2.

I primi propagandisti – La conversione di P. Valussi – Gli esordi a Trieste e la dieta istriana del «Nessuno» – Irredentismo nazionale e confine geografico – L'irredentismo potenziale di Cavour – Le contraddizioni negli uomini di governo del 1866 – Una protesta triestina contro Lamarmora – La Sistierung e l'idea separatista – Vittorio Emanuele a Vienna il 20 settembre 1873 – La lotta fra centralismo e federalismo in Austria e le sue ripercussioni nella Giulia – La fiammata irredentista del 1878 – Una scissura caratteristica – Depressione dell’irredentismo regnicolo: Guglielmo Oberdank – Mancini e il principio di nazionalità – Il pensiero di Sonnino –– Crispi e il discorso di Firenze

Qui è il luogo di dire che chi scrive non intende di fare, neppure succintamente, la storia dell'irredentismo adriatico. Già, una storia sarebbe difficile scriverla. L'irredentismo in genere e quello adriatico in particolare furono e sono, per troppa parte, stato d'animo e, per troppo poca, movimento ed azione suscettibili d'indagine cronologica e sistematica; la storia che si potrebbe farne, sarebbe un correr dietro a episodi frammentari, per lo più inconferenti o superflui all'indagine che mi sono proposta. Tuttavia qualche cenno del passato, specie nelle sue poche fasi differenziali, mi sembra indispensabile. Dopo di che sarà spianata la via all'osservazione del presente, dominato dai due fattori coi quali sentimento e movimento irredentista devono e dovranno sempre più mescolarsi e colludere: il fattore etnico e quello economico.

Da quando l'idea separatista giuliana entra o tenta di entrare in azione, agisce contemporaneamente su due teatri: al di qua e al di là del confine. Non occorre spiegare perché le parole, gli atti e i gesti dei personaggi debbano variare dalle due ribalte: dentro, nella regione, c'è uno Stato che vigila e reprime; fuori, nel regno, vigilanza e repressione differiscono nei modi e nell'intensità, e talvolta mancano del tutto e cedono addirittura ad una tattica contraria. Così avviene agli esordi del movimento. Siamo nel quinquennio 1861-66 non di pace, ma di armistizio con l'Austria. L'annessione della Venezia è la meta ufficiale, diplomatica del nuovo regno; l'Europa non la contrasta, almeno come finalità tendenziale della politica italiana. Nessuna convenienza internazionale costringe quindi il governo italiano a inceppare od attenuare la più ampia ed aperta propaganda antiaustriaca; il primo cospiratore, non alieno dall'allearsi coi rivoluzionari di dentro e di fuori, è il governo stesso. In questa fase, l'irredentismo giuliano si accoda al veneto ed al trentino; tenta di infondere la forza altrui nella gracilità propria.

È allora che viene alla luce quello che possiamo chiamare il Manifesto dell'irredentismo adriatico, al quale i separatisti danno un carattere particolare di solennità: lo pubblicano in italiano e in francese, a Milano e a Parigi; lo fanno uscire sotto gli auspici e nel nome di un Comitato centrale veneziano, e lo raccomandano «all'influenza legittima della Francia in Europa e alla sua generosa iniziativa in pro dell'Italia». L'opuscolo è anonimo, ma ne sono ben noti l'autore e il traduttore, Costantino Ressmann, triestino, entrato allora nella diplomazia italiana e che finirà ambasciatore d'Italia.

Più caratteristico per noi è il nome dell'autore: Pacifico Valussi, quello stesso che, dodici anni prima, da Venezia repubblicana, si esprimeva con tanta crudezza di scetticismo sulle aspirazioni separatiste della regione Giulia. Il miracolo dell'unità lo ha trasformato. Nel 1849 il Valussi è antiannessionista esplicito e definitivo; nel 1861 rivendica tutta la Giulia esclusivamente all'Italia, nel nome del diritto nazionale, del fattore geografico e militare, persino del fattore economico! Gli slavi della Giulia, che nel 1849 erano per il Valussi (e lo vedremo meglio più avanti) la seconda stirpe indigena da affratellarsi con l'italiana, in una zona neutra, terreno di passaggio fra Slavia ed Italia, nel 1861 son retrocessi a plebe rurale dispersa e divisa, incapace di evolversi a nazione, anzi addirittura anelante a scomparire nell'italianità: fede o meglio speranza quest'ultima che la giovane propaganda separatista diffonde allora largamente nel regno e fa penetrare – lo vedremo – sin nel cervello di Cavour. Naturalmente, il buon Valussi deve accomodare un po' la storia alla sua nuova tesi per non farla urtar troppo con la tesi precedente: ricorda l'avvenire di «Amburgo adriatica», prospettato a Trieste dal cognato Dall'Ongaro nel 1848 e afferma che soltanto qualche negoziante vagheggierebbe ancora quella soluzione; l'Austria, confiscando le autonomie secolari della città, avere ormai lavorato per la diffusione irresistibile dello spirito separatista; la storia triestina dal 1848 al 1861 essere tutta un succedersi di «denuncie, processi, arresti, espulsioni arbitrarie e violenze statali d'ogni maniera». La realtà – lo vedemmo testé – proprio in quel tredicennio, è alquanto diversa.

Errori prospettici od anche travisamenti intenzionali, ben spiegabili in quei primi apostoli separatisti: sapevan di anticipare un movimento e quasi di esprimerlo dall'ansia del loro desiderio; ma vedevano avvicinarsi grandi fatti in cui dovevan sperare che l'idea neonata sarebbe andata rapidamente maturando e imponendosi agli indifferenti e agli ostili.

L'opuscolo del Valussi è, del resto, rapido, denso, chiaro, tenta di considerare il problema in tutti i suoi aspetti, di rispondere a tutte le obiezioni; non esagera neppure l'importanza della sua tesi; esordisce anzi onestamente ammettendo che la redenzione della Giulia non è questione vitale italiana, che Trieste e l'Istria sono pronte ad attendere, ma desiderano soltanto di non essere dimenticate. Anche fa capolino la coscienza – nel Valussi, che aveva vissuto per un decennio (1838-1848) a Trieste evidentemente chiarissima – delle diversità fra l'ambiente triestino e l'istriano nei riguardi del sentimento unitario.

La propaganda valussiana è seguita o preceduta di poco da tutta una letteratura similare, la quale rimane la più elevata e profonda che abbia avuto ed abbia il separatismo giuliano; quello che vien più tardi, salvo poche eccezioni, e rifrittume o retorica. Non trovo triestini fra questi fervidi ed eletti diffonditori del nuovo vangelo; tiene invece il primo posto, per animo e intelletto, il capodistriano Carlo Combi, che già prima del 1859, nell'almanacco La porta orientale (nomen est omen) aveva cercato di imitare il Vestaverde del Correnti. I Prodromi della storia dell'Istria, L'Unità naturale della provincia, ecc. sviluppano, con le necessarie cautele, il concetto dell'inseparabilità geografica e storica della Giulia dalla penisola italica. Dopo il 1860, su riviste regnicole, il Combi può parlare più chiaro e in parecchie pubblicazioni riassume, con vasta dottrina, le ragioni del separatismo giuliano.

Accanto a lui va ricordato Tommaso Luciani di Albona, autore dell'Istria, perspicua sintesi di storia regionale, benché qua e là dominata anch'essa dalle necessità della propaganda. L'opera più poderosa è quella – già ricordata – del prof. Sigismondo Bonfiglio, mirante a contestare le pretese della Confederazione germanica sul versante meridionale delle Alpi (Trentino e Giulia). Della Giulia il Bonfiglio, esamina le condizioni geografiche, nazionali, economiche, partecipando anche lui alle speranze comuni riguardo allo slavismo; va anzi anche più in là del Valussi e del Combi e afferma che gli slavi giuliani, «amalgama di numerosi residui di antiche nazioni... si devono ormai considerare parte della nazione italiana»! Dalla depressione dei traffici triestini, ampiamente esaminati, deduce l'interesse della Giulia al distacco dall'Austria; topica curiosa o, meglio, tranello anche questo, teso dall'affetto all'intelletto; ne riparleremo più avanti.

La questione geografica, militare e confinaria viene, sempre in quel quinquennio, largamente trattata, oltre che dai succitati scrittori, dall'Amati, dal Malfatti, dall'Antonini, dal Mezzacapo, ecc..

A tanto fervore di propaganda, la regione risponde come può: le diversità di preparazione e d'ambiente rifulgono in questo momento. Proprio allora era rinato, dalle sconfitte lombarde, il costituzionalismo austriaco; la costituzione, promessa nella patente d'ottobre del 1860, viene octroyée nel 1861 come quella del marzo 1849, ma, a differenza di questa, immediatamente attuata. Essa riafferma e, pur con molte restrizioni e lacune, sancisce la libertà di parola, di stampa, di riunione, ecc. e crea una camera elettiva formata da rappresentanti inviati dalle diete: pennellata federalista in un quadro a fondo centralistico, poiché la costituzione del 1861 abbraccia tutto l'impero, compresa l'Ungheria e affida al parlamento centrale la massima funzione legislativa.

Trieste ricupera contemporaneamente la sua autonomia comunale e le attribuzioni politiche provinciali, ambe riunite nel consiglio-dieta. La città, in quel momento, ha molto da chiedere allo Stato: i commerci triestini attraversano un periodo di crisi, dovuta in parte all'atonia dell'assolutismo; l'esenzione dal servizio militare (la più sentita delle franchigie dopo il portofranco) sta per cessare. Lo Stato, in quell'ora critica di transizione, avrebbe in mano parecchi mezzi per riafforzare il lealismo triestino vacillante: una politica economica rispondente alle nuove esigenze dei traffici; una politica nazionale non ostile allo sviluppo della coltura italiana. Senonché il nuovo sentimento separatista di dentro – e più quello di fuori – agiscono automaticamente come fattore repulsivo; fanno poi ostacolo la spossatezza statale, eredità dei recenti disastri, e lo sforzo supremo del centralismo germanizzatore, rappresentato dal gabinetto Schmerling e sperante ancora che lo Stato potesse trarre dalla costituzione di febbraio ciò che non aveva potuto dall'assolutismo postquarantottesco: l'impero unitario di tinta tedesca. Il consiglio-dieta, appena costituito, lancia una sfida al germanismo, dichiarando la lingua italiana «lingua esclusiva d'insegnamento in tutte le scuole pubbliche erariali e comunali della città». Il principio, contenuto in un disegno di legge di competenza dietale, non ottiene la sanzione sovrana e la lotta per la scuola si afferma subito; si riapre così la questione della lingua del ginnasio, lasciata sospesa dal consiglio decennale. Allora la maggioranza del consiglio si era mostrata contraria all'insegnamento italiano in tutte le otto classi ginnasiali e contro di esso avevan parlato e votato anche consiglieri di parte liberale, concludendosi di chiedere al governo l'insegnamento promiscuo: italiano nelle quattro classi inferiori, tedesco nelle superiori. Il governo di Bach non aveva creduto di giungere neppure sin là; quello di Schmerling ci arriva e propone infatti la soluzione caldeggiata dal consiglio decennale; ma ormai la mezza concessione non basta più e viene respinta. I vari dibattiti sull'argomento risenton l'influenza dei nuovi fattori: il diritto di Trieste all'insegnamento italiano perché città italiana non è oppugnato neppure da quei consiglieri che in cuor loro lo contestano e in altri tempi lo avevano apertamente oppugnato; un solo ritardatario, un dott. Descovich, affaccia la proposta di raccogliere, prima del voto, le statistiche atte a stabilire quale veramente fosse la nazionalità di Trieste, ma rimane isolato e deve uscire dal consiglio.

Il modo col quale la faccenda si risolve indica già la nuova rotta dello spirito nazionale: il consiglio delibera di istituire non soltanto i corsi superiori italiani che il governo rifiuta, ma l'intiero ginnasio proprio, quasi a sanzionare il distacco, e la ripugnanza, per quanto uscisse dalle fucine statali.

Il passato però preme ancora sullo spirito pubblico tergestino e contribuisce a smorzarne anche le manifestazioni nazionali. Le stesse elezioni del consiglio, indette dopo tanti avvenimenti imprevisti e un decennio di assolutismo comunale, non si erano svolte in ambiente deciso di lotta e di distacco dal patriarcalismo precedente. Si formano bensì, come nel 1850, due comitati elettorali, di cui uno «patriottico» per definizione, ma ben nove candidati sono comuni ad ambedue (fra essi l'avv. Nicolò De Rin, già alla testa del liberalismo quarantottesco); a podestà viene eletto Stefano Conti, già vicepresidente del Decennale, i.r. funzionario e di fervida e indiscussa lealtà austriaca.

Non è sorta ancora la stampa liberale o liberaleggiante; oltre il giornale ufficiale, non vi sono che organi fedelissimi: la «Sferza», nata a Brescia nel 1850, trasportata a Venezia nel 1857 e di là, durante la guerra del 1859, a Trieste, «onde, come da una posizione elevata e tranquilla (sic), conoscere quanto accade intorno». È una specie di libello sanfedista, diretto da un tal Mazzoldi, bresciano, rivoluzionario sino al 1849, poi diventato penna e lancia spezzata della reazione. La «Sferza» muore nel 1861 con la morte del suo direttore; rimane invece e conserva una certa diffusione il «Diavoletto», men personale, ma altrettanto italofobo, fondato alla fine del 1848 e vissuto sino al 1870, per oltre un decennio unico e gradito pasto intellettuale dei ceti alto e piccoloborghesi; il proletariato deve ancora imparare a leggere. E il confusionismo nazionale non è del tutto dissipato; una «Gazzetta del popolo», vissuta tra il 1861 e il 1863, chiama Trieste prima «città non mista, ma italiana», poi cosmopolita «per l'amalgama di tante nazionalità e credenze religiose!». Appena alla fine del 1861 inizia le sue pubblicazioni «Il Tempo», che rispecchia il pensiero nazionale predominante allora a Trieste. È un pensiero singolarmente guardingo e che sembra procedere continuamente per ignes. Lo vediamo nell'episodio più caratteristico degli albori separatisti: la manifestazione istriana detta del «Nessuno». Anche la dieta dell'Istria, come tutte le neo-costituite assemblee provinciali, è chiamata a scegliere dal suo seno i rappresentanti al parlamento. Gli auspici non avrebbero potuto essere più favorevoli: per la prima volta, dalla romanità in poi, riviveva una provincia dell'Istria, riunente in un tutto autonomo il dominio marchionale veneto e il comitale austriaco; stava inoltre per restituirsi alla regione la franchigia del portofranco, tolta nel 1851, che l'avrebbe fatta divenire una prosecuzione e una pertinenza del suo centro naturale, Trieste. Ciononostante, quella prima dieta compie per due volte un gesto ribelle: su 27 schede deposte nell'urna, 20 portano invece del nome di un deputato, la parola «Nessuno». È la protesta astensionista compiuta allora da quasi tutti i comuni veneti e da molti trentini, chiamati a sceglierei loro rappresentanti a Vienna. La stessa dieta vota un indirizzo al sovrano, ma con la condizione che esso debba contenere non gli omaggi e i ringraziamenti, ma i bisogni e i postulati della provincia. Non occorre aggiungere che quell'assemblea riottosa viene sciolta; nelle elezioni successive gli astensionisti riescono in minoranza e si dimettono e la nuova dieta, composta soltanto coi suffragi dei funzionari e del ceto rurale, fa ammenda onorevole, mandando alla camera il luogotenente (tedesco) e il vescovo di Parenzo (slavo), uno dei quattro preti che, allora, rappresentavano nella dieta lo slavismo ancora semiassente dalla vita pubblica.

L'idea del «Nessuno» era partita dai propagandisti istriani e specialmente dal Combi, che sperava imminente il nembo liberatore. Il liberalismo triestino invece la disapprova, apertamente e pubblicamente; l'affermazione nazionale e più ancora l'unitaria devono procedere a Trieste con estreme cautele per non urtare un ambiente ancora in gran parte impreparato ad accoglierle: il «Tempo» è costretto a commentare il voto astensionista nel suo primo numero e dice che «gli istriani si sono lasciati sedurre da un'idea vaporosa, una teoria abbagliante che farebbero bene ad abbandonare per tenersi alla pratica utilità».

L'organo nazionale va anche più in là: giunge a sconfessare apertamente la tendenza separatista che un giornale viennese gli andava rimproverando: «Vogliamo – scrive – la separazione degli onesti dai birbanti, ad altre separazioni non pensiamo». Dieci mesi dopo la nascita del «Tempo», il suo direttore è tratto innanzi ai giudici (la costituzione del 1861 non aveva ripristinato la giuria del 1848) per rispondere di un cumulo di delitti. Fra l'ottobre e il dicembre del 1862 si svolge il primo processo di stampa, che ci insegna quanto più sospettosa fosse la giustizia a Trieste in regime costituzionale di quello che fosse stata nel 1849, dopo il colpo di Stato. Allora, lo vedemmo, si desiste dalla procedura contro Giulio Solitro che pure, nel «Giornale di Trieste», aveva proclamata la sua fede unitaria; nel 1861 invece si trovano prove di slealtà e di sovversivismo nella nuda cronaca degli avvenimenti d'Italia, fatta da corrispondenti del «Tempo» di Milano o di Torino, e persino in una critica musicale del... Ballo in maschera! L'accusato, a sua volta, cerca nello stesso giornale i documenti della sua lealtà, e vedemmo testé che non doveva affaticarsi troppo a trovarli. Il processo finisce con la condanna a otto mesi di carcere del direttore e a due mesi del collaboratore accusato insieme con lui, don Paolo Tedeschi, un prete prossimo a deporre la sottana, garbato e pepato scrittore.

Non consta e non pare che il sistema di difesa adottato dal «Tempo» abbia suscitato reazioni e proteste nelle file della gioventù nazionale, di cui quel giornale seguita ad essere l'organo fino al 1866, quando, sfrattatone il direttore alla vigilia della guerra, sospenderà le pubblicazioni.

Anche i due deputati che la dieta triestina unanime manda per la prima volta a Vienna (il «Nessuno» a Trieste non si sarebbe neppur potuto tentare) non sono di colore politico acceso; un i.r. Funzionario, futuro podestà fedelissimo, e un negoziante amorfo.

Nel regno, frattanto, aumentano gli stimoli e gli eccitamenti al separatismo; l'emigrazione unisce il nome di Trieste a quello di Venezia e del Trentino e dell'Istria per ingrossare, sommandolo ad altre cifre, il modesto valore del movimento triestino. Così, nel gennaio del 1863, i giornali viennesi narrano di una deputazione di emigrati adriatici ricevuta da Vittorio Emanuele; la rappresentanza di Trieste in quella deputazione è confusa con l'istriana nella persona di Tommaso Luciani; non trovo invece che Trieste fosse rappresentata in seno ad altra deputazione recatasi a protestare contro la pace di Villafranca. L'Italia, d'altronde, accoglie assai freddamente la nuova propaganda; mentre la Venezia rappresenta il porro unum necessarium della diplomazia italiana, mentre il Trentino appare costantemente compreso nelle sue aspirazioni e nelle sue pratiche, l'irredentismo adriatico è un po' la Cenerentola del governo e del pubblico.

Bisogna dir subito che questo atteggiamento ha radici antiche e profonde. Fin dagli esordi del movimento unitario, le aspirazioni dell'Italia verso il confine orientale adriatico appaiono incerte e contraddittorie. Carlo Alberto ha per programma la cacciata dell'Austria dall'Italia. Ma fin dove arriva l'Italia? Qui incominciano i dubbi e le incertezze; qui si palesa la contraddizione fra il criterio puramente nazionale e quelli geografici-militari.

Se Carlo Alberto, nel 1848, avesse voluto o potuto seguire il criterio dei suoi generali, avrebbe dovuto, per compier l'impresa, piantare il tricolore a nord-est alle porte di Lubiana, e ad oriente in piena Croazia. Invece il Manifesto dell'Unione federativa italiana gli prescrive un confine assai più modesto e, come vedremo, più equivoco: «L'Italia non sarà lieta né riposata, finché il suo confine non sia ai margini dell'Isonzo». All'Isonzo, lo vedemmo, accenna anche il Solitro nel «Giornale di Trieste», ma poco prima Guglielmo Pepe aveva detto a Carlo Alberto: «Vi saluterò re d'Italia quando avrete passato l'Isonzo». Nel 1866, anche un Vademecum per l'ufficiale d'Italia in campagna fa finire l'Italia all’Isonzo e del pari una carta ufficiale edita nel nuovo regno, del 1864. Neppur Giuseppe Mazzini ha, per questo riguardo, un pensiero rettilineo e costante: nel 1831 (Istruzione generale per gli affratellati alla Giovane Italia) mette a confine d'Italia, verso est, Trieste, senza ulteriore indicazione; nel 1857 (Lettere slave) il confine alle Giulie appare nettamente delineato: «L'Europa futura avrà... un'Italia che si estenderà dalla Sicilia al cerchio delle Alpi e a Trieste». Invece nel 1860 (Doveri dell'uomo) il confine è segnato agli sbocchi dell'Isonzo; infine nel 1871 (Politica internazionale) il grande apostolo delle nazionalità travalica il diritto nazionale comprendendo nella penisola Postoina (Adelsberg), la Carsia sottoposta amministrativamente a Lubiana, nonché il «Tirolo sino al di là di Brunopoli» (Brunek).

Ma anche l'Isonzo si adatta a varie interpretazioni. Il Visconti-Venosta, ministro degli esteri durante la guerra del 1866, incaricando il Nigra di indurre Napoleone ad appoggiare una rettifica dei confini del Veneto, dice che questi «dovrebbero essere portati all'Isonzo» senz'altra più precisa indicazione. Il Visconti-Venosta poteva pensare benissimo a tutto il corso dell'Isonzo, dalla sorgente alla foce, cui si richiama il Menabrea, negoziatore della pace a Vienna. Non la intendeva certo così il Lamarmora il quale invece, molto oscuramente, afferma: «La geografia indica essere l'Isonzo il vero confine d'Italia dalla parte del Friuli», Ora, col criterio del Menabrea, prendendo cioè a confine l'intero corso dell'Isonzo, si verrebbe ad annettere all'Italia la valle dell'Isonzo, da Gorizia al Predil che non è, etnicamente, italiana, mentre si escluderebbero gli italiani di Trieste e dell'Istria; seguendo invece il criterio del Lamarmora, il confine dell'Isonzo, dalla parte del Friuli, non porterebbe che ad un'insignificante rettifica della frontiera attuale.

Confusionismo generale! Un uomo solo mostra di avere un suo pensiero: Camillo Cavour. Il pensiero cavouriano sull'irredentismo adriatico non è sintetico ma frammentario e va rintracciato in manifestazioni successive. Discorrendo di politica-estera alla camera subalpina il 20 ottobre 1848, Cavour mostra già l'intuito chiaro del problema austroungherese, svelato allora dal sussulto rivoluzionario. Così, oltre alle esteriorità dinastiche e liberticide, egli intravede il fondo nazionale del movimento croato capitanato dal Jelačić, e condanna, affrontando le interruzioni dei magiarofili, l'oppressione oligarchica magiara sulle plebi slave e preconizza la vittoria dello slavismo nell'Oriente della monarchia. «La razza slava – dice – energica, numerosa, da più secoli oppressa, vuole ottenere intera la sua emancipazione... la sua causa è giusta e nobile, propugnata da orde rozze ancora, ma ardimentose ed energiche, essa è quindi destinata a trionfare in un non lontano avvenire».

Noto queste parole di Cavour deputato, perché esse ci aiutano a lumeggiare il pensiero del ministro negli ultimi, vertiginosi mesi di governo e di vita. Nulla gli sfugge di quanto può riconnettersi al grande piano della sua politica; in sul cadere del 1860, Cavour avverte e nota persino i primi albori dell'italianità triestina. «È utilissimo – scrive a Lorenzo Valerio, regio commissario in Ancona, che aveva riconfermato al Lloyd austriaco i privilegi goduti colà sotto il governo pontificio – è utilissimo mantener buone ed attive corrispondenze con Trieste che, da quanto mi si dice, si fa meno "fedelissima" e più italiana». Temendo che queste sue parole sieno male interpretate, aggiunge subito: «Non già che io pensi alla prossima annessione di quella città. Ma conviene seminare perché i nostri figli abbiano a raccogliere».

E, due mesi dopo, in un'altra lettera allo stesso Valerio che aveva fatto nascere un incidente diplomatico con la Prussia chiamando, in un documento ufficiale, Trieste, città italiana, Cavour espone più ampiamente il suo pensiero: «Debbo pregare la S.V. – scrive – di evitare ogni espressione dalla quale possa risultare che il nuovo regno italiano aspira a conquistare non solo il Veneto, ma anche Trieste con l'Istria e Dalmazia. Io non ignoro che nelle città lungo la costa vi hanno centri di popolazione italiana per razza e per aspirazioni. Ma nelle campagne gli abitanti sono tutti di razza slava, e sarebbe inimicarsi gratuitamente i croati, i serbi, i magiari e tutte le popolazioni germaniche, il dimostrare di voler togliere a così vasta parte dell'Europa centrale ogni sbocco sul Mediterraneo. Ogni frase avventata in questo senso è un'arma terribile nelle mani dei nostri nemici che ne approfittano per tentar di inimicarci l'Inghilterra stessa, la quale vedrebbe essa pure di mal'occhio che l'Adriatico ridivenisse, com'era ai tempi della repubblica veneta, un lago italiano. Per ora è d'uopo limitarsi a munir bene Ancona; ciò sarà scala a splendidi progressi in un avvenire che i nostri nepoti non troveranno troppo remoto».

Insomma Cavour mostra di valutare a pieno il fattore che, oggi assai più di allora, complica e perturba le ragioni dell'italianità, al confine orientale: la convivenza cioè di due stirpi (l'italiana e la slava) ognuna delle quali può invocare il principio di nazionalità contro l'altra. Egli appare ben conscio della forza e dell'avvenire cui lo slavismo va incontro e della necessità di amicarlo all'Italia; né si dissimula che, oltre agli interessi slavi, altri vengono a incrociarsi sull'Adriatico, e ne cita due: la gravitazione economica tedesca e l'egemonia marittima inglese, e di tutti questi fattori sa tener conto. Contemporaneamente però gli arridono la speranza e la fiducia che la prima propaganda separatista aveva saputo suscitare: la fiducia nella forza assimilatrice della stirpe italiana in quelle parti dell'Adriatico orientale ove essa è più numerosa e robusta, e dove avrebbe potuto forse, col tempo, creare a favore delle aspirazioni annessionistiche italiane un titolo giuridico ancor troppo vago e imperfetto, il titolo nel nome del quale si stava allora costituendo l'Italia, il principio di nazionalità. Ma a differenza dell'irredentismo d'azione, Cavour sembra pensare che lo sperato assorbimento dello slavismo debba, per dare affidamento di successo, svolgersi il più possibile libero e spontaneo, affidato all'opera del tempo, allo sviluppo progressivo dell'italianità e alla sua forza morale; chiamati a veder la maturazione di questo processo storico e ad approfittarne saranno – viene a dire Cavour – i nostri figli, se non i nostri nepoti, compito degli uomini del risorgimento astenersi da ogni brusca anticipazione dell'avvenire; non irritare, non inimicarsi croati, serbi, magiari, tedeschi; non urtare l'opposizione di formidabili interessi europei finché non si mutino via via, a favore dell'Italia, le condizioni di fatto. Concezione che sta proprio agli antipodi di quella dei separatisti, i quali invece ragionavano così: «Annettiamoci subito l'Istria, Trieste e il Goriziano, e gli slavi di quei paesi, privi come sono di coscienza nazionale, si italianificheranno al più presto».

E va notato ancora che questo pensiero cavouriano non sembra dominato da immediate e mutevoli convenienze diplomatiche. In quella fase tragica ed eroica della sua vita che va dal 1859 al 1861, Cavour si sente più che mai attratto dai procedimenti rivoluzionari e dalle soluzioni extra-diplomatiche. «L'Italia – aveva affermato ancor prima della guerra – non può assicurarsi la sua indipendenza che col crollo definitivo dell'Austria; noi non potremo esser tranquilli finché l'Austria resterà una grande potenza». E più tardi, caldeggiando l'alleanza coi rivoluzionari ungheresi, aveva detto al principe Gerolamo: «Se essi (gli ungheresi), riescono la è finita per l'Austria: privata dell'Italia e delle sue provincie magiare e slave essa verrà ridotta all'impotenza. Sarà il più grande servizio che sia mai stato reso all'umanità».

Non dunque l'Austria come impero unitario e come accentramento dinastico, ma gli interessi politici ed economici dei popoli vari che gravitano verso la costa orientale adriatica: ecco i fattori profondi ed immanenti coi quali il grande statista comprende che – quali fossero per essere gli eventi guerreschi e il giuoco delle combinazioni diplomatiche – l'Italia avrebbe dovuto fare i conti.

Da tutto questo mi pare di poter concludere che se la morte non lo avesse colto prematuramente, la direttiva di Cavour di fronte al movimento separatista adriatico non sarebbe stata conforme alle speranze dell'emigrazione triestino-istriana: non avrebbe cioè mirato ad un'annessione, la quale a lui pareva per lo meno prematura e contrastata da potenti fattori che non stava in suo potere di eliminare e di abbattere improvvisamente. Ricercheremo in seguito se questa specie di irredentismo "potenziale" di Cavour abbia avuto conferma e conforto dall'avvenire, che è ormai il nostro presente.

Morto Cavour, il suo pensiero diviene rigido e definitivo nella mente più ristretta di Alfonso Lamarmora, presidente dei ministri dal 1864 al 1866, nel periodo cioè in cui ai separatisti doveva parere prossimo il compiersi dei loro ideali. Lamarmora appare allora impressionato soprattutto da uno dei fattori (e forse non il più poderoso) del problema: l'interesse germanico su Trieste, l'inevitabile "veto" prussiano e tedesco ad ogni aspirazione annessionista italiana sull'Adriatico orientale. Ma del conflitto di stirpe nella regione Giulia il Lamarmora mostra di sapere assai poco. Si ricordano ancora le parole pronunciate in Senato il 30 novembre 1864 e che ebbero a Trieste, come vedremo, una sintomatica ripercussione: il generale Ricotti sosteneva inevitabile la guerra con l'Austria per la conquista del Veneto, esclusa ogni prospettiva di cessione amichevole, causa l'opposizione del germanismo, interessato alla conservazione di Venezia austriaca «come baluardo di Trieste», pericoloso quindi, data l'indeprecabilità della guerra sul Po, il trasporto della capitale sull'Arno. Il Lamarmora, dopo aver contestato gli argomenti militari del Ricotti, contestò pure che fra la cessione del Veneto all'Italia e gl'interessi germanici a Trieste sussistesse un nesso qualsiasi. «Sicuramente – aggiunse – se venisse in capo a noi di voler andare a prender tutto l'Adriatico (?) compresa Trieste che ha un'immensa importanza per il suo commercio, la Germania potrebbe commuoversi; ma finché si tratta della Venezia, senza spingere le nostre pretese sino a Trieste, il che credo non venga in testa a nessuno, la Germania non ha interesse ad immischiarsene. Trieste può essere considerata come necessaria alla Germania, ma la Venezia no».

La politica estera del Lamarmora si informa logicamente a questa concezione definitivamente antirredentista; tutte le sue aspirazioni, quale fosse per essere l'esito della guerra, si restringono al Veneto e al Trentino, sino al confine linguistico sopra Trento e sotto Bolzano. Il concetto espresso in Senato viene da lui allargato e definito nella nota sua autodifesa: Un po’ più di luce sugli eventi politici e militari del 1866. Narrando del tentativo fatto a mezzo di anonima persona, nelle buone grazie della corte di Vienna, per ottenere all'amichevole la cessione del Veneto e del Trentino (ottobre l865) il Lamarmora scrive (p. 53): «Debbo dichiarare che, sotto la denominazione di possessi italiani, io intendevo di comprendere oltre la Venezia, la parte di Tirolo veramente italiana. A Trieste io non ho mai pensato, né allora né poi, giacché, ammesso che Trieste sia per lingua e per costumi più italiana che tedesca (?), gli interessi di quella città eminentemente commerciale sono tutti legati alla Germania. Di più, quella città si trova circondata da popolazioni slave e tedesche che nulla hanno che fare e nulla vogliono aver che fare con le italiane, salvo per il commercio che conviene agli uni e agli altri di rendere il più attivo possibile, senza però venire ad una confusione d'interessi che sono e rimarranno sempre separati. Se per caso Trieste appartenesse all'Italia, quel possesso sarebbe per il nostro regno pieno di difficoltà e di gravissimi pericoli».

Gli uomini di governo del 1866 non appaiono tuttavia unanimi in questa concezione antirredentista. Il Ricasoli, che assume la presidenza del consiglio allorché, allo scoppiare delle ostilità, Lamarmora prende il comando dello stato maggiore, parrebbe più favorevole alle speranze dell'irredentismo adriatico. Dico "parrebbe" perché il suo pensiero non brilla di soverchia chiarezza. Dopo Custoza e Königgratz, mentre si profila sull'orizzonte la minaccia di una pace coll'Austria vinta in Boemia e vincitrice in Lombardia, il Ricasoli scrive dal campo al Visconti-Venosta ministro degli esteri in data 12 luglio 1866: «Non è soltanto il Tirolo italiano che ci occorre, ma anche l'Istria. Senza l'Istria avremo l'Austria sempre padrona dell'Adriatico. Questo è un punto agli occhi miei capitale e su questo conviene insistere».

Ma che cosa intende il Ricasoli per l'Istria? Comprende in essa anche Trieste? Il dubbio, a primo aspetto, sembra assurdo, non potendosi immaginare l'aspirazione annessionista triestina disgiunta da quella istriana. Eppure il Ricasoli, quattro giorni dopo, riscrive al Visconti-Venosta: «Io penso che si dovrebbe subito assicurare l'occupazione di quei territori che poco possiamo sperare di avere se non li occupiamo; e, per me, insisto a dire ed a proclamare che essi sono due, Tirolo ed Istria... Quanto a Trieste... ricordisi che il generale Cialdini disse che ci avrebbe staccata una divisione e che avrebbe pure preso seco i volontari di Garibaldi e, a un dato punto, si sarebbero staccati da lui per passare per quei paesi che precedevano la meta proposta, cioè l'Ungheria», ecc.

Dunque Tirolo (vuol dire probabilmente Trentino) ed Istria sono i territori che l'Italia dovrebbe, secondo il Ricasoli, occupare definitivamente. «Quanto a Trieste»... non si capisce se la comprenda o no fra le occupazioni definitive.

Sia come si voglia, anche l'irredentismo adriatico entra per un momento nel carteggio ministeriale; vi entra di straforo, quasi di contrabbando: opinione personale («per me») di un ministro, notoriamente avversata dal capo dello stato maggiore ed ex presidente del consiglio; entra, senza alcuna preparazione, dopo una sconfitta militare che la rende sempre più utopistica, in contrasto con tutta l'azione diplomatica antecedente. Ad essa non troviamo altre allusioni che nel noto ammonimento dello stesso ministro al Persano in data 13 luglio 1866. «È fatale che entro una settimana sia distrutta la flotta nemica e occupata l'Istria; altrimenti ci coglierà l'armistizio e, con l'armistizio, la vergogna per le nostre armi ed avremo una povera pace». Ma qui l'occupazione dell'Istria, più che come conquista definitiva, appare designata quale pegno di una miglior posizione diplomatica dell'Italia nelle imminenti trattative di pace; nel che (è notorio) sta il movente degli incitamenti all'azione che bersagliano il Persano e lo spingono a Lissa.

L'emigrazione adriatica, prima e durante la guerra, aveva cercato di convertire alla sua causa il riluttante o incerto governo d'Italia e aveva presentato al re, al Lamarmora, al Ricasoli, al Visconti-Venosta, al Depretis (ministro della marina) parecchi memoriali riassumenti le ragioni etniche, geografiche ed anche economiche a favore della tesi irredentista. Conclusa la pace, il comitato triestino-istriano che, nella sperata imminenza del riscatto, era sorto, come ente a sé, lancia un ultimo appello ai connazionali nel quale sintetizza così il compito futuro dell'irredentismo: «Tenere sveglia la memoria di ciò che abbiamo ancora a rivendicare, adoperarsi a tradurla in coscienza dei nostri più urgenti interessi, invigilare l'Austria nelle sue operazioni offensive su quel geloso fianco, contenerne, col patrocinio della civiltà, il barbaro governo su genti nostre, mandare insomma, prima delle armi, la pubblica opinione al conquisto delle nostre frontiere centrali ed orientali e del nostro Adriatico».

Senonché il pubblico del regno si mostra allora assai indifferente e lascia passare senza commuoversi punto, le manifestazioni più ostiche all'idealità annessionista adriatica, come l'autografo di Napoleone al re, proclamante compiuto, con la cessione della Venezia, il suo programma dell'indipendenza italiana «dalle Alpi all'Adriatico». Discutendosi alla camera, nell'aprile del 1867, il trattato di pace con l'Austria, nessuna voce, neppur dall'estrema sinistra, si leva a ricordare la Giulia o a protestare contro la rinunzia ai confini orientali; soltanto il Cairoli vi fa un accenno blando e indiretto, chiedendo al governo se sia disposto a intervenire a tutela di alcuni processati nel Trentino, per fatti che si pretendevano avvenuti dopo l'amnistia, ma in realtà, secondo l'interpellante, erano successi prima. Ed anche il Cairoli, accennando di passata alle cose adriatiche, dimostra di conoscerle male. «È un debito di gratitudine – dice – non dimenticare quella protesta di rifiuto eloquente che per tanti anni anche dalle province dell'Istria e di Trieste uscì dall'urna richiesta a dare deputati all'Assemblea di Vienna».

La manifestazione unica ed isolata del «Nessuno» in Istria diventa una protesta durata «tanti anni» (il costituzionalismo austriaco ne aveva allora quattro soltanto di vita vissuta) e la si attribuisce anche a Trieste la cui dieta aveva sempre mandato, e manderà, i propri deputati a Vienna, scegliendoli quasi sempre fra i fedeloni.

Benedetto Cairoli rappresentava ancora, senza transazioni, il programma nazionale repubblicano e garibaldino al quale rimane e rimarrà affidata la fiaccola dell'irredentismo adriatico, oscillante fra profondi languori e bruschi ravvivamenti.

Che è accaduto frattanto nella regione Giulia?

La rinunzia solenne dell'Italia ufficiale a Trieste, fatta dal Lamarmora, aveva provocato un memoriale di protesta datato da Trieste, sotto gli auspici del comitato triestino-istriano. Questo memoriale firmato, a quanto afferma la «Triester Zeitung», giornale governativo, da ragguardevoli cittadini, era stato presentato al Lamarmora dall'avv. Molinari, un bresciano che aveva compiuto la pratica legale a Trieste e che, mandato alla camera di Torino, era considerato, allora, il rappresentante parlamentare del separatismo giuliano; precursore oggi dimenticato dell'on. Barzilai.

La notizia di questa curiosa protesta irredentista contro il governo italiano, si era diffusa nella stampa del regno e sfruttata dai giornali d'opposizione al ministero. Il podestà Porenta, che era insieme i.r. funzionario e si sentiva in una penosissima posizione, tentò di uscirne con un colpo di testa: improvvisamente (parrebbe dall'andamento della discussione che neppure i consiglieri fedelissimi ne fossero informati), aprendo una seduta, narrò della protesta contro le parole del Lamarmora e propose al consiglio un voto di ossequio al sovrano, a sconfessione del comitato separatista. Uno dei consiglieri liberali sorse a parlare contro la proposta podestarile, dicendola esorbitante dalla competenza puramente amministrativa del consiglio, perché di carattere politico; si viene ai voti e l'omaggio ne raccoglie soltanto l5 su 42 votanti. Per quanto dissimulata sotto il consueto equivoco racchiuso nella parola "politica", non vi è dubbio sul sottostrato separatista della manifestazione. Il «Tempo», nel raccontare l'episodio appare evidentemente imbarazzato e se la cava con poche righe frettolose di commento, ricordando allo zelante podestà il vecchio: «Surtout pas trop de zèle».

Per la prima volta nel regno, il nome di Trieste compare associato ad una manifestazione unitaria, e parecchi giornali la notano e ne esultano. «La protesta dei triestini contro le parole del Lamarmora – dice la «Perseveranza», allora fautrice di un programma di radicalismo nazionale – ebbe una reale conferma nel voto del consiglio». E la «Nazione»: «Il podestà di Trieste ha subito una sconfitta, a sua vergogna e ad onore di alcuni coraggiosi consiglieri... Ogni male non viene per nuocere; le parole di Lamarmora diedero motivo ad una solenne manifestazione che Trieste è italiana». I fedelissimi, a Trieste, sfruttano l'episodio in senso opposto. Scrive la «Triester Zeitung»: «Le cose sono giunte troppo oltre, se neppur dopo di ciò (cioè dopo i commenti dei giornali italiani) il consiglio non venisse ad una più serena visione della situazione».

Il consiglio non ha tempo di venirci perché il governo sanziona e battezza la manifestazione quale separatista, sciogliendolo come aveva già sciolto, per motivi non bene accertabili, il primo consiglio uscito dalle elezioni del 1861. Il «Tempo» commenta la misura con questa sola noticina: «Dallo scioglimento del consiglio municipale – avvenuto in perfettissima regola statutaria – alcuni traggono occasione per fabbricare le notizie più assurde. Andati alla ricerca del loro fondamento, nulla abbiamo trovato che non fosse pura e pretta invenzione».

Frattanto si cerca di rattoppare alla meglio lo sdrucio: gli atti di contrizione che seguono, non si può valutare in quanta parte sieno dovuti a pressione governativa e in quanto rappresentino la sensazione, anche dei circoli irredentisteggianti, di essere andati troppo oltre. Certo, il pentimento assume forme solenni: podestà e delegazione in corpore si recano dal luogotenente a deplorare l'accaduto e a protestare l'inconcussa lealtà triestina: si redige un indirizzo al sovrano, in italiano e sloveno, coperto in breve da 13.925 firme; in esso gli «umilissimi e devotissimi triestini respingono con tutta la forza delle loro convinzioni, come contraria al vero ed ai sentimenti di questa popolazione, la protesta che un sedicente comitato segreto si sarebbe arrogato di inviare al presidente dei ministri in Torino a nome della città di Trieste, attribuendole desideri e tendenze che in essa per fermo non sono e che ripugnano alle secolari sue tradizioni». La deputazione, composta dal podestà, dai deputati e da altri dodici cittadini, che reca l'indirizzo al monarca, sente da lui esprimersi la lusinga «che il risultato delle prossime elezioni lo convincerà che Trieste non a torto si chiama fedelissima».

Le elezioni svoltesi nell'autunno del 1865 danno la maggioranza ai candidati governativi, i quali occupano 35 dei 48 seggi cittadini. Non scompaiono però neppure allora le candidature comuni (dieci nomi) benché il «Diavoletto» avesse posta crudamente la piattaforma elettorale, dicendo: «È tempo di finirla con gli equivoci. Votiamo per Francesco Giuseppe». Ma l'equivoco, come si vede, continua. L'influenza, sfavorevole al liberalismo, dell'episodio che provocò lo scioglimento, si rileva nei risultati della votazione del 4° corpo (piccola borghesia e artigianato) poco o punto accessibile a pressioni governative e che era stato prima, e tornerà ad essere poi, la rocca del liberalismo nazionale. Su 10 candidati esclusivamente liberali ne spuntano soltanto 3, mentre escono dall'urna 7 su 10 governativi: cade in quel corpo, con 300 voti su 713 votanti, Francesco Hermet, già riconosciuto quale leader del liberalismo. Il Porenta, promotore del mancato atto di omaggio, viene rieletto a podestà con 30 voti contro 16 dati al Conti.

Notiamo dunque, proprio agli esordi del 1866, una reazione in senso anti-unitario; essa però non sembra dovuta soltanto, e forse neppur principalmente, all'episodio di indirizzo. Un altro fattore, di politica generale interna, viene a imbrigliare l'impulso separatista nel momento in cui più avrebbe dovuto sfrenarsi. Il 20 settembre del 1865 (durante le elezioni triestine) un proclama diretto dal monarca ai suoi popoli annunzia la sospensione (Sistierung) della costituzione del 1861; il nuovo consiglio-dieta è fra le assemblee provinciali dell'Austria che accoglie, quasi unanime (38 voti su 41 votanti) «con reverente e fiduciosa gratitudine», quel nuovo colpo di Stato e lo riconosce «misura di alta sapienza governativa». L'iniziativa di questo plauso è liberale; la mozione che conduce al voto viene proposta dall'Hermet.

Chi non abbia un po' di praticaccia di questo aggrovigliato fenomeno che si chiama Austria, potrebbe scambiare l'atto del consiglio per una viltà destinata a farsi perdonare il recente voto separatista. Invece il significato ne è ben diverso. In tutte le regioni non compattamente tedesche dell'Austria, la Sistierung viene considerata come un trionfo del federalismo decentratore sul centralismo germanizzante.

La costituzione del 1861, male attuando le promesse della patente d'ottobre 1860, era riuscita una prova infelice di riprendere, sotto gli auspici costituzionali, il tentativo fallito all'assolutismo» di Bach: l'impero unitario e tedesco appena temperato da sparute autonomie provinciali. Ma l'Ungheria rifiuta la costituzione non sottoposta alla sua storica dieta; lo stesso fanno Croazia e Transilvania; la Boemia ceca invia pochi deputati e solo per protesta; Schmerling deve andarsene e l'uomo che sorge, il Belcredi, fa ripetere al sovrano nel manifesto che proclama la Sistierung, la promessa inadempiuta della patente d'ottobre 1860, «la necessità di stabilire istituzioni legali le quali rispondano al diritto storico e all'indole differente delle differenti regioni. Queste istituzioni dovrebbero uscire dall'accordo fra le Diete provinciali e la Corona».

Si capisce perché le classi dirigenti di tutte le stirpi non tedesche, messe più o meno nell'impossibilità di svolgere le proprie energie politiche, vedano nella Sistierung il crepuscolo precedente l'aurora dell'autonomia. Tutti quei paesi poi che riconoscono come base giuridica della loro appartenenza all'impero un patto speciale stretto con la dinastia, sperano che le future istituzioni costituzionali poggeranno veramente sui «diritti storici»; per Trieste ciò avrebbe potuto significare la restituzione o il rafforzarsi di tutte quelle franchigie e di quei privilegi non urtanti di soverchio contro le necessità dei nuovi tempi.

La Sistierung agisce così, proprio alla vigilia della guerra, come forza moderatrice e come rincalzo della tattica e delle tendenze legalitarie. Anche i più accesi separatisti stimano prudente di secondare gli sforzi diretti a trarre partito dalla nuova situazione politica creata nello Stato dal manifesto che sospende le garanzie costituzionali.

La stampa liberale segue con simpatia l'opera del nuovo gabinetto Belcredi; un giornaletto umoristico, perseguitatissimo dalla polizia, «Il Pulcinella politico», redatto da Giuseppe Caprin, si intona al legalitarismo del momento: una sua vignetta, nel numero del 30 settembre 1865 all'annunzio della Sistierung, fa uscire il profilo del Belcredi da una bomba che scoppia sulla costituzione del 1861. «Allo scoppiar di questa bomba – spiega la scritta – i nemici della libertà costituzionale cadono esterrefatti con le gambe all'aria».

Tale stato d'animo si ripercuote pure sulle elezioni dell'autunno 1865, dopo lo scioglimento del consiglio causa l'episodio Porenta-Lamarmora. Nel manifesto che raccomanda i candidati liberali per il 4° corpo è detto, fra altro: «I nuovi ministri annunziano un'era di libertà ed autonomia vera... votando per i nostri candidati vi mostrate coerenti a voi stessi e facilitate per quanto sta in voi l'attuazione del sistema politico inaugurato dall'attuale ministero per il quale, giova sperarlo, le sorti depresse della nostra città potranno, almeno in parte, volgere al meglio». E, più popolarmente, l'«Arlecchino», altro giornaletto umoristico della stessa fucina del «Pulcinella»: «Noi avvicineremo solo quelli che, avendo per insegna il programma del ministro Belcredi, ci diranno, votate!».

In quei giorni un giornale viennese, allora assai autorevole, il «Wanderer», si dichiara favorevole ai liberali triestini, fautori del ministero, e avverso ai conservatori centralisti ed antiministeriali («Tempo», 30 settembre 1865).

Appena costituito il nuovo consiglio-dieta, il capo del partito liberale, Francesco Hermet protesta «contro l'abbietta e ridicola accusa con cui si va largheggiando con tanta generosità cioè di un preteso "separatismo" o di pretese mene sovversive le quali sono impossibili affatto e costituiscono in chi le fa una grande mancanza di intelletto o una grande dose di malizia». Il verbale nota a questo punto: «Applausi fragorosi e prolungati» dalle gallerie che il podestà richiama all'ordine.

Importa qui rilevare che questa brusca dichiarazione antirredentista è fatta dal capo del liberalismo per dare appoggio ed autorità ad una serie di lagnanze nazionali. In quel discorso il Hermet protestava contro gli atti governativi tutti ancora di tinta tedesca: il giuramento dei consiglieri assunto per la prima volta in tedesco, la sempre maggior frequenza di scritti tedeschi diretti dalle autorità statali al comune, il progetto dell'insegnamento obbligatorio del tedesco fin dalla prima classe delle scuole elementari. Il Hermet, perché la protesta avesse speranza di buon successo, sentiva in quel momento il bisogno di staccare la causa della nazione da quella dell'irredentismo. Pochi mesi dopo, nella prossima sessione dietale (dicembre 1866) il Hermet si trova a protestare di nuovo contro altre punzecchiature governative: il patteggiamento tolto (poi restituito) al ginnasio comunale; la destituzione di alcuni professori, sospetti di sovversivismo. Questa seconda protesta, benché di identico carattere, è ben diversamente intonata. Il Hermet vi ricorda la minaccia fatta alla dieta della Stiria da un deputato tedesco di «volger le terga all'Austria». «Anche noi – aggiunge – se si va avanti così potremo dire altrettanto». Allusione separatista (benché protetta dalle spalle altrui) di cui il giornale ufficiale disse che «destò la generale indignazione».

Oscillazioni bizzarre, soprattutto se si consideri che la sconfessione irredentista è fatta pochi mesi prima della guerra suscitatrice di tante speranze e lo scatto contrario pochi mesi dopo la pace di Vienna, la quale viene accolta dalla stampa liberale triestina con un linguaggio tutt'altro che separatista. Il «Cittadino» (17 ottobre 1866) – erede del «Tempo» – la saluta così: «Questo storico avvenimento è senza dubbio uno dei più grandi del secolo. Per esso una forte e generosa nazione sorge, dopo aver "compiuto" il programma della sua unità ed indipendenza nazionale». E qui segue un ampio riassunto di un articolo del «Times» nel quale si afferma che «tolti alcuni lembi insignificanti di territorio nell'imminenza della liberazione di Roma, l'intera nazione stava per ricuperare il dominio di se stessa». Il «Cittadino» chiama magnifico questo articolo che bandisce il separatismo dalle questioni diplomatiche. Negli atti ufficiali di esultanza per le vittorie austriache, il consiglio giunge sino a conferire la cittadinanza onoraria al Tegetthof, ed il relativo diploma gli viene consegnato dall'avv. Baseggio.

Nel regno, avvenimenti generali esterni volgono frattanto il pubblico verso la nemica di ieri, l'Austria, dando un nuovo colpo alle speranze del separatismo. Risolta la questione veneta, giganteggia più che mai quella romana: la «spina di Roma» – come diceva allora un ministro austriaco – che «bisognava togliere dal cuore d'Italia». È la Francia che sbarra la via di Roma, con gli chassepots di Mentana, coi jamais dei ministri e dell'imperatrice. L'Austria invece è pronta a fare il terzo in quella vagheggiata triplice franco-austro-italiana che doveva avere per premessa la "mano libera" dell'Italia su Roma.

Per spiegarci ciò, convien ricordare che il centralismo tedesco, tornato al potere dopo Sadowa, è costretto a rinunziare al suo sogno di dominare tutto l'impero, contro gli slavi e contro i magiari: comprende che mantenere l'unità è impossibile, occorre amicarsi l'avversario più bellicoso e agguerrito, il magiarismo o, meglio, l'aristocrazia e la plutocrazia ungherese. Nasce così l'assetto dualistico della monarchia, il quale, nazionalmente, si può condensare in questa formula: il centralismo tedesco dà in balia degli oligarchi magiari una parte degli slavi dell'impero e concentra tutte le forze a mantenere il suo predominio politico in Austria sul rimanente degli slavi e sulle nazionalità minori. Ma, poiché i centralisti erano rappresentanti di ideologie e di interessi borghesie lo spirito della borghesia tedesca era, assai più di oggi, per molte ragioni, incline al liberalismo, l'ultimo sforzo tedesco per conservare il monopolio politico sull'Austria si presenta in veste liberale, anzi anticlericale. Mentre la Francia del Mac-Mahon pare pronta a rinnovare la crociata del 1849, l'Austria dei Herbst e dei Giskra sottrae la scuola popolare al dominio assoluto del clero, riafferma, pur con molte restrizioni, il diritto dell'intervento statale nella legislazione sul matrimonio, arriva sino alla denunzia formale del Concordato come risposta alla proclamata infallibilità del pontefice.

Il liberalismo triestino seconda attivamente questa nuova rotta dello Stato e lo stimola ad andare sino in fondo. La Società del progresso, formatasi in quel torno, protesta contro il Sillabo ed il Concilio, propugna la soppressione degli ordini monastici, il matrimonio civile, ecc. Certo, in molti, il pensiero anticlericale dissimula quello separatista, ma le manifestazioni, per la natura loro e per il momento politico in cui avvengono, conservano carattere fondamentale legalitario o addirittura ministeriale. Ciò si vide specialmente nelle pubbliche dimostrazioni del 1868 che condussero poi – come vedremo meglio altrove – alla fine dei rapporti patriarcali italo-slavi a Trieste. Reggeva la luogotenenza un superstite del vecchio regime, un Bach, fratello del ministro assolutista; erano state appena promulgate le nuove leggi che toglievano al clero la sorveglianza esclusiva sulla scuola: ciononostante il Bach pretendeva che i maestri continuassero a frequentare le conferenze scolastiche vescovili; una seduta consigliare di protesta contro il luogotenente andò a vuoto per l'astensione di molti consiglieri fedeloni e non fedeloni, donde dimostrazioni per le vie e innanzi alla sede del governo, col grido di «Abbasso il Papa, abbasso Bach», accompagnato però da quelli di «Evviva Giskra, evviva l'Austria» («Cittadino», 11 luglio 1868).

Le classi dirigenti italiane – lo abbiamo visto – non avevano bisogno della levata di scudi del liberalismo austriaco per conservarsi, quasi totalmente, ostili al separatismo austriaco; ma la mutazione dell'ambiente politico in Austria influisce pure sulla democrazia irredentisteggiante. Per un decennio, dopo il 1866, il movimento separatista nel regno non dà, si può dire, segno di vita. Per persuadersene, basta sfogliare i giornali democratici durante il soggiorno di Vittorio Emanuele a Vienna. Non certo a caso, re e imperatore passano in rivista le truppe sui campi della Schmelz, proprio il 20 settembre 1873. Il «Diritto», allora organo fra i più accreditati dell'opposizione di sinistra, commenta così l'avvenimento: «Che importa se la Francia si vota al Sacro Cuore, se gli ultramontani d'Austria e di Germania vomitano fiele?... Il re d'Italia a Vienna che passa in rivista le truppe dell'impero il 20 settembre si può dire un aiuto dato dagli italiani ai liberali di esso». Parecchi municipi votano indirizzi di plauso al comune di Vienna, allora amministrato da liberali che rispondono con altri indirizzi.

La costituzione austriaca del 1867 riesce – lo accennai più sotto – nei riguardi dell'assetto interno, sostanzialmente una seconda edizione, non riveduta e corretta, dello statuto octroyé del 1861; si capisce quindi perché la dieta triestina, riconvocata alla fine del 1868, e forse influenzata pure dal primo conflitto civico italo-slavo, protesti più vibratamente che mai contro le nuove leggi costituzionali. La relazione e la discussione sono tenute in tono così energico che il commissario imperiale trova in esse la tendenza alla mera «unione personale» fra Trieste e l'Austria. «A ciò – aggiunge – il governo si opporrà sempre, perché l'unione personale è troppo vicina al completo distacco». Al che il Hermet risponde di nuovo in stile separatista, dicendo che i sentimenti, quando non s'incarnino in fatti, sono insindacabili. Invece il Conti, deputato di Trieste a Vienna, profitta dell'occasione per un'altra sconfessione dell'irredentismo, ciò che non gli toglie di venir rieletto l'anno dopo insieme al Hennet anche con voti liberali. La lotta fra centralisti e federalisti non si esaurisce con la costituzione del 1867, che è vittoria del centralismo tedesco; anzi entra nella sua fase più acuta: il liberalismo giuliano vi prende vivissima parte. È il Hermet, deputato nel 1870, a promuovere l'esodo di tutti i membri del suo club parlamentare dalla camera, per impedire l'approvazione della legge sulle elezioni dirette, proposta dal ministero centralista Hasner, allo scopo di spezzare in mano al federalismo l'arma più potente di ostruzione che avesse: il rifiuto, spesso ricorrente nelle diete in cui gli slavi predominano, di mandare deputati alla camera.

La deputazione italiana adriatica è però federalista sino ad un certo punto. Infatti, quando il ministero federalista Hohenwart presenta il suo progetto di costituzione (1871), i deputati italiani votano bensì contro il passaggio all'ordine del giorno proposto dai centralisti, ma il «Cittadino», loro organo, ha cura di avvertire che «con questo voto i deputati non intesero di votare per il ministero, ma soltanto di mostrare che non fanno comunella coi centralisti». Eppure, secondo quel progetto, la dieta triestina avrebbe allargata la sua competenza al di là di ogni speranza, avrebbe potuto legiferare in materia di associazione e di riunione, di stampa, di giustizia civile e penale e di tutte le questioni riferentisi all'istruzione anche superiore.

Il federalismo del Hohenwart aveva però in sé un difetto capitale: a differenza di quello del Belcredi, lasciava a base della federazione la provincia come aggregato storico immutabile, non la nazione: la Boemia, non i cechi e i tedeschi che l'abitano, ecc. In. questo modo, trasportare il centro di gravità dal parlamento nelle diete significava soltanto aggravare il dominio della maggioranza sulle minoranze nazionali. Senza dire che, causa il suffragio ristretto e disuguale, il dominio sarebbe stato esercitato soltanto dalle oligarchie feudali o altoborghesi.

Nella Giulia, le classi borghesi italiane, ancora padrone assolute di tutti o quasi i poteri pubblici, avrebbero potuto momentaneamente accrescere la loro influenza; ma l'avvenire non era scevro di timori; l'altra stirpe, gli sloveni di Trieste e del Goriziano, i croati dell'Istria davan già cenni non dubbi di risvegliarsi. Forse in ciò una delle ragioni della riluttanza liberale al federalismo del Hohenwart. Inoltre, alla psicologia dei separatisti – già abbastanza forte nella dieta – doveva spiacere la prospettiva di rapporti più lati, e quindi men tesi, fra la regione e lo Stato. Intorno a quell'epoca si avverte la tendenza a disinteressarsi delle cose statali, ci vuole tutta l'autorità del Hermet per far naufragare la proposta di non rispondere al messaggio imperiale convocante le diete nel settembre del 1870: in quell'occasione il Hermet riafferma il suo pensiero legalitario contro gli scettici ed i catastrofici. «Noi – dice – che intendiamo ottenere una più larga parte della legislazione di uno Stato che appena da dieci anni ha messo i principi costituzionali sulla carta, noi vorremmo scoraggiarci perché i nostri tentativi non ottennero i risultati desiderati?... Io ho fede assoluta nel principio del progresso liberale e andiamo pur sicuri che, qualora non ci stancheremo in mezzo la via, otterremo il risultato di riconquistare quell'autonomia nazionale e politica che i nostri maggiori per tanti secoli hanno goduta».

Nonostante le pressioni del duce, cresce fra i militi del partito la ripugnanza ad accettare il mandato parlamentare; appunto in quell'epoca cadono le rinunzie di tre liberali, eletti consecutivamente benché il Hermet parli lungamente per indurre uno degli eletti ad accettare; dal breve rifiuto di quest'ultimo traspare evidente l'animo separatista. Ma la ripugnanza di singoli uomini non basta a far arrivare all'astensionismo. La stampa liberale si mostra ancora sempre fiduciosa nel buon successo della partecipazione ai pubblici poteri e, in genere, della tattica del riconoscimento dello Stato. Alla fine. del 1871, aperta la scissura fra il «Cittadino» e il liberalismo, esce un nuovo organo del partito: il «Progresso», redatto da Giuseppe Caprin. Il «Progresso» incomincia con lo schierarsi nelle file dei federalisti e giunge sino ad una sconfessione dell'idea separatista anche più esplicita di quelle che abbiam notate nei suoi predecessori. In un articolo, Centralismo e federalismo, comparso nelle prime settimane di sua vita (27 dicembre 1871), il «Progresso» dice fra altro: «Noi siamo ben lungi dal dividere l'opinione di coloro che credono alla costituzione, in un avvenire più o meno prossimo, di nazioni grandi quanto il territorio occupato dalla razza». Esorta poi i federalisti, usciti in minoranza dalle ultime elezioni, a entrare nel parlamento, a contarsi, «affinché l'Austria prenda definitivamente quell'ordinamento impostole dalla natura, cioè vera e propria confederazione la quale non differirebbe da quella svizzera che per estensione e forma monarchica». L'articolo si chiude con queste testuali parole: «Noi non deploriamo soltanto lo sperpero di forze vive in lotte sterili ed assurde... ma ci duole ancora che per tal modo venga paralizzata all'estero ogni azione dello Stato a favore della pace. Lo abbiamo già accennato: l'Austria, oggi più che in altro tempo, potrebbe alzare la sua voce e gettare la sua spada nei consigli della pace e della guerra e far preponderare la bilancia; ma ciò non può essere che ad un patto: che sia tranquilla all'interno; questa tranquillità non può ottenerla che dalla soddisfazione di tutte le parti. Questa l'opera del federalismo».

Linguaggio, come si vede, rigorosamente legalitario.

Senonché, l'anno dopo, un altro avvenimento statale viene ad esercitare la sua influenza sugli atteggiamenti politici del liberalismo. I centralisti riescono a far approvare la legge sulle elezioni dirette che toglie alle diete e rimette nei "corpi" elettorali (cioè, in sostanza, agli elettori dietali) la scelta dei deputati. La riforma elettorale del 1873 dà voce prevalente, in parlamento, all'aristocrazia terriera e alla grande e media borghesia industriale e commerciale; una riformetta successiva (1884) accrescerà la pressione di certi strati piccoloborghesi, mantenendo l'esclusione totale dei salariati dal suffragio. A Trieste, dove mancano insieme l'aristocrazia e la grande proprietà fondiaria, la nuova legge raggruppava gli elettori (numericamente identici a quelli amministrativi) in modo da dare il predominio ai negozianti, agli impiegati statali e al «territorio» sloveno, unito in un solo "corpo" con la piccola borghesia cittadina. Debolissima dunque la posizione per il liberalismo, di cui i ricchi negozianti ancora diffidavano e che prevedeva schiacciate dai territoriali slavi le sue migliori forze elettorali. Ed è degno rilievo il fatto che tale coscienza della debolezza propria spinge i liberali a quella tattica astensionista, vagheggiata dai separatisti sinceri ed accesi, e che creerà a sua volta e per conto suo un'atmosfera più propizia al diffondersi dell'idealità nazionale-unitaria. Infatti, l'Istria, il Friuli e il Goriziano, dove la posizione elettorale non vien gran che mutata dalle elezioni politiche dirette, seguitano a mandare a Vienna deputati italiani liberaleggianti anche dopo il 1873. Invece a Trieste la rappresentanza politica viene assunta via via da elementi fedelissimi e persino – rinnovando il 1848 – da tedeschi.

Questo appartarsi dalle lotte statali – benché non spontaneo – deve influire sull'ideologia separatista allargandola ed intensificandola. Fra l'intellettualità liberale, molti temperamenti politici, paralizzati dall'astensione, devono anelare più che mai al distacco; l'idea incomincia a sorridere ai giovani, anche ai figli della borghesia commerciale, portati a reagire contro gli utilitarismi paterni per spirito di fronda, per voglia di un po' d'idealità da contrapporre al grigio degli affari o all'insipido dei piaceri, uniche note fin qui predominanti tra i ricchi: riconoscersi italiano equivale sempre più ad essere o ad atteggiarsi avverso allo Stato che, a sua volta, confondendo italianità e sovversivismo, giova al progresso dell'idealità centrifuga, più appariscente che profonda e diffusa, rosa da intime contradizioni, ma finalmente viva e vissuta.

Il teatro riproduce gli episodi svoltisi prima e dopo il 1848 a Milano e a Venezia. Il pubblico coglie a volo le allusioni, cui l'inintelligente censura dà maggior rilievo con tagli e con divieti. La sciatteria poliziesca giunge persino a provocare arresti e conflitti alla stazione di Gorizia, durante il passaggio di Vittorio Emanuele in via per Vienna. Quando, nel 1873, il Lamarmora ripete ed amplifica nell'Un po’ più di luce il suo pensiero antirredentista, la polizia vuole scoprire a Trieste gli autori o ispiratori della lettera di protesta di un comitato triestino (verosimilmente compilata nel regno) e perquisisce senza risultati la redazione e la tipografia del «Progresso» e l'abitazione del direttore Caprin, nonché quella di Edgardo Rascovich, presidente della Società operaia, costituita nel 1869. Questa società, sorta con elementi artigianeschi, incarnava allora il programma sociale dell'epoca, il mutuo soccorso, e, nel campo politico, rappresentava il primo tentativo di un'organizzazione intesa ad amicare all'idea nazionale le classi proletarie, sino allora completamente estranee ed ostili ad essa. Negli esordi però la nota nazionale viene toccata assai cautamente o scompare addirittura in quella sociale, non ancora in conflitto con la prima. Parranno stranissime e riprovevoli ai nazionalisti d'oggi queste parole di Giuseppe Caprin in un discorso sul tema L'Associazione, l'operaio e il suo avvenire, tenuto nel 1869: «L'operaio non è né tedesco, né italiano, né slavo, né francese: egli è bensì il lavorante del tempio della pace, le cui basi furono gettate dagli schiavi, le cui pareti furono lavorate dai servi, il cui tetto deve venir terminato dall'attività e dal genio dei liberi».

L'autorità, non potendo per le leggi fondamentali impedire la costituzione di società, incomincia a far largo uso dei decreti di scioglimento, i quali conducono quasi sempre alla ricostituzione dello stesso organismo sociale con altro nome e giovano assai spesso al suo progredire. Le più colpite sono le varie società di ginnastica, la prima delle quali, fondata nel 1862, era stata già sciolta nel 1864, allorché si diceva imminente un tentativo garibaldino di sbarco nel basso Friuli; egual sorte toccò sinora ad altre tre sue eredi, non impedite per questo nel loro sviluppo.

Il linguaggio della stampa liberale muta anch'esso coll'appartarsi del liberalismo dalle lotte nello Stato: predomina il concetto, schiettamente separatista, della sterilità dell'azione parlamentare, la ripugnanza ad avvicinarsi all'una o all'altra delle grandi stirpi o dei sistemi di governo in contesa.

La censura giornalistica, dal canto suo, trova il sottinteso separatista anche dove non c'è, e l'intento sovversivo nell'esercizio del diritto più legalitario di critica. Si sequestra senza garbo, nei momenti più atti a destare una reazione sentimentale: il «Progresso» è sequestrato per aver chiamato «sventura nazionale e lutto della patria nostra, l'Italia», la morte di Alessandro Manzoni.

Ad intensificare il sentimento nella Giulia viene, intorno al 1877, l'improvvisa fiammata irredentista del regno.

Sono, anche questa volta, avvenimenti generali a provocarla. È la crisi orientale, riacutizzatasi col 1876, che galvanizza l'irredentismo regnicolo e, per ripercussione, alza il tono di quello regionale. Nelle contrastate vittorie russe sulla Turchia, gli irredentisti del regno avevano veduto dapprima, molto arcadicamente, il trionfo sicuro e prossimo del principio di nazionalità, epperò l'imminente annessione delle «terre italiane» soggette all'Austria. Prevedendosi grandi avvenimenti, si erano allora riorganizzate le file irredentiste e costituita l'Associazione pro Italia irredenta, chiamandosi a presiederla il vecchio generale Avezzana, già ministro della guerra della repubblica romana, superstite delle battaglie napoleoniche. L'Avezzana, fin dal gennaio 1878, scrive ai triestini «confidassero di conseguire fra breve i loro sacrosanti diritti». «Questo "breve" – aggiungeva – io credo sia davvero vicino come risultato della grossa questione d'Oriente che sta per sciogliersi con la liberazione di tante nazionalità martoriate dalla Mezzaluna». Il separatismo ripone allora per un momento le sue speranze nell'azione diplomatica, nell'abilità del governo italiano di far valere i propri titoli alle provincie irredente, nel momento del redde rationem orientale e balcanico. «Volgono momenti supremi – scrive ancora l'Avezzana al Depretis, capo del governo e ministro degli esteri – per lo scioglimento della questione d'Oriente. Se saprete avvalervene in pro delle nostre provincie irredente, il Trentino, Trieste, l'Istria, con quegli altri lembi di terre italiane tagliate fuori dall'infausto trattato di Cormons, vi renderete immortale» (febbraio 1878).

In quello stesso mese nasce a Napoli l'organo irredentista diretto dall'Imbriani, «L'Italia degli italiani», il quale precisa meglio la missione affidata alla diplomazia del regno: «Qualunque rettificazione di confini nell'Oriente deve portare per conseguenza la rettificazione dei nostri confini orientali verso le Retiche e le Giulie». E l'Avezzana ammoniva il Depretis a non accontentarsi del solo Trentino.

La letteratura irredentista – che rifiorisce col rifiorire dell'agitazione – accoglie questa nuova idea del «compenso» e la fa propria. La caldeggia il Combi celandosi sotto un anonimo «generale ungherese», nello scritto La soluzione, comparso nella Venezia Giulia di Paulo Fambri, nella quale sono raccolti alcuni articoli pubblicati dal Fambri nella «Nuova Antologia», dimostranti soprattutto la necessità militare di portare il confine del regno alle Retiche ed alle Giulie; irredentismo geografico e nazionale, al solito, rimpastati e commisti. Anche il Fambri spera nella soluzione pacifica: in cambio dei confini orientali sia libera l'Austria di lanciarsi alla conquista di tutta la penisola balcanica. Un altro opuscolo anonimo contemporaneo, L'Italia ai confini slavi, sostiene la stessa tesi.

Oggi, forse, anche il più acceso degli irredentisti regnicoli esiterebbe a veder attuato il suo sogno a tal prezzo. Ma allora l'industrialismo italiano era in fasce; cresciuto poi rapidamente benché nella bambagia dei dazi protettivi, doveva fatalmente sorgere in esso l'impulso a nuovi sbocchi; donde il fondo dell'attuale antagonismo italo-austriaco nei Balcani. Prima del 1880 non vi è traccia del fenomeno e uno statista come Marco Minghetti può affermare «essere tradizione italiana che l'influenza austriaca debba portarsi verso Oriente e dover l'Italia assecondare l'Austria in tale missione conservatrice ad un tempo e progressiva, in questo compito di civiltà».

Sembra che l'idea dell'Imbriani e dell'Avezzana sia stata accolta anche dal governo italiano di allora. Afferma almeno in un suo scritto recente il marchese Cappelli, che partecipò al Congresso di Berlino come segretario dei rappresentanti italiani, che colà vennero offerti all'Italia compensi sul Mediterraneo e sull'Adriatico per gli espansionismi altrui, ma che essi furono rifiutati, insistendosi invece per una rettifica, «sia pur di pochi chilometri», ai confini orientali!

L'uomo che dirigeva allora la politica estera italiana era cresciuto nella tradizione irredentista. Nel marzo del 1878, alla fine delle ostilità russo-turche e nell'imminenza del congresso europeo, Depretis aveva ceduto la presidenza del consiglio e il portafoglio degli esteri a Benedetto Cairoli.

Nel 1876, celebrandosi il VII centenario di Legnano, Cairoli aveva additato le bandiere abbrunate delle provincie irredente; alla commemorazione di Mentana nel 1877 aveva parlato chiaro: «Noi non ci ritrarremo mai dalla politica militante, finché non vedremo riunite all'Italia le province ora soggette a dominazione straniera»; ai funerali di Vittorio Emanuele, insieme col vicepresidente della camera, aveva rappresentato le provincie irredente; divenuto presidente dei ministri, il Cairoli avrebbe pure ricevuto una deputazione di triestini condotta dall'Avezzana e ad essa avrebbe dichiarato di essere pronto a prendere il fucile «quando l'ora fosse venuta».

Si capisce come l'avvento al potere di Benedetto Cairoli accenda più che mai le speranze dell'irredentismo e lo conforti a credere che, finalmente, anche i governi italiani vengano a lui. «L'Italia degli italiani» scriveva in quei giorni del Cairoli: «Sarebbe davvero un compiere degnamente le tradizioni della famiglia l'associare il suo nome al riscatto», ecc.

Nel giugno, radunatosi il congresso a Berlino, due programmi di due comitati, l'uno «triestino», l'altro «istriano» affermano come cosa certa che l'Italia solleverà al congresso la questione dei confini orientali, e preconizzano prossima la fine del governo austriaco nel Trentino e nella regione Giulia. Ma i bei sogni idilliaci del generale Avezzana non si compiono – com'è noto – al congresso di Berlino; la carta balcanica viene rimaneggiata bensì, ma non certo in ossequio al principio nazionale. Osservando già abbastanza da lontano, epperò con sufficiente serenità, questo periodo della politica italiana non è difficile fissare le ragioni fatali del suo insuccesso. Alle aspirazioni annessioniste della democrazia italiana giunta al governo mancava del tutto, oltre alla preparazione interna, un ambiente diplomatico anche parzialmente favorevole. Mentre nel 1866 la totalità delle grandi potenze considera l'annessione della Venezia all'Italia addirittura come un interesse europeo, qualsiasi alterazione territoriale degli Stati europei convenuti a Berlino è dogmaticamente e preventivamente bandita dal congresso. Se anche adunque – come afferma il marchese Cappelli – la diplomazia italiana ha tentato qualche assaggio in questa direttiva, si capisce che abbia sentito opporsi una fin de non-recevoir e forse, per correr dietro al miraggio irredentistico, l'Italia può aver perduto un'occasione propizia di giovare a più effettivi suoi interessi adriatici o mediterranei.

Si ignora (ed è meglio non indagarla) la sorte del memoriale che i comitati istriani e triestini inviano all'imperatore Guglielmo e a tutti i delegati al congresso di Berlino. Interesserebbe soltanto conoscere a quale principio quel memoriale indirizzato al sommo areopago europeo raccomandasse la sua tesi, dacché anche allora il diritto all'annessione si appoggia quasi sempre, indifferentemente, ai due titoli contradditori: il principio di nazionalità e la teoria dei confini naturali e geografici. Nella pubblicazione Pro Patria, ad esempio, viene rivendicato all'Italia il più ampio confine geografico; poche pagine più sotto, l'autore si richiama al principio di nazionalità e cita queste parole di Camillo de Meis: «Dove la nazione finisce, là finisce e si arresta lo Stato».

Anche il Confine Orientale del Fabris, triestino, è più che altro una dotta dissertazione tendente a dimostrare che il confine politico deve coincidere con quello geografico, arrivare cioè alle Retiche e alle Giulie. Allo stesso criterio essenzialmente militare si attiene il generale Avezzana, il quale, nella già citata lettera al Depretis, dice: «Senza il confine alle Giulie e alle Retiche non vi è sicurezza per l'Italia».

Nell'ottobre del 1878 si radunano a Forlì i capi del movimento – cioè gli uomini eminenti della democrazia italiana – per riorganizzare l'istituzione del tiro a segno, uno dei mezzi nei quali, allora, si poteva ancora credere stesse la massima e più formidabile preparazione a qualsiasi impresa guerresca. Da quel convegno (che, secondo alcune fonti irredentistiche, avrebbe preso anche accordi segreti per preparare un'azione armata contro l'Austria) uscì un ordine del giorno ufficiale in cui la rivendicazione nazionale è appaiata bensì ma distinta da quella confinaria: «La questione delle terre irredente e dei nostri confini sulle Alpi Retiche e le Giulie – così uno dei capoversi dell'ordine del giorno – oltre al carattere morale che riveste... può, in vista dello stato di cose in Oriente, acquistare un'immediata urgenza pratica», ecc.

Parrà strano di veder proclamata in un pubblico documento di partito la probabilità di prossimi urti guerreschi nell'ottobre del 1878, cioè due mesi dopo la stipulazione del trattato di Berlino; ma la democrazia italiana, e specialmente la parte repubblicana, trae, appunto dalla delusione che quel trattato aveva creato, la speranza di imminenti riscosse e l'incentivo a prepararle.

Svanita la speranza della soluzione amichevole, spesseggiano e si diffondono in tutta Italia dimostrazioni, comizi, di carattere apertamente antiaustriaco e bellicoso.

Già alla fine di giugno, all'annunzio che il congresso aveva autorizzato l'Austria-Ungheria ad occupare la Bosnia e l'Erzegovina, si getta in canale lo stemma del consolato a.u. a Venezia. «L'Italia degli italiani» attacca furiosamente il ministero Cairoli chiamando «opera infame» il nuovo assetto balcanico e «delitto di Berlino» la pace. È allora che Garibaldi e Avezzana lanciano ai triestini, trentini e istriani il noto grido: «Ai monti... vi si sta tanto bene in questa stagione... non lasciatevi condurre contro gli eroici nostri fratelli dell'Erzegovina... la gioventù latina non vi lascerà soli a combattere gli austriaci». Ma nessuno risponde a quel grido.

I precedenti ben noti dei governanti italiani accrescono le diffidenze viennesi. Il «Fremdenblatt» si rivolge infatti, in un suo monito ufficioso, ai «circoli moderati italiani» quasi contrapponendoli ai governativi, progressisti ed irredentisteggianti, e con l'imperturbabile ipocrisia dei diplomatici scrive: «Se l'Austria si è decisa di accettare il sacrificio di rimetter ordine nelle provincie occidentali balcaniche, non deriva da ciò a nessuno il diritto di chiedere compensi a spese della monarchia». Tali parole sono accompagnate da qualche ostentato concentramento di truppe al confine.

Con questo momento politico coincide la pubblicazione dell'opuscolo tedesco Italicae res del colonnello Haymerle, per cinque anni addetto all'ambasciata a.u. presso il Quirinale. Le Italicae res furono ritenute, a ragione o a torto, d'ispirazione diretta del governo viennese e destarono perciò molto rumore; vennero tradotte in italiano con note confutatorie e confutate da parecchie pubblicazioni irredentiste. Certo l'opuscolo deve la fama soltanto alla posizione ufficiale dell'autore: leggendole ora, a trent'anni di distanza, esso appare assai povera cosa. Per dimostrare che l'Italia non può vantare diritti sulle terre «irredente» il Haymerle si ingolfa in una critica, assai mediocremente scientifica, del principio di nazionalità. Invece tocca appena quello che avrebbe dovuto essere l'argomento essenziale della sua tesi: la convivenza di due stirpi in gran parte dei territori che la democrazia italiana rivendicava nel nome del principio nazionale; accenna poi fuggevolmente al fattore economico e dedica la maggior parte dell'opuscolo a glorificare l'amministrazione austriaca e a considerazioni prettamente militari, fra le quali va notata una curiosa dimostrazione del pericolo che il possesso del Trentino costituisce, strategicamente, per l'Austria.

L'intervento di un ufficiale austriaco nella polemica non fa, come vedemmo, che ravvivarla; anche il movimento nel paese si prolunga per tutto il 1879 e il 1880, seguitando anche dopo il convegno di Roma del 21 luglio 1878, presieduto da Menotti Garibaldi, in cui venne reclamata la liberazione delle terre irredente, comprendendo in esse, oltre a Trento ed all'Istria, anche Nizza, Malta e il Canton Ticino. Il che, naturalmente, coalizza tutta la stampa europea contro le rivendicazioni separatiste. I comizi si moltiplicano nelle principali città della penisola, accompagnati da dimostrazioni studentesche e giovanili.

Nel dicembre 1879 muore, novantenne, il generale Avezzana ed è commentatissima la presenza di Cairoli, capo del gabinetto, ai funerali di lui. Ma viene ben presto la nuova disillusione di Tunisi che fa cadere il ministero Cairoli e deviare contro la Francia il fervore antiaustriaco. Se dobbiamo credere a certe rivelazioni di fonte irredentista, esso era giunto al segno da vagheggiare contro l'Austria, formidabilmente armata, una nuova spedizione dei Mille, attesa con impazienza da un nucleo giovanile di volontari e rinviata di primavera in primavera sino a quella del 1882, in cui la morte di Garibaldi avrebbe tolto all'impresa il simbolo e l'ispiratore ideale.

Pare che i progetti guerreschi mirassero proprio alla costa adriatica e bisogna quindi supporre che i capi del movimento si lusingassero di trovare nella Giulia, e in ispecial modo a Trieste, un'attiva e previdente cooperazione. È chiaro che una simile impresa poteva concepirsi soltanto se a Trieste lo spirito separatista avesse potuto mostrare in qualche modo il suo consentimento all'iniziativa liberatrice. I volontari avrebbero dovuto insomma suscitare o soccorrere, se non un 18 marzo, almeno un 5 febbraio triestino; soltanto così la loro certa sconfitta avrebbe seminato per l'avvenire, o forse trascinato lo Stato italiano ad un intervento. Non discuto qui la serietà dell'idea: affaccio soltanto le condizioni nelle quali avrebbe potuto apparire, se non altro, fondata su un ragionamento.

Ma poteva aspettarsi tanto dall'ambiente giuliano?

La morte di Vittorio Emanuele provoca a Trieste e in tutta la regione manifestazioni di lutto in cui il sottinteso separatista è evidente. A Trieste, la sera del 9 gennaio, un gruppo di giovani, dalla galleria, ottiene la sospensione della seduta consigliare. Il consiglio non giunge però sino ad un voto; i consiglieri si affrettano ad andarsene, prima che sia messa a partito la proposta dell'avv. Vidacovich di sospendere la seduta, «visto che una certa agitazione domina gli animi». Però, approfittando dell'incidente provocato dalla galleria, due consiglieri liberali avevano commemorato il re: uno di essi è il Hermet, il quale tuttavia insiste perché la seduta continui e, nella calda commemorazione, ha cura di accennare anche ai vincoli di parentela fra i Savoia e gli Asburgo. Dimostrazioni collettive di lutto riuscirono le esequie ufficiali promosse dal consolato e dalla colonia regnicola, la chiusura di negozi e teatri, ecc.

Nell'estate del 1878, un altro fattore di malessere viene ad aggiungersi. Per la prima volta Trieste sente in tutta la sua gravità la mancanza della franchigia, da poco completamente perduta: l'esenzione dal servizio militare. La mobilitazione parziale ordinata per la marcia imminente nella Bosnia-Erzegovina colpisce specialmente le provincie più vicine ai nuovi territori da occuparsi. Durante la cruenta campagna si calcola che oltre 2.000 italiani fossero compresi nella mobilitazione. Molti giovani preferirono passare il confine e andarono quasi tutti a ingrossare le file dei nuclei irredentisti nel regno; non sono però le centinaia di cui si legge; una cronaca non sospetta fa ascendere gli emigrati da Trieste a 21; fra essi è Guglielmo Oberdank.

L'azione separatista a Trieste predilige, in questo periodo, dei gesti che si potrebbero chiamare di "blando terrorismo" e si esplicano nei "petardi", collocati per solito nelle vicinanze degli uffici statali o sulla porta di qualche i.r. funzionario, che esplodono, quasi sempre fragorosi ed innocui. Di "bombe" propriamente dette, oltre a quella che, gettata in mezzo ad un corteo di veterani, il 2 agosto 1882, uccide una persona e ne ferisce gravemente un'altra, non trovo traccia che in una sentenza del 1879, la quale parla di «petardo caricato a dinamite non esploso, trovato su una scala interna della luogotenenza». L'attività dei petardieri, iniziatasi nel 1868 con due esplosioni sotto il consolato francese per l'anniversario di Mentana, si intensifica specialmente fra il 1879-82, poi sonnecchia per risvegliarsi fra l'88 e il '92, quindi lentamente si spegne. I processi furono numerosi: la condanna più grave (3 anni e mezzo) pronunciata nel 1890, avendo un fanciullo perduto un occhio. Frequenti pure i processi e le condanne per sequestro di opuscoli sediziosi o di periodici separatisti stampati nel regno, per colletta o coscrizione di soci alle varie società irredentiste della penisola; più frequenti i processi per reati di stampa; i bandi (anche senza condanna, per misura di polizia) di regnicoli, residenti a Trieste o anche capitati pur per breve soggiorno; restò celebre quello di Felice Cavallotti, venuto a mettere in scena la Sposa di Menecle, gaffe solenne poliziesca, che provoca l'intervento del governo italiano e, da Vienna, la revoca del bando, giunta un'ora dopo la partenza del Cavallotti. I processi per titoli più gravi di reato (alto tradimento e simili) vengono sottratti alle Assise italiane (la giuria del 1848 era stata ripristinata nel 1869) e devoluti a quelle dell'interno che spesso smontano gli atti d'accusa ed assolvono: così nel 1878 viene assolto a Graz, dopo nove mesi di detenzione, il Barzilai accusato, con altri, di diffusione di stampati irredentisti; più recentemente i giurati di Vienna sgonfieranno il processo «della bomba» trovata sotto il pavimento alla Società di ginnastica e quelli di Graz (1910) seppelliranno nell'ilarità generale una pretesa cospirazione da operetta. Invece a Graz, nello stesso anno dell'assoluzione del Barzilai, alcuni giovani vennero condannati sino a 2 anni di carcere per avere inalberato il tricolore sulle alture di Gorizia, il giorno dello statuto.

Altro, il movimento giovanile non sa né può dare. In alto; fra i più dei "dirigenti", esso trova renitenze, paure, scetticismi e anche decise ostilità in modo da escludere non dico il consenso aperto, ma anche ogni forma efficace di segreto appoggio morale e materiale. Ed anche questo si spiega: troppo eterogeneo l'ambiente in cui l'idea separatista è costretta a muoversi. Noto per ora un solo contrasto flagrante: l'occupazione della Bosnia, che ripugna ai ceti italiani piccoloborghesi e proletari, giova invece a quelli industriali e commercianti.

Seguita perciò nel liberalismo ufficiale una politica materiata di continue oscillazioni. Quando, alla fine del 1879, le truppe ritornano dalla Bosnia, il consiglio triestino respinge con venti voti contro sedici l'urgenza di una mozione intesa a devolvere fior. 500 per accogliere i reduci; conato di protesta cui, al solito, il governo conferisce importanza e pubblicità sciogliendo il consiglio. Le elezioni del 1879 segnano una sconfitta del liberalismo, benché all'ultima ora fosse stata stipulata, nel I corpo elettorale, una specie di compromesso coi fedelissimi, sei dei quali vennero portati anche dai liberali: curioso adattamento in una lotta elettorale a piattaforma rigidamente accentuata.

Più sintomatica ancora è la scissura che scoppia subito dopo fra il partito e il suo capo, il Hermet, per la scelta del podestà. La faccenda ha dei precedenti amministrativi e personali che non ci interessano; ci interessa invece il fatto che, in quel burrascoso periodo, proprio nel massimo fervore separatista di dentro e di fuori, il capo del partito liberale propugna la candidatura di un tedesco a podestà di Trieste! Per spiegare il suo combattuto atteggiamento, il Hermet pubblica una lettera agli elettori nella quale ci sono delle affermazioni caratteristiche. È facile scoprire, fra le righe, ciò che il Hermet teme: che il nuovo movimento irredentista debiliti la posizione degli italiani adriatici; che l'irredentismo, cioè, nuoccia alla nazione. Insistere sul principio tradizionale, che il rappresentante elettivo della città sia italiano, pare in quel momento al Hermet «esagerazione del principio nazionale». Mentre dunque l'impulso separatista compie il suo massimo sforzo, ecco un veterano ed un antesignano del liberalismo adombrarne e predicarne la sterilità ed il danno, e rinunziare alla espressione più antica e più spontanea della coscienza nazionale, l'italianità del capo del comune. Contrasto troppo evidente per attribuirsi soltanto alla senilità di un uomo. Il consiglio del Hermet non venne seguito ed egli stesso all'ultimo, visto vano ogni sforzo, si adatta e poco dopo si ritira dalla vita pubblica, ma colmato dei massimi segni d'estimazione del partito liberale, quali la cittadinanza onoraria e la presidenza a vita della organizzazione politica dei liberali Il Progresso, proposta da uno dei più accesi separatisti. Il candidato sostenuto dal Hermet era già stato, benché tedesco, eletto quasi all'unanimità (50 voti) vicepresidente del consiglio.

Con la scomparsa del Hermet (morto nel 1883), non cessano le oscillazioni fra lo stimolo dei catastrofici o degli irresponsabili e il freno degli uomini rappresentativi; spesseggiano anzi le manifestazioni esterne di questo conflitto, sempre latente.

Nel 1882 la finanza e la burocrazia, spinte e sostenute dal governo, si uniscono per celebrare, con un'esposizione di tutti i prodotti dell'impero, il quinto centenario della dedizione di Trieste alla casa d'Asburgo. Tale iniziativa mette in grave disagio il liberalismo; e lo si vede dai suoi atti: il podestà, cui è offerta la presidenza onoraria del comitato organizzatore, la rifiuta dicendo di non voler pregiudicare i deliberati del consiglio. Messa a partito la domanda del comitato per la cessione dei terreni su cui l'esposizione avrebbe dovuto sorgere, il consiglio l'accoglie; un consigliere propone di aggiungervi un contributo in danaro e lo fissa nell'importo modesto di fior. 15.000; la proposta passa per 27 voti contro 17, ma il pubblico, dopo la seduta, fischia il proponente, che (bizzarra coincidenza) è il più volte citato e troppo frettoloso celebratore della pseudovittoria di Magenta, candidato prima soltanto liberale, allora "comune" e, da quel momento in poi, passato definitivamente nel campo governativo. Nella discussione però riappare, benché ben dissimulata, la punta separatista, portatavi da un consigliere il quale dichiara di ritenere l'esposizione dannosa agli interessi della città perché «riavvicina gli industriali ai consumatori». Anche contro le gesta dei petardieri la rappresentanza municipale non manca di esprimere ripetutamente il suo orrore, destando spesso, così, scatti e propositi di rivolta nelle frazioni separatiste più accese.

Quanto ai candidati governativi, non formano neppur essi una falange rigida e compatta: dall'estrema destra, fatta specialmente di funzionari o di commercianti non italiani, si passa gradatamente al centro, le cui tinte più sbiadite si fondono con quelle del liberalismo meno acceso o scevro di colore separatista. Sfumature che non poggiano soltanto su varietà di stati d'animo individuali, ma si riconnettono a potenti e permanenti ragioni economiche, come vedremo più avanti, esaminando l'atteggiamento del partito liberale di fronte agli interessi della città e della regione.

Da ciò, nonostante le lotte elettorali, frequenti e spesso accanite, una certa reciproca tendenza all'oblio: il podestà, che nel 1881 declina la presidenza onoraria dell'esposizione patriottica, viene rieletto nel 1882 coi voti unanimi dei due partiti; il liberalismo, che vince nelle elezioni del 1882 e stravince in quelle del 1886, stipula nel 1889 un compromesso elettorale con gli avversari. Dal 1882 in poi però la somma dei poteri del comune è riunita nelle mani del partito liberale, per quanto il governo si affatichi ad ostacolargliela, disciplinando le file dei fedeloni e dei suoi funzionari, fondando e sussidiando giornali e associazioni dinastiche. Spesso anzi l'intervento governativo serve soltanto di rincalzo al liberalismo; la fedeltà dei funzionari non è controllabile nel segreto dell'urna e vi matura talvolta allegre vendette. Si arriva così alle elezioni amministrative del 1897, che sgominano definitivamente il vecchio partito governativo e assicurano per molti anni al liberalismo l'incontrastato dominio nel comune e in tutti gli istituti comunali.

Ma, nello stesso anno, un fatto nuovo, come sempre d'ordine generale e statale, spinge il partito alle urne politiche e lo fa trionfare anche in quelle. È il primo, monco esperimento di suffragio universale in Austria, l'introduzione della cosiddetta V curia, cioè di un corpo a suffragio universale, messo accanto ai corpi privilegiati e suddiviso in 72 collegi territoriali. Entrano così nella vita politica i più vasti strati popolari; ma vi entrano con la prefissata impossibilità di conquistare la maggioranza, poiché questi 72 deputati del suffragio universale vengono ad aggiungersi ai 345 rappresentanti del feudo, dell'industrialismo, ecc. È un espediente di governo già accarezzato – e in più larga misura – dal Taaffe, poi ripreso dal Windischgrätz, attuato infine dal Badeni, al quale non risparmia, pochi mesi dopo, la bufera ostruzionistica tedesca contro le concessioni linguistiche ai cechi.

La pressione del conflitto di stirpe appare tra le determinanti della rinunzia alla tattica astensionista seguita per quasi un quarto di secolo dal liberalismo triestino. La quinta curia mette di fronte al partito liberale un competitore, più formidabile degli antichi. L'ostilità del partito governativo, specie nell'ultimo decennio, aveva più che altro contributo alle vittorie elettorali del liberalismo; la germanizzazione, sino allora tanto temuta, rappresentava ormai un arnese invecchiato di governo senza una base etnica, senza radici paesane. La legge elettorale del 1896, unendo città e territorio in un unico collegio a suffragio universale ed egualitario, fa campeggiare invece per la prima volta un vero fattore etnico, lo slavismo, e non più contro un piccolo nucleo, ma contro tutta la popolazione italiana della città. Il partito liberale comprese che astenersi dalla lotta significava trasportare il conflitto dal terreno di stirpe a quello di classe, poiché, a fronteggiare il giovane nazionalismo sloveno, sarebbe rimasto solo, epperò nelle migliori posizioni elettorali, l'altro nuovo fattore che il suffragio universale chiama sulla scena: il proletariato. Il proletariato giuliano è il grande assente dalla vita politica; neppure il 1848 gli dà, come avviene altrove, un minuto di vita. Appunto perché tanto ritardato, il suo ingresso nella politica esercita non lieve influenza. Nel 1897 il socialismo ha già fatto qualche cammino nel proletariato ed è sotto i suoi auspici e sotto la sua bandiera che il proletariato appare, come partito, fra i partiti in contrasto, ne subisce l'influsso e, a sua volta, ne muta e ne perturba la costituzione e gli atteggiamenti. Si va insomma formando l'ambiente naturale che cercherò di prospettare nel prossimo capitolo.

Frattanto, l'irredentismo regnicolo ha attraversato un'altra lunga fase depressiva. La delusione del trattato del Bardo partorisce la triplice, il trasformismo depretino (1882-1887), alieno per natura sua da ogni forma di politica estera, svogliato e impreparato, va a Massaua, quasi a cresimare la rinunzia alle velleità d'espansione verso le Retiche e le Giulie. Invano nell'anno stesso in cui si stringe la triplice e l'Austria celebra il quinto centenario della dedizione di Trieste, invano Guglielmo Oberdank aveva compiuto il suo sacrifizio. La ragione psicologica di questo – le fonti ormai abbastanza copiose e lontane ci permettono di affermarlo – sta proprio nella sensazione, esattissima, del giovane matematico che la fiammata irredentista accesa dalla crisi d'Oriente era già spenta, e nella speranza in lui di riaccenderla.

La leggenda di congiura, organizzata nel regno dai gruppi irredentisti d'azione e tendente ad uno scopo preciso, è sfatata. I precedenti della decisione di Oberdank, il passaggio del confine con le due bombe, il suo contegno prima e dopo l'arresto e durante l'oscuro processo innanzi ai giudici militari, ci dicono essere stato il suo uno scatto essenzialmente individuale, di uomo affrettantesi alla morte sperando che il martirio politico (sconosciuto alla Giulia) avrebbe dato all'idealità separatista ciò che le mancava, l'avrebbe portata al trionfo contro tutti gli ostacoli che le sbarrano il cammino. La classica cecità dei circoli militari e la sommissione del governo alle loro esigenze, permettono al giovane triestino di assolvere la missione disperata che aveva voluto attribuirsi. La forca appare nella Giulia anche ai fedeloni, oltreché una ferocia ingiustificata, un gravissimo errore politico. Fece, in quei giorni, il giro dei crocchi tergestini l'amaro giudizio di un avvocato tedesco insospettabile: «Hanno voluto dare a Trieste l'unica cosa che le mancava: un martire». Ma neppur la cecità dei governanti può mutare il corso delle cose e la morte cercata dall'Oberdank non cambia le linee essenziali dell'ambiente giuliano.

Anche nel regno, le ripercussioni sono ben più ristrette e superficiali di quello che sarebbero state due o tre anni prima e rigorosissime le repressioni governative a ogni atto di lutto o di protesta; le condiscendenze del ministero Cairoli sembran eco di altri tempi; l'irredentismo ritorna ad essere un gesto antisabaudo, compiuto, di solito, da chi più ignora i termini del problema e i nuovi fattori che lo vanno via via complicando.

Tre mesi dopo l'impiccagione dell'Oberdank, nel marzo 1883, a Montecitorio si discute ampiamente sui rapporti austro-italiani e sull'irredentismo. Il Mancini, ministro degli esteri, si affatica a dimostrare che l'irredentismo adriatico e trentino contrasta con la teoria del principio di nazionalità, base della convivenza statale, da lui concretata e insegnata dalla cattedra. Bisogna dire che la dimostrazione non rifulge di logica soverchia. Il ministro non contesta il diritto ideale degli italiani d'oltre confine austriaco a unirsi allo Stato, ma obietta che non vi è soltanto un irredentismo austriaco; ve ne sono o potrebbero esservene degli altri: il francese, l'inglese, lo svizzero. «O perché soltanto all'Austria demandate Trento e Trieste, che non rappresentano nemmeno. un bisogno essenziale per lo Stato?» «L'irredentismo, per essere logico, porta alla guerra con mezzo mondo, lede quindi il rispetto ai trattati, è contrario al diritto internazionale, anche fondato sul principio di nazionalità».

Alessandro Fortis, ancora fra i leaders dell'Estrema, replicò assai logicamente al Mancini che il principio di nazionalità non può fermarsi, né si è fermato, innanzi al rispetto ai trattati. La questione, infatti, era stata messa male e l'equivoco permarrà, e si riaffaccerà, più o meno evidente, in tutte o quasi le posteriori discussioni parlamentari. Per combattere l'irredentismo nel nome del principio nazionale, bisognava dimostrare che per Trieste e per la Giulia non sussistono o sono comunque manchevoli le premesse su cui quel principio si fonda, cioè la consistenza del fattore etnico. Tale dimostrazione il Mancini non la fornisce; anzi il diritto, sia pure soltanto ideale e potenziale, della Giulia al riscatto viene sottinteso da lui e verrà anche più tardi da altri. Tuttavia, in quel dibattito del 1883, prevale una decisa austrofilia, proveniente dai più disparati settori della camera. Vi si associa senza riserva il Minghetti, capo della destra; persino un reduce dalle galere austriache, il Finzi, esprimendo arcadicamente la fiducia che le questioni pendenti fra l'Italia e l'Austria si regoleranno all'amichevole, proclama che «la vera politica dell'Italia esige l'accordo con l'Austria. Solamente uniti all'Austria noi potremo fronteggiare tutte le sorprese dell'Europa».

Rilevai già che sorprese sgradevoli pareva allora non potessero venire che da Parigi e che l'antagonismo economico austro-italiano nei Balcani non era nato. Il Marselli, rifacendo il pensiero minghettiano, aveva detto poco prima che «la forza delle cose trascina l'Austria a Salonicco e che il grande pericolo per l'Italia è la Francia a Biserta». Anche Felice Cavallotti, in quel momento politico, si era dichiarato favorevole alla Triplice. Una sola dissonanza è da notarsi nella discussione dell'83: il deputato Savini dichiara: «Fra noi e l'Austria c'è una questione ardente. La saggezza, la prudenza, l'opportunità e dirò anche il patriottismo c'impongono di assopirla, ma soffocarla è impossibile». Accortosi che il tono non rispondeva al momento, il Savini si giustifica così: «Non mi pare di aver detto un'eresia, accennando alla convenienza di avere "le chiavi di casa nostra"». Alle «chiavi» aveva anche alluso, nella stessa seduta, Alessandro Fortis.

Chiavi di casa – cioè confine geografico – e principio di nazionalità. L'equivoco perdura. Vi è qua e là chi intravede il punctum saliens della questione, ma non sono visioni chiare e costanti. Il più radicale, intorno a quell'epoca, è il giovane capo del centro, il Sonnino, il quale aveva scritto nella sua «Rassegna settimanale» del 29 maggio 1881: «Occorre prima di tutto mettere risolutamente da parte la questione dell'Italia irredenta. Nelle condizioni attuali dell'impero austroungarico il possesso di Trieste è della massima importanza per esso, che lotterebbe a oltranza prima di rinunziarvi. Inoltre Trieste è il porto meglio situato per il commercio tedesco; la sua popolazione è mista come tutta quella che si avvicina al nostro confine orientale. Rivendicare Trieste come un diritto sarebbe un'esagerazione del principio di nazionalità».

Un anno prima anche l'ingegno sottile e dialettico di Ruggero Bonghi aveva, più cautamente, affacciato qualche dubbio sulla pienezza dei titoli nazionali della Giulia all'annessione; parecchi anni dopo, il figlio più illustre che la Giulia abbia dato all'Italia, Graziadio Ascoli, esaminando il fattore nazionale, concluderà contro la tesi separatista. Su ambedue queste importanti manifestazioni di pensiero, strettamente connesse all'etnografia giuliana, ritornerò nel prossimo capitolo.

Il crispismo, che, con brevi parentesi, domina quale governo e quale ideologia l'Italia per quasi un decennio (1887-1896), è tratto, non dalla natura sua ma dalle circostanze, a prendere atteggiamenti contrari alle rivendicazioni separatiste: glielo comandano la gallofobia acuita coll'acuirsi del conflitto economico con la Francia, il conseguente filogermanismo e le persistenti velleità espansionistiche e guerriere in Abissinia e sul Mediterraneo. Perciò quando, nell'estate del 1890, viene sciolta a Trieste l'associazione scolastica Pro patria, il governo fronteggia risolutamente le ripercussioni che si avvertono nel regno; combatte le candidature antiaustriache e anticrispine del triestino Barzilai a Roma e del trentino Bezzi a Ravenna. Il Barzilai soccombe per pochi voti di fronte all'Antonelli, candidato ministeriale, nella elezione suppletoria dell'agosto 1890; ma viene eletto, insieme col Bezzi, in quelle generali del novembre. Crispi risponde sciogliendo tutti i Circoli Oberdank e Barsanti. Nell'ottobre aveva tenuto a Firenze il noto discorso tutto dedicato all'irredentismo, che il giornale ufficiale dell'Austria a Trieste riproduce testualmente perché «gli sembra segnare nettamente un nuovo e benefico stadio nel giudicare agitazioni, pericolose non per l'Italia soltanto». Ma anche in quel discorso non vi è nulla di più di quanto Mancini aveva detto sette anni prima: l'irredentismo è considerato pericoloso per la pace; la democrazia che lo scalda vi è colta in contraddizione coi suoi propositi di disarmo; manca ogni cenno specifico alle peculiari condizioni d'ambiente dell'irredentismo adriatico; anzi la legittimità ideale di esso appare giustificata da un accenno alle «virtù del silenzio» che la politica può «imporre ai nostri cuori». Neppure questo celebre scatto del Crispi vale dunque a porre il movimento e il sentimento separatisti di fronte alla realtà, che si va sempre meglio delineando nella Giulia col risvegliarsi progressivo dello slavismo giuliano. L'irredentismo regnicolo rimane uno stato d'animo superficiale, tumultuario, prevalentemente retorico, di scarsa intellettualità, anzi troppo spesso materiato d'ignoranza. Quest'ultima caratteristica lo differenzia dai suoi esordi, gracili, passionali, ma intellettualissimi, e lo riattacca al presente. Tuttavia (e ciò lo distingue dall'attualità) non è ancora ridivenuto patrimonio di gruppi e di ideologie conservatrici, rimane, fino a giorni più vicini a noi, gesto antidinastico e bagaglio di partiti estremi: perde soltanto – e bastano i progressi della tecnica guerresca a spiegare perché – la vecchia veste di cospiratore e di organizzatore di "colpi di mano". Si sussurra ancora di spedizioni garibaldine nel 1897, durante la guerra turco-greca, ma son fole che il solo governo austriaco prende o affetta di prendere sul serio: lo stesso Imbriani, nell'ultimo periodo della sua attività separatista, nell'Associazione nazionale, ammette che l'irredentismo vecchio stile (inteso cioè a forzar la mano al governo con conati insurrezionali) è morto per sempre.

Spenti gli echi della catastrofe crispina di Adua, superata la fase più acuta del disagio economico e della guerra sociale interna, lo stato d'animo irredentista, influenzato e influente a sua volta su complicati fattori, diversi eppure interdipendenti fra loro, va via via anche nel regno avvicinandosi all'attualità. L'indagine e la comprensione di essa sono inseparabili dalla materia dei prossimi capitoli.

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