «coraggio» di sollevarsi. Più esplicito, alla fine di luglio, «L'Avvenire d'Italia», pure milanese, giudicando pazzesco il progetto di far marciare Garibaldi pel Tirolo verso Vienna (eran già avanzati i rovesci delle armi piemontesi), chiede: «Forse è dimenticata la triste prova che si fece a Trieste?» Anche l'Istria marittima, dove il sentimento unitario è già sbocciato, attende da Trieste il segnale della rivoluzione.

Era vana l'attesa. La comparsa della squadra può solleticare le confuse speranze di qualche singolo (benché, come vedemmo e vedremo, il futuro liberalismo irredentisteggiante sia ancora legalitario) ma solleva mille paure nel ceto mercantile dominatore. Quando poi il blocco viene ad inceppare il commercio – la religione della città – allora il sensorio sociale cittadino si imbeve di spirito antirivoluzionario e quindi antitaliano. E, quasi contemporaneamente, cominciano le sconfitte di Carlo Alberto, e il ritorno vittorioso dell'Austria dalla cerchia delle Alpi verso i piani lombardi. I negozianti e il loro seguito si persuadono che la "repubblica" non verrà e cessa in loro ogni tema di spingersi troppo a fondo contro i possibili vincitori di domani.

Il contegno di Trieste, infatti, è tale da meritare gli elogi del maresciallo Gyulaj (il vinto di Magenta), allora comandante la piazza bloccata, il quale lo addita ad esempio ai meno fidi istriani. Neanche lo stato d'assedio – proclamato per ragioni di guerra dopo la dichiarazione di blocco – vale a deprimere le manifestazioni patriottiche cittadine e in onore del Gyulaj, che riunisce allora i poteri civili e militari, si fanno fiaccolate e luminarie, ed a lui vanno gli elogi unanimi della stampa anche liberale. Si capisce che in simile ambiente possa festeggiarsi persino la caduta di Milano. E, quantunque in regime militare e sotto i cannoni del nemico, non consta sia stata presa alcuna misura di polizia contro alcun cittadino sospetto o presunto tale.

A Venezia quest'ostinata lealtà triestina suscita una nuova fiammata di sdegni che, questa volta, assumono carattere ufficiale. Non sono più articoli firmati, accolti nell'organo del governo: è l'organo stesso che a false notizie di movimenti austrofili veneziani partite da Trieste premette questo tagliente "cappello": «La fedelissima città di Trieste segue l'usato, generoso suo stile. Non avendo tristi nuove da comunicare intorno alla nostra città, per sua soddisfazione le inventa...». Pochi giorni prima, aprendosi l'assemblea costituente, Manin, nella relazione sulle vicende guerresche, aveva accennato a Trieste senza nominarla, designandola crudamente «la rada dove si preparavano i nostri lutti».

Sdegni ed ironie ben spiegabili coll'eccitazione tragica dell'ora, ma racchiudenti un giudizio troppo appassionato e sommario. In realtà, se le brevi vittorie della rivoluzione italiana non eran valse a distogliere Trieste dal suo cammino, le sconfitte, e più il giubilo rumoroso con cui i mercanti e gli «iloti» le vanno celebrando, suscitano degli spunti di reazione e di protesta, primi segni precursori di nuove correnti di pensiero cittadino. I giornali quotidiani del liberalismo cominciano a uscire a Trieste appena in questo momento (agosto 1848) e dalle loro colonne ci sarà d'ora innanzi più facile seguire le evoluzioni dello spirito pubblico quarantottesco. Il «Costituzionale», la «Gazzetta di Trieste», il «Telegrafo della sera», ecc. riflettono con irrilevanti differenze di tono il pensiero dei liberali. L'affermazione dell'indissolubilità dei destini di Trieste da quelli dell'Austria vi è ripetuta e accentuata largamente sino all'ultimo, né certo per timore di persecuzioni penali; la legge provvisoria di stampa del 31 marzo 1848 (che la controrivoluzione del 1849 si affretterà a togliere), ben lungi dall'incriminare il silenzio, è, per molti riguardi, più liberale della presente; ignora, ad esempio, la cosiddetta procedura oggettiva, inoltre deferisce i reati di stampa alla giuria, permette la rivendita per le strade, ecc.

Tuttavia, in mezzo alle affermazioni lealistiche, si avverte e si accentua la polemica sempre più vibrata contro l'ultra-austriacantismo e le sue intolleranze; delle quali la cronaca offre in quei mesi frequenti episodi comici. Nella vetrina di un negozio di biancheria spicca – orribile! – un fazzoletto tricolore; ed ecco un signore «ben vestito» guardare, inorridire e... sputare sulla vetrina! Il negoziante Ferro espone un altro fazzoletto, il quale, oltre allo sconcio del tricolore, presenta lo scandalo del ritratto di Balilla! Nuovo schiamazzo patriottico. Dalla finestra di un'abitazione sventola un cencio rosso; e il rosso entra nel tricolore! Fischiate, sassate, donne svenute e soluzione stecchettiana: «Era la tenda!!» («Costituzionale» 22 ottobre e 7 novembre).

Piccinerie di cronaca, ma insieme indici dell'atmosfera di sospetto che incomincia a turbare la città, prima così serena nella sua atonia politica. Ogni tafferuglio viene da alcuni colorato di tinta sovversiva. La guardia nazionale, malcontenta per la forma del chepì, inscena uno charivari sotto le finestre del suo comandante; ne deriva uno scontro tra i militi e la folla. Dimostrazione antiaustriaca? La voce corre, ma (segno del patriarcalismo governativo ancora in fiore?) il Comando militare si affretta a smentirla ufficialmente.

D'altra parte, anche i fazzoletti tricolori – benché accolti a sputi – possono pure voler dire che qualche cosa di nuovo brulica nel fondo del sensorio sociale triestino. Vediamo, dunque, per orientarci, le manifestazioni positive di questo primo esperimento di libertà costituzionali.

La nuova era porta seco una grande novità: le elezioni. Trieste, come vedemmo, era nata e aveva prosperato in regime essenzialmente antiparlamentare ed antielettivo; la funzione elettorale le è dunque estranea e, se non ostica, almeno inapprezzata ed incompresa; come accade di tutti quei favori che ci piombano addosso senza averli nonché chiesti, neppur desiderati. E dal nulla si passa al troppo. In maggio, elezioni dei deputati alla dieta di Francoforte, in giugno elezioni di quelli per la costituente di Vienna, in agosto elezioni dei consiglieri comunali.

Che cosa sono queste elezioni di Francoforte? Che c'entra Trieste col parlamento che avrebbe dovuto sostituire alla federazione dei principi tedeschi, quella, nazionale, del popolo? Si rispecchia qui il vizio d'origine del 1848 tedesco. L'assemblea di Francoforte intende di rappresentare esattamente l'organismo federale come era stato costituito, auspici l'Austria e la Prussia, dai trattati dal 1815 in poi. Ora, quest'organismo comprende anche paesi non tedeschi; nel protocollo federale del 6 aprile 1818, promulgato con patente sovrana del 2 marzo 1820, il «territorio di Trieste» figura fra i paesi dell'Austria facenti parte della Confederazione. L'aggregazione di Trieste cozzava contro lo spirito e la lettera della dedizione, nella quale il principe si era impegnato a non alienare né trasferire a chicchessia tutti o parte dei suoi diritti sulla città.

Ma la Trieste del 1820 non comprese, e d'altronde non aveva voce in capitolo: l'Austria, dal canto suo, aveva interesse a pesare, con quanto maggior territorio poteva, sulla Confederazione, per contrastarvi la supremazia prussiana. Il ministero sorto a Vienna dalle giornate di marzo – le quali (occorre non dimenticarlo) furono essenzialmente movimento borghese liberale tedesco – si affretta ad indire le elezioni in tutti i paesi austriaci aggregati alla Confederazione e le bandisce circa contemporaneamente a Trieste, nel Goriziano e nell'Istria «antico-austriaca».

Il ceto mercantile triestino, con la sua consueta psicologia, argomenta così: «Tutto ciò che ci unisce di più alla Germania allarga il nostro Hinterland, giova quindi ai nostri affari. Andiamo a Francoforte a farvi, magari, i patrioti tedeschi». Ed ecco costituirsi un comitato elettorale cui, accanto ad uomini della Borsa, partecipano anche altri elementi che formeranno poi quasi tutti il nucleo politico più conservatore. Il programma di questo comitato affida, fra altro, ai futuri membri della dieta il compito di fare di Trieste («Osservatore triestino», 9 e 16 maggio 1848) il porto militare federale tedesco, di propugnare l'aggregazione dell'Istria ex veneta alla Confederazione e di opporsi ad ogni velleità «repubblicana»!!

Ben lontano da costoro, Pietro Kandler – intorno al quale stanno per riunirsi gli uomini del nascente partito liberale – vorrebbe che «non una pietra si portasse all'edificio di Francoforte». Custode della tradizione austriaca e nazionale, teme che Francoforte indebolisca i titoli di Trieste al ripristino della sua autonomia provinciale, secondo lo spirito, sia pur modificato dal tempo, della dedizione; teme che l'appartenenza ad un organismo essenzialmente tedesco rafforzi la corrente germanica già troppo gravante sulle cose cittadine. Al Kandler si uniscono altre voci, tutte partenti dalla premessa, rigorosamente legalitaria, che Trieste austriaca repugnava da qualsiasi rapporto di diritto che non fosse con l'Austria. E tra queste notiamo la voce di Francesco Combi, istriano, e di Felice Machlig, triestino, due fra i campioni del liberalismo quarantottesco. Ma il governo viennese è ancora nella fase francofortiana e, senza interpellare in alcun modo i cittadini, avoca a sé tutta la preparazione elettorale; il governatore Salm, in un suo proclama, cerca di acquietare gli scrupoli: «Non si tratta di diventar tedeschi – dice – ma di giovare ai commerci». Scongiuro di effetto immancabile! Le elezioni si svolgono regolarmente; sono a suffragio universale ma indirette a due gradi: primi elettori tutti i cittadini maggiorenni non esclusi dai diritti civili («Osservatore triestino», 26 aprile 1848); di questi, se ne raccolgono appena duemila che eleggono un centinaio di elettori primari, i quali riversano i loro suffragi su due tedeschi, un i.r. funzionario, il Burger, e quel Bruck cui accennai più sopra, self-made man, figlio di mercanti venuto dalla Prussia renana a Trieste per recarsi a combattere la guerra di indipendenza greca, ma invece rimasto nella città degli affari, ideatore del Lloyd, salito rapidamente all'alta finanza, futuro ministro della reazione, destinato a finir suicida, travolto dalla débâcle morale e finanziaria che seguirà le sconfitte del 1859. I due deputati triestini siederanno a Francoforte finché il vento viennese spirerà da quella parte e chiederanno che Trieste diventi il porto di guerra della Confederazione. Aspirazione quest'ultima che male si concilia con la contemporanea loro protesta contro la «dichiarazione di principio» dell'assemblea, per la quale gli statuti particolari dei paesi confederati dovevano subordinarsi alla costituzione federale. Autonomia provinciale fondata sulla dedizione all'Austria e porto di guerra tedesco sull'Adriatico eran davvero termini antitetici. Burger e Bruck sembra non badassero a queste sottigliezze, mentre il Kandler, eletto dall'Istria antico-austriaca a rappresentante a Francoforte, coerente al suo pensiero nazionale ed autonomico, rifiuta il mandato. L'Istria ex veneta non era stata compresa mai nella Confederazione germanica; però da più parti e da Trieste stessa, come vedemmo, si agitava per farle seguire la sorte del resto della provincia. Ma le riluttanze si manifestano ben più vibrate e profonde e tutto lo spirito pubblico vi appare ben diverso dal triestino. Lo vediamo nel secondo e più importante esperimento elettorale cui è chiamata la regione: l'elezione dei deputati all'assemblea costituente di Vienna. Anche queste sono elezioni indirette e a Trieste si svolgono su per giù come quelle di Francoforte. Riescono eletti due deputati della corrente più austriaca e conservatrice: un Hagenauer, negoziante, fiduciario della Borsa, contro il Conti, magistrato (che tredici anni dopo sarà il primo podestà del primo consiglio liberale), e un dottor Gobbi, medico. Viene citata a prova dello spirito libero del Hagenauer, una sua dichiarazione di essere «deputato dell'estremo lembo meridionale, deputato d'Italia». Quando però scoppia la burrasca d'ottobre, il Hagenauer, tornato a Trieste, è accolto dalle sferzate degli organi liberali; il Gobbi si rifugia a Baden. A Kremsier, ultimo asilo della costituente, i due rappresentanti triestini non compaiono; né pare sieno fra quei deputati italiani (della Dalmazia e dell'Istria) che conquistano, per sé e per le altre nazioni, il diritto alla parificazione linguistica alla camera.

Ben diverso l'animo e l'atteggiamento dei deputati istriani, Madonizza, De Franceschi, Vidulich e Fachinetti. La prima voce che levano a Vienna è di protesta contro la minaccia di aggregare l'Istria ex veneta a Francoforte, mettendosi così subito in stridente contrasto coi deputati triestini alla dieta tedesca. Si sentono mandatari e difensori ideali di tutti gli italiani lottanti contro le armi e il centralismo austriaco, e il Fachinetti interpella il governo su certi eccessi del regime statario in Lombardia. Quando Radetzky proibisce la circolazione nel Lombardo-Veneto, al «Giornale di Trieste» – il precursore della stampa irredentista – sono i deputati istriani che muovon lagno e chiedono spiegazioni al ministro; e a Kremsier restano fino all'ultimo al loro posto di combattimento.

Torniamo a Trieste e al suo terzo esperimento elettorale: le elezioni comunali. Le giornate di marzo travolgono il consiglio ferdinandiano; già il 24, il preside del Magistrato ne annunzia lo scioglimento per le dimissioni di molti suoi membri. Ai liberali, ed in specie al Kandler, quest'atto apparve ingiustificato e sospetto; lo credette mosso dal segreto intento di togliere alla città la sua rappresentanza legale che avrebbe potuto, forse, levare 1a voce contro l'intervento a Francoforte e chiedere, incoraggiata dallo spirito nuovo, l'adempimento dell'antico sogno degli intellettuali: il ripristino dell'autonomia.

Un regime provvisorio rappresentava invece il migliore espediente per guadagnar tempo e mettere alla prova la fedeltà cittadina in quell'ora di burrasca. «Provvisoria», infatti, si chiama la «Commissione municipale» di 18 membri, eletta pochi giorni dopo (30 marzo) e che rappresenterà la città sino quasi al ritorno ufficiale dell'assolutismo. Predominano nella commissione gli elementi mercantili; ma vi esercitano molta influenza due avvocati, che saranno fra i capi del liberalismo: il De Rin e il Baseggio. La commissione inizia la sua attività deliberando di disporre, insieme alla deputazione di Borsa, l'invio di una commissione al sovrano la quale trova la corte nel primo suo rifugio di Innsbruck. Non è soltanto atto di omaggio dinastico; non si tratta di ripetere le espressioni di sudditanza che già Trieste aveva fatte pervenire a Ferdinando nel momento dell'annunzio della libertà, ricevendone subito i ringraziamenti. La relazione che il Kandler (uno dei due delegati) fa in pubblico del viaggio ci dice il suo scopo, che è di ottenere, a premio della lealtà cittadina, la restituzione della provincialità, da tanti anni perduta. E lieti auspici si traggono dalla risposta imperiale, nella quale S.M. gradisce la fedeltà dei triestini, che, «come meritò di venir remunerata con la condizione di emporio mercantile, così, anche in futuro, avrà a realizzare quei destini importanti cui è chiamata la "sua" provincia di Trieste» Quel «sua» parve preludio e promessa della restituzione richiesta: è la meta che l'intellettualismo triestino allora persegue e che sente dovuta alla sua fedeltà.

In quell'epoca, fra il giugno e il luglio 1848, il greve ambiente politico locale cerca di uscire dal semplicismo primitivo, raggruppandosi in due società, che avrebbero dovuto essere – e in parte anche furono – i nuclei di due partiti. Nasce prima la Giunta triestina che è presieduta dal Sartorio, e ci dà l'esponente dell'utilitarismo mercantile; è dunque tedescheggiante perché i traffici gravitano verso la Germania, francofortiana finché Vienna pencola verso Francoforte, con pallida e imperfettissima coscienza nazionale e decisa antipatia verso il movimento italiano unitario.

Ben più intellettuale, anzi temprata al pensiero critico e storico di Pietro Kandler che la anima e la presiede, è la Società dei triestini nella quale si aggruppano taluni di coloro che dieci anni più tardi diverranno gli alfieri dell'idea separatista.

Fra la Giunta e la Società vi è però una specie di zona neutrale che evita le soverchie angolosità e spiega perché nella imminente lotta elettorale vi possano essere dei candidati comuni ai due partiti. Nella prima adunanza della Società dei triestini (ne è promotore Francesco Hermet, il leader del partito liberale nel decennio 1868-78) i capisaldi del programma sociale sono riassunti così: «Fedeltà all'imperatore; devozione alla costituzione; Trieste emporio dei paesi cisdanubiani» (Carniola, Carinzia, Stiria, Ungheria meridionale, ecc).

La missione austriaca di Trieste è chiaramente delineata. Al pari della Giunta, la Società dei triestini si muove dunque sul terreno più rigidamente legalitario; ma in questa cornice spiega un'attività di pensiero pratico e dottrinale che solo l'alto ingegno del suo duce può infonderle.

I verbali delle adunanze sociali pubblicati nell'«Istria», spiccano, fra la vuota retorica dell'epoca, per serietà di indagine critica e positiva. Si pubblica il nuovo regolamento elettorale municipale? La Società dei triestini è l'unica a discuterlo; vorrebbe che i consiglieri da 48 fossero portati a 70, deplora la concessione del voto agli esteri, temendoli in gran parte ostili o indifferenti alla causa nazionale, deplora le restrizioni all'eleggibilità; e poiché il pubblico, apatico, nulla sa dello statuto ferdinandiano, rimasto in gran parte in vigore, la Società insiste perché sia pubblicato e diffuso. Una seduta (11 giugno 1848) è tutta dedicata alla questione di Francoforte, sviscerata con rigore di metodo scientifico. Del futuro assetto provinciale si occupa pure con amore la Società dei triestini e, mentre la maggioranza non sarebbe aliena dall'accettare anche una dieta comune per Trieste, l'Istria, Gorizia e la Dalmazia, Kandler non cela le sue simpatie per l'unione di Trieste e dell'Istria, sole, in una provincia con propria dieta. Né lo spirito legalitario si piega a cortigianeria, ché, anzi, nella seduta del 3 giugno, viene respinta come incostituzionale la proposta di un indirizzo della Società al sovrano. La Società dei triestini è, insomma, il solo nucleo politico che apprezzi il nuovo regime e lo voglia sinceramente attuato.

Anche il terzo atto elettorale si svolge al pari dei precedenti. Eppure si tratta delle elezioni dei consiglieri del comune e rappresenta il più ampio esperimento di suffragio diretto che mai si fosse fatto e si facesse a Trieste prima dei recentissimi regolamenti elettorali amministrativi o politici: votanti tutti i maggiorenni, esclusi però i lavoranti a mercede giornaliera o settimanale e i domestici. Quanto alle attribuzioni del nuovo consiglio, ai suoi rapporti con lo Stato, ecc., nulla fu disposto e si intese, per questa parte, rimasto in vigore lo statuto ferdinandiano il quale, come vedemmo, lasciava il governo gestore degli interessi cittadini. L'ideale del liberalismo triestino, lo statuto sanzionante l'autonomia, è dunque ancora lungi dal realizzarsi. Il numero dei votanti nelle elezioni amministrative fu, contrariamente a quanto si crede, discreto; si ebbe un massimo di quasi 5.000 voti, cioè, secondo un calcolo dell'«Istria» (23 settembre), circa il 50 per cento degli inscritti. Ma, per ottenere questa cifra, interpretando stranamente il silenzio della legge, si lasciarono aperte le urne per parecchi giorni; e lunghissimo deve essere stato lo scrutinio, poiché della votazione indetta per il 21 agosto si pubblicano i primi risultati appena il 14 settembre!

Trionfano, come dissi, i fedeloni, gli anticostituzionali, il ceto mercantile già ristucco dell'esperimento liberale e anelante alla pace dell'assolutismo. Le fonti non ci consentono di seguire i particolari di questa prima lotta elettorale, ma lotta deve esservi stata, e viva, poiché dal primo all'ultimo degli eletti vi è una differenza di ben 3.514 voti. Si sa che alle elezioni parteciparono con proprie liste ambedue i clubs politici e che soltanto 16 candidati esclusivi della Società dei triestini (compresi 4 sostituti) ebbero favorevoli le sorti dell'urna. I vinti tentano di far annullare le elezioni dicendo fra altro che agli elettori territoriali erano state consegnate le schede già riempite; il che – data l'atonia e l'impreparazione dominanti – appare tutt'altro che improbabile, e non nel territorio soltanto. I consiglieri liberali si dimettono in segno di i protesta; 29 eletti della maggioranza domandano un'inchiesta, si parla di annullamento dell'atto elettorale e di nuove elezioni; infine, dopo molti traccheggiamenti avendo 30 consiglieri accettato il mandato, si costituisce il consiglio. Ma siamo già al gennaio del 1849; la controrivoluzione, a Vienna, ha già vinto la partita.

Rimane a rappresentare la città nei mesi più critici del 1848 quella commissione provvisoria nella quale, come accennai sopra, il liberalismo, benché minoranza, riesce, per l'autorità dei suoi uomini, a far valere il suo programma: riafferma il diritto del comune alle scuole italiane elementari e medie; chiede l'uso obbligatorio della lingua italiana negli annunzi ufficiali, la preferenza agli indigeni negli impieghi; sollecita (fin da allora!) una facoltà giuridica italiana a Trieste e protesta contro il governo che insiste nel voler dare a Trieste un ginnasio bilingue, pur riconoscendo la preponderanza della nazionalità italiana.

La città, levato il blocco della squadra d'Albini, che dopo l'armistizio Salasco abbandona le coste istriane, tolto immediatamente, con la cessazione del blocco, lo stato di assedio, può sperare di ritornare alla quiete normale dei traffici. Senonché la ripercussione dei gravi avvenimenti esterni viene a perturbare – e più profondamente di prima – lo spirito pubblico cittadino. L'agosto aveva portato la sconfitta piemontese, la riconquista della Lombardia, quindi, nell'ambiente triestino, il rimbaldanzirsi dello spirito antitaliano del ceto mercantile, ben sicuro ormai di non avere a temere nuovi episodi di stile napoleonico. L'ottobre segna la riscossa dell'assolutismo che, vincitore ormai ad una frontiera (l'italiana), stima venuto il momento di gettare la maschera e d'ingaggiare la lotta aperta contro la costituente. Tattica: il divide et impera.

L'Ungheria è insorta anch'essa nel settembre; sembra, per un momento, che la costituente, dove è forte la borghesia liberale tedesca, intuendo che la salvezza del costituzionalismo sia nell'unione coi magiari, voglia porger loro la mano. Ma la corte paralizza facilmente l'assemblea, sfruttando l'odio della deputazione ceca contro il magiarismo, oppressore di slavi. Ed ecco la politica governativa diventar provvisoriamente slavofila e abbandonare il flirt con Francoforte, ecco stabilirsi, da Vienna, tutta una rete d'intrighi per spingere lo slavismo – e precisamente lo slavismo meridionale – contro i magiari e contro la costituzione. Tre sono gli uomini rappresentativi di questa politica: il principe Felice di Schwarzenberg, il principe Alfredo di Windischgrätz e il bano della Croazia,Jelačić, che porterà il sussidio armato dei suoi connazionali, sperando (e sarà speranza vana) di vedere in compenso attuato il suo sogno patriottico, l'unione degli slavi meridionali e la fine dell'egemonia tedesca sull'impero.

A Vienna trapela qualche cosa del complotto; il 6 ottobre scoppiano i primi tumulti popolari; si impedisce la partenza di due reggimenti per l'Ungheria la cui dieta era stata sciolta e proclamato il governo militare. Latour, ministro della guerra, accusato di aiutare le mosse del bano contro Vienna, è preso a furia di popolo e trucidato; le sue spoglie insanguinate son mostrate dalla galleria alla costituente, la quale, rosa dal disaccordo, non sa affrontare la situazione, non trova neppure un gesto degno del momento e traccheggia incerta e sempre più assottigliata di numero e scemata d'autorità. Il 25 ottobre un manifesto imperiale annunzia che Windischgrätz marcia su Vienna. La città si apparecchia alla difesa: studenti, artigiani, operai resistono per cinque giorni al bombardamento, sperando nell'aiuto degli ungheresi; ma questi, giunti alle porte, sono attaccati e sbaragliati dalle truppe di Jelačić. La città si arrende; la costituente è strappata dalla capitale e riconvocata per il 15 novembre a Kremsier, una cittadina della Moravia a due passi da Olmütz dove la corte si era rifugiata; Messenhauser, l'ufficiale che aveva diretto la difesa della capitale; Roberto Blum, deputato alla dieta di Francoforte, accorso ad assistere la città tedesca nel nome della democrazia tedesca, insieme ad altri minori, vengono fucilati. Ancora pochi mesi d'infingimenti, e l'assolutismo di Schwarzenberg e di Bach inizierà la sua era decennale.

Questo tragico ottobre ha a Trieste ripercussioni varie e complesse. Appena scoppiati i tumulti di Vienna, il governo locale crede opportuno (13 ottobre) di creare una nuova autorità provvisoria accanto alla commissione provvisoria: un comitato di pubblica sicurezza, composto di 3 delegati della commissione e di altrettanti inviati dalla borsa, rispettivamente dal consiglio della guardia nazionale. Nessun disordine è avvenuto in città; la misura ci indica soltanto che l'atmosfera di sospetto va divenendo più fitta. Il comitato rispecchia le sue origini; la borsa e la guardia nazionale inviano naturalmente dei delegati ultrareazionari; fra quelli della commissione, unico, il Baseggio rappresenta l'intellettualità liberale. Commissione provvisoria e comitato di sicurezza non procedono in armonia; spesso anzi l'attività delle due cariche è in evidente contrasto; segno che il conflitto fra lo spirito liberale e l'imbaldanzita reazione mercantile si va acuendo. Appena costituito, il comitato pubblica un manifesto reboante di scomunica a un foglietto anonimo eccitante Trieste a staccarsi dall'Austria! Non mi fu dato di rintracciare il testo, che il comitato, enfaticamente, condanna quale «scritto della più infame tendenza, infernale consiglio di reo provocatore e di serpe divoratrice (?)». La stampa liberale propende invece a ritenerlo diffuso ad arte da agenti provocatori.

La commissione provvisoria, pochi giorni dopo, compie un atto di ben diverso significato; manda essa, su proposta del Baseggio, un indirizzo di simpatia alla costituente. Siamo al 28 di ottobre, due giorni prima della resa di Vienna; la costituente agonizza e sta per essere inviata a morire nell'esilio di Kremsier. L'atto pare una sfida ai circoli mercantili e reazionari, e subito una protesta firmata da 61 cittadini è presentata alla commissione, la quale risponde, chiarendo che l'indirizzo venne presentato all'assemblea (cioè ad una autorità costituita) non alla popolazione, ribelle, della capitale, e mantiene il deliberato. La commissione chiede pure che Trieste abbia un terzo deputato alla costituente e che non si proceda alla sostituzione del Burger, dimissionario dalla dieta di Francoforte, la quale in quei giorni aveva votato i paragrafi 2 e 3 della futura costituzione tedesca, proclamanti la massima che, fra un paese tedesco ed uno non tedesco che abbiano comuni il sovrano, debba soltanto sussistere l'unione personale, non potendo alcuna parte dell'impero germanico formare uno Stato unitario con paesi non germanici. Contro questi due articoli che, applicati a Trieste, l'avrebbero avulsa di fatto dallo Stato austriaco, avevan già protestato 35 deputati dell'Austria alla dieta. La commissione triestina, chiedendo che non si facciano più elezioni per Francoforte, accampa come motivo principale la circostanza che Trieste è di nazionalità italiana. Il governo viennese, ormai alieno da Francoforte, non insiste nell'elezione suppletoria e di Francoforte, a Trieste, non si parla più.

Contemporaneamente a queste nuove manifestazioni dall'alto, in basso si ripetono i tafferugli dell'agosto: devono essere provocazioni di italianofobi, cui però rispondono reazioni liberali. La curiosa abitudine dei giornali di allora di non fare cronaca ma di commentare soltanto gli episodi, presupponendoli noti al pubblico, ci costringe a indovinare; ma che il liberalismo cominci anch'esso a scendere in piazza, lo deduciamo da un monito del «Costituzionale» ai suoi amici di non continuare le dimostrazioni (26 ottobre).

Siamo dunque finalmente di fronte a una corrente se non propriamente unitaria, almeno antistatale? Sarebbe arrischiato affermarlo. Il malessere, che invade il liberalismo nell'ottobre e si rispecchia nei suoi giornali, ha un fondo ancor sempre sostanzialmente legalitario. Gli sguardi e gli entusiasmi dei liberali si rivolgono ancora a Vienna, alla democrazia borghese tedesca, alla costituente. L'entusiasmo dell'ora fa sfuggire delle confessioni retrospettive caratteristiche: «Il popolo di ottobre non è più quello di aprile – esclama il «Costituzionale» – nemico di se stesso, della nazionalità e del suo nome italiano... unito all'impero austriaco e al buon Ferdinando, sente correre nelle sue vene l'italico sangue glorioso» (21 ottobre). Fraseologia consueta del linguaggio di parte! Il popolo – inteso per esso la maggioranza, cioè [i mercanti e i lavoratori, è nell'ottobre su per giù quello di aprile, nazionalmente e politicamente amorfo. Un mutamento invece è avvenuto nel breve nucleo intellettuale; esso si sente sempre più a disagio. Le sconfitte italiane e la conseguente reazione militare nel Lombardo-Veneto vanno acuendo le sensazioni di solidarietà nazionale. D'altra parte, soltanto la resistenza e la vittoria della democrazia tedesca] potrebbero rivolgere di nuovo in bene le sorti della penisola. Da Vienna si spera dunque la salvezza di Milano, di Torino, di Venezia!

In questo momento di oscillazioni e di incertezza, esordisce l'ultimo organo, in ordine di tempo, del liberalismo triestino, «Il Giornale di Trieste», dovuto ad una secessione degli elementi più radicali della «Gazzetta di Trieste». Esso vede la luce proprio alla fine di ottobre, durante la fase più acuta del duello fra il centralismo assolutista e la democrazia della capitale. È scritto in pretto stile quarantottesco, impregnato di neoguelfismo e annegato nella più ingenua ed eterea delle retoriche. Il primo articolo del primo numero s'intitola: Saluto di Trieste al popolo ed alla Costituente di Vienna. L'articolista apostrofa così i «fantasmi della tirannide», cioè i soldati, bene in carne, di Windischgrätz e di Jelačić: «Il sole si leva, suonan le trombe, il campo è nostro, la vita per noi. Ancora pochi dì, e non sarete più a noi che memorie». Poi si rivolge al popolo di Vienna che preconizza vittorioso: «Di che terra siam figliuoli – gli dice – sapete, e com'essa, lacera e vilipesa ogni dì da mille parti, con mille punte, pianga e pensi e si affretti. Dal profondo della mente gridiamo a voi: Aiutate all'Italia! Per il prezzo irredimibile della nostra libertà, per il sangue dei vostri martiri, aiutate i generosi a salvarla. In quest'ultima gloria stringete seco essa il patto dell'avvenire; di nemica sorridevi amica; aiutatela non d'armi e d'oro, ma del consenso efficace e possente degli animi, se no farà da essa.... Il vecchio maresciallo (Radetzky) già tanto vicino al sepolcro, richiamate dal calpestato paese».

All'annunzio che Windischgrätz marcia su Vienna, il giornale si chiede: «Che dunque rimane? Le armi cittadine intanto rimangono». Non ricorda che, a Trieste almeno, le armi cittadine sono in mano alla reazionaria e italofoba guardia nazionale, ed esclama: «Brandiamole, amici! Poi con le braccia conserte sul petto (sic) attendiamo che il Parlamento gitti alle ondeggianti provincie la grande parola». E pochi giorni dopo – ignaro della caduta di Vienna –, in un articolo che il fisco poi incriminerà, inneggia al «patto d'amore» contro la reazione, fra italiani, magiari e viennesi! Retorica a parte, siamo sempre in tesi antireazionaria, ma non separatista. Nell'Italia da redimersi e da unirsi pare che il giornale non comprenda ancora Trieste. Nascendo, aveva pubblicato e fatto proprio il manifesto della Società dei triestini», dichiarantesi «ligia al trono costituzionale di Ferdinando». Del resto, la coerenza non regna sulle colonne del «Giornale», il quale, ad esempio, nel numero del 17 novembre, sotto la delusione cocente della resa di Vienna, rispondeva all'«Osservatore triestino» chiedentegli se fosse sinceramente austriaco o no: «All'affetto nostro per l'Austria fate appello? Non abbiamo orecchio per voi». E qui fa proprio capolino la psicologia separatista. Senonché, il 15 dicembre, il giornale scrive: «Noi, che amiamo l'Italia e l'Austria, non cesseremo mai di raccomandare a quest'ultima la necessità che quella sia fatta alla fine libera ed indipendente». Ma, nel novembre, aveva anche scritto queste parole, che potrebbero avere una interpretazione separatista e vennero anch'esse incriminate dal fisco: «A placare i mani sacri di Curtatone e di Volta, altro non resta che spiegare l'iride italiana dal Ticino al Mincio, al Piave, all'Isonzo, insin dove estende la sua curva ultima il sorriso del cielo italiano».

È un po' difficile raccapezzarsi, tanto più che, negli stessi mesi, come vedemmo, nonostante le delusioni e gli sdegni, il «Costituzionale» e la «Gazzetta» insistono più che mai, senza esserne richiesti, nell'affermazione dei loro sentimenti dinastici e legalitari. Ad orientarci, ci aiuta l'opinione di uno spettatore esterno non certo sospetto di austriacantismo, libero di dire tutto l'animo suo senza preoccupazioni di polemica locale e bene addentro nelle faccende di Trieste. È Pacifico Valussi, già redattore della «Favilla», poi, sino al 1° maggio 1848, dell'«Osservatore triestino», quindi, incalzando i tempi, emigrato a Venezia repubblicana, dove dà vita o collabora a parecchi giornali. Il Valussi, che sulle colonne dell'«Osservatore», dal 18 marzo in poi, aveva sostenuto la funzione cosmopolitica di Trieste, non muta il suo pensiero e giudica, anche da Venezia, con molto spirito di realtà e senza voli retorici, la situazione triestina e giuliana nelle due fasi del movimento quarantottesco. Spigolo dal giornale «Il Precursore» da lui diretto, perché nessuna testimonianza mi sembra più concludente per la nostra indagine. «Se – dice il Valussi – ai primi di aprile una flotta italiana fosse comparsa nelle acque dalmatiche e istriane, avrebbe prodotto un subito rivolgimento fra quelle popolazioni. Trieste stessa, che noi usiamo considerare come la prediletta dell'Austria, sarebbe stata forse trascinata dal movimento e indotta a proclamarsi, se non altro, città libera, seguendo i dettami dei suoi particolari interessi. Le simpatie dei triestini in quanto si possono dir popolo (?), sono per l'Italia ed essi si sentono italiani nell'anima; i loro interessi commerciali però sono volti principalmente al settentrione; ma i trafficanti non si possono dire austriaci più che tedeschi o slavi o italiani».

Il Valussi, coll'autorità del testimonio oculare, ci conferma la diversità storica dell'evoluzione nazionale in Istria e a Trieste; ammette la possibilità di uno scatto unitario istriano ma, riguardo a Trieste, fa proprio il pensiero autonomista e antiunitario del Dall'Ongaro. Abbiamo veduto che la flotta italiana, comparsa, è vero, forse troppo tardi, non valse a produrre alcuno degli effetti sperati dal Valussi, il quale, anche alla fine del 1848, mostra di credere alla missione austriaca di Trieste e al suo destino specialissimo. «L'Istria – dice – abbandonata a se stessa ed emancipata dalla tutela austriaca diverrebbe forse italiana in pochi anni, ma Trieste, benché italiana, sarebbe tratta verso il settentrione».

E sentite questa diagnosi che coincide col giudizio del «Giornale di Trieste» e con la psicologia costante delle oligarchie mercantili: «A Trieste, nei pochi mesi dal marzo in poi, fra i commercianti di ogni paese e di ogni nazione, l'opinione di quello che si doveva essere oscillò più volte, secondo che crescevano o diminuivano le probabilità della vittoria della vecchia Austria o delle nazionalità germanica e slava. Ivi, voi avreste udito fino i negozianti greci dire vicendevolmente: Siamo italiani, siamo tedeschi, siamo austriaci, siamo slavi, siamo triestini. Quest'ultimo è il nome che risponde più di tutti alla situazione di Trieste, che è un antico municipio italiano con la sovrapposizione dei più svariati elementi stranieri condottivi dalla sua nuova condizione di mercato fra il mezzogiorno ed il settentrione, fra l'oriente e l'occidente. La nazionalità di Trieste sarà chiaramente definita soltanto il domani della vittoria delle nazionalità che la circondano».

Ma ciò che ci interessa di più, per valutare la diffusione e la serietà dei conati irredentistici quarantotteschi, è il giudizio del Valussi su di quelli. Le tendenze separatiste vengono chiamate da lui brutalmente «spacconate di giornalisti che resero ridicola la povera nostra nazione nel mondo, parlando di aggregare all'Italia Trieste, Istria, Dalmazia e ogni luogo ove vi sia chi parla italiano». E, seguitando, il Valussi dice che «bisogna persuadere questi nostri fratelli (di Trieste e dell'Istria) che essi, quantunque possano e debbano essere uniti di simpatie con noi, non devono disgiungere i loro interessi dai vicini che hanno alle spalle». Con questa frase si allude specialmente allo slavismo che (come meglio vedremo nel capitolo a ciò destinato) il Valussi vuole amicare durevolmente all'Italia, formando di Trieste e dell'Istria delle «zone neutrali» in cui le due stirpi devono preparare le basi di una pacifica convivenza.

L'impressione sintetica del Valussi sul 1848 giuliano è la seguente: «Tutti i voti più "ragionevoli" che si fecero in tali paesi (Trieste e l'Istria) durante i rivolgimenti del 1848, celavano questo pensiero dell'indipendenza loro, tanto dai tedeschi, come dagli slavi, come dagli italiani». A Trieste stessa il «Costituzionale», facendo il bilancio dell'anno fortunoso, in uno degli ultimi numeri in cui gli è concesso di parlare libero (6 marzo 1849), constata mestamente che manca ai triestini «l'unità preziosa di stirpe, l'unità piena di favella, l'unità santa di opinioni, di religione, di interessi», ecc.

La reazione mercantile raddoppia ciononostante di zelo assolutistico. I due deputati triestini, dopo le bufere di ottobre, sono o si considerano dimissionari; gli elettori eletti (preponderatamente mercanti) vengono riconvocati per scegliere due nuovi rappresentanti alla moribonda assemblea di Kremsier. In luogo del Hagenauer viene eletto con 83 voti su 143 votanti (contro 43 dati dai liberali al Conti) un tedesco, il Bruck, già deputato a Francoforte, allora ministro nel gabinetto Schwarzenberg. Il Bruck, come vedemmo, ha almeno una coloritura triestina; da Trieste ha preso le mosse la sua fortuna: per gli interessi economici di Trieste la sua qualità di ministro può essere o sperarsi utile. Ma ai reazionari quella vittoria non basta; vogliono mostrarsi più realisti del re e a secondo deputato portano... lo Schwarzenberg in persona: la sintesi dell'assolutismo trionfante. Il boccone pare troppo amaro persino alla fedelissima Giunta triestina, che propone altro candidato. Ma la candidatura Schwarzenberg – sostenuta, fra parentesi, da un negoziante che sarà poi fra i consiglieri liberali! – persiste; invano i giornali liberali esortano la Società dei triestini a scuotersi dal suo letargo; i reazionari, contro la legge, fanno prorogare le elezioni per prepararsi meglio, e Schwarzenberg ottiene a primo scrutinio la maggioranza relativa e cade per soli 4 voti in ballottaggio contro l'avv. Platner, fedelone anche lui. «Dobbiamo – esclama malinconicamente il «Costituzionale» – considerare questa elezione un trionfo».

I due deputati non arrivano ad esercitare il mandato. Pochi giorni dopo le elezioni, il colpo di Stato, preparato in ottobre, matura e scoppia. Il ministero lancia una costituzione già bella e fatta, octroyée dal sovrano, e scioglie la costituente. La mattina del 9 marzo 1849, quando i deputati fanno per entrare nella sala delle sedute, trovano le porte sbarrate da soldati. La parentesi costituzionale è chiusa. La costituzione octroyée non verrà attuata mai e nel dicembre 1851 sarà ufficialmente abrogata.

A Trieste, il consiglio uscito dalle contestate elezioni del settembre si aduna finalmente a gennaio, nonostante le proteste del liberalismo. E appena gli giunge notizia del colpo di Stato, si affretta, con un indirizzo, ad inneggiare alla costituzione octroyée e ad approvare lo scioglimento dell'assemblea di Kremsier, «dove non erano rappresentate tutte le provincie dell'Austria»; ossequiosa allusione alla nuova carta costituzionale che avrebbe dovuto stringere nel cerchio di ferro del centralismo viennese anche l'Ungheria insorta. Caratteristica la frettolosità con cui venne approvato l'indirizzo, giunto appena a Trieste il testo tedesco della costituzione, e mentre molti fra i consiglieri non erano nemmeno in grado di comprenderlo! La fretta appare soverchia persino ad un consigliere ultra-austriacante, lo Scrinzi, che si oppone invano all'urgenza; si nomina subito la commissione incaricata di compilare l'indirizzo. In questo hanno, come sempre, rilievo particolare i voti per le franchigie e per la reintegrazione dei diritti politici della città. La costituzione octroyée appariva in contrasto anche con questo ultimo postulato, poiché, enumerando al paragrafo I le provincie dell'impero, parlava di un «regno d'Illirio, consistente nella Carinzia, Carniola, Istria, Trieste e Gorizia». Senonché la deputazione latrice dell'indirizzo apprende dalla bocca del nuovo sovrano la lieta e tanto attesa novella: «Trieste è una provincia della Corona; la costituzione di Trieste verrà compilata d'accordo con uomini di vostra fiducia». È il premio per la «leale e assennata condotta della città in mezzo ai vortici delle politiche conflagrazioni». Parole queste di Francesco Giuseppe.

Notevole è anche il momento in cui si ritesse l'idillio fra la città e lo Stato. È alla vigilia della seconda campagna d'Italia, la breve guerra che finirà a Novara. Ricompare una squadra sarda nell'Adriatico e lo stato d'assedio viene proclamato di nuovo, ma è pura misura di precauzione guerresca, e il «Costituzionale» stesso confida che Gyulaj, ridivenuto comandante civile e militare, non se ne servirà per porre il bavaglio alla stampa «tanto più – constata – che non c'è più traccia di tendenze sovversive». Bizzarra osservazione, la cui data coincide proprio con quella della battaglia di Novara che, vittoriosa, avrebbe potuto risuscitare le paure separatiste. Sulle quali pare che il governo stesso voglia stendere l'oblio; esce nel maggio un decreto di desistenza da tutti i processi di stampa intentati contro il Solitro per gli articoli incriminati del «Giornale». Questo – va notato – non era morto per le persecuzioni del governo locale; gli era stato invece proibito dal Radetzky l'ingresso nel Lombardo-Veneto e tale proibizione aveva infuso tanto terrore nel tipografo che il Solitro fu costretto a sospendere le pubblicazioni. Insomma, la reazione statale, imperversante specialmente dal marzo in poi, cerca di nascondere, per Trieste, la mano di ferro in un guanto di velluto. Non può risparmiarle le strettoie comuni a tutto l'impero; così l'obbligo della cauzione, sancito da una legge «provvisoria» sulla stampa, fa morire tutto il giornalismo liberale entro il 1849, ma il governo cerca i compensi, riproducendo nello statuto octroyée del 1850 i postulati liberali e forse il progetto stesso che un comitato consigliare era andato concretando durante il 1849.

Lo statuto del 1850 rappresenta il ritorno all'autonomia dopo circa cent'anni di confisca. Secondo lo spirito e la lettera della dedizione, si riconosce di nuovo a Trieste il carattere di città-provincia, staccata da ogni vincolo amministrativo con altri paesi della monarchia, e le si dà il titolo così a lungo sospirato, di città «immediata» dell'impero. Il consiglio riunisce le attribuzioni amministrative del comune e le legislative della provincia comprendenti una sfera d'azione largamente delineata (diritto di nomina di tutti gli impiegati, autonomia finanziaria sino a f. 100.000, ecc.). Anche le norme elettorali (durate in vigore sino al 1908) riproducono il suffragio per censo e coltura adottato dalle costituzioni a tipo piccoloborghese. La nuova oligarchia mercantile si afferma però nella divisione degli elettori in «corpi» per la quale i pezzi grossi dei traffici (compresi dapprima anche gli esteri) inviano 12 consiglieri contro 36 degli altri tre corpi riuniti e 6 del territorio. Complessivamente, le classi rappresentate nel consiglio sono la mercatura, gli impiegati pubblici, le professioni libere, i piccoli proprietari e l'artigianato; esclusi del tutto dal voto gli impiegati privati e la classe operaia. In questo, per i tempi, così largo assetto comunale, si rintraccia l'influenza e probabilmente anche l'opera diretta dello Stadion, conoscitore dell'ambiente triestino e convinto d'altronde che l'assolutismo del centro dovesse venir temperato da una certa latitudine concessa alle singole parti. «Base dello Stato libero è il Comune libero», sta scritto infatti in quella legge comunale ispirata dallo Stadion ed emanata anch'essa nel marzo 1849 quasi ad attenuare l'impressione del colpo di Stato. Ma già nell'ottobre, prevalendo la concezione ultrareazionaria di Schwarzenberg e di Bach, la legge comunale è «sospesa». Quando poi (1851) lo Stadion si ritirerà ammalatissimo dal ministero, e morrà poco dopo, anche gli statuti che egli aveva voluto dare alle provincie torneranno lettera morta e la reazione più supina avvolgerà tutto l'impero. Anche allora però il guanto di velluto attutirà, per la «fedelissima», le asperità della mano di ferro.

Nel 1850 si fanno le elezioni del consiglio in base al nuovo statuto. Ne esce quell'assemblea che, vissuta oltre 10 anni, rimane nella storia triestina col nome di consiglio decennale. Le vicende della lotta elettorale, i suoi risultati e gli atti del nuovo consiglio ci indicano con suggestiva evidenza lo stato d'animo della città. Sembra che il 1848 sia passato invano: Trieste è ripiombata nella febbre degli affari; la coscienza nazionale appare anche più incerta e oscillante che alla vigilia della rivoluzione.

Scomparse le due società politiche, si formano due comitati elettorali, designati dal luogo in cui si adunano. Il comitato del Monteverde dovrebbe rappresentare il programma liberale, il comitato della Sala Chiozza il programma dei fedelissimi. Senonché la differenziazione fra partiti è anche meno precisa di quanto fosse nel 1848; quattordici candidati sono comuni ad ambedue le liste; fra i liberali figura quel negoziante Regensdorf che era stato il promotore della candidatura Schwarzenberg; Kandler cade in un corpo portato dai conservatori e spunta in un altro dov'è candidato dei liberali che portano pure il Tommasini, preside del consiglio, insigne naturalista ed ultrafedelone. La lista della Sala Chiozza manda in consiglio 28 dei suoi candidati esclusivi contro 26 liberali o comuni. La sproporzione numerica fra i due partiti è quindi irrilevante, epperò la fisionomia politica del consiglio decennale è tutt'altro che ben delineata. Incerto pure è il pensiero nazionale anche della parte liberaleggiante, e lo si vede chiaro dall'unica discussione di cui venne pubblicato un ampio resoconto ufficiale: la discussione sulla lingua del ginnasio, memorabile dibattito svoltosi nell'aprile 1851.

Vi è dunque regresso anche nella pura affermazione nazionale. L'intellettualità stessa sembra ritornata ai tempi prequarantotteschi; l'«Osservatore triestino» ricomincia ad essere l'arringo dei letterati cittadini; il Lloyd il veicolo dell'espansionismo austriaco sull'Adriatico; pubblica in pregevoli edizioni i classici italiani; rinasce persino, con altri uomini, la «Favilla», che si propone di ravvivare «il sentimento nazionale ottuso e imbastardito».

Per comprendere questa fase della vita triestina occorre aver riguardo alla posizione specialissima della città, posizione che gli avvenimenti rendon sempre più difficile. Con la fine del 1851 cessano, come vedemmo, anche le ultime ipocrisie: l'assolutismo è proclamato ufficialmente e da quel momento si dà, a tutta forza, macchina dietro. L'autonomia è di nuovo in pericolo, si parla di revisione dello statuto; parola che può significare "sospensione", equivalente a sua volta, nello stile Bach, a revoca. E infatti un'ordinanza sovrana del febbraio 1854 sospende le elezioni del consiglio; i membri mancanti per morte o rinuncia verranno sostituiti con altri, scelti e nominati dal ministero! E così infatti avviene. Ma il ministero (ecco il guanto di velluto) esercita con molta serenità la funzione elettorale. Basti dire che fra i membri di nomina governativa vi è quel Massimiliano D'Angeli, che sarà poi il primo podestà a tinta irredentisteggiante e cui verrà infine negata la sanzione sovrana.

Nel resto della regione – e specialmente in Istria – mancano le cause, fondamentalmente economiche, che rendono Trieste così benevola alla reazione di Bach e questa, per contraccolpo, tanto riguardosa verso di lei. La burocrazia assolutista che governava l'Istria da Pisino, per sollevare la penisola dalla depressione in cui andava vieppiù cadendo, non aveva saputo far altro che unirla al territorio doganale dell'impero (1852) staccandola così da Trieste, suo mercato naturale di sfogo e di approvvigionamento. Ciò equivaleva a rimettere il paese nelle condizioni economiche dell'era veneziana, anzi a farla rimpiangere, rinfocolando, almen nei nuclei cittadineschi intellettuali, il sentimento e l'impulso unitario. E ne vedremo fra poco le ripercussioni. Nel Friuli e a Gorizia lo spirito pubblico, prima, durante e dopo il 1848, rimane profondamente legalitario. Gorizia, come vedremo meglio nel capitolo etnico, risente per la sua storia e la sua speciale posizione, influenze tedeschizzanti e, allora, spiccatamente antitaliane e reazionarie. Il deputato di Gorizia alla costituente, un Catinelli, ex ufficiale inglese, ultrafedelone, dopo le giornate di ottobre si dimette in segno di protesta contro la plebaglia viennese! Ed è anch'egli, come i due deputati triestini, oggetto di attacchi e di critiche per parte degli organi quarantotteschi del liberalismo.

Ma già tuona il cannone di Solferino, la patente di ottobre del 1860 segna la débâcle dell'assolutismo di Bach e preannunzia la costituzione del febbraio 1861. Nel novembre del 1860 si indicono a Trieste, dopo dieci anni di sosta, le elezioni comunali; nel marzo 1861 il consiglio decennale è sciolto e si insedia un consiglio che avrà, invece, vita brevissima. Già nell'agosto 1862 il governo lo scioglierà per atteggiamenti ritenuti sovversivi, e il nuovo consiglio, eletto nel novembre, sarà sciolto anche esso due anni dopo, per un voto di carattere evidentemente separatista.

La legge elettorale è quella del 1850; le classi partecipanti alla votazione sono le medesime. Che è dunque avvenuto? Come mai la Trieste del 1848, in cui la risvegliantesi coscienza nazionale è sostanzialmente antiunitaria, la Trieste del decennio assolutistico, che appare addirittura, per molti riguardi, «anazionale», si è mutata, da un punto all'altro, in una città ribelle?

Conviene, anche qui, distinguere e guardarsi dalla consueta sineddoche: lo scambio della parte per il tutto. Sono gli strati già aperti e disposti all'ideologia nazionale che subiscono e diffondono la ripercussione del grandioso, inaspettato avvenimento compiutosi, con rapidità inverosimile, innanzi ai loro occhi: l'unità d'Italia, l'utopia di secoli divenuta realtà in due anni. L'Italia c'è: non è più una espressione geografica, è un grande Stato che si va compiendo, che deve compiersi, mancandogli ancora la capitale e Venezia. Perché dunque la Giulia non seguirebbe il fato, imminente, della provincia contermine? L'unità crea di balzo lo sbocco logico alla coscienza nazionale e ne determina così il risveglio definitivo ma, insieme e necessariamente, la mette in fatale antitesi con lo Stato; a differenza dei movimenti similari slavi e tedeschi i quali potranno invece trovare agevolmente vie di sviluppo e persino piani di integrazione nell'orbita statale. Tutta la storia del movimento italiano in Austria sarà influenzata da questa peculiarità della sua origine.

Il nuovo pensiero rappresenta specie a Trieste un brusco distacco da tutto quanto aveva sino allora costituito la tradizione storica della città, lo sforzo del suo passato, la cura ansiosa del presente. Perciò le resistenze a quel pensiero sono, e devono essere, tenaci: resistenze attive del sempre potentissimo ceto mercantile, passive degli strati popolari amorfi od austrofili. Giova invece alla coltivazione del germe unitario il momento particolare in cui spunta; una ragione economica, sia pur transitoria, viene in suo aiuto. I traffici – come vedremo a suo luogo – incominciano allora appunto ad ingolfarsi in un periodo di transizione che da molti sarà presa per inarrestabile decadenza e attribuita (in parte giustamente) a errori e debolezze statali; dal che risulterà scemata e scossa la convinzione del liberalismo quarantottesco essere il fiorire di Trieste inseparabile dalla sua unione all'Austria.

Dal canto suo, lo Stato, dopo la perdita della Lombardia e l'incubo di quella, probabile, del Veneto, accrescerà la vigilanza gelosa su questo sbocco di vitale importanza per esso. Fra gli italiani della regione, staccati o in procinto di staccarsi dai loro connazionali, si avvertirà un senso d'isolamento e di progressiva diminuita influenza della monarchia. Donde due ripercussioni: attrazione nell'ideologia separatista di molti, prima estranei o refrattari ad essa; accresciuto impulso in tutti coloro in cui si è ormai sviluppata una coscienza nazionale, a fortificarla e diffonderla mediante l'italianificazione completa della scuola e della vita in generale. Ma l'infittirsi dei postulati e delle manifestazioni nazionali troverà lo Stato ben più diffidente di prima, poiché esso sarà tratto, dall'istinto non sempre illuminato della conservazione, a scorgere in essi il sottinteso separatista e, ostacolandoli, a lavorare alla diffusione del pensiero che vorrebbe combattere. Verrà infine a complicare l'ambiente, e a pungere per altro verso il sentimento nazionale, il risvegliarsi dell'altra stirpe della Giulia.

Dati tutti questi fenomeni interdipendenti, si capisce perché un sentimento nazionale integrale nasca a Trieste e si rinforzi nell'Istria con l'unità e per l'unità, e perché le sue prime manifestazioni collettive sieno, con identità persino cronologica, coeve alla proclamazione del regno d'Italia. Il falso annunzio della vittoria austriaca a Magenta trova ancora a Trieste una platea plaudente senza contrasti alla sconfitta dei connazionali, nonché un commerciante (eletto poi per molti anni consigliere anche dai liberali) troppo frettoloso largitore di 1.000 fiorini a sfogo del suo giubilo patriottico; il giornale ufficiale, durante la guerra, può vantare la mitezza e l'inutilità dello stato d'assedio che permette ai reali di Prussia di fermarsi tranquillamente a Trieste; e quando, dopo Villafranca, il sovrano passa per la vicina stazione di Nabresina, le sue parole alle rappresentanze di Trieste accorse ad ossequiarlo suonano sincero e meritato compiacimento «per il contegno esemplarmente leale e patriottico di Trieste».

Ma nel 1861 nasce il regno d'Italia e si insedia a Trieste il primo consiglio influenzato dal pensiero unitario, ed è del 1861 la prima, pubblica parola lanciata all'Italia ed all'Europa dalla nascente idealità. Vedremo subito chi è che la lancia e il nome confermerà l'improvviso e l'imprevisto nel nuovo orientarsi del sentimento nazionale.

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