CARLO dal fondo. Detti.
Carlo. ― Egisto, avrei da dirti due parole; lasciaci un momento, Agnese, se ti annoia sentir parlare di affari.
Egisto (sottovoce ad Agnese). ― Che sia già il momento della stoccata?
Agnese. ― Lascia parlare il tuo cuore! (via dalla sinistra)
Egisto. ― (Lo credo io!... risponde picche!) Dunque c'hai proprio un discorsino che non puoi tenere in corpo?
Carlo. ― Egisto, tu mi hai mille volte protestato di essermi più che parente, amico.
Egisto. ― Se non desideri altro, seguito a protestare io.
Carlo. ― Senza scherzo, tu sai che la Casa Richard di Marsiglia mi deve pagare fra tre mesi la somma di oltre sessantamila lire pattuita per gli argani di cui ho incominciato a spedire una parte. Ora, sebbene io sia sicuro di questo pagamento che mi porrà in grado di attendere ad ogni impegno, vorrei tuttavia, per fare il lavoro con quella esattezza che è impossibile col coltello alla gola delle cambiali, che tu m'imprestassi, sopra ipoteca di privilegio, quarantamila lire.
Egisto. ― Quelle che tengo nel mio portafoglio... (Sorella profetessa!)
Carlo. ― E ciò per quel termine ed a quell'interesse che a te piacerà fissare, poichè fino dal primo del prossimo agosto io ti posso pagare con gli argani.
Egisto. ― Abbi pazienza; ma nemmeno cogli argani me li pigli! (Questo è stato facile).
Carlo. ― E perchè? Là, francamente, senza riguardi.
[78] Egisto.― (Questo sarà più difficile!) Senti, mi fu detto, non lo dico io, che la tua officina non può reggere un'ipoteca di quarantamila lire.
Carlo. ― Tu scherzi: non hai inteso che Faustini finiva or ora per offrirmi sessantamila lire della sola società?
Egisto. ― La cosa è ben diversa: Faustini è un industriale, può arrischiare, mentre io... E poi ho quasi deciso di fare un imprestito ad un'opera pia, e di comprare delle cartelle coi premi. Tu non puoi darmi altre guarentigie, e premii poi... Parliamo dunque d'altro.
Carlo. ― Senti, Egisto, dacchè sono tornato dall'estero, dacchè mi sono gettato nell'industria, io non ti ho mai parlato dei miei progetti.
Egisto. ― Questa giustizia te la rendo volentieri: tu hai subito capito che... io non avrei mai capito, e mi hai sempre risparmiato il racconto... Dunque parliamo d'altro, bravo.
Carlo (ridendo). ― Ma oggi non la scappi più!
Egisto. ― Oh Dio! E non si può davvero risparmiare questa bella istoria? No? Pazienza! Ma posso almeno sedere? (Carlo gli porge una seggiola) (Sentiamo l'eloquenza del bisogno).
Carlo. ― La mia officina mi costa centotrentamila lire; ma un altro non la fabbrica con duecento mila, perchè quella la ho fatta io pietra su pietra, coll'esperienza lasciatami da mio padre, col frutto dei miei studi e dei miei viaggi, e colla sollecitudine di chi spende tutti i suoi risparmi... ho fatto dei risparmi da ufficiale, non dico di più! Ma perchè ho resistito alla indifferenza dei concittadini, alla tepidezza degli amici, alla ostilità di qualche parente? Perchè non mi contento di vegetare coi ferri di vergella, o, per dir meglio, perchè mi sono gettato in questa impresa?
Egisto. ― Non l'ho mai capito, e non lo capirò mai, te l'ho detto.
Carlo. ― Perchè ho fede nella mia invenzione, fede nell'industria nazionale. Tu forse non hai mai pensato ciò che mi insegnano quei due ritratti di Franklin e di Ghiberti?
Egisto. ― Non meravigliartene; penso così di rado io!
Carlo. ― Il Franklin m'insegna il lavoro, il risparmio, ed il Ghiberti che per fare le porte del Battistero dovette [79]lavorare ventitrè anni. Egli era un genio, e fece le porte del Paradiso. Se io non sono un genio, la colpa non è mia; ma se dopo la mia morte si dirà che ho fatto il mio dovere come uomo e come cittadino, a me pare che avrò spesa bene tutta la vita.
Egisto. ― (Che brav'uomo!) Si può essere d'opinione diversa, ma non si può negare la propria ammirazione per tanto coraggio e per tanta fede. Ne hai per tutti e due tu.
Carlo. ― Sì, fede, sopratutto fede, perchè io sono di quegli ottimisti a tutta prova, che credono alla libertà ed al progresso. Dopo pochi anni di lotta, molti si accasciano stanchi e sfiduciati. Lo credo io, non hanno sognato e tentato che per distruggere! A noi invece è cresciuto l'animo, e ci accingiamo, non più alla sterile lotta che demolisce e non rifà, ma alla grande e feconda opera dell'edificare.
Egisto. ― Bravo e Dio t'aiuti. Vuoi intanto una presa?
Carlo. ― Mi studierò di essere brevissimo.
Egisto. ― Benone.
Carlo. ― O io non capisco nulla, o i mali più funesti alla nostra industria sono indifferenza nelle classi elevate ed ozio ed ignoranza con tutte le loro conseguenze nel popolo.
Egisto. ― Povera gente! Ma che conti adunque di fare?
Carlo. ― Provare, io di famiglia patrizia, alla classe elevata che invece di tenere il suo capitale sott'olio in cantina, lo può affidare con vantaggio all'industria...
Egisto. ― Bravo!... parla del capitale.
Carlo. ― Ma non possiamo avere industria col solo capitale, ci vuole la mano d'opera.
Egisto. ― Peccato!
Carlo. ― Non basta il principale; ci vuole l'operaio attivo, intelligente, sicuro; e per averlo tale, bisogna sollevare il popolino dalla miseria morale e materiale in cui giace, instillandogli il sentimento della dignità e l'istruzione dei suoi doveri.
Egisto. ― Senti; il popolino, anche quello che lavora, è cascato nelle grinfe dei sobbillatori della piazza: anzi, mi pare già di vedere in aria i nuvoloni della tempesta... Scappa!!
Carlo. ― Bravi! per vincere la tempesta non trovate nulla di meglio che fuggire od evitare di parlarne! Andarle [80]incontro bisogna, far dieci passi quando lei non ne fa che cinque; guardarla bene in volto, e vedere se l'ignoranza, l'ozio, l'invidia e la torbida ambizione che la guida siano più potenti della scienza e della libertà!
Egisto. ― Sì; ma ne sento dir tante degli operai, delle loro pretese senza fine e dei loro disordini!
Carlo. ― Bisogna anzitutto separare i lavoratori dagli oziosi e dai loro avvocati, e poi si vedrà che il vero operaio è assai migliore della sua fama. Senti: io il nostro popolo non l'ho studiato nei libri; ma in lui istesso, soldato, agricoltore od artigiano, e perciò posso parlarne con amore come senza adulazione. Degli operai io ne ho di tutte le provincie, e se tutti hanno difetti, hanno tutti belle virtù, e anzitutto un gran buon senso. Il nostro toscano patisce un po' di fiaccona, ma è quieto, sobrio ed accurato. Il veneziano è un po' ciarliero, ma è svelto. I piemontesi ed i lombardi non sono sempre sobrii e quieti, ma sono molto attivi. Il romagnolo è poco disciplinato, ma è tutt'anima. Il napoletano...
Egisto. ― Indolente?
Carlo. ― Non è vero; il napoletano, quando ha fiducia in chi lo dirige, vale quanto gli altri. Vedi, il nostro paese è tutto migliore di quello che si dice; cioè, intendiamoci, ci sono due Italie distintissime: una piena di rancori, di gelosie, di calunnie, l'Italia dei beceri, dei barabba, dei lazzaroni; la bella Italia in cui per tutto ideale della vita si ha il dolce far niente, per sistema lasciar correre, per patria il campanile; la patria mia e tua, se tralasciamo qualsiasi occasione di dire e di fare che la plebe diventi popolo, e che anche per noi questo sia il primo secolo del lavoro.
Egisto. ― È vero; ma ce n'hai forse un'altra Italia?
Carlo. ― Per mille racchette se ce n'è un'altra! Bambina, veh! che ama un pochino di chiaccherare; ma a scuola ci va tutti i giorni..... che non è festa. Ma è bambina, e, se pensiamo un momento al suo passato, possiamo ben dire che tutti i giorni la fa il suo miracoletto!... Diamo tempo al tempo, e vedremo che l'avvenire darà ragione agli uomini che credono alla libertà e si affaticano a colmare gli abissi che il passato ci scavò d'intorno. Noi non saremo più; che monta? Ci saranno i nostri figli!
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