CAPITOLO V UNA TRILOGIA

Poichè ogni Descrizione, in questi tempi, foss'anche delle più epiche, che «parla e non canta», deve trovare fondamento o sulla Fede o sulla dimostrabilità del Fatto, o non avere fondamento veruno (nè alcuna esistenza, se non quella dei ragnateli ondeggianti), – il Lettore forse preferirà di dare una occhiata con gli occhi del testimone oculare; ed osservare da se stesso come andò. Il bravo Jourgniac, l'innocente Abbé Sicard, il giudizioso avvocato Maton, comprimendosi molto, parleranno, ognuno per un istante. L'Agonia delle trentotto ore di Jourgniac arrivò a «oltre cento edizioni», quantunque fosse, intrinsecamente, una povera cosa. Alcune parti di essa possono sorpassare la centounesima, per mancanza di meglio.

«Verso le sette» (la sera della domenica all'Abbadia; poichè Jourgniac procede per ordine di date): «Vedemmo entrare due uomini con le mani insanguinate e armati di sciabole. Un sottocarceriere con una torcia li guidava; ed accennò al letto dello sventurato Svizzero, Reding. Reding parlava con una voce morente, e uno di essi si arrestò; ma l'altro gridò: Allons, donc; sollevò il disgraziato, se lo caricò sulle spalle e lo trasportò in istrada, ove fu massacrato.

«Noi ci guardammo tutti in silenzio, ci stringemmo reciprocamente la mano. Immoti, cogli occhi sbarrati, fissavamo il pavimento della nostra prigione, che illuminava il raggio lunare rigato dalle triplici sbarre delle finestre.

«Ore tre del mattino: Stavano sfondando una delle porte della prigione. In sulle prime pensammo che venissero per ucciderci nella nostra camera; ma sentimmo da voci su per le scale, che si trattava d'una camera dove alcuni prigionieri s'erano barricati. Essi furono tutti sgozzati colà, come in breve apprendemmo.

«Ore dieci: L'Abbé Lenfant e l'Abbé de Chapt-Rastignac comparvero sul pulpito della cappella, che era la nostra prigione, entrando da una porta sulla scala. Essi ci dissero che era prossima la nostra fine, che noi dovevamo prepararci per ricevere la loro ultima benedizione. Un movimento elettrico, che non si può definire, ci fece cadere tutti in ginocchio, e la ricevemmo. Quei due vecchi dai bianchi capelli, ci benedissero dall'alto, la morte aleggiava sul nostro capo e tutto intorno a noi; quel momento non si può mai dimenticare. Una mezz'ora più tardi furono entrambi massacrati e noi udimmo le loro grida». Così Jourgniac nella sua Agonia nell'Abbadia.

Ma ora lasciamo parlare il buon Maton, di ciò che anche egli nella Force, in quelle stesse ore, soffre e vede. Questa sua Resurrection è certo il migliore, il meno teatrale dei Pamphlet, ed è corredato di documenti:

«Verso le sei», la sera di Domenica, «i prigionieri spesso erano chiamati, e non tornavano più. Ognuno di noi si spiegava a suo modo questa singolarità: ma i nostri animi divennero calmi quando ci persuademmo che il memoriale che avevo redatto per l'Assemblea Nazionale produceva il suo effetto.

«All'una del mattino la grata che conduceva al nostro quartiere si aprì di nuovo. Quattro uomini in uniforme, con la sciabola sguainata, al chiarore delle torcie, vennero su verso il nostro corridoio, preceduti da un sottocarceriere; ed entrarono in un camerone accanto al nostro, per aprirvi una cassa che noi sentimmo rompere. Ciò fatto, accompagnarono nella galleria e interrogarono un tal Cuissa, per sapere dove fosse Lamotte» (il Vedovo della Collana). «Dissero che Lamotte aveva, alcuni mesi addietro, sotto pretesto di un tesoro a lui noto, scroccato ad uno di loro la somma di trecento lire, invitandolo a pranzo con questo scopo. Lo sventurato Cuissa, ora nelle loro mani, e che finì col perdere la vita quella notte, rispose tremando, che ricordava bene il fatto ma che non poteva dire che n'era stato di Lamotte. Determinati a trovare Lamotte per confrontarlo con Cuissa, lo ricercarono con quest'ultimo per vari altri cameroni; ma senza venirne a capo; perchè sentimmo che dicevano: Venite a cercarlo fra i cadaveri, allora; poichè, nom de Dieu! noi dobbiamo trovarlo!

«In quello stesso momento sentii fare il nome di Louis Bardy, dell'Abbé Bardy; egli fu portato fuori e massacrato immediatamente, mi fu detto. Era stato, cinque o sei anni prima, accusato insieme alla sua concubina di avere assassinato e fatto a pezzi un suo fratello, Uditore alla Chambre des Comptes di Montpellier; ma, con la sua astuzia e la sua destrezza e più con la sua eloquenza, ingannò i giudici, e se la svignò.

«Si può immaginare qual terrore mi avevano messo quelle parole: «Venite a cercarlo fra i cadaveri, allora». Io non vidi altro rimedio che rassegnarmi a morire. Scrissi il mio testamento, pregando e scongiurando, nel terminarlo, che la carta fosse mandata al suo indirizzo. Avevo appena lasciata la penna, quando vennero altri due uomini in uniforme; uno di essi, il quale aveva il braccio e la manica coperti di sangue fino all'omero, al pari della sua sciabola, disse che era stanco come un manovale che avesse battuto l'intonaco.

«Baudin de la Chenaye fu chiamato; sessant'anni di virtù non lo potettero salvare. Gli dissero: A' l'Abbaye. Egli passò la porta fatale; mandò un grido di terrore alla vista dei cadaveri ammucchiati; si coprì gli occhi con le mani, e morì d'innumerevoli ferite. Ad ogni nuovo aprirsi della grata, credevo d'udire il mio nome e vedere entrare Rossignol.

«Buttai via la mia veste da camera e il berretto; mi posi addosso una camicia ruvida e sudicia, un abito lacero senza farsetto e un vecchio cappello rotondo; queste cose me l'ero fatte portare alcuni giorni addietro, nel timore di quel che poteva accadere.

«Le camere di quel corridoio erano state tutte vuotate, tranne la nostra. Eravamo in quattro; forse ci avevano dimenticati; rivolgemmo in comune la nostra preghiera all'Eterno, perchè ci liberasse da quel periglio.

«Battista il Sottocarceriere venne su di sua iniziativa, per vederci. Io lo presi per le mani, scongiurandolo di salvarci; gli promisi cento luigi, se voleva ricondurmi a casa. Un rumore che veniva dalle grate lo fece retrocedere rapidamente.

«Questo rumore era prodotto da dodici o quindici uomini armati fino ai denti; e, poichè noi ci eravamo messi per terra per non essere veduti, potevamo guardare dalle nostre finestre. «Andiamo su!» dissero; «e che niuno rimanga». Tirai fuori il mio temperino e pensai ove dovevo colpirmi, ma riflettei che la lama era troppo corta, e poi pensai anche alla religione.

«Finalmente tra le sette e le otto del mattino entrarono quattro uomini con randelli e con sciabole! – Ad uno di essi il mio camerata Gérard bisbigliò qualche cosa da parte con ardore. Durante il loro colloquio, io cercai dappertutto le scarpe per lasciare le calzature di Avvocato (pantoufles de Palais) che avevo in piedi, ma non le potetti trovare. – Constant, detto le Sauvage, Gérard e un terzo il cui nome m'è sfuggito, furono lasciati liberi: quanto a me, quattro sciabole furono incrociate sul mio petto, e mi condussero abbasso. Fui condotto alla loro sbarra, dinanzi al Personaggio cinto di sciarpa, che sedeva là come giudice. Egli era zoppo, di statura alta, stecchito. Costui mi riconobbe in istrada e mi parlò sette mesi dopo. Mi è stato assicurato che egli era figlio d'un procuratore in ritiro per nome Chepy. Attraversando la Corte detta des Nourrices, vidi Manuel che arringava in isciarpa tricolore». Il giudizio, come vediamo, finisce con l'assoluzione e la résurrection .

Il povero Sicard, dal violon dell'Abbadia, dirà poche parole: veridiche, quantunque tremanti. Verso le tre del mattino gli uccisori si ricordarono di questo piccolo violon, e picchiarono dalla corte. «Io picchiai pian piano, temendo che gli uccisori potessero udire dalla porta opposta, ove la Sezione del Comitato si adunava: essi risposero burberamente che non avevano chiave. Eravamo in tre in questo violon; i miei compagni credettero di scorgere una specie di soffitta in alto, al disopra delle nostre teste. Ma era molto alta, e soltanto uno di noi poteva giungervi montando sulle spalle degli altri due. Uno di loro mi disse che la mia vita era più utile delle loro: io resistetti, quelli insistettero: non fu possibile sottrarvisi! Mi slanciai al collo di quei due liberatori; nè vi fu mai scena più commovente. Monto sulle spalle del primo, poi su quelle del secondo, e finalmente sulla soffitta; e rivolgo ai due miei compagni l'espressione d'un'anima riboccante di spontanea commozione».

I due generosi compagni, constatiamolo con gioia, non perirono; ma è tempo che Jourgniac de Saint-Méard dica la sua ultima parola e finisca questa strana trilogia. La notte è divenuta giorno; e il giorno di nuovo è divenuto notte. Jourgniac, stanco, in preda ad un'agitazione estrema, si addormentò e fece un sogno lieto; egli si è anche ingegnato di far conoscenza con uno degli ispettori volontarî, ed ha parlato con lui nel nativo provenzale. Il martedì, verso l'una del mattino, la sua Agonia arriva alla sua crisi.

«Al lume di due torce, io scorgo il terribile Tribunale, che deve decidere della mia vita o della mia morte. Il Presidente, in abito grigio, con una sciabola a lato, stava in piedi, appoggiandosi con le mani ad una tavola, ove erano delle carte, un calamaio, delle pipe e alcune bottiglie.

«Intorno alla tavola v'erano una decina di persone, sedute o in piedi, di cui due in giacca e grembiule; altri dormivano distesi sui banchi. Due uomini, con le camicie insanguinate, guardavano la porta; un vecchio carceriere aveva la mano nella serratura. Di fronte al Presidente tre uomini tenevano un Prigioniero, che poteva avere sessant'anni (o settanta: egli era il vecchio Maresciallo Maillé, delle Tuileries e del 10 Agosto). Mi posero in un angolo; le mie guardie incrociarono le sciabole sul mio petto. Guardai dappertutto in cerca del mio Provenzale: due guardie Nazionali, di cui una ubriaca, presentarono un appello della Sezione della Croix-Rouge in favore del prigioniero: l'Uomo vestito di grigio rispose: «Sono inutili gli appelli pei traditori!» Allora il Prigioniero esclamò: «È spaventevole; il vostro giudizio è un omicidio!» Il Presidente, soggiunge: «Io me ne sono lavato le mani! conducete via Maillé». E lo trascinarono in istrada; ove, attraverso l'apertura della porta, vidi che lo massacravano.

«Il Presidente sedette e si pose a scrivere, per registrare, suppongo, il nome di colui che avevano finito; poi gli sentii dire: «Un altro, À un autre».

«Ed eccomi trascinato innanzi a questo Tribunale lesto e sanguinoso, ove la migliore protezione era quella di non averne nessuna, ove tutte le risorse dell'ingegno divenivano nulle se non erano fondate sulla verità. Due delle guardie mi tenevano per le mani, una terza pel collare del mio vestito. «Il vostro nome, la vostra professione!» disse il Presidente. «La più piccola bugia vi rovina», aggiunse uno dei Giudici. – «Il mio nome è Jourgniac Saint-Mérard; ho servito vent'anni come ufficiale; comparisco al vostro Tribunale con la sicurezza d'un innocente, che perciò non mentirà!». – «Questo lo vedremo», disse il Presidente. «Sapete voi perchè siete arrestato?» – «Sì, Signor Presidente, io sono accusato di redigere il Journal de la Cour et de la Ville. Ma spero di provare la falsità di quest'accusa».

Ma no; la prova di falsità di Jourgniac e la difesa in genere, quantunque d'un eccellente effetto come difesa non è interessante a leggersi; è troppo lunga, e v'è nel riportarla una molle teatralità, che non ha l'aspetto di finzione, ma tende ed essa. Noi immagineremo la sua riuscita, oltre ogni speranza, nel dare prove e controprove; e come potè evitare la catastrofe, quasi trovandosi a due passi da essa.

«Ma dopo tutto», disse uno dei Giudici, «non v'è fumo senza fiamma; diteci perchè vi accusano di questo». «Io ero sul punto di farlo» – Jourgniac lo fa, con un successo sempre crescente.

«Inoltre», continuai io, «mi accusano anche di reclutare per gli emigrati!» A quelle parole sorse un mormorio generale. «Oh Signori, oh Signori, esclamai alzando la voce, è la mia volta a parlare; prego il signor Presidente ad avere la bontà di conservarmi la parola; che mai fu più necessaria!» – «È vero, è vero,» dissero quasi tutti i Giudici ridendo; «silence».

Mentre erano occupati ad esaminare le prove ch'io avevo prodotte, fu introdotto un nuovo prigioniero, e condotto innanzi al Presidente. «Era ancora un Prete», che dicevano di avere scovato nella cappella. Dopo pochissime domande: «À la Force!» Egli gettò il suo breviario sulla tavola: lo spinsero fuori e lo massacrarono. Io ricomparvi innanzi al Tribunale.

«Voi non fate che dirci», esclamò uno dei Giudici, con un tono d'impazienza, «che non siete questo, non siete quello; ma infine che siete voi?» «Io fui un aperto Realista». – Sorse un mormorio generale, che fu miracolosamente sedato da un altro di quegli uomini, che aveva mostrato di prendere interesse a me. «Noi non siamo qui per giudicare delle opinioni», egli disse, «ma per giudicare dei loro risultati». Se Rousseau e Voltaire, in un sol uomo, avessero perorato in mio favore, avrebbero forse potuto dir meglio? – «Sì, Signori», gridai, «sempre, fino al dieci Agosto fui un aperto Realista, ma dal dieci Agosto in poi questa causa è finita! Io sono un Francese fedele al mio paese. Fui sempre un uomo d'onore. I miei soldati mai sospettarono di me. Anzi, due giorni prima del fatto di Nancy, quando il sospetto sui loro ufficiali avea raggiunto il colmo, scelsero me a comandante, per condurli a Lunéville, a riprendere i Prigionieri del Reggimento Mestre-de-Camp, e per impadronirsi del Generale Malseigne». Per grande fortuna, questo fatto può confermarlo un individuo presente mediante un contrassegno veridico.

«Terminato questo incrocio di domande, il Presidente si tolse il cappello, e disse: «Io non veggo nulla che faccia sospettare quest'uomo; e opino che lo si debba mettere in libertà. È questo il vostro voto?» Tutti i Giudici risposero: «Oui, oui; è giusto!»

Seguirono evviva dentro e fuori, «scortato da tre», fra applausi e abbracci: così Jourgniac sfuggì dal processo e dalle fauci della morte. Maton e Sicard, o per non provata reità, giacchè il macilento Presidente Chepy «non trovò assolutamente nulla»; o per l'evasione, o per nuovi favori del bravo orologiaio Moton, sfuggono entrambi. Furono abbracciati piangendo, e piansero alla loro volta, e n'era il caso.

Così, tutti e tre, meravigliosa trilogia, o triplo soliloquio; esprimendo simultaneamente, nelle terribili veglie notturne, i loro notturni pensieri, li fanno udire a noi! Quei tre hanno potuto fare udire la loro voce; gli altri milleottantanove, di cui duecentodue preti, ebbero anch'essi pensieri notturni, ma restano silenziosi, immersi per sempre nel buio della morte. Uditi soltanto dal Presidente Chepy e dall'uomo in grigio!

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