Introduzione

Nel sottotitolo di queste pagine è il loro intendimento vagheggiato: vorrebbero contribuire a ciò che, finora, nel regno d'Italia, non si è fatto mai: studiare e discutere l'irredentismo, fuor d'ogni peste retorica e di ogni lue pseudo-letteraria, col minimo di passione consentito agli umani. E, per discuterne – secondo la buona massima degli antichi –, cominciare col distinguere. Primo: l'irredentismo che c'è (Trento e Trieste) da quelli che, se non rinascono, sono morti, ovvero non furono mai ben vivi (Nizza, Corsica, Malta, Ticino). E perché? (Quesito non disutile che qui pongo soltanto.) La Francia, a Nizza, ha trattato e tratta gli italiani – quei pochi che si sentono ancora tali – peggio, assai peggio del centralismo austriaco. Poi «Trento-Trieste»: le due sorelle siamesi della retorica tradizionale. Occorre decidersi a tagliare l'escrescenza teratologica che le unisce: non vi sono, a crearle apposta, due cose più essenzialmente diverse: per fondo storico, etnico, economico, negli stimoli, nelle resistenze, ecc.

Dunque Trieste e, con Trieste, l'Istria (di cui Trieste è, sebbene non storicamente, parte precipua) e Gorizia e il Friuli orientale, tutti inseparabili davvero da Trieste. Ecco, Irredentismo adriatico. Non, forse, tutto l'irredentismo adriatico. La strategia e la tattica, lo vedremo, potrebbero volerlo portare sin oltre Fiume, in Croazia; la retorica e la letteratura anche più in là, magari sino a Cattaro, dove sboccherebbe nell'imperialismo; fuori, ad ogni modo, dal campo circoscritto di questa ricerca.

«Contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani»: studiando e discutendo l'irredentismo adriatico giuliano, si studiano e si discutono, nel loro punto più delicato, i rapporti fra l'Austria e l'Italia. E non quelli d'oggi soltanto; cioè non soltanto quelli dell'Italia coll'impero austroungarico d'oggi, a centralismo dualistico o a dualismo centralista, ma altresì con l'assetto statale di domani, comunque giunga a concretarsi nelle forme esteriori. Si studia dunque il problema immanente dei rapporti fra la nazione italiana, riunita in un tutto politico, e le nazionalità varie (compresi gli italiani della Giulia) che dalle Alpi orientali, dai Carpazi, dal Danubio, dalla Sava, gravitano, più o meno intensamente, sulla costa orientale adriatica: la linea di maggiore e più diretta gravitazione, attraverso la Giulia, sbocca a Trieste ed è a servizio precipuo di Trieste. Quante e diverse connessioni coi problemi delle alleanze e delle intese, dei Balcani e dell'unità jugoslava, ecc.

Come tutte le indagini, pure questa (riescita o no che sia) aspira al riconoscimento dello sforzo proprio verso l'oggettività. Dico così, perché anche l'oggettività storica è una delle tante cose che vanno prese col solito grano di sale. Chi scrive ha (e potrebbe non averlo?) un pensiero suo; né lo dissimula; si studia assiduamente di non imporlo. Che se deve fare troppo spesso la parte di "avvocato del diavolo", rilevando quanto di antirredentistico ci sia nell'irredentismo, non è colpa sua, né gli sembra effetto di unilateralità di visione, ma sta nel fenomeno stesso, nato e vissuto in un'atmosfera di sogno e di passione, repugnante per natura e tenuto poi, ad arte, lontano dalle correnti aspre e rudi della realtà; dal fatto e dal dato. Ora, questo scritto vuol essere sopra tutto una cernita e un'esibizione di fatti e di dati, radici di future discussioni; e fatti e dati come tali, comunque si volgano, sussidiano poco o nulla l'idealità separatista giuliana. Intenzionalmente dunque, la ricerca lascia da parte ogni considerazione etico-giuridica e presenta, più che diritti, forze in contrasto. (Dove, d'altronde, la linea divisoria tra forza e diritto?) Terreno antipatico a molte mentalità, ma certo men lubrico e forse anche meno pericoloso per gli italiani dell'altro, in cui si farebbe scivolare, ponendovela, la questione giuliana. La discussione, abbandonando il criterio di forza, criterio apprezzabile nella sua entità presente ed anche, sino ad un certo punto, nel suo ritmo avvenire, si ingolferebbe in una via senz'uscita. Come contestare, ad esempio, il diritto degli slavi giuliani a reagire contro tutte le forme di assimilazione, persino contro quelle automatiche, dell'ambiente? A voler essere finalmente loro, dopo essere stati, per dieci secoli, materia organica per altri? Lo avvertiva, sono più di trent'anni, Ruggero Bonghi, che non aveva certo anima di internazionalista, con queste preveggenti parole: «Il presumere che (nella Giulia) gli slavi non abbian diritto di stare, sarebbe ridicolo; il pretendere che abbian obbligo, per rimanervi, di scordare chi sono, sarebbe assurdo»... ed ecco, al diritto teorico, ideale, degli italiani, contrapporsi l'altro, altrettanto teorico ed ideale, degli slavi, ed il dibattito irretirsi in un viluppo inestricabile.

Gli italiani, è vero, affacciano un titolo particolare al predominio e all'assimilazione, anche coatta, e lo derivano dalla coltura e dalla civiltà. È il titolo dal quale uno scienziato, assai spesso, e non sempre a proposito in bocche nazionaliste, Lodovico Gumplowicz, il sociologo teorizzatore della lotta nazionale, fattrice di progresso, deduceva l'iniquità di una troppo rigida e sagomatica equiparazione linguistica fra i popoli dell'Austria. Ma il Gumplowicz parlava, trent'anni fa, del suo presente (che è quasi il nostro passato) senza ipotecar l'avvenire, e le sue osservazioni sugli idiomi plebei «non giunti ancora a lingua scritta» potevano già allora assai imperfettamente riferirsi a sloveni ed a croati. Oggi... oggi anche il titolo, tanto, troppo vantato, «ohimè come si muta» a chi lo esamini non al vertice ma alle basi della nazione, non nelle ripercussioni appariscenti di un'arte e di una scienza, patrimonio di élites, bensì negli indici, più modesti ma più conclusivi, di coltura, di umanità, diffusa e diffondentesi! Come ci appare pigra, e tardigrada a dilatarsi, questa civiltà anziana, e come vigorosamente sollecita a rincorrerla, se non a superarla, l'altra, quella battezzata da ieri! È l'accertamento più triste di questa ricerca; e va aggiunto qui che le responsabilità di esso non possono caricarsi tutte sui ceti dirigenti la nazione. Comunque, anche da questo, come dagli altri risultati dell'indagine, non si trae alcuna conclusione. Le pagine che seguono aspirano ad essere pagine di storia, e la storia – ha detto assai bene non so più chi – non conclude mai.

Sia lecita in fine un'osservazione personale. La struttura psichica di chi scrive, non incline, anzi, per molti riguardi, in assoluta antitesi con molte ideologie nazionali e più nazionaliste, potrebbe forse costituire, per alcuni, una specie di pregiudiziale di inettitudine e incapacità ad afferrare e valutare il fenomeno che qui si propone allo studio. L'autore del presente saggio, fatto un esame rigoroso di coscienza, si sente, per questo riguardo, perfettamente tranquillo. Forse, la sua tiepidezza nazionale può averlo addirittura aiutato a mettersi più agevolmente nei panni dell'uno e dell'altro dei contendenti; certo, le sue idealità sociali non gli furono di inciampo o di impaccio alla vista, debole o acuta che essa appaia in questa indagine; tanto vero, che il massimo ostacolo alla tesi separatista, il fattore economico, vale proprio in quanto valga e duri il sistema attuale di produzione e di scambio, e cadrebbe e cadrà il giorno nel quale altre men incivili forme di consociazione umana matureranno nel grembo della storia e se i «confini scellerati» spariranno veramente «dagli emisferi». Il che equivale a dire che, in queste pagine, il fenomeno irredentistico non si guarda da una prospettiva internazionale e socialista. Anzi, è possibile che qualche risultato della ricerca faccia corrugare il sopracciglio agli assertori troppo rigidi del taglio netto fra le classi, nonché ai bigotti di un materialismo storico, che non rispecchia d'altronde affatto il pensiero sintetico e definitivo di Marx e dell'Engels.

Parrà forse troppo diffusa, in confronto al presente, la parte dedicata al passato; ma il fenomeno che si vuole studiare, se è un portato storicamente recentissimo, non si spiega e non si comprende senza indagarlo alle radici, le quali si prolungano abbastanza profonde nel sottosuolo politico ed economico e invadono due storie, dell'Austria e dell'Italia. Anche sembrerà a molti esuberante o pedantesca la documentazione, la quale si scusa con lo scopo del lavoro, che è di fornire facile l'uso più ampio delle fonti a chi volesse approfondire molti argomenti di cui qui si possono dare soltanto gli spunti. E, a proposito di fonti, chi scrive ha dovuto in tutto il corso della ricerca deplorare la sua quasi crassa ignoranza di ogni idioma slavo, la quale non gli ha consentito di dare al materiale slavo non tradotto lo sviluppo dato all'italiano ed al tedesco.

Trieste, febbraio 1912

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