intorno alle cose che stanno in su l'acqua o in quella si muovono.
Volendo dar principio alle mia Considerazioni intorno a quello che scrive il Sig. Galileo delle cose che stanno in su l'acqua o in quella si muovono, mi è paruto conveniente prima proporre le parole del suo trattato, e di poi, discorrendovi sopra, dimostrare quanto vagliano contro d'Aristotile. Imperciochè così adoperando, con più agevolezza il lettore potrà considerare chi di noi più alla verità s'avvicini; oltre a che mal si dubiterà della vera relazione, come, se per altre parole si referissono, far si potrebbe. Cominciando, dunque, dalla prima origine del Discorso del Sig. Galileo, alle mia Considerazioni intorno di esso, secondo il dato ordine, darò principio. Dico dunque che, trovandomi... Conchiusi... [pag. 65 lin. 29 – pag. 66, lin. 15] |
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L'origine del suo Discorso fu, secondo che dice, un ragionamento ch'egli ebbe con alcuni letterati intorno alla condensazione, nel quale un di loro affermò, quella essere proprietà del freddo, come si vede nel ghiaccio; la quale sperienza, benchè paia verissima, tutta volta fu negata dal Sig. Galileo. Veggiamo ora se a ragione. Egli non è dubbio alcuno che i semplici elementi si condensano dal freddo, e dal caldo si rarefanno; il che nella generazione dell'acqua e dell'aria sensibilmente apparisce. Si potrebbe a ragione dubitare delle saette, dove pare che il freddo abbia virtù di generare il fuoco, che è il più sottile degli elementi: la qual cosa non avviene per natura del freddo, ma sì bene per cagione accidentale; conciossia che il freddo, condensando le nugole, di tal maniera unisce le esalazioni calde e secche le quali per entro le nugole se ritrovano, che elle ne divengono sottilissimo fuoco. Il contrario effetto apparisce nella gragnuola, nella quale sembra che 'l calore abbia virtù di condensare. I quali accidenti avvengono per lo circondamento de' contrarii, da' Greci chiamata α̉ντιπερίοτασις. Adunque se il ghiaccio è rarefatto, come il Sig. Galileo afferma, sarà di necessità rarefatto dal calore, non potendo questo tale accidente il freddo di sua natura generare, generandosi il ghiaccio di semplici elementi, e non potendosi il circondamento de' contrarii in tal cosa adattare. Non credo sia per essere alcuno che abbia, negando il senso, a dire il ghiaccio esser generato dal calore, essendo egli prodotto ne' più freddi tempi del verno, nel quale ogni calore nel nostro emisferio quasi è mancato; e se pure si trovasse, molto sarebbe lungi dal vero: imperciochè uno agente, operando secondo la sua natura, non può in un medesimo oggetto esser cagion d'effetti contrarii; adunque se il calore liquefacendo corrompe il ghiaccio, sarà impossibile che egli lo possa generar congelando. Perchè è manifesto, il ghiaccio essere dal freddo condensato, e non dal calore rarefatto. Ci resta ora a dimostrare le soluzioni de gli argomenti del Sig. Galileo. Diceva egli che la condensazione partorisce diminuzion di mole e agumento di gravità, e la rarefazione maggior leggerezza o agumento di mole; al che s'aggiugne che le cose condensate maggiormente s'assodano, e le rarefatte si rendon più dissipabile: li quali accidenti nell'acqua non appariscono; adunque il ghiaccio non condensato, ma rarefatto, doverrà dirsi. Imperciochè il ghiaccio, essendo generato d'acqua, doverrebbe essere più grave di quella, dove che egli più leggieri apparisce, galleggiando per essa; ed è ancora, secondo il Sig. Galileo, molto maggiore di mole dell'acqua ond'e' si produce. E per potere più agevolmente rispondere a queste ragione, notisi che l'aria racchiusa nelle materie che di lor natura nell'acqua hanno gravità, suole renderle più leggieri che non è l'acqua, onde elleno fuor di natura in essa galleggiano. Segno ne sia la pomice, che, essendo di terra e perciò grave, per l'aria che dentro vi si racchiude, nell'acqua galleggia; dove, riducendola in polvere, l'aria se ne vola via, ed ella perviene al fondo dell'acqua. Onde diceva Teofrasto, che sono dell'isolette nel mare Indico, che per questa cagione galleggiano sopra l'acque. La qual cosa perchè non abbia da molti, che non danno fede alle fatiche de' valent'uomini, a essere riputata favolosa, mi piace nella nostra Italia, non meno dell'altre provincie di gran maraviglia ripiena, addurne verace esperienza. È dunque nella Campagnia di Roma vicino a Bassanello un lago, di Bassanello appellato, l'acqua del quale nell'azzurro biancheggia, anzi è simile al color verde, nel quale si veggono molte isolette coperte di verdeggianti erbette, che nuotano sopra l'acqua in guisa di navicelle. Questo, come afferma fra Leandro nella sua Italia, è quel lago che da Plinio primo e secondo di Vadimone fu detto, che delle medesime isolette fanno menzione; le quali, per altra cagione non si deve credere galleggiare, se non perchè di pietra spungnosa sono composte. Adunque è manifesto che l'aria racchiusa nelle materie che hanno gravità, può esser cagione, che elleno sopra l'acqua galleggino, quantunque più gravi di essa. Il che essendo verissimo, dico che, congelandosi il ghiaccio, per entro vi si racchiude alcuna piccola porzione d'aria. Segno ne sia molte bolle e sonagli, li quali si veggono nella superficie del ghiaccio, e ancora, quantunque molto minori, dentro a qual si voglia particella di esso, ancorchè benissimo condensata. Laonde a chi diligentemente considera a quella quantità d'aria che nel ghiaccio si racchiude, agevolmente si accorgerà, el ghiaccio non essere più leggieri della materia della quale egli si produce. Onde adviene che egli nell'acqua soprannuoti. Il simile si può dir della mole: imperciochè se si vedesse l'aria e l'acqua che concorrono a comporre il ghiaccio, ci accorgeremmo che molto minor luogo dal ghiaccio che da quelle viene occupato. Al che s'aggiugne che molto più si uniscono le cose umide che l'aride; onde il ferro, benchè sia di più terrestre materia che 'l pionbo, e perciò dovrebbe esser più grave, non dimeno, perchè le particelle del piombo essendo più umide e per questo più unite, in gravità da quello è superato; la qual cosa nel ghiaccio ancora potrebbe seguire. Adunque è manifesto che le ragioni del Sig. Galileo non a bastanza dimostrano, il ghiaccio esser acqua rarefatta; e maggiormente perchè la terza condizione che nel condensare si ricerca, molto gli contraddice; e questa è, che le cose nel condensarsi molto più sode divengano, il che nel ghiaccio sensibilmente si vede. Quanto a quello disse quel litterato, il ghiaccio galleggiava per la figura, ne lascerò bello e la cura a lui, non mi curando di tor la briga a chi molto ben si può da per sè difendere. Potrebbe, adunque, parere che 'l Sig. Galileo alquanto nella primiera origine del suo Discorso dalla verità s'allontani, affermando il ghiaccio essere acqua rarefatta, dove egli sensibilmente si vede esser acqua condensata. |
Arist., ter. lib. delle Meteore, al princ. Arist., quarto delle Meteore, cap. 2, somma seconda. Arist., 2 lib. delle Meteore, som. 3, cap. 2. 4 lib. delle Meteore, cap. 2. somma 2. Aristotile, 4 delle delle Met., cap. 3, som. 2. Arist. 4 della Fisica tes. 85. Arist. 9 delle Fisica, tes. 85. |
Conchiusi per tanto... E per procedere [pag. 66 lin. 15 – pag. 67, lin. 3] E tanto maggiormente pare sia lontana dal vero l'universale conclusione fatta dal Sig. Galileo, la figura non essere cagione in alcun modo di stare a galla o in fondo: imperciochè, come per lo senso apparisce e come dimostrerremo, di qual si voglia materia, ben che gravissima, si può, riducendola in figura piana, comporne una mole che galleggi sopra l'acqua. È ben vero che tal cosa c'indusse a credere, oltre alla sperienza, il vedere che la diversità delle figure altera grandemente il movimento de' corpi dove ella si ritrova; onde la figura si riduce a tanta anpiezza e sottigliezza, che non solo ritarda le cose che nell'acqua discendono, ma ancora le quieta sopra di quella. Il che, quantunque il Sig. Galileo stimi falso, si vedrà per ragion vivissime esser vero, mentre si considereranno nel suo Discorso tutte le ragioni addotte dall'una e dall'altra parte, e di più quelle che egli di sua invenzione adduce: le quali d'ogni intorno considerate e addottone le vere dimostrazioni, potrà da esse prender quell'utile ch'egli desidera, cioè di venire in cognizione della verità, la quale sino ad ora da lui per falsità è tenuta; mentre le sue ragioni più apparenti che vere saranno riprovate. E per procedere... cercherò di mostrare, [pag. 67, lin. 3-16] |
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Molto bene discorre il Sig. Galileo, proponendo di voler dichiarare la vera e natural cagione dell'ascendere alcuni corpi nell'acqua e in quella soprannotare, e del discendere in essa e in quella rimaner; imperciochè da questo si debbe trarre la solution di questa nostra difficultà. E se quello ha veduto in Aristotile non lo quieta, forse dello stesso Aristotile tali ragione e dichiarazioni gli proporremo, che appieno gli daranno soddisfazione. E venendo a considerare la cagione del Sig. Galileo, la quale è che le cose vanno al fondo per esser più gravi dell'acqua, e in quella all'insù si muovono spinte dalla maggior gravità di essa, affermo questa sua dimostrazione parere alquanto manchevole. Imperciochè, dovendosi dimostrare gli accidenti del propio e naturale suggetto, nel quale eglino naturalmente si ritrovano, fa di mestiero, volendo assegnar la cagione del movimento al centro e alla circunferenza, e della quiete che segue nell'acqua, il considerargli primieramente negli elementi dove naturalmente si ritrovano, e non insieme in quelli e ne' conposti: altrimenti non si farebbe la dimostrazione universale, ed erreremmo; sì come di gran lunga errerebbe colui che volesse dimostrar l'affezion del triangulo in genere, che è aver tre angoli eguali a due retti, insieme di esso e dell'equilatero. Adunque alquanto par che si parta dal vero il Sig. Galileo, mentre del movimento de' semplici e de' corpi composti insieme ne assegna la cagione. Secondariamente, la cagione del Sig. Galileo non l'ho in tutto per vera. Imperciochè, ancorchè sia manifesto che la gravità sia cagione che i corpi semplici si muovano al centro, non è già vero che eglino si muovino alla circunferenza spinti dalla maggior gravità del mezzo: e questo, per molte ragioni. La prima è, che essendo quattro gli elementi, i quali sono corpi naturali, fa di mestieri che abbiano quattro movimenti naturali distinti fra di loro. E perchè alcun potrebbe negare che gli elementi fussero quattro, ben che della maggior parte per lo senso apparisca, non dimeno, per maggiore evidenza, l'abbiam voluto mostrare. È manifesto per lo senso che, oltre alle altre qualità, quattro prime nel mondo sullunare se ne ritrovano, cioè caldezza e frigidità, siccità e umidità; dalla cognizion delle quali sei accoppiamenti si producono, cioè caldezza e siccità, caldezza e umidità, frigidità e siccità, frigidità e umidità, e caldezza e frigidità, e umidità e siccità. Li due ultimi accoppiamenti solo sono impossibili, non potendo due contrarii ritrovarsi in un medesimo suggetto; e perciò, rimanendo quattro accoppiamenti di quelli, è necessario costituire quattro corpi naturali, e questi sono i quattro elementi. Imperciochè la terra fredda e secca per lo senso apparisce, l'acqua fredda e umida, l'aria umida e calda: adunque è necessario che si conceda un altro corpo semplice elementare, che il quarto accoppiamento delle prima qualità ritenga, e questo è il fuoco; il quale non altrimenti è come il nostro, che è una soprabbondanza di calidità e siccità, ma sì bene un corpo semplice, di sua natura caldo e secco. Se dunque sono quattro gli elementi, essendo eglino corpi naturali che per lor natural propietà debbono avere il movimento, sarà necessario abbiamo quattro movimenti naturali distinti, sì come fra di loro sono distinti nelle qualità: ma concedendo solo la gravità assoluta, come fa il Sig. Galileo, non quattro ma un solo movimento naturale ne concederà. A questo s'aggiugne che tutti gli elementi, salvo la terra, stieno nel propio luogo per accidente o sforzati, contro la propria natura e contro a quello che dice il Sig. Galileo. Imperciochè, se tutti gli elementi son gravi e i men gravi sono spinti alla circunferenza da quelli che hanno maggior gravità, ne adiverrebbe che, levando i più gravi, i men gravi di lor natura al centro scendessero; adunque non sono di lor natura nel proprio luogo, ma perchè la maggior gravità ve gli ritiene: come, per esempio, aria che nell'acqua si muove verso la circunferenza, vien mossa dalla maggior gravità di essa; e quando di poi è sopra di quella, doverebbe, come grave, muoversi al centro, ma la sua maggior gravità ve la ritiene. Reducesi adunque da' principî del Sig. Galileo, che, fuori della terra, tutti gli elementi stieno nel propio luogo per accidente: il che apparisce falsissimo. Oltre a di che si ritroverrebbe un movimento che a tutti i mobili fusse fuor di natura: la qual cosa pare impossibile. Imperciochè, se il movimento alla circunferenza a' quattro elementi è fuor di natura, ne seguirà quello essere fuor di natura ad ogni corpo naturale, non potendo il quinto elemento, cioè il cielo, muoversi di tal maniera. Ma chi direbbe giammai che un moto fusse contro natura a un mobile, se non fusse secondo la natura d'un altro? essendo di necessità l'essenziale prima dell'accidentale, e il naturale del non naturale. Di più, non solo nel mondo essere la gravità assoluta, ma ancora la leggerezza, da quello doviamo dire apparirà. Quelli autori che in tal particulare sono approvati dal Sig. Galileo, per due cagioni affermano, la terra assolutamente esser grave: l'una si è perchè ella sempre si muove verso il centro, e l'altra perchè si concentra sotto tutti gli altri elementi. Se dunque il fuoco si moverà sempre verso la circunferenza e sovrasterà a gli altri elementi, per le contrarie ragioni doverrà essere leggieri, come la terra di gravità positiva è grave. Ma che il fuoco sempre verso la circunferenza abbia il suo movimento, sensibilmente apparisce, veggendolo noi non solo per la terra e per l'acqua, ma ancora sormontare velocemente per l'aria. È agevole il dimostrare che il fuoco sovrasti a gli altri elementi: imperciochè un altro corpo, più leggieri e più veloce di esso, per gli elementi sormontare si vedrebbe. Al che si aggiugne esser necessario il ritrovar nuove qualità e nuovi accoppiamenti di esse, per constituire questo nuovo e quinto elemento sullunare. Adunque, andando sempre il fuoco verso la circunferenza e sovrastando a gli altri elementi, ne segue, per le contrarie cagioni, che egli sia leggieri di leggierezza positiva, come la terra di gravità positiva è grave. Finalmente, movendosi la terra e il fuoco a due luoghi contrari, cioè al centro e alla circunferenza, e perciò di movimenti contrarii, fa di bisognio che questi contrarii movimenti abbino contrarie cagioni, non potendo una medesima cagione di sua natura nel medesimo tempo produrre due effetti contrarii. Ma il su e il giù sono contrarii, non solo secondo la vostra posizione, come afferma il divin Platone, ma di propia natura; imperciochè, se i contrarii son quelli che, collocati sotto un medesimo genere, sono al possibile lontani, al certo il su e il giù saranno i primi contrarii, conciossiachè questa diffinizione de' contrarii propriamente a' contrarii del luogo s'adatta, e quindi a gli altri si estende; adunque i contrarii del luogo, cioè il su e il giù, saranno di lor natura contrarii; e perciò i movimenti a quelli, contrarii: onde adiviene, essere impossibile che da due contrarie cagioni non sien prodotti. Si corrobora maggiormente questa ragione, non apparendo in che maniera il movimento al centro abbia ad avere una causa positiva, e quello alla circunferenza privativa. Ma chi, remirando la natura, non vede che quando fa un contrario, un altro simile sempre ne produce? zoppica dunque in questo la natura, non facendo il contrario alla gravità, se nell'altre cose così perfettamente adopra. Dandosi adunque la gravità assoluta, in consequenza seguirà che diamo ancora la leggierezza assoluta. Ma se fusse vero che gli elementi superiori si movessero spinti dalla maggior gravità degli inferiori, ne seguirebbe che più veloce e più agevolmente se moverebbe una picciola quantità di foco dall'aria che una grande: e tutta via segue il contrario, veggendosi sempre più velocemente una gran fiamma ch'una picciola sormontare. Il dire, come molti fanno, che questo adiviene dalla maggior violenza fattale dall'aria, che cerca spignere un suo maggior contrario, è una vanità. Imperciochè, se l'aria, come corpo finito, è di forze finite, è impossibile ch'ella con più agevolezza alzi un corpo grande che un picciolo, avvenga che, come di forze finite, ella, per esempio, può sollevare dugento mila libbre; adunque quanto più ci accostiamo alle 200000 libre, tanto più si affaticherà e sosterrà con minor forza quel peso, dovendosi arrivare a quel termine preciso: e per ciò più agevolmente dovrebbe alzare un peso picciolo che un grande; il che segue al contrario. In oltre, noi veggiamo che tutte le cose che si muovono naturalmente, si muovono più veloci quanto più s'avvicinano al lor centro e al proprio luogo; e quelle che si muovano per violenzia, più si muovano al principio che al fine: adunque doverebbe seguire che il fuoco si moverà più velocemente vicino a terra che vicino al suo centro: ma apparisce il contrario. Di più, se tutti gli elementi si movessino all'in su spinti dalla maggior gravità, ne seguirebbe che vicino al concavo della luna si desse il vacuo: imperciochè se il fuoco è spinto dalla maggior gravità dell'aria, ed egli è grave, ne seguirà che quando egli sarà fuori dell'aria egli più non si muova all'insù, ma al centro, non essendovi la virtù della maggior gravità dell'aria, ma la sua natural gravità; adunque vicino al concavo della luna sarà del vacuo, non essendo chi vi spinga il fuoco. Per le quali cose s'è dimostrato, due essere l'inclinazioni naturali che cagionano il movimento al centro e alla circunferenza, e non una, come afferma el Sig. Galileo: onde è manifesto, la sua cagione imparte esser vera e in parte falsa; vera, quando dice la gravità essere cagione de' movimenti al centro; falsa, mentre egli vuole che il moto alla circunferenza dalla maggior gravità si produca, il quale dalla leggerezza depende. Stabiliscasi, dunque, per verissimo fondamento, che, movendosi gli elementi al luogo proprio, dove ricevono la propria perfezione e la conservazione, ed alcuni abbiano da natura di fermarsi nel centro, alcuni nella circunferenza, altri ne' luoghi di mezzo a questi dalla gravità e dalla leggerezza si muovono. La qual cosa non solo confronta con la natural filosofia, ma ancora con le matematiche discipline, quantunque repugni ad Archimede, quindi a poco vedremo se a ragione o a torto. Per ora, oltre al detto, siami lecito contro a un grandissimo matematico, qual fu Archimede, addurre l'autorità d'un più grande: e questi è l'amirabile Tolommeo, nel libro che egli scrisse de' momenti, referito da Eutocio comentator del vostro Archimede; il qual libro se per la voracità del tempo non si desiderasse, non solo per autorità servirebbe, ma ancora ragion gravissime e degne di Tolomeo in esso si scorgerebbono. Dice dunque Tolommeo, che il genere del momento e dell'inclinazione, alla gravità e alla leggerezza si estende; il che da noi con vivaci ragioni è stato provato. Ci rimarrebbe ora a render la ragion de' corpi composti, che al centro e alla circunferenza si muovono; ma perchè ci sarà migliore occasione, resterò di trattarne. |
Arist., pr. lib. della Posteriora, test. quinto, arg. 1. Arist., pr. del Cielo, test. 7. Arist., pr. del Cielo, test. 5. Arist., 2 della Generazione e della Corruzione, cap. 2, 3 e 4. Arist., 2 della Generazione, cap. 21; pr. Meteore, cap. 4. Arist., 2 del Cielo, cont. 18. Arist., 4 del Cielo, con. 32. Arist., pr. del Cielo, tes. 11, 27, 44, 76. Arist., pr. del Cielo, tes. 4. Arist. Pospredicamenti, cap. de' Contrarii. Arist., pr. del Cielo, test. 89. Arist. pr. del Cielo, 79. |
Io con metodo differente... Io dunque... [pag. 67, lin. 17-26] Avanti che vegniamo a considerare le dimostrazioni del Sig. Galileo, ci è paruto necessario il dimostrare quanto sieno lontani coloro dal vero, che con ragioni matematiche vogliono dimostrare le cose naturali; de' quali, se io non m'inganno, è il Sig. Galileo. Dico, dunque, che tutte le scienze e tutte l'arti hanno i propii principî e le proprie cagioni, per le quali del propio oggetto dimostrano i propii accidenti. Quindi è che non è lecito co' principî d'una scienza passare a dimostrare gli effetti d'un'altra; onde grandemente vaneggia colui che si persuade di voler dimostrare gli accidenti naturali con ragion matematiche, essendo queste due scienze tra di loro differentissime. Imperciocchè lo scientifico naturale considera le cose naturate che hanno per propria e naturale affezzione il movimento, là dove il matematico il proprio suggetto astrae da ogni movimento. A questo s'aggiungne, che il naturale considera la materia sensibile de' corpi naturali, e per quella rende molte ragioni de' naturali accidenti; e il matematico di quella niente si cura. Similmente, trattandosi del luogo, il matematico suppone un semplice spazio, non curando se è ripieno di questo o di quell'altro corpo; ma il naturale grandemente diversifica uno spazio da uno altro, mediante i corpi da che viene occupato, onde la velocità e la tardità de' movimenti naturali adiviene. E benchè il naturale tratti delle linee delle superficie e de' punti, ne tratta come finimenti del corpo naturale e mobile; e il matematico, astraendo d'ogni movimento, come passioni del solido, che ha tre dimensioni. Ma vegniamo a considerare i principi così intrinsechi e così immediati del Sig. Galileo, da' quali dependon le cagioni de gli ammirandi e incredibili accidenti; dalla difinizione de' suoi termini incominciando. |
Arist., pr. della Posteriora. Simplicio, 2 della Fisica, com. 11. Arist., nel 2 della Fisica, tes. 16. |
Io dunque... Diffiniti questi termini... [pag. 67 lin. 26 - pag. 68, lin. 9] Quanto alla prima descrizione, che due pesi di mole equali, che equalmente pesino, sieno equali di gravità in ispecie, cioè, mi credo io, che sieno d'una medesima spezie di gravità; il che se così è, non è al tutto vero: imperciochè si può ritrovare un solido di terra equale a un solido di qualche misto, che pesino equalmente; tutta volta non sono della medesima spezie di gravità, come di sotto diremo. Nella seconda descrizione, cioè che due solidi diseguali di moli, eguali di peso, sieno eguali di gravità assoluta, il Sig. Galileo non si serve di questo termine assoluta nè, come Platone e gli altri antichi che egli fa professione di seguitare, nella nostra favella s'usa: imperciocchè Platone chiama quella gravità assoluta, che per tutti i luoghi è cagione del movimento al centro e sotto tutte l'altre gravità si profonda; e Dante, il divin poeta, se ne serve per contrario di respettiva: «Voglia assoluta non consente al danno». |
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Quanto alla terza definizione, del più grave in ispecie, dicendo esser quello che un corpo equale di mole pesa più, par che si sia alquanto ingannato: primieramente, perchè si può dare due moli di terra equali fra di loro, le quali per essere l'una più densa dell'altra pesi più; non per questo sarà più grave in ispecie, conciosiacosa che amendue vadano al medesimo centro e perciò eguali in gravità di specie: secondariamente, perchè due moli di terra, diseguali e di peso e di mole, sono della medesima specie perchè vanno al medesimo centro, e non, come dice il Sig. Galileo, son fra di lor più gravi in ispecie. Dove fa di mestiero notare, che il Sig. Galileo non ha distinto la maggiore e minor gravità in numero da quella che in specie si chiama: imperciochè due particelle di terra equali di peso e di mole sono della medesima gravità in numero, movendosi al medesimo centro e con la medesima velocità; là dove due particelle di terra disequali e di mole e di peso, o solo di peso, se bene andranno al medesimo centro, tutta volta avranno disaguaglianza di velocità. Quello si è detto del grave assoluto, si può replicare del più grave assoluto, cioè che 'l Sig. Galileo s'è servito male della dizzione assoluta. Ma per dimostrare in che guisa si debano descrivere questi termini descritti dal Sig. Galileo, siemi lecito alquanto di digredire. Dico, dunque, che se la gravità in genere è una inclinazione del mobile a moversi al centro, dalla quale due spezie derivano: gravità semplice, e gravità a predominio. La gravità semplice ne gli elementi si ritrova, e in tal maniera si chiama perchè dalla semplice natura de gli elementi depende, che in altre due spezie si dirama: gravità assoluta e respettiva. Assoluta è quella che in tutti i luoghi è cagione del movimento al centro, e sotto le altre gravità si ritrova, come la gravità della terra; respettiva, quella che non in tutti i luoghi cagiona il movimento al centro e ad altre gravità sovrastà, come quella dell'acqua: la quale ancora in altre due spezie si divide, cioè gravità respettiva ad un luogo, come quella dell'acqua, e a più luoghi, come quella dell'aria. Quella divisione che della gravità semplice si è fatta, si può adattare alla gravità a predominio. Si dee bene avvertire che molta differenza si ritrova fra queste due gravità: imperciochè, come si è detto, la semplice dalla semplice natura de gli elementi depende, là dove quella a predominio dalla mistura de' quattro elementi si genera. E perciò, essendo nel misto i quattro elementi, sempre quello che sarà a predominio terreo sarà men grave della terra, se bene fussino equali di mole, quantunque per accidente, come nell'oro e nel piombo, altrimenti adiviene; ma segue questo, perchè mediante l'umido le parti terrestre si condensano, di maniera che in equal mole di piombo sono più parti terrestre che nella terra semplice non si ritrovano, onde quelle possono contrappesare quelli elementi leggieri che sono nel misto. Segno ne sia di ciò, che levando via l'umido, la materia del piombo divien più leggieri della terra, come nella schiuma di esso, struggendolo, apparisce. Da questo nostro discorso ottimamente si può descrivere i termini definiti dal Sig. Galileo. Quello che egli chiama grave assoluto, si dee chiamare grave in genere; e più grave e men grave assoluto, più e men grave in genere. Equalmente grave in ispezie chiamerò quelle cose che, di qual si voglia mole, si moveranno al medesimo centro, come in ispezie di gravità assoluta egualmente saranno gravi tutte le sensibili particelle di terra, e di respettiva quelle dell'acqua; più grave di spezie, quelle cose che si muovono più verso il centro del mondo, come la terra più grave in ispezie dell'acqua, l'acqua dell'aria, e l'aria men grave dell'una e dell'altra. E egualmente grave di gravità in numero si deon chiamare quei solidi che, essendo equali di mole, sono equali altresì di peso, come una zolla di terra, essendo equale di mole e di peso, sarà della medesima gravità di numero. Più grave in numero può essere in due modi: il primo, quando una mole della medesima spezie e maggiore dell'altra pesa più; il secondo, quando, essendo due moli della medesima spezie, l'una, per essere più densa dell'altra, è più grave. E questo che abbiamo detto della gravità, si può adattare alla leggerezza; il che mi metterei a dimostrare, ma, per non abusar la cortesia del lettore, per brevità lo tralascerò. |
Arist., 4 del Cielo, tes. 26, 27. Arist., 1 del Cielo, tes. 6; 4 del Cielo, tes. 28. Arist., 4 del Cielo, tes. 26, 27, 31, 32. Arist., nel 4 della Fisica, tes. 85. |
Definiti questi termini... Esplicate queste cose... [pag. 68, lin. 9 – pag. 69, lin. 28] A questi due principii, presi da Archimede nel primo libro del Centro della gravità, si dee aggiugnere, volendogli adattare alle cose naturali, che lo spazio per lo quale si deono muovere i mobili sia ripieno del medesimo corpo. Imperciochè, se una bilancia si dovessi muovere per l'aria e l'altra per l'acqua, è impossibile ch'elle si muovano nel medesimo tempo per ispazii eguali, per la maggiore e minore resistenza del mezzo che occupa i sopraddetti spazii. La qual cosa quando dal Sig. Galileo s'aggiugnerà, saranno questi suoi principii verissimi; e perciò facilmente da me si concederebbono, quantunque Aristotile avesse detto il contrario, riguardando alla verità delle cose e non alla autorità di Aristotile. Quanto alla nuova aggiunta, nella quale il Sig. Galileo dichiara quello significhi momento, pare sia alquanto manchevole, non ci numerando una significazione ch'al suo discorso faceva più di mestiero: e questa è, che 'l momento denota quella potenzia e quella abilità naturale che hanno i mobili a esser mossi, sì come la gravità e la leggerezza al moto de gli elementi; la qual significazione non solo è in uso appresso Aristotile e Platone, ma appresso i vostri meccanici, conciossiachè Eutocio ne' comenti de' libri d'Archimede si serva di questa significazione, dicendo: «Il genere del momento, Aristotile e Tolomeo, che l'ha seguitato, dicono che non solo s'appartiene alla gravità (come vuol Platone), ma alla leggerezza ancora». |
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Esplicate queste cose... Ma perchè tali cose... [pag. 69, lin. 29 – pag. 71, lin. 8] Dice, dunque, il Sig. Galileo che il mobile, quando si muove per l'acqua verso il centro, dee scacciare tanto d'acqua quanto è la propia mole: al qual movimento l'acqua, come corpo grave, resiste: le quali cose pare che abbiano bisognio di gran moderazione. Imperochè dice bene Aristotile che il mobile, profondandosi nell'acqua, dee alzare tanta acqua quanto è la sua mole; ma vi aggiugne: «se però l'acqua e quel mobile non si costiperanno insieme»: e quindi avviene che molti solidi nel sommergersi nell'acqua non alzeranno la ventesima parte di essi, altri più e altri meno, secondo che fra di loro s'uniranno. Quanto alla resistenza che fa l'acqua a quel movimento, quando si alza sopra il propio livello, ch'ella fusse molta non torrei io già a sostenere. Imperciocchè, se bene l'acqua al movimento all'insù, come corpo grave, è renitente, tutta volta in questa nostra azione ella non muta in tutto e per tutto luogo, ma sì bene ne perde alquanto di sotto e altrettanto n'acquista per di sopra; ed essendo ella di sua natura corpo atto ad essere grave e leggiero, quando è nel propio luogo, come di sotto diremo, può da ogni minima forza esser mossa al centro e alla circunferenza: il perchè ella a questo movimento pochissimo resiste. La qual cosa vien dimostrata da sensibile esperienza, che una gran massa di cenere, che nel sommergersi nell'acqua alza il suo livello poco o niente, doverebbe muoversi più velocemente d'altrettanta materia soda, anzi, non avendo resistenza l'acqua all'essere alzata, e non ci essendo, secondo il Sig. Galileo, altra resistenza, muoversi inistante; là dove ella più tardi che altra materia soda e dura si muove. E perciò non si dee far grande stima di questa resistenza, se però nell'acqua si ritrova, nel considerare i movimenti che seguono ne l'acqua. Della quale servendosi il Sig. Galileo, lasciando da parte la vera e natural resistenza de gli elementi, non è maraviglia che alle volte convenghiamo nelle conclusioni e discordiamo nelle cause. |
Arist., nel 4 della Fisica, tes. 76 Arist., 3 del Cielo, tes. 28. |
Ma perchè tali cose profferite... [pag. 71, lin. 8] Seguirebbe ora ch'io considerassi dimostrazione per dimostrazione, e di esso proposizione per proposizione; ma perchè tutte queste sue dimostrazioni son fondate sopra principii falsi, per non perdere tempo invano, ho giudicato esser bene il tralasciare questa fatica. Il che sarà facile il dimostrare. Il primo principio è, ch'egli non fa la sua dimostrazione universale: imperciochè egli dimostra il movimento de gli elementi e de i misti sotto una medesima dimostrazione e per una medesima cagione; la qual cosa quanto sia falsa, abbiamo già detto. Il secondo è, che egli vuol dimostrare le cose naturali con mathematiche ragioni. A questo s'aggiugne, che egli suppone per vero che nel mondo sublunare non sia leggerezza positiva, e che gli elementi si muovono alla circunferenza spinti dalla maggior gravità del mezo. Di più, non vuole che l'acqua, come corpo solido, abbia resistenza all'essere divisa; il che essere falso vedremo nel luogo dove il Sig. Galileo ne tratterà; bastici per ora una sensibile esperienza fatta, dal Sig. Galileo, cioè che con manco forza si muove una mano nell'aria che nell'acqua; onde apparisce, essere alquanto di resistenza e nell'acqua e nell'aria, ma più in quella che in questa. Nel quinto luogo, egli fa grande stima della resistenza dell'acqua all'essere alzata sopra il proprio livello, che non è nulla, e, se pure è, non è sensibile. Il sesto, che egli nel difinire i suoi termini, de' quali si serve in queste dimostrazioni, si parte molto dal vero. Onde faceva molto meglio, in questa sua nuova edizione, a pigliare fondamenti e principii veri, o a dimostrare veri quelli di che si era servito, che accumulare nuove e false dimostrazioni: il che è appunto maggiormente confermarsi nella sua opinione. Essendo, dunque, le dimostrazioni del Sig. Galileo falsissime, come dipendenti da falsi principii, ci resta a dimostrare le cagioni di quei problemi che dal Sig. Galileo son proposti, li quali da noi si debbano addurre per dimostrare che non ci siamo messi a questa impresa non solo per contradire per alcuna malevoglienza o per alcuno lividore di invidia, ma bene per dimostrare la vera ragione delle cose. La cagione onde il Sig. Galileo si è mosso a scrivere queste sue dimostrazioni è stata, com'egli dice, per render la causa onde avviene che dieci libbre di acqua possono reggere cinquanta o cento libbre di peso, verbigrazia una trave che pesi il già detto numero: il che da lui è stato stimato accidente maraviglioso e ragguardevole; e non si è maravigliato in che modo la terra possa sostenere i tre elementi superiori, che quasi infinito l'eccedano, supponendo, secondo la dottrina di Platone, che tutti i corpi sullunari sieno gravi. Tutto quello che sotto il cerchio della luna si muove e si quieta, o è semplice elemento, o mistura de gli elementi. Per qual cagione i semplici elementi al proprio luogo si muovino e in quello si quietino, già si è detto che per la gravità e per la leggerezza hanno questi naturali accidenti. Quindi deve mancare ogni maraviglia, in che modo adiviene che l'acqua sopra la terra si sostenga, essendo per entro quella verso la circunferenza si muova, e l'aria rispetto all'acqua, e il fuoco all'aria: imperciochè, sendo l'acqua leggieri in comparazione della terra, e l'aria all'acqua, e 'l fuoco all'aria, non solo è maraviglia che sopra quelli si quietino e in quelli alla circunferenza si muovino, ma gran stupor sarebbe che eglino al contrario adoperassino. Adunque per una innata inclinazione adiviene che gli elementi nel lor luogo si fermino, e fuor di esso ritrovandosi, a quello si muovino; che in due spezie, gravità e leggerezza, si dirama, l'una delle quali al centro partorisce il movimento e l'altra alla circunferenza. Quello abbiam detto de gli elementi, si può dire de i misti: solo questa differenza ci si può considerare, che la gravità e la leggerezza ne' semplici da la loro natura adviene, e ne i composti da l'elemento che nella mistura ha il predominio; verbigrazia, se l'elemento predominante sarà grave assoluto, il composto anco egli averà la medesima affezzione, in tanto differente quanto nel semplice non vi sarà amista leggerezza alcuna, e nel misto qualche leggerezza, per l'elementi leggieri, sempre vi si troverrà; similmente s'egli è leggieri assoluto o respettivo; e finalmente, quasi nella maniera che sarà il predominante, sarà ancora il misto. Onde agevolmente si deduce la cagione perchè una trave di 500 libre sarà sostenuta e sollevata da 10 libbre di acqua: imperciocchè essendo la trave aerea a predominio, e l'aria nell'acqua essendo leggieri, doverrà la trave, come leggieri, sopra l'acqua di sua natura sollevarsi; solo arà bisognio di tanta acqua, che possa compensare il terreo de gli elementi gravi che nella trave si ritrovano. Questa è la cagione del tanto amirando problema del Sig. Galileo, e dove egli impiegò tanto tempo e tanta fatica. Mi resta bene a me ora un più difficile problema, che, per non lasciare cosa alcuna indietro che alla nostra dubitazione s'appartenga, da me si spiegherà: e quest'è, perchè una trave di cento libbre nell'aria è più grave di gravità in genere che un danaio di piombo, e nell'acqua il piombo divien grave e la trave leggieri. Segno ne sia di ciò, che la trave nell'aria si muove all'ingiù più velocemente ch'il piombo, e nell'acqua il piombo conserva il medesimo movimento e la trave si muove all'insù. Per le explicazione di questo problema si deve avvertire, che nel luogo dell'aria tre sono gli elementi gravi, come di sotto si dimosterrà, cioè terra acqua e aria, ed uno leggiero; là dove nell'acqua due sono i leggieri, aria e fuoco, e due gravi, acqua e terra. Componendosi dunque la trave e il piombo de' quattro elementi, e nella trave prodominando l'aria, che già, secondo abbiàn detto, nel propio luogo è grave, accompagnandosi con gli altri dua elementi gravi, viene a rendere la trave colma di gravità; ma nell'acqua, che l'aria è leggieri, accompagnata dal fuoco, superando di gran lunga i due elementi gravi, divien leggieri: là dove il piombo, nel quale la terra predomina, che in tutti i luoghi è grave, sempre in tutti i luoghi mantien la sua gravità, e perciò nell'acqua e nell'aria si muove al centro; ma nell'aria la sua gravità assoluta, per essere sì poca rispetto alla trave, essendo il piombo un danaio e la trave cento libbre, vien superata da la gravità della trave, e perciò nell'aria si muove all'ingiù più veloce che 'l piombo; e nell'acqua non solo non si muove in tal guisa, ma di contrario movimento. Queste son le cagioni vere ed essenziali del natural movimento e della quiete de i corpi semplici e de i misti di essi, e non quelle che Archimede e il Sig. Galileo adducano, come per molte ragioni già si è dimostrato. Seguirebbe che vedessimo se il Sig. Galileo, come si dà ad intendere, difende Archimede dal Buonamico; ma perchè dalle sue dimostrazioni il Sig. Galileo, impugnando Aristotile, nella prima edizione un corollario contro a di lui ne deduce, e nella seconda, credendo che noi non ce ne fussimo avveduti, ci ha voluto per sua grazia citare il propio luogo. Dice dunque il Sig. Galileo, che una nave equalmente può galleggiare in dieci botte d'acqua quanto nell'immenso oceanno; e perciò, che deve cessare la falsa opinione di coloro che tengano altrimenti, accennando di Aristotile, come egli nella seconda edizione dichiara. Nella qual cosa io desidererei nel Sig. Galileo un poco più di quella modestia filosofica, essendo che egli di tal nome si va adornando e di poi non adopra conforme al nome; il che nondimeno voglio rimettere a miglior giudizio. E venendo alla dubitazione, dico al Sig. Galileo che non solo questa sua opinione è contro d'Aristotile, ma contr'il senso: imperciochè egli in quel problema propone di ricercare la causa, perchè, le navi galleggian più in alto mare che vicino a lito e in porto; il che ad Aristotile era notissimo per esperienza. Onde si deve avvertire, che il voler dimostrare contra il senso è debolezza d'ingegno, che delle cose sensibili è il vero compasso e il vero cognioscitore; e perciò il Sig. Galileo doveva far la esperienza, o addurre altri che l'avessi fatta, e non volere con ragioni mostrare il contrario. Imperciochè quando io veggo una qualche cosa, se uno mi volessi con ragioni dimostrare altrimenti, io gli direi ch'egli vaneggiassi: e tanto maggiormente si può dire in questa dubitazione, quanto ella dalla ragione è accompagnata. Imperciochè essendo l'acqua un corpo continuo, che ha virtù al non esser diviso, come di sotto diremo, più agevolmente si dividerà un picciolo ch'un grande; anzi essendo, come vuole il Sig. Galileo, ancora contigua, più agevolmente si separerà un contiguo picciolo ch'un grande: conciosia che un grande è composto di più parti, e volendo muovere, in dividendolo per il mezzo, le parte del mezzo, sarà necessario che quelle muovino le seguenti; onde, essendo più parti in un grande, ci vorrà maggior forza, ed egli arà maggior virtù, e perciò sosterrà più ch'un picciolo. Adunque il Sig. Galileo potrà fare la contraria esperienza, e in quella maniera cesserà la falsa opinione d'Aristotile; altrimenti seguirà al contrario, che da tutti, mi credo io, sarà la sentenzia di Aristotile estimata verissima, e falsa quella del Sig. Galileo. Queste, dunque, sono le vere cagioni de i movimenti e delle quiete naturali che si fanno nell'acqua; onde dirittamente, s'io non mi inganno, fu ripreso Archimede dal Sig. Francesco Buonamico nel 5° libro del Moto, cap. 29. Ma veggiamo se bene dal Sig. Galileo si difende. |
Arist., pr. del Cielo, cont. 7. Arist., 4 del Cielo, tes. 29. Arist., pr. del Cielo, tes. 30. 39. Aristotile, 4 della Metaf. cont. |
Ma perchè tal dottrina... Lascia... [pag. 80, lin. 9-15] Era ben ragionevole ch'il Sig. Galileo difendesse Archimede, come quello che seguitava la sua oppinione, ma non perchè l'autorità del Buonamico, filosofo veramente celebre de' nostri tempi, potesse render dubbio il parere d'Archimede, che al certo è tanto esquisito e celebre matematico quanto egli filosofo, e forse più, ma perchè le sue ragioni ciò arebbono potuto adoperare. |
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Lascia il Buonamico... Questo è quello... [pag. 80, lin. 15 – pag. 81, lin. 9] Notisi dal Sig. Galileo, che le ragioni che dal Sig. Francesco Buonamici sono addotte, non sono tutte contro ad Archimede, ma alcuna di loro è principalmente contro a Seneca: il che dimostrano e le parole di esso nel fine del capitolo antecedente, nelle quali egli riferisce l'oppinione di Seneca circa a un problema, onde avveniva ch'uno stagno in Siria si ritrovava, nel quale non si possano profondare i mattoni, ancor che vi fussero gettati dentro, e il principio di questo capitolo, dicendo: Verum libet hic paulisper immorari, et causas a doctissimis viris allatas diligentius explorare. Si deve avvertire di più, che queste ragioni sono tre, e non quattro come vuole il Sig. Galileo: imperciochè quello che il Sig. Galileo mette per il primo argumento, non è argumento alcuno, ma un semplice parere del Buonamico intorno alla doctrina d'Archimede e d'Aristotile, dicendo che non gli pare che la dottrina d'Archimede confronti con quella d'Aristotile; ma non per questo lo biasima o impugna. E per ciò, replicando alla risposta del Sig. Galileo, dico ch'egli era benissimo manifesto al Buonamico che l'essere solo discorde la dottrina d'Archimede da quella d'Aristotile non dee muovere alcuno ad averla per sospetta, essendo, per testimonio d'Aristotile, a tutti notissimo che nel ricercare la ragione delle cose che egualmente sono esposte all'intelletto di ciascheduno, l'autorità perde ogni autorità; onde egli soggiugne ragioni che possono persuadere tal cosa a ogni purgato ingegno. È dunque la prima ragione, che egli pare inpossibile che l'acqua superare la gravità della terra, essendo chiaro che l'acqua divien più grave per la participazione di essa. Secondariamente, dice che le sopradette ragioni non gli sodisfanno, se si vuol render la cagione per che un vaso di legno e un legno che di sua natura stia a galla, quando è ripieno d'acqua se ne vadia al fondo. Nel terzo luogo, che Aristotile ha chiaramente confutato gli antichi, che dicevano che il movimento dei corpi leggieri al propio luogo si faceva dalla pulsione degli elementi gravi, donde ne seguiva necessariamente che tutti corpi fussino gravi secondo la natura. Di poi soggiugne non so che della pulsione, della parte della terra; la quale, perchè poco importa alla nostra dubitazione e perchè non s'impugna dal Sig. Galileo, ho giudicato bene il tralasciarla. |
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Questo è quello... però passo... [pag. 81, lin. 9-22] Queste son le ragioni ch'il Buonamico adduce contro ad Archimede e contro a Seneca. Non so già con che ragione dica il Sig. Galileo, che il Buonamico non si è curato d'atterrare i principî d'Archimede e le sue supposizioni, ma solo addurre alcuni inconvenienti alla dottrina d'Aristotile, s'egli adduce Aristotile che tutti questi principî d'Archimede aveva atterrati: anzi quando egli dice che Archimede vuole, gli elementi superiori si muovessero all'insù dall'elementi più gravi, non adduce egli inconvenienti alla natura? essendo manifesto che dalla lor leggerezza si muovono. Il che a ragion potrei bene io dir d'Archimede e del Sig. Galileo, che negli elementi tolgono la leggerezza positiva o il movimento naturale all'insù: e non dimeno avanti a loro era stato Aristotile, ch'altrimenti aveva dimostrato; imperciochè Aristotile visse sino alla cenquattordici Olimpiade, regnando nella Grecia Antipatro, l'anno 3660 dalla creazion del mondo; ed Archimede visse sino al terzo anno dell'Olimpiade 141, essendo consolo Marco Marcello, l'anno 3771: con tutto ciò eglino non impugnano i suoi principî, che è necessario sien falsi, se è falsa la sua dottrina. |
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però passo... [pag. 81, lin. 22] Venendo, dunque, alla prima ragione, cioè alla repugnanza che l'acqua sia più grave della terra; la quale senza dubbio alcuno è detta principalmente contro a Seneca, che avendo narrato che in Siria si ritrovava uno stagno dove i mattoni non si possano affondare, diceva ciò avvenire perchè quell'acqua era più grave della terra; il che il Buonamico l'ha per inconveniente, sì come ancora afferma il Sig. Galileo, vedendo noi che l'acqua divien più grave mescolandosi con la terra. Anzi è inconseguenzia contro d'Archimede: imperciochè se è vero quello ch'egli suppone, che le cose restano di sopra l'acqua per essere più leggieri che essa non è, i mattoni, che son di terra, fanno questo effetto: adunque la terra galleggia, che è più legieri: perciò può il Sig. Galileo assua posta lasciare la doctrina d'Archimede, come falsissima. Questa, dunque, è la maniera di dedurre questa consequenzia del Buonamico, e non quelle del Sig. Galileo. La qual cosa essendo stata detta a certi mia amici e padroni, fu riferita al Sig. Galileo; onde egli nella seconda edizione risponde che questo effetto è per suo creder favoloso, e perciò non è, non essendo in rerum natura, contro ad Archimede. Il che mi dà segno d'uomo forse troppo vago di contradire; imperciochè se noi non vogliamo credere agli autori degni di fede, come sono Seneca, Aristotile, Plinio, Solino e altri, fa di mestiero che vediamo le cose essere altrimenti, e non dire: «Io l'ho per favolose», non sapendo d'esse cosa alcuna. Non direi io già che l'acqua di quel lago della Siria non sia acqua del comune elemento: imperciochè se differenza alcuna ci è, è solo accidentale, essendo ella più viscosa dell'altre; sicome l'acque dei bagni e l'acqua del mare non si dee dire che non sieno acque del comune elemento, quantunque quelle abbino molte qualità diverse, e questa sia salata e più grossa. Quale è dunque questo doppio errore del Buonamico, poichè dai principi d'Archimede si deduce questa consequenza, e Seneca, che adduce questa sperienza, la dice dell'acqua del comune elemento? Diciamo, dunque, che i mattoni si quietano sopra quel lago della Siria perchè non possano superare la continuità di quell'acqua; imperciochè essendo ella bituminosa, e perciò viscosa e tenace, viene aver tanta virtù, che ella può sostenere e' mattoni in essa gettati. |
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Era la terza difficultà... A quello finalmente... [pag. 82, lin. 34 – pag. 84, lin. 16] Anzi la seconda; che si fonda sopra due esperienzie del Buonamico, cioè che non si può render la ragione, perchè un vaso o un legno, quando saranno ripieni d'acqua se ne andranno infondo, e quando saranno vòti staranno a galla. In rispondendo a questa ragione il Sig. Galileo niega la prima esperienza, e s'io non in'inganno, attorto. Impercioche, sì come dice il Sig. Galileo, si può di legno, che per sua natura galleggi, far barche, le quali ripiene d'acqua si sommergano; il dire che questo adiviene mediante il peso dei ferramenti di che ella è composta, non è intutto sicuro: imperciochè il legno è tanto più leggieri dell'acqua, che può sostenere sopra di essa molto peso, come si dimostra per i foderi, quali si servivano gli antichi in cambio di navi per tragettare mercanzie da luogo a luogo; onde io direi che il ferro di che son composte le barche, non potesse cagionare che elleno si profondassino. Il che vien confermato da una sperienza di cavalieri degni di fede, che nella Germania, nel Danubio, si fanno barche senza ferramenti, le quali, ripiene d'acqua, si profondano. Anzi ho esperimentato io, che preso un vaso di legno e messovi dentro tanto piombo che riduca il vaso all'esquilibrio dell'acqua, che egli ripieno d'acqua se ne andrà affondo, e vòto resterà a galla. Nè si può replicare che egli sia l'aria che lo tiene a galla: imperciochè dividendosi detto vaso, e a ciascuna parte dandogli egual porzione di piombo, tutte stanno a galla; onde apparisce che il vaso sta a galla per la sua leggerezza, e non per quella dell'aria. Anzi, quando la esperienza del Sig. Buonamico non fusse vera, tuttavia il suo argomento resterebbe in vigore: imperciochè, secondo la sentenzia d'Archimede e del Sig. Galileo, l'acqua nell'acqua non gravita; onde non possono render la ragione, onde avvenga che qualche cosa posta nell'acqua, ripiena di essa, pesi più che la materia di che ella è composta: sì come si vede pigliandosi due moli di piombo eguali di peso, l'una delle quali assottigliandola se ne faccia un vaso, entro al quale si possa racchiudere dell'acqua; dico che più pesa quel vaso, che quella materia di che egli è composto. Adunque non è dubbio alcuno che la ragione del Buonamico è verissima, ancorchè la sperienza sia falsa, il che, come si è detto, non pare. Quanto alla seconda esperienza, del legno ripieno d'acqua, che il Sig. Galileo vuole attribuire al discacciamento, che fa l'acqua, de l'aria che è in quel legno, onde quello era leggieri divien grave; deve avvertire, che non solo questo segue di legni assai porosi, ma ancora nella quercia, che è legname molto denso, della quale alcuna volta inzuppata va al fondo, e asciutta se ne sta a galla: ma quando seguisse dei legni molto porosi, non dimeno si deve avvertire che non solo l'aria si parte, che di sua natura è leggieri, ma ancora vi resta l'acqua, che è grave, come si è detto. Adunque il Sig. Galileo e Archimede, che non concedano che l'acqua graviti, non possano render piena ragione di questo accidente. |
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A quello finalmente che viene opposto... S'il vento australe... [pag. 84, lin. 16 – pag. 85, lin. 2] Era la terza ragione del Buonamico, che Aristotile aveva confutato gli antichi, che volevano ch'il movimento de gli elementi leggieri ai suo luogo si producesse dalla pulsione de i più gravi: entro ai quali si comprenda Archimede. Alla qual ragione il Sig. Galileo risponde, primieramente, che gli pare che il Buonamico imponga ad Archimede più che egli non ha detto, e più che da' suoi argumenti non si può dedurre: e non dimeno egli stesso da i principi d'Archimede chiaramente lo deduce, dicendo che l'eccesso della gravità dell'acqua è cagione che il mobile venga a galla, il che non è altro se non che gli elementi men gravi son mossi all'insù dagli elementi più gravi; verbi grazia, l'aria nell'acqua è spinta dalla maggior gravità di essa, e perciò si muove all'insù, Donde ne seguita ancora ch'egli tolga via la leggerezza positiva; perchè, s'egli la concedesse, egli, cognoscendo la verace cagione, ne addurrebbe una falsa. Anzi era necessario ch'Archimede la cognoscesse, essendo stato più di 100 anni doppo Aristotile, nel qual tempo fioriva la dottrina peripatetica: adunque, se altrimenti fusse, Archimede addurrebbe una cagion falsa, sapendo la vera, la qual cosa non par credibile; onde fa di bisognio, ch'egli, cognoscendola, non la tenesse per vera. Perilchè è manifesto ch'Archimede negava la leggerezza positiva. |
Primo lib. del Cielo. |
Se il vento australe... Ma quando... [pag. 85, lin. 2-26] Veggiamo, ora ch'il Sig. Galileo muta i termini per dimostrare che Archimede non negava nè concedeva la leggerezza positiva, se egli osserva quelle regole che in tal cosa si devano osservare. Egli, dunque, in vece del movimento alla circonferenza, piglia il movimento d'una barca; incambio del movimento al centro, il vento australe verso mezzo giorno; incambio della maggior gravità dell'acqua, l'impeto dell'acqua d'un fiume; la leggerezza positiva, il vento borea; dicendo che s'uno dicesse: «Se il vento australe ferirà la barca con maggiore impeto che non è la violenza del fiume che la trasporta a mezzo giorno, la barca si moverà a tramontana; ma se l'impeto del fiume prevarrà a quel del vento, il moto suo sarà verso mezzo giorno», il discorso è ottimo, e immeritamente sarebbe biasimato; e chi dicesse che malamente s'adducesse per cagion del movimento della barca verso mezzo giorno il corso del fiume, perchè ancora il vento borea potrebbe questo tale effetto cagionare, non pare ch'intutto si avicinasse al vero, imperciochè colui che produce il corso del fiume come cagione di quel movimento, non nega che ancora il vento borea non potesse produrre questo accidente. Ma non così appunto avviene ad Archimede: imperciochè è verissimo che l'impeto dell'acqua, che il vento borea, possano essere e sono vere cause di quel movimento, ma non è già vero che la maggior gravità dell'acqua possa muovere le cose men gravi di essa: e perciò, in mutando i termini, il Sig. Galileo non osserva le regole; imperciò che i termini mutati devano avere le medesime condizioni con quei che si mutano. Adunque, sendo tutte vere le cagioni del movimento della barca, e di quelle del movimento in recto, che segue nell'acqua, alcune vere e alcune false, onde, non osservando le regole, il Sig. Galileo in questo suo lungo discorso viene a non provare cosa alcuna. Sieno, dunque, per questo l'arme del Buonamico non solo contro Platone e gli altri antichi, ma ancora contro Archimede indrizzate, poichè ancora egli dà cagione di essere impugnato. |
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Ma quando... Dirò solamente... [pag. 85 lin. 26 – pag. 86, lin. 4] Egli non è dubbio alcuno, che questa difesa del Sig. Galileo a molti parrà scarsa, per poter difendere Archimede dagli argomenti d'Aristotile; imperciochè ancora lui viene impugnato dalle sua ragioni, e perciò, se il Sig. Galileo non diffida di poter difendere l'oppenione degli antichi, ora è tempo di farlo. Ma a me pare ch'in un momento questa sua confidenza sia svanita; imperciò che egli doveva soddisfare alle ragioni d'Aristotile, che è necessario che sien false se è falsa la dottrina da quelle dependente, particularmente se crede ch'alle sue ragioni si possa «pienamente soddisfare». Forse potrebbe soggiungere che qui non è necessario. Quando sarà dunque? quando tratterà de le sue maraviglie del cielo, dove non è nè gravità nè leggereza nè movimento da quelle dipendente, se ora che si tratta de' movimenti da quelle dependenti non è necessario? E se non voleva fare sì «lunga digressione», niuno ci era che non solo acciò lo sforzasse, ma nè ancora a scrivere questo suo Discorso; ma poi che si era messo a questa impresa, doveva tirarla a fine come si conveniva. Onde temo che non si possa dire a lui quello ch'egli pur testè a torto rinfacciava al Buonamico, ch'egli faceva di bisogno l'atterrare i principii d'Aristotile, se egli voleva atterrare la sua dottrina. |
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Dirò solamente... A quello... [pag. 86, lin. 4-28] Segue ora che consideriamo un solo argumento del Sig. Galileo, che quasi nuovo Achille ha potuto fugare tutte le ragioni d'Aristotile; del Sig. Galileo, che non per capriccio, ma perchè la ragione ne lo persuade, si parte dalla sua dottrina. Il quale è di tal maniera: che se alcuno de' nostri corpi elementari avesse naturale inclinazione al movimento alla circonferenza, egli più velocemente si moverebbe nell'aria che nell'acqua, essendo manco resistenza in quella ch'in questa, provando ogni giorno che con manco forza si muove una mano per l'aria che per l'acqua. Il che quanto egli è vero, tanto è falso che non si trovi elemento alcuno che più velocemente non si muova nell'aria che nell'acqua. Par bene che altri possa restar con desiderio di sapere, quale esperienza ha potuto accertare il Sig. Galileo che tutti gli elementi si muovon più veloci nell'acqua che nell'aria, se il fuoco, che solo de gli elementi si muove all'insù nell'aria, nell'acqua non si può ritrovare. E che maraviglia è egli, che molti corpi che noi veggiamo muoversi velocemente nell'acqua, come sugheri e altre cose a predominio aeree, pervenuti che son nell'aria non si muovono, se in essa son gravi? anzi l'aria ancora, come e' dimostrerà, non è, pervenuta nel proprio luogo, non è grave come prima? Se, dunque, è impossibile che possiamo esperimentare con questa esperienza, se il fuoco nell'acqua si muova più velocemente che nell'aria, con altra simile si potrà dimostrare il medesimo. Chiara cosa è che, se fusse vero il discorso del Sig. Galileo, il fuoco più velocemente si doverebbe muovere nella terra che nell'aria, per essere più leggieri, secondo il suo parere, in quella che in questa; là dove noi veggiamo che egli quasi imprigionato nelle caverne della terra si quieta: e perciò gli antichi poeti finsano che i venti stessero riserrati nelle viscere della terra, come quei che sono esalazioni calde e secche, che molto al fuoco s'avicinano, le quali, uscendo delle caverne di essa, nell'aria con gran vemenza si muovano. Adunque, se gli elementi leggieri più velocemente si muovano ne i mezzi più rari, che ne i più densi non fanno, avverrà, per l'argomento del contrario, ch'eglino abbino naturale inclinazione a muoversi all'insù: il che, se il fuoco si potesse ritrovar nell'acqua, chiarissimamente si vedrebbe. Voglio concedere al Sig. Galileo che le cose ne' mezi più rari più velocemente si muovino, avvertendolo se saranno di equal inclinazione; e perciò se l'esalazioni calde e secche fussino nell'acqua, si moverebbono più veloce dell'aria: e similmente si può concedere che l'esalazioni si muovino più tardi per l'aria, che non fa quella per l'acqua: o li negherei bene la consequenza, «Adunque non ci è elemento alcuno, che non si muova più veloce nell'aria che nell'acqua»: imperciochè si deve considerare che l'esalazioni sono un misto di terra e di fuoco, e perciò, come mistura della terra, hanno del grave; onde non si possano muovere così velocemente come il fuoco, il quale, essendo privo d'ogni gravità, si muove più velocemente nell'aria che nell'acqua. Adunque ci è uno elemento, il quale, per muoversi più veloce ne' mezzi più dissipati e più rari che ne' più densi e più grossi, ha una naturale inclinazione al movimento verso la circunferenza: e questa è la leggerezza positiva. |
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A quello... Non disprezziamo... [pag. 86, lin. 28 – pag. 87, lin. 21] Finalmente, rispondendo alle conclusion del Buonamico, dice, quanto a che egli referiva le cagione del movimento dei corpi semplici alla maggiore e minore resistenza del mezzo, che questa resistenza non si ritrova nell'acqua, e perciò non può aver ragion di causa, come egli dimostrerrà; il che quando da lui sarà dimostrato, gli replicheremo abastanza. Bastici per adesso che da tutti si concede ch'abbino resistenza. Quanto a che il Buonamico riferiva la cagione del movimento dei corpi composti al predominio de gli elementi, risponde che, operando gli elementi in quanto gravi, tant'è dire che i misti si muovino per la gravità quanto per il predominio, anzi che quella è la cagione immediata, e questa la causa della causa. Al che potrei fare senza soggiugnere da vantaggio, non essendo detta tal cosa contra ad Archimede, ma contro a Seneca: ma già ch'il Sig. Galileo l'ha inpugnata, mi è parso conveniente, sendo vera, il difenderla. Sendo, dunque, i corpi gravi e leggieri e semplici e conposti, i primi de' quali, come si è detto, per la lor propia natura hanno queste naturali inclinazioni dell'essere gravi e leggieri, e gli altri perchè dei semplici son composti; e per ciò dovendo, per fare la dimostrazione, che le proposizioni sieno per sè, sarà necessario che diciamo che i corpi composti si muovano in recto perchè l'elemento predominante nella lor mistura è grave o leggieri, e non perchè loro di lor natura sien gravi o leggieri: onde chi dicesse che l'abeto galleggia perchè è leggieri, errerebbe, dovendo dire perchè in lui predomina l'aria ch'è leggieri. E quindi si scorge quanto è lontano dal vero el Sig. Galileo, volendo che la gravità sia cagione immediata del muoversi al centro ne i composti; là dove ella non solo non è immediata, ma nè ancora per sè, ma per accidente. E chi non sa che le cagioni devano essere per sè? Adunque chi dice il predominio esser cagione del movimento de i composti, non solo aporta la causa della causa, ma la prossima immediata. |
Arist., pr. del Cielo, cont. 7. Arist., 2 del Cielo, cap. 2. Arist., pr. della Posteriora, cap. 2. |
Non sapevo già che la dimostrazione per le cause notissime al senso fusse vera e reale, dovendosi formare la real dimostrazione dalle cause essenziali, che son, contrariamente, lontane dal senso, che non la nostra cognizione ma riguardano la natura delle cose, che molto dal nostro intendimento s'allontanano che dal senso ha il suo cominciamento: onde quelle dimostrazione che dal senso prendano origine, non son propie e reali dimostrazioni, ma da gli effetti. Ma se concedessimo ancora questa dottrina del Sig. Galileo, non so veder come si possa più agevolmente cognoscere la gravità o la leggerezza de' composti, ch'il predominio: imperciocchè nel medesimo tempo si vede l'inclinazione, il predominio; e questo dal galleggiare e dall'andare affondo si manifesta; anzi, come dimostrano i dottissimi medici, molte son le maniere per cognoscere il predominio de i composti, che la gravità e la leggerezza di essi. Quanto a quel bell'argumento che segue, credo che niuno sia che non sappia che due sono le maniere del cognoscere le cose: che sieno in rerum natura, e perchè le sieno. Il senso è vero cognoscitore del primo quesito; e quando è difettoso, la dimostrazione da gli effetti: il secondo per la real dimostrazione, che per le cagioni procede, si manifesta. Adunque chi per il senso cognosce uno effetto, o per la dimostrazione da gli effetti, questi sa che egli sia, ma perchè egli sia gli è ignoto; e chi per real dimostrazione il cognosce, e l'uno e l'altro quesito gli è manifesto, e che egli sia e perchè egli sia. E perciò quando un vede un solido galleggiare, egli sa che egli galleggia, e sa il primo quesito: ma quando e' sa ch'un solido è a predominio aereo, non solo sa che egli galleggia, ma ancora perchè egli galleggia, ch'è il secondo quesito. E quando l'argomento non fussi soluto, il che io negherei, il medesimo si può ritorcere contro al Sig. Galileo: imperciochè nel medesimo modo si cognosce che un composto sia leggieri, che egli sia aereo a prodominio; anzi molte son le maniere di cognoscere il predominio, che non sono nel cognoscere la leggerezza. |
Arist., 1 della Posteriora, cap. 2. Arist., pri. della Posteriora, testo. Arist., 2 della Posteriora. Arist., pr. della Posteriora, tes. 2, Tes. |
Non disprezziamo... Esplicate e stabilite queste cose.. [pag. 87, lin. 21-28] Quantunque la sentenzia d'Archimede non paia intutto e per tutto vera, non per questo doviamo biasimarlo, anzi si debbo riputare degno d'eterna lode; e se egli non è arrivato all'intera verità, sia a scusare se, essendo uomo, ha errato: forse egli ha dato cagione a Tolommeo o ad altri di ritrovar l'intera verità. Accettiamo dunque da lui, che se i corpi semplici saranno più gravi dell'acqua, eglino si profonderanno in essa; e dell'altre sentenzie possiamo prender le conclusioni, e lasciar da parte le sue cause e pigliare quelle d'Aristotile. |
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Explicate e stabilite queste cose... [pag. 87, lin. 28] Già si è dimostrato, in che maniera sien vere e false lo cose explicate e stabilite dal Sig. Galileo: ci resta adesso a considerare quello ch'egli dice intorno alla figura. Nel quale discorso egli forma questa universal proposizion negativa: Che la diversità della figura data a questo o quel solido non può essere cagione, in modo alcuno, dell'andare egli o non andare affondo; può bene l'ampiezza della figura ritardare il movimento, tanto nello scendere quanto nel salire, ma non può già quietare mobile alcuno sopra dell'acqua. La quale universal proposizione essere falsa, non una sperienza, come dice il Sig. Galileo dell'assicella de l'ebano e della palla, ma mill'altre ancora lo dimostrano, come delle piastre del ferro, del piombo, del talco, e finalmente di qual si voglia cosa grave e solida; onde a ragione e' suoi avversari, confirmati con l'autorità d'Aristotile, gli contradicano. Quanto alla seconda proposizione, desidererei che il Sig. Galileo mi assegnasse la cagione, donde avenga che le figure larghe ritardano il movimento in recto, e le strette lo fanno veloce, se, come egli dice, l'acqua e l'aria non hanno resistenza, e perciò la ragione di questo problema adotta d'Aristotile va per terra. Doveva il Sig. Galileo renderne la cagione, e non, contradicendo, impugnar quella d'Aristotile, e di poi lasciarsi sulle secce di Barberia; già che, secondo si dice, egli solo è quello che intende le cagioni delle cose, e chi non l'intende come egli fa, è uno ignorante. |
Arist., 4 della Fisica, tes. 71, 74. |
Questo è il punto principale... Preparata una tal materia... [pag. 88, lin. 15 – pag. 89, lin. 5] Avendo sino a ora dimostrato, che del movimento al centro nell'acqua ne è veramente cagione la gravità, e che del movimento alla circunferenza non la minor gravità dei mobili, ma la propia e natural leggerezza, segue la considerazione delle eseguite sperienze del Sig. Galileo intorno a quello operi la figura nei già detti movimenti. E concedendogli che sia necessario, per far queste esperienze, pigliare materia non solo diversa di gravità in spezie, che, come si è detto, cagiona diversità di movimento, ma nè ancora diversa di numero, che altera solo la velocità di esso (onde non si potrà dubitare che la maggiore o minore inclinazione sia causa di quiete o di diverso movimento, ma farà di mestiero venga da qualch'altra cagione), onde si può scèrre una materia che ora si riduca in figura piana e ora in rotonda: ma non è già conveniente il pigliare materia in gravità simile all'acqua, come dice il Sig. Galileo: imperciochè sempre si potrà dubitare se quel mobile sopranuoti per sua natural leggerezza o per la figura. Il perchè è necessario pigliar materia gravissima e che di sua natura sia molto atta a muoversi al centro, massimo volendo il Sig. Galileo impugnare Aristotile, ch'in simil materie dice aver fatta la sperienza; conciossia che se si piglia la cera, Aristotile si potrà sempre ritirare, e adurne nella cera altra cagione. Adunque non par che sia convenevole il pigliare la cera per fare tale esperienza, ma sì bene il ferro e il piombo o altra simil materia. |
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Preparata una tal materia... Parmi di sentire... [pag. 89, lin. 5-24] Ma perchè il Sig. Galileo vegga che non siamo fastidiosi, piglisi una palla di cera mescolata con limatura di piombo, e ridottola tanto grave, che agiuntole un sol grano di piombo rimanga infondo, e detrattolo venga a galla, dico che se bene questa simil materia ridotta in figura piana o rotonda, e postola nel fondo dell'acqua, con quel grano di piombo, rimarrà in quello, e ditrattolo verrà a galla, non dimeno che questa esperienza non prova cosa alcuna: imperciochè si può dare in altre cose dove la figura operi, e perciò non bisognia da un particulare argumentare all'universale. Ma perchè la figura non quieti le falde della cera nel fondo dell'acqua, sì come ella fa nella superficie di essa, si dirà apresso. Il dubitare del Sig. Galileo non monta niente: imperciochè se egli ha già preso materia che è più grave dell'acqua, cioè la cera mescolata col piombo, che va in quella al fondo, non si potrà opporre dagli avversari se non che, essendo la cera poco più grave dell'acqua, come si è detto, sempre si potrà dubbiare se la figura o la leggerezza sia cagione di quello accidente. E perciò è ben vero che egli fa di mestiero l'eleggere materia più grave dell'acqua, onde le cose leggieri non sono atte a dimostrare questa esperienza; perlochè non hanno operato fuor di ragione nello scegliere l'ebano, se non perchè si può sempre in quello dar cagion di sofisticare e cavillare a coloro che stanno in su la parata, con dire che egli sia più denso in luogo ch'in un altro, e perciò più grave: ma notisi che, sendo l'ebano d'una medesima spezie di gravità, non può cagionare diversità di movimento o di quiete, ma di velocità di movimento; e perciò tutte queste cavillazioni vanno a terra. Dico, dunque, che pigliando l'ebano e riducendolo in figura piana e in rotonda, che la piana resterà a galla, e la rotonda se ne andrà al fondo. E per tòr via tutte le soffisticherie, piglisi una quantità di piombo, e riducasi ora in figura piana, ora in ritonda: quando sarà piana galleggerà, e quando rotonda si moverà al centro. E il simile avviene nella cera del Sig. Galileo: imperciochè, pigliata una quantità di cera che in figura rotonda solo un grano di piombo possa fare affondare, dico che redottola in figura piana, neanco trenta grani di piombo la faranno muovere al centro. Le quali esperienze non solo hanno tanto del probabile e del verisimile, ma del vero e del certo, che par maraviglia agli uomini intendenti, che il Sig. Galileo abbia ardire di negarle. Tutta volta veggiamo se mancono di fallacia. |
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Cominciando dunque ad esaminare... Ma procediamo più avanti... [pag. 90, lin. 33 – pag. 91, lin. 30] Quanto a quello che il Sig. Galileo dice, ch'il suo parere non è di collocare le figure fuora della materia sensibile, e che egli non le vuol collocare in materia dove non possono operare, come se alcuno volesse tagliare una quercia con una scure di cera, sta bene e siam daccordo: ma non c'accordiam già che un coltello di cera nel tagliare il latte rappreso sia egualmente più atto a cognoscere quello che operino gli angoli acuti, ch'un coltel di ferro; imperciochè se bene il latte si taglierà dall'uno e dall'altro, non dimeno più velocemente si taglierà col coltello d'acciaio che con quel di cera. Dell'elezion della materia, non pare ch'e' suoi avversari gli possino opporre altro, se non del dubbio che si è detto, e che eglino abbino eletto più atta materia ch'il Sig. Galileo, sì come più atto è a tagliare il latte un coltello di acciaio damaschino che un di cera, quantunque l'uno e l'altro lo tagli. |
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Ma procediamo più avanti... [pag. 91, lin. 30] Egli non è dubbio che, se fussi vero che l'acqua non avesse resistenza alla divisione, non occorrerebbe scèr materia che fusse atta a dividerla, e perciò ogni diligenza sarebbe superflua, onde tutti i corpi quantunque leggieri sarebbano a tal'esperienza accomodati; ma avendo, all'incontro, resistenza alla divisione, è necessario il ricercare materia atta ad operare a simile azione. Perlochè dimostri il Sig. Galileo che l'acqua non abbi resistenza, e non ci occorrerà sì gran dicerie. Ma notisi che l'esempio del fumo o della nebbia, che egualmente si tagli col coltello di foglio come con quel di ferro, è falso; imperciochè più velocemente con quel di ferro si dividerà. E se in tal cosa Aristotile ha errato, dimostrerrà il fine: fra tanto egli potrà dimostrare quei tanti luoghi, dove Aristotile afferma cosa contro la sperienza e contro al senso. |
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Torno dunque ad affermare... Ma seguitiàn di far manifesto... [pag. 92, lin. 31 – pag. 93, lin. 10] Non bisogna ch'il Sig. Galileo torni a dire, l'acqua non aver resistenza; ma prima bisogna provarlo, altrimenti niente monterà il suo ragionamento: e perciò avvertisca, che non tutte le materie sono atte a dimostrare quello di che si tratta. Il dire che l'assicelle dell'ebano e le piastre di piombo sieno sotto l'acqua, è una vanità, e come di sotto proverremo; se però il Sig. Galileo non volesse dire che elleno sono sotto il livello d'arginetti dell'acqua, che ritrova intorno intorno all'assicella: imperciochè l'assicella dell'ebano e le piastre dell'oro abbassano tanto la superficie dell'acqua, quanto comporta la lor gravità, ma non la dividano; perchè sendo divisa, elleno subito se n'andrebbano in fondo. |
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Ma seguitiàn di far manifesto... Non per questo si quietano... [pag. 93, lin. 10 – pag. 94, lin. 15] Deve il Sig. Galileo prima cominciare a far manifesto che l'acqua non abbia resistenza, e poi seguitare, non avendo mai cominciato. Quanto alla esperienza che da lui si produce, con che egli vuol provare un problema dal quale depende quasi tutta la filosofia, non pare che concluda cosa alcuna; imperciochè non è la figura piramidale la quale è cagione per accidente della quiete accidentale de' mobili posti nell'acqua, onde ella tanto si profonderà per la basa quanto per la punta. Conciosia che presa una piramide di legno d'abeto, insino a tanto per la punta e per la basa si profonderà, quanto la leggerezza della piramide e la resistenza dell'acqua possino contrappesare il terreo ch'in quel legno si trova; quantunque ci sarà diferenza, mediante la figura: che messa per punta, si moverà più veloce sino a quel termine, e per base, più tarda; imperciochè più agevolmente fende la resistenza la figura acuta, che l'ottusa. Ma chi vuol far la sperienza, bisogna fare d'uno istesso legno una piramide e una figura piana e sottile; e chiaramente si vedrà che la figura piramidale sene andrà per gran parte infondo, e la figura piana resterà quasi tutta sopra l'acqua: e se il Sig. Galileo mi replicasse, che la figura piana galleggia per la sua natural leggerezza, e non per la figura, gli direi che pigliasse del piombo incambio del legno, dove non è leggerezza alcuna, e vedrà che una piramide di esso sene andrà tutta in fondo, e un piano galleggerà. Il simile si può dire de' cilindri, che non essendo figure atte a far sopranotare, non si possono addurre per prova, ma solo le figure piane cagionano questo effetto. Segue bene, come abbiam detto, ch'il cilindro lungo e sottile si moverà più velocemente sino al suo natural luogo, e il largo più tardi; adunque, sarà vero che la larghezza della figura più larga apporta dificultà, e la stretta agevolezza, nel movimento; onde si può ridurre a tanta ampiezza, che cagioni la quiete accidentale. Ma noti il Sig. Galileo, che a voler provare per induzione una proposizione universale, bisogna pigliare tutti i particolari sotto di essa contenuti, e non, come egli fa, due o 3: imperciò che, quantunque la figura piramidale e la cilindrica non cagioni la quiete, non per questo si può dire che niuna figura la cagioni, ma bisogna ancora che il quadrangolo, il triangolo e il piano non lo cagioni; adunque se la figura piana è causa della quiete accidentale, sarà falsa l'universal proposizione. Quanto alla seconda esperienza, che presa una quantità di cera, che con la limatura del ferro sia ridotta molto più grave dell'acqua, posta nel fondo di essa sarà sollevata a capello, tanto essendo in una piastra quanto in una palla; il che non pare al tutto vero: imperciochè, come si è detto, la palla sarà sollevata più presto, e la piastra più adagio. Ma si ben fusse vero, non è prova a bastanza: imperciochè quantunque la figura piana sott'acqua non produca la quiete, non per questo seguirà che sempre ella non la produca, perchè ella la produce fuor dell'acqua; la qual cosa donde advenga, diremo poco apresso. |
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Non per questo si quietano gli avversari... E prima è falso... [pag. 94, lin. 15-25] Veggasi se per questo si debbono quietare e' vostri avversari, che, come si è manifestato, pare essere in tutto e per tutto falso: e quando fusse vero, non perciò si doverebbono quietare; imperciochè un particolar solo è quel che rende falsa l'universal negativa. Avendo dunque l'assicella dell'ebano che galleggia, aranno dimostrato con ogni pienezza, il parere del Sig. Galileo esser falso; e se egli dimostrerà che questa esperienza non concluda, si potrà cominciare a credergli qualche cosa. Vadia adagio il Sig. Galileo, a dire ch'egli è falso che la tavoletta stia a galla e la palla no; imperciochè se vogliamo stare ancora sulla forza delle parole, pare ch'egli abbia il torto. Perchè essere nell'acqua ed esser locato per entro l'acqua non è una cosa medesima: conciosia che por nell'acqua significò sopra dell'acqua, e non dentro di essa, s'e' Sig. Accademici della Crusca dicano il vero nel lor Vocabolario, dicendo ch'il medesimo significa la dizione in che nel, che la dizione in significa sopra, secondo il Boccaccio nella novella di Nicostrato «sarebbe meglio dar con ella in capo a Nicostrato»; anzi il medesimo Boccaccio, vero esemplare della favella fiorentina, si servì della dizione nel per sopra, dicendo nella novella di Tofano «la pietra, cadendo nell'acqua, fece grandissimo romore». Ma a dire che esser nell'acqua denoti esser locato dentro l'acqua, non è inconveniente: imperciochè il luogo è comune e propio, secondo Aristotile; e per ciò, quando si dice la tavoletta essere nell'acqua, si piglia il luogo comunemente nella nostra favella, dicendosi una nave essere nell'acqua, una torre e simile, quantunque elleno non sieno locate sotto la superficie di essa. Quanto alle sue aggiunte, poco importano: imperciochè in due o in tre luoghi afferma questa universal proposizione, che la figura in alcun modo non opera all'andare o non andare affondo, ed ora si vuol ristrignere alle figure poste per entro l'acqua. |
Arist., 4 della Fisica, co. |
Notisi, appresso... Anzi dirò più... [pag. 95, lin. 14 – pag. 96, lin. 31] Egli non è dubbio, che bagnando l'assicella e la palla, amendue se ne andranno al fondo (con questa differenza, che la palla più presto se n'andrà e l'assicella più adagio), e che quelle assicelle che lentamente per entro l'acqua si muovano, nella superficie di essa ancora si quietano per accidente. Adunque la medesima figura è or cagione di quiete e or di tardità di movimento; il che dal Sig. Galileo si reputa per inconveniente, se bene non pare che rettamente. Imperciochè, quantunque ogni figura abbia una tardità sua propia, con la quale ella si muove, e che ogni tardità minore o maggiore sia impropia alla sua natura, tutta via, come dice il Sig. Galileo, se ci s'agiugne qualche altro impedimento, ella potrà molto bene cagionare non solo movimento più lento, ma ancora una quiete accidentale. Non per questo doviam dire, che sia altra cosa diversa dalla figura, ma sì bene che la figura agiunta alla difficil divisione del continuo. E per ciò dicasi che non solo della tardità e velocità sia la figura larga e raccolta, ma ancora che la figura larga, che se ben ad immensa larghezza si ritrova immensa tardità, tutta via perchè alla figura s'agiugne la virtù del continuo, perciò che ella possa cagionare la quiete per accidente. |
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Io non voglio tacere... Anzi dirò più... [pag. 96, lin. 9-31] Considerando la nuova esperienza del Sig. Galileo, quanto a lui par concludente, tanto a noi pare priva di conclusione: imperciochè quando si possa dedurre assai da essa, si deduce che la figura larga non abbia che fare col quietare le cose per entro l'acqua, ma non già sopra l'acqua; il che da Aristotile è stato dimostrato, dicendo che le falde del ferro e del piombo galleggiano sopra dell'acqua, e non che l'assicella del noce restino nel fondo di essa. E se mi si replicasse, che è la medesima ragione nella assicella del noce quando si ritrova nel fondo dell'acqua, che delle falde del ferro quando sono sopra di quella, anzi molto maggiore, conciosia che è manco l'inclinazione dell'assicella di noce al movimento all'insù che quella delle falde del ferro a quello all'ingiù; e li replicherei che, come si è detto più volte, non è solo la figura che cagiona la quiete accidentale sopra dell'acqua, ma ci è ancora la virtù del continuo, la quale non si ritrova nel fondo dell'acqua, come di sotto si dirà; e se bene nel fondo dell'acqua si ritrova una resistenza, non dimeno, non si ritrovando l'altra, non si può dalla figura cagionar la quiete, ma sì bene la tardità del movimento. Il medesimo che si è detto di questa sperienza, si può dire dell'oro o di qual si voglia altra cosa. Adunque la figura, insieme con la resistenza, è cagione della quiete delle cose gravi nell'acqua: anzi non si può dire che la sia la contraria cagione del profondarsi; imperciochè ne' naturali elementi e ne' composti di quelli la medesima cagione è quella che causa ora movimento e ora quiete, come la gravità nella terra cagiona quiete e movimento, così la leggerezza nel fuoco. Adunque non si può dire che, se le falde del ferro si muovano naturalmente al centro dell'acqua per la gravità, dalla leggerezza nella superficie di essa sopranuotino. Adunque in questo si deve avvertire, che lo stare naturalmente a galla e l'andare al fondo in un medesimo oggetto non sono effetti contrari, onde non aviene che degli accidenti contrarii contrarie devano essere le cagioni. Imperciochè i movimenti veramente son contrarii ai movimenti, come quello al centro è contrario a quello ch'è alla circunferenza: ma non è già il movimento contrario alla quiete, ma son contrarii secondo la privazione; o vero, come a molti piace, la quiete è contraria al movimento per una certa maniera di mezzo fra la contrarietà e la privazione. Ma non per questo ogni quiete è contraria ad ogni movimento, ma solo la quiete che è fuor di natura al movimento naturale: verbi grazia, al movimento all'ingiù non è contraria la quiete nel centro, ma la quiete nella circunferenza; imperciò che la quiete nel centro è perfezione del movimento, adunque non può essere contraria; ma la quiete nella circunferenza è imperfezzione di esso, onde adviene ch'ella sia contraria, nella maniera che si è già detto. Adunque quando il Sig. Galileo diceva che de gli accidenti contrari contrarie devono essere le cagioni, e per ciò che la quiete dell'assicella de l'ebano nella superficie dell'acqua sia contraria al movimento di essa al centro, ora io gli dico se egli intende che la quiete dell'assicella sia naturale o fuor di natura. Se è naturale, e il movimento all'ingiù è naturale; adunque non vi sarà tra di loro contrarietà: se contr'a natura, adunque quella quiete non può venire dalla leggerezza; imperciochè ogni quiete dependente dalla leggerezza, naturale. Bisogna dunque dire, secondo la sua oppinione, che l'assicella, per essere un corpo unito con l'aria e per tal ragione leggieri, che egli si quieti nella superficie dell'acqua; e quando se gli levava via l'aria, divenga grave, e per ciò per l'acqua si muova al centro. Ma consideriamo s'egli è vero che la leggerezza sia cagione che le piastre del ferro galleggin sopra dell'acqua, come il Sig. Galileo dice. |
Arist., nel 5 della Fisica, tes. 46. |
Ora tornisi a prendere... Ma se ella... [pag. 97, lin. 28 – pag. 98 lin. 19] Piglisi pure la sottil falda de l'oro, del piombo e di qualsivoglia materia; riguardisi gli effetti che ne seguano mentre leggiermente si posa sopra l'acqua, sì che ella sopranuoti; quindi si vedrà agevolmente, quanto è saldo il detto di Aristotile, e debole quel del Sig. Galileo. Perchè non solo apparisce che la falda de l'oro non abbia penetrata la superficie all'acqua, ma che non ha ancora intaccata la superficie di essa, e solo l'ha, costipandola con la sua gravità, abassata, e fatta quella poca di cavità; non altrimenti che si vegga operare qualche peso assai notabile posato sopra la tela di un letto avvento, il quale, ancorchè abassi la tela e vi faccia una gran cavità, entro la quale egli si nasconde, non dimeno egli non ha divisa la tela, anzi sino a che egli non l'ha divisa in tutto e per tutto, egli non si muove. Il dire che egli si ritrova sotto la superficie del panno, non par cosa conveniente, se bene egli aparisce sotto la superficie di quello, ma veramente non è. Quanto alla figura, ella non mostra altro se non che l'assicella ha piegato tanto la superficie dell'acqua, che ella resta sotto il livello de gli orli di detta superficie, come si è detto; or veggasi, che la assicella dell'ebano non va al fondo, perchè ella non ha rotto la superficie dell'acqua. Onde è falso che ella non si profondi perchè l'aria, che ella si tira dietro per lo contatto aderente, la faccia divenire leggieri; inperciò non essendo più semplice ebano o piombo, ma un composto di tanto piombo e aria, che l'aria, essendo leggieri, contrapesi il grave di esso. E questo per molte ragione; e prima, perchè gli elementi che per contatto aderente traggano gli aderenti, sono l'acqua e l'aria; imperciochè l'acqua tira l'aria, e l'aria l'acqua. In consequenza segue ancora qualche volta il medesimo fra le cose acquee e l'aeree; e quindi aviene che l'acqua agevolmente si tira di qual si voglia luogo bassissimo con quelle trombette di vetro, mediante l'aria che l'unisce a quella. Il simile avien delle coppette dai medici usate, e dei cornetti da trarre sangue. Il che segue perchè, essendo questi due elementi simili nella umidità, la quale facilmente s'unisce, vengano tra di loro a confondere le superficie, e di due quasi farne una; inperciò vengono a muoversi al movimento altrui. Il che non può seguire nella terra, per non avere ella qualità simile all'aria e all'acqua, e particularmente l'umidità, laonde le superficie non si possano unire; e perciò non si può tirare nè dall'acqua nè dall'aria, essendo ella ancora, di sua natura, grave assolutamente. Si potrebbe dubbiare della polvere, la quale si tira con gli schizatoi; onde si potrebbe credere ch'ancora la terra con questo instrumento si potesse attrarre. Al che si risponde, che non è semplicemente la polvere, ma quella mescolata con l'aria; anzi tirandosi l'aria, ne viene ancora la polvere a quella unita, per esser la polvere leggieri per accidente rispetto alla terra, onde quella nell'acqua e nell'aria galleggia, come diremo. Adunque non è possibile che la terra e le cose terree attraghino l'aria, e che quella si possa di maniera unire con esse, che se ne faccia di due superficie quasi una sola, non ci essendo la umidità comune, che cagiona tale accidente. Avien bene, che l'assicelle de l'ebano facendo, mediante la gravità, quel poco di avvallamento nell'acqua, che l'aria, come grave e per levare il vacuo tanto dalla natura odiato, scende a riempier quel luogo: adunque è solo ebano quello che si pone nell'acqua, e non un composto d'ebano e d'aria. Il che proveremo poco appresso con la esperienza propia del Sig. Galileo, bagnando l'assicella dell'ebano; fra tanto passando in brieve le debole opposizioni ch'il Sig. Galileo si fa contro, con dire che, bagnandosi l'assicella de l'ebano, divien più grave che prima non era, inperciò se ne va al fondo: conciosia che, come egli dice, per esperienza si vede che messe sopra l'assicella molte gocciole d'acqua, purchè non si congiungino con l'altra, le quali eccedino di gran lunga quelle con che si bagna l'assicella, non per questo la fanno profondare; adunque l'assicella bagnata non sene va al fondo per la gravità aggiuntale, ma sì bene per altra cagione, come poco appresso diremo. Onde aviene che trattandosi di quello operi la figura, si deve desiderare che i solidi non si pongino nell'acqua bangnati; nè io domando che si faccia altro della assicella, che della palla: anzi volendo il Sig. Galileo impugnare Aristotile, fa di mestiere che egli le ponga nell'acqua senza bagnarle, avendo così esperimentato Aristotile. |
Arist., 4 del Cielo, tes. 39. |
Il dire che l'acqua abbia gravità... [pag. 99, lin. 37] Questa dubitazione, se l'acqua sia grave o no, è stata agitata da gravissimi autori, e da essi diversamente si decide; onde il correre a furia a dire ch'egli è falsissimo che l'acqua nel propio luogo sia grave, non pare che egli sia molto conveniente. Imperciochè Aristotile fu di parere che l'acqua e l'aria nel propio luogo fussero gravi, e questo per diverse ragioni. Primieramente, perchè noi veggiamo, che levata parte dell'acqua sopra la quale soprastia l'aria, ella naturalmente se ne scorre a riempiere quel luogo, movendosi al centro; il simile fa l'acqua, levata la terra: adunque se eglino, essendo nel propio luogo, si muovano al centro, sarà necessario ch'eglino sien gravi. E chi replicasse, che alcuna volta ancora l'acqua, per riempiere il vacuo, si muove all'insù, deve avertire che ciò non avviene se non con violenzia per attrazione, come si è detto. Secondariamente, perchè noi veggiamo che l'acqua agiungne gravità alle cose che si pongano all'acqua: il che chiarissimamente si vede pigliando due moli eguali di piombo, l'una delle quali si assottigli assai e si riduca sì che per entro essa si possa racchiudere alquanta porzione d'acqua; dico che librandosi nell'acqua, pesa più quello dove è l'acqua, che l'altro. Il simile avien nell'aria, dove i palloni pesano più quando sono gonfiati, che sgonfiati non fanno; la quale esperienza se bene da molti è posta in dubbio, non dimeno è vera. Il contrario parere ebbe Tolomeo, a cui s'agiungne Temistio e forse Simplicio, i quali disserono che l'acqua e l'aria nel propio luogo non era nè grave nè leggieri, e non senza molte ragioni. Imperciocchè non pare che l'acqua a coloro che per entro essa si ritrovano aporti gravità alcuna, quantunque in grandissimi pelaghi si profondino. A questo s'agiugne, che secondo Tolommeo non solo gli otri gonfiati son più gravi, ma più leggieri, e secondo Simplicio almeno egualmente gravi. E Temistio diceva: Se, dunque, l'aria e l'acqua nel proprio luogo son gravi, seguirà che eglino in quello si muovino; onde non si quietino in esso naturalmente (imperciocchè la propietà della gravità è del muoversi al centro), là dove eglino in quello si devano quietare. Onde concludevano, che l'aria e l'acqua nel proprio luogo non fussino gravi nè leggieri. La quale opinione pare che venga atterrata dalle esperienze di Aristotile, ed io crederei che la sentenzia di esso fusse la vera. La quale è stata difesa da Averroe contro Temistio in tal maniera: ch'egli si pensò che Aristotile, se bene dice che l'aria e l'acqua è grave, non dimeno non escludesse da quella la leggerezza, ma che in essa fusse più forte e più gagliarda fusse la gravità che la leggerezza. La qual opinione al mio parere non pare che sia al tutto vera, essendo contro al testo di Aristotile, che dice che l'aria e l'acqua son gravi nel proprio luogo, e non alquanto più grave che leggieri; anzi in altro luogo afferma che l'aria è in potenzia grave e leggieri, là dove ora dice ch'è grave in atto, e che così adoperano, con esperienza dimostra: onde par conveniente che dichiamo, l'opinione di Aristotile essere stata che l'acqua e l'aria nel proprio luogo sieno gravi. Si debbe bene avvertire, che la gravità altra assoluta e altra respettiva; e che non è dubbio che l'assoluta, se bene in tutti i luoghi de gli altri elementi è cagione del movimento al centro, non dimeno nel proprio luogo è cagione di quiete: onde non è fuor di natura che la gravità cagioni in diversi luoghi or movimento e or quiete; e perciò nella sua difinizione due differenzie si pongano, dicendo la gravità assoluta esser quella che in tutti i luoghi è causa di movimento al centro, e sotto tutte l'altre gravitadi si ritrova, la prima delle quali denota il movimento, e l'altra la quiete. E le cose gravi di gravità respettiva or son gravi ed or leggieri, secondo i luoghi dove si ritrovano: verbi grazia, l'acqua è grave nel luogo dell'aria, e divien leggieri in quello della terra. Al produrre di questi contrarii accidenti fa di mestiero che si cammini per il mezzo; e perciò quella gravità dell'acqua che ella ha nel luogo dell'aria, cagiona il movimento al centro, a poco a poco si diminuisce; sì che quando si conduce al luogo proprio, ella non più cagiona movimento, ma induce quiete; e poco sotto, non solo mantiene la gravità, ma ne divien leggieri: altrimenti seguirebbe, che gli elementi di mezzo non avesserono cagione per la quale si quietassero nel lor luogo; imperciocchè noi diciamo che la terra si quieta nel centro per la gravità, e che il fuoco nella circunferenza per la leggerezza; se adunque l'aria e l'acqua non son gravi nè leggieri, per che cagione nel proprio luogo si quieteranno? Si potrebbe ben dubitare, per che cagione l'acqua e l'aria dovessino essere nel lor luogo più gravi che leggieri, e perchè più per la gravità che per la leggerezza si dovessero quietare in quelli, massimo l'aria che pare che partecipe più del leggieri che del grave, essendo più congiunta col fuoco che con la terra; e nondimeno aparisce il contrario. Al qual problema rispose il Buonamici, dicendo che in tutte le cose composte di materia e di forma hanno due contrari desideri, l'uno dalla forma, che è di desiderare l'ottimo, e l'altro dalla materia, ch'è 'l desiderio pessimo, e che la gravità conrisponde alla materia, e la leggerezza alla forma; e perciò, dominando per lo più ne i composti la materia che la forma, quindi aviene che gli elementi mezzani sono nel propio luogo gravi, e non leggieri. Alla qual sentenzia quantunque io sottoscriva, non dimeno mi pare che altra cagione render sene possa: e questa è, che dovendosi dalla natura, mediante la gravità, porne il centro all'universo, gli fu mestieri non solo servirsi di quella della terra, che, come assoluta, è principal cagione della quiete di essa nel centro, ma ancora volse che l'acqua e l'aria participassino nel propio luogo della gravità, quasi ausiliatrici di quello effetto. Si potrebbe ancora dire, che la gravità fusse stata conceduta all'aria per comodo de' mortali: imperciochè se ella non fusse di tal maniera, sarebbe più sottoposta ai venti, alle tempeste e a simili altri imfortuni, e perciò molto incomoda a gli uomini. Dichiamo dunque che l'acqua e l'aria nel lor propio luogo sieno gravi, ma non della medesima gravità che elleno hanno quando sono fuori di esso; e che in esso eglino sono gravi e leggieri in potenza, non altrimenti che sia il color verde, che al nero e al bianco può ridursi; e fuora del propio luogo sieno gravi e leggieri in atto: gravi, quando si ritrovano in quelli che gli stanno sotto; leggieri, in quelli a' quali eglino sopra stanno, se però non sono impediti. Il che essendo verissimo, credo sarà agevol cosa il rispondere a' contrarii argumenti di Tolommeo e di Temistio. E dalla prima esperienza incominciando, dico che, se è vero che coloro che si tuffano sotto l'acqua non sentino gravità, la qual cosa apparisce il contrario, vedendosi che coloro che si tuffano, quando tornano sopra dell'acqua, sono sgravati da una certa grandissima molestia, quasi che dalla gravità dell'acqua eglino vengino aggravati, non nego già che questo accidente non possa essere cagionato dagli spiriti ritenuti: e perciò par che si possa dire con Simplicio, che quelli che si tuffano nell'acqua non sentino la gravità, perchè le parte di essa fra di loro si sostenghino; non altrimenti che noi veggiamo fare a coloro che aprendo un muro si mettano dentro di esso, i quali non sentano la gravità perchè le parte di quello si reggano fra di loro; e quindi aviene ch'una asta pesa manco ritta che a diacere, e le veste più nuove che vecchie, e particularmente trattandosi di quelle di drappi d'oro. Ma mi credo io, che se uno si mettesse in sulla superficie della terra, e si facesse infondere sopra venti o venticinque barili d'acqua, sì che ella dovesse reggersi sopra di lui, al certo che sentirebbe grandissimo peso. La qual cosa sensibilmente apparisce dalle conserve dell'acqua fatte ad uso di anaffiare gli orti, le quali quanto più son piene, tanto più gli zampilli di esse saggono verso il cielo: verbi grazia, se nella conserva sarà un braccio d'acqua, pongiamo che gli detti zampilli salghino un braccio; quando ve ne sarà quattro, saranno due braccia: il che avviene perchè l'acqua gravitando sopra l'acqua viene con simil forza a spingnere l'acqua che esce di detta conserva. Al che si agiugne, che l'acqua nel suo luogo ha da natura di non gravitar molto, sì come al Buonamico è piaciuto. Alla contraria esperienza de l'otri o de' palloni gonfiati, ho sperimentato io essere sì come dice Aristotile; e quando non fusse, si deve avvertire, come dice Averroe, non per questo esser falsa la sentenzia di Aristotile, fondandosi ella sopra altre esperienze. Alla terza difficultà, mossa da Temistio, si deve distinguere, che altra è la gravità dell'acqua e dell'aria nel propio luogo, che fuori di esso; e quindi aviene che nel propio luogo genera quiete, e fuor di esso genera movimento. Onde non segue: «È grave, adunque nel lor luogo si doverrà movere al centro; essendo in esso, si quieteranno per accidente»: imperciocchè la gravità non solo è atta a produrre ne' luoghi stranieri movimento, ma ne' proprii quiete; anzi la gravità respettiva può ciò ottimamente adoperare; imperciocchè cangiando luoghi, ancora il suo subbietto si cangia di grave in leggieri, e per ciò viene ad aver gradi di gravità, non si passando da uno estremo ad uno altro senza mezzo. Adunque vegga il Sig. Galileo, quanto sia falsissimo il parere di Aristotile. Quanto alle sue dubitazioni, alla prima si potrà rispondere quello si è detto alla difficultà di Temistio. Alla esperienza de l'alzare qualche peso più agevolmente nell'acqua che fuori, ciò mi torna il medesimo; solo ci ho saputo congnoscere diferenzia quando una cosa si deve profondare nell'acqua, dove apparisce che più malagevolmente si profonda in essa che inell'aria; e questo adiviene per la maggior resistenza di essa. Ora io non solo vi repricherò che l'acqua aggiunga gravità alle cose che sono mezzo in aria e mezzo in acqua, ma ancora che sono per entro a quella, come già ho detto: e se il Sig. Galileo vuol vedere che un vaso di piombo ripieno d'acqua pesa più che non fa il piombo di che egli è composto, per levar via ogni suo refugio e ogni sua parata, pigli due moli eguali di piombo, e di una di esse ne faccia fare un vaso, e l'altra si rimanga nel primo stato, e vedrà che ripieno il vaso d'acqua, nell'acqua peserà più che 'l piombo, come abbiam detto. Non credo già io che un vaso di rame galleggi perchè l'aria inclusa lo renda più leggieri dell'acqua, e perciò egli sene stia sopra l'acqua, ma per la figura: potrebbe ben ciò adoperare, caso che l'aria fussi racchiusa e riserrata dentro al vaso con qualche coperchio, di modo che nel profondare il vaso ella facessi forza, per non essere nel proprio luogo e per essere leggieri e como si è detto. E finalmente, per dimostrare che l'assicelle che si pongano nell'acqua sono puro e naturale ebano, e non un composto di ebano e di aria, sì che l'aria possa contrapesare il grave dell'ebano, piglisi il rimedio del Sig. Galileo; bagnisi l'assicella dell'ebano quasi tutta, e solo vi si lasci una quantità di aria quanto una corda intorno intorno, e si vedrà che ella a ogni modo galleggia. E notisi che la medesima aria servirà a una assicella d'un sesto, quanto a una di dieci braccia; onde chiarissimamente si vede, non essere l'aria che fa galleggiare l'assicella: anzi l'oro, ch'al parere del Sig. Galileo è più grave venti volte che l'acqua, con la medesima aria è sollevato a capello, che quando non è bagnato. Adunque è falso che l'aria aderente sia quella che cagioni il galleggiare, essendo impossibile che di quella che rimane, come si è detto, coll'oro se ne possa fare un composto più leggieri dell'acqua. E s'e' nostri avversari da principio non si curavano che l'assicella non si bagnassi, questo non ha che fare con Aristotile; e se eglino dicevano che il ghiaccio galleggia per la figura, pensinci loro: solo dirò, che non so perchè non possa essere che il ghiaccio non si possa dare con la superficie asciutta e inaridita, massimo nel tempo dell'inverno. |
Arist., 4 del Cielo, tes. 59. Arist., 3 del Cielo, test. 28. Arist., quarto del Cielo, tes. 35. Arist., 4 del Cielo, tes. 29. Arist., 3 del Cielo, test. 28. Arist., 4 del Cielo, tes. 27. |
Potrebbe per avventura... Forse alcuni... [pag. 101, lin. 19-35] Per qual cagione non si possa bangniare tutta l'assicella, ma sia necessario il lasciare intorno intorno quelli orli senza bagnarli, diremo poco appresso: fra tanto concediamo al Sig. Galileo che il desiderio di riunirsi che hanno le parti di sopra, non sia cagione che l'assicelle bagnate si profondino nell'aqqua. |
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Forse alcuni di quei... Io per sodisfare... [pag. 101, lin. 35 – pag. 102, lin. 3] Non solo i suoi aversari, ma chi niente sarà esercitato nel ricercar le cagioni delle cose, si maraviglierà che 'l Sig. Galileo voglia attribuire all'aria superiore quasi una virtù calamitica, con la quale ella possa sostenere le piastre di ferro, d'oro o di qualsivoglia materia grave. Imperciò che fra la calamita e il ferro è una certa natural simpatia, dependente dalla mistione dell'uno e dell'altro, la quale può cagionare fra di loro quella attrazione, sì come noi veggiamo che più agevolmente uomo si muovi ad amare uno ch'un altro, anzi molte volte a odiar senza cagione alcuno e senza cagione ad amare altri: ma qual simpatia può essere fra l'aria e la terra, se son composti questi dua elementi di qualità contrarie? questi è secco, e quello è umido; questi participa del calore, e quello della frigidità. Forse se alcuno di loro fusse viscoso e tenace, si potrebbe dire che fra di loro si unissero per quella viscosità: ma nè anco questa cagione nell'aria e nella terra si ritrova. Finalmente, se fussi possibile che la superfice dell'aria si unisse con quella della terra e delle cose terree, sì come fa l'acqua e l'aria, si potrebbe considerare qualche attrazione: il che, come ho detto, è falso. Ma a che vo io cercando cagioni e movendo difficultà, se già per esperienza è manifesto che le piastre del ferro e del piombo non son sostenute dall'aria, e che l'aria agevolmente si separa con l'acqua, come il Sig. Galileo desidera? |
Arist., 4 del Cielo, tes. 39. |
Io per sodisfare... Or seguitando il mio... [pag. pag. 102, lin. 3 – pag. 103, lin. 12] Quanto alla esperienza del Sig. Galileo, con la quale egli vuol provare che l'aria non solo può reggere le piastre del ferro sopra l'acqua, ma che qualsivoglia cosa profondata in essa, purchè ella non sia in gravità molto diseguale dell'acqua, si può con l'aria sollevarla e ridurla nella superficie di quella; il che egli esperimenta pigliando della cera mescolata con limatura di piombo, sì che ella divenga poco più grave dell'acqua, o riducendola in una palla, la di cui superficie sia molto brunita e tersa, la sommerge nell'acqua, e di poi con un bicchiere rivolto la riduce nella superficie de l'acqua e quivi la fa fermare; la quale sperienza non pare che sia molto sicura: imperciocchè l'aria non solleva quella palla se non per accidente, ma sì bene l'acqua nella quale si ritrova la palla si attrae dall'aria, unendosi agevolmente la superficie dell'una e dell'altra, che è attratta con tanta forza, ch'ella può sollevare la palla che in essa si ritrova. Segno ne sia di ciò, che le palle alquanto più grave dell'acqua non si possano sollevare con quel bicchiere, perchè l'aria non attrae con sì gran forza l'acqua, ch'ella possa condur seco le cose molto più gravi di essa; il che agevolmente si manifesta con il pigliare cose che sieno così grave nell'aria come quella cera nell'acqua, le quali non si possano sollevare col bicchiere del Sig. Galileo. Adunque la esperienza del Sig. Galileo altro non prova, se non che l'aria può attrarre l'acqua con sì gran forza, che ella può sollevare qualche cosa poco più grave di sè stessa: onde fra l'aria e la terra e le cose terree non è simpatia o affinità alcuna che gli unisca insieme, sì che non si separino agevolissimamente. E quantunque mettendo qualche materia solida nell'acqua, e ritraendola, apparisca che molte parte di essa, e seguitando la detta materia, ascenda sopra la sua superficie, nondimeno non son pari l'aria e l'acqua: imperciocchè l'acqua ha una certa tenace viscosità, con la quale ella si attacca alle cose, onde non si può così agevolmente spiccare; anzi si ritrovano dell'acque così bitaminose, che servono per calcina, onde Semiramis si servì di esso bitame a far edificare le mura della gran città di Babillonia; per la qual tenacità adiviene che l'acqua, appiccandosi alle cose terree, si sollevi sopra la propia superficie: là dove l'aria, non sendo viscosa, questo simile accidente non può generare. Adunque nell'aria non vi si può collocare questa virtù calamitica del Sig. Galileo; e quando ella vi si potesse adattare, non dimeno, potendosi essa con l'acqua separare, sì come il Sig. Galileo desidera, delle assicelle dell'ebano, ne seguirà che elleno per altra cagione sopranuotino sopra la superficie dell'acqua. |
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Or seguitando il mio proposito... [pag. 103, lin. 12] Adunque occorre che ricorriamo alla resistenza dell'acqua, a voler render ragione di questo accidente: la quale è agevol cosa mostrare, essere non solo nell'acqua, ma, come dice Aristotile, in tutti gli elementi e in tutti i continui. Ma si debbe avertire, che questa resistenza non è tale che repugni all'intera divisione, come il Galilei si crede, ma solo repugna alla divisione più facile e più dificile: imperciocchè noi veggiamo ch'il durissimo marmo si scava da una gocciola d'acqua, come disse Lucrezio e dappoi lui Properzio; e per ingegno umano abbiam veduti scavare i monti, come nel regno di Napoli apparisce. Adunque fa di mestieri che dichiamo, che niente è in tutto e per tutto è indivisibile, ma sì bene che una cosa è più divisibile ch'una altra che con manco forza e manco tempo si divide: anzi Aristotile prova che ogni continuo è divisibile in infinito, in mille luoghi, onde non si può dedurre dalla sua dottrina che egli voglia che l'acqua sia indivisibile, dicendo, nel capitolo che siamo per dichiarare, che de i continui altri son facili, altri son dificili, alla divisione. Ma volendo dimostrare, questa resistenza essere in tutti i continui, dal senso principierò, dal quale nostra intelligenza ha suo cominciamento. Dico, dunque, che movendosi nell'aria e nell'acqua una bacchetta, sensibilmente si vede che con più agevolezza in questa ch'in quella si muove; adunque per qualche cagione ciò de' avenire, e questa, al mio giudizio, sarà che l'acqua ha maggiore resistenza che l'aria. Non si può già dire che questa agevolezza dependa perchè le parte dell'acqua si deano muovere, e perciò in tempo: inperciocchè tanto si hanno a muovere quelle dell'aria, quanto quelle dell'acqua. E alle ragione venendo, si può dire che, se l'aria e l'acqua non hanno resistenza alla divisione, adunque il movimento si farà inistante. Imperciocchè ponghiamo ch'un mobile, eguale di peso e di figura, si deva muovere per ispazio ripieno di corpo ch'abbia resistenza, per eguale spazio ripieno di corpo che non abbia resistenza; e ponghiamo che per quello spazio che ha resistenzia egli si muova in un'ora, e per quello che non lo ha, in un centesimo d'ora. Il che è impossibile: conciosia che sì come il tempo ha proporzione al tempo, così lo spazio dee avere proporzione allo spazio; ma la resistenzia alla non resistenzia non ha proporzione alcuna, sì come l'ente al niente e il punto alla linea; adunque il tempo non può aver proporzione al non tempo. Onde avverrà, che se l'aria e l'acqua non hanno resistenza, ch'il movimento in loro si farà in istante. E per più agevolezza del lettore, sia dato il mobile A: muovasi per lo spazio ripieno di corpo resistente, e sia B, in tempo d'un'ora, e sia C; e muovasi il medesimo mobile per lo spazio ripieno di corpo non resistente, e sia D, in un centesimo d'ora, e sia E: dico ciò essere impossibile. Imperciochè la medesima proporzione che è da B a D, deve essere da C ad E; ma da B a D non è proporzione alcuna; adunque da C ad E non sarà proporzione alcuna: adunque il mobile A si moverà nello spazio ripieno di corpo resistente, in tempo; e in quello ripieno di corpo non resistente, in instante. Adunque se l'aria e l'acqua non hanno resistenza, il movimento in loro si farà in instante: il che è impossibile. La seconda ragione è, che un mobile più grave si muove nelle cose nelle quali il Sig. Galileo concede la resistenza, verbi grazia, nel piombo, più velocemente ch'un men grave; ma questo effetto si vede nell'acqua; adunque l'acqua avrà resistenza. A questo s'aggiugne, ch'un mobile equale di gravità o leggerezza ad un altro, ma diseguale di figura, si muove più velocemente nell'acqua che quell'altro non fa. Non si può dire che il mobile più largo si muova più difficilmente che lo stretto, perchè più parte d'acqua si abbino a muovere a concedere il luogo al largo che allo stretto, e perchè elleno si devino muovere per maggior spazio; conciosia che se è vero quello che dice il Sig. Galileo, questo non importi niente: imperciocchè, non avendo resistenza l'acqua alla divisione, ne segue ch'il movimento, come ho provato, si faccia in istante, onde in non tempo tanto si doveranno muovere le particelle dell'acqua che son sotto la figura larga, quanto quelle che sono sotto la stretta, quantunque elleno fussino più di numero e si avessero a muovere più spazio; imperciocchè sì come mille punti non fanno una linea, così mille istanti non fanno tempo. Adunque sarà vero, che l'acqua abbia resistenza alla semplice divisione. Il che dimostra ancora, che essendo la terra, come il Sig. Galileo vuole, resistente alla divisione, sarà necessario che sia ancora gli altri elementi: imperciocchè eglino son composti della medesima materia e della medesima qualità; adunque non par sia possibile che la terra abbia avere uno accidente e una propietà, e non la debba avere l'acqua. Dichiamo dunque che tutti gli elementi hanno resistenza alla divisione, e quelli più che sono più densi e meno dissipabili, e quelli meno che son più rari e più dissipabili: la qual densità e sodezza depende dal freddo e dal secco, o la rarità e la dissipabilità dal caldo: onde aviene che quelli elementi che per lor natura o per la lontananza del cielo son più freddi e più secchi, sono più densi e hanno maggior resistenza alla divisione; e quelli son più caldi, son più rari, hanno meno resistenza. |
Arist., 4 della Fisica, cont. 2, 71. Arist., nel med. luogo. Arist., 4 del Cielo, cap. ultimo. |
Ora ci resta a considerare le ragioni del Sig. Galileo con le quali egli s'ingegna di dimostrare il contrario. Diceva egli, primieramente, che questa resistenza non si ritrova nell'acqua: imperciocchè s'ella vi fusse, tanto sarebbe nelle parti interne, quanto in quelle vicine alla superficie; adunque l'assicella tanto dovrebbe fermare nel mezzo dell'acqua, quanto nella superficie. In rispondendo a questo, dico che la medesima resistenza è nelle parti interne dell'acqua che nelle esterne. Segno ne sia di ciò, come si è detto, che più veloce si muove nell'acqua un mobile di figura stretta, che di figura larga; anzi se la detta resistenza non fusse nelle parte interne dell'acqua, seguirebbe ch'il movimento si facesse in quelle in istante. Per qual cagione l'assicella si quieti nella superficie, e non nelle parte interiori dell'acqua, poco appresso diremo. Secondariamente, diceva che se l'acqua avesse resistenza, si vedrebbe qualche corpicello sopra quella quietare; ma non si ritruova alcun corpo, di qualunque materia figura o grandezza, resti dalla tenacità di essa impedito: il che egli prova con l'esperienza dell'acqua torbida, che si ripon ne' vasi ad uso di bere; ne' quali, in cinque o sei giorni, andandosene la terra, che per essa si ritrova, al fondo, resta pura e limpida. In quanto a che non si ritrovi cosa alcuna che per la resistenza dell'acqua sopranuoti sopra di essa, questo pare che repugni al senso, veggendo noi che la polvere non solo per l'acqua, ma ancora nell'aria galleggia, come poco appresso diremo. Quanto alla esperienza dell'acqua torbida, si debbe avertire che ella dura tanto tempo a ristiararsi, non perchè quelle particelle di terra non possino in tanto tempo penetrare la crasizie dell'acqua, ma perchè sono miste fra di loro la terra e l'acqua, onde ci vuol quel tempo sì grande a disfare quella mistura, come ancora al dividere la resistenza dell'acqua. Segno ne sia di ciò, che l'acque torbide si rischiarano più quando è lume di luna che quando non è, e quando tira vento che quando non tira: anzi molte acque si rischiarano più presto, e molte più adagio, sì come dell'acqua del Tevere e dell'acqua d'Arno aviene; il che io attribuirei alla maggiore e alla minor mistura di esse. Ma io crederei che questa sua esperienza non solo non atterassi la resistenza dell'acqua, ma ancora la provasse: imperciocchè se quello spazio che tanta terra quanto una veccia passa per un centesimo d'ora e forse meno, quelle particelle che sono nell'acqua torbida vi spendano quattro o sei giorni, solo per non poter penetrare o rompere la crasizie dell'acqua, mi pare che si possa dire che l'acqua abbia resistenza, se ella ritarda al movimento. Non è già semplicità il dire, che una cosa repungni alla divisione, che si lasci dividere: anzi è semplicità il dire il contrario. Imperciò, secondo il Sig. Galileo, il marmo non resiste alla divisione; e non dimeno egli si lascia dividere da una gocciola d'acqua. È ben vero che a dividerlo ci vuole quasi una etc., là dove quella in un momento divide e penetra l'aria o simil cose dissipabili: adunque è di necessità dire, ch'il marmo resista alla divisione più che non fa l'aria; ma non già, che non si possa dividere; anzi ch'ogni minimo corpicello lo divide. Si deve per ciò avertire, che tutti i continui son resistenti alla divisione, ma non già indivisibile. Basta, dunque, il ritrovare corpi che si muovino agiatamente nell'acqua, quantunque ancora si è mostrato che alcuni sene ritrovano, che sopra di essa si quietano. Ma venendo alla terza ragione, fondata sopra la sperienza d'una falda di cera che sia così eguale in gravità all'acqua che resti sotto la superficie di essa, la quale con un gran di piombo si fa profondare, ed essendo nel fondo, levatogli quel poco di peso sene torna a galla; dico che questa esperienza prova agevolmente la resistenza dell'acqua. Imperciocchè, se piglieremo la medesima cera e la ridurremo in una palla, si vedrà quanto più veloce si muove la palla nel salire e nello scendere, che non farà la piastra. Non è già maraviglia che quelle piastre di cera con un grano di piombo si faccino andare al fondo, o detrattolo ritornare a galla: imperciocchè fra la gravità e la leggerezza vi è un mezzo, che è come un punto fra due linee, il quale come si passa, agevolmente si divien grave e leggieri; e perciò quel poco di piombo può cagionare questo effetto. Era la quarta ragione, che una trave molto grande si muove trasversalmente per l'acqua tirata da un capello; onde non pare che l'acqua abbia alcuna resistenza, se non può resistere alla forza fattagli mediante un minimo capello. Alla quale esperienza si deve avertire, che le cose che si ritrovano nella superficie dell'acqua, anzi che sono mezze in aria e mezze in acqua, non occupando loro molto acqua, si possano muovere per il traverso agevolmente; e quelle che molto si profondano sotto il livello della superficie dell'acqua, si muovano meno agevolmente, per occupar molto di essa: onde aviene ch'ogni minima forza possa muovere queste, e non quelle. Anzi con questa esperienza si vede, l'acqua aver resistenza alla divisione: imperciocchè, secondo il Sig. Galileo, tanto si muove velocemente una gran quantità di legno, quanto una piccola; adunque tanto veloce si dovrebbe muovere una gran trave di legno quanto una piccola, se amendue fussero tirate da un sottil capello; là dove apparisce, che una gran trave si muove lentesimamente, e una piccola particella di essa molto più velocemente si muove: adunque fa di mestieri che dichiamo, che la trave si muove lentemente perchè ha da superare molte parte d'acqua, e quella parte di essa più velocemente per avere a superarne poche. Onde a ragione il Sig. Galileo da per sè s'impungna, ricercando qual sia la cagione, se l'acqua non ha resistenza, che i navili hanno di bisognio di tanta forza di vele e di remi a muoversi ne' laghi stangnanti e nel mar tranquillo: e rispondendo a questo dubbio, par che supponga una proposizione demostrata da Aristotile, che tutto quel che si muove, si muove in tempo. Ma avertisca il Sig. Galileo, che questa proposizione depende da quel principio che egli niega, cioè dalla resistenza de' mezzi: imperciocchè se l'aria e l'acqua non avessero resistenza, seguirebbe, in dottrina di Aristotile, che tutto quel che si muove in esse si dovesse muovere in uno istante; e perciò quando il Sig. Galileo dice, che non avendo l'acqua resistenza, quello che si muove in essa si muove in tempo, pare che da per sè stesso destrugga le sue conclusione, non avertendo che piglia le proposizioni demostrate da Aristotile mediante i principî che egli niega. Adunque sarà vero che l'acqua abbia resistenza, e per ciò che i navili nel mar tranquillo e ne' laghi stagnanti abbino bisogno di sì gran forza di remi e di vele. Si deve bene avertire, che quanto più saranno carichi, tanto saranno più dificili ad essere mossi; onde poste due nave che egualmente si profondino nell'acqua, se una sarà carica e l'altra scarica, che più velocemente dalla medesima forza sarà mossa questa che quella: e ciò perchè la forza non solo ha da fender l'acqua, ma a portare il maggior peso della nave carica. E nella nuova agiunta il Sig. Galileo constituendo due maniere di penetrare, l'una quando si penetra le cose continue, e l'altra quando si penetra le cose contigue, dice che nella prima penetrazione de' continui è necessaria la divisione, ma nella penetrazione de' contigui non fa di bisognio di dividere, ma solamente di muovere: quindi, parendogli di dire una cosa tanto contraria al senso, dice che si sente inclinare a credere che l'acqua sia un corpo contiguo, quantunque, a quello mi vien detto, egli e in tal cosa risolutissimo; ma perchè è cosa tanto strana, la va adombrando con dire che non è ben risoluto; ma se non è risoluto, si in tanto potrebbe risolvere. E noi gli dimostreremo, essere inpossibole che l'acqua sia un corpo contiguo, ma senza dubbio è continuo. Imperciocchè quello si chiama un corpo continuo, che ha un medesimo movimento; e tanto è più semplice continuo, quanto più è semplice il movimento: e perciò più è continuo una gamba dal ginocchio sino alla appiccatura del piè, che non è tutto un braccio; e questo aviene perchè il braccio è diviso in due parte, e poi congiunto con la legatura del gomito, e la gamba non ha legatura alcuna. Onde se noi ritroveremo che le parte dell'acqua si muovino d'uno istesso movimento nel medesimo tempo, sarà manifesto che l'acqua sia un corpo continuo. Ma questo si vede manifestamente: imperciocchè cadendo una gocciola d'acqua in terra, veggiamo tutta d'un medesimo movimento unirsi in sè stessa: il che non segue de i corpi contigui; come, se noi gettassimo in terra un monticello di rena o di polvere, ella non solo s'unirà insieme, ma si sparpaglierà. Anzi il Sig. Galileo dimostra per sensibile esperienza, che l'acqua s'attacca alle cose terree che di quella si traggano; il che non può seguire se l'acqua non è corpo continuo: imperciocchè i corpi contigui, non essendo uniti, non possano reggersi l'un l'altro, come nella polvere si vede. Adunque se alla falda del piombo del Sig. Galileo s'attacca una altra falda d'acqua, sarà necessario che l'acqua sia continua; non si vedendo la cagione perchè le parte indivisibili dell'acqua si puossino unire insieme in quella falda, essendo contigue. E di più, in che modo dell'assicelle dell'ebano e dell'aria se ne fa un composto, sì come il Sig. Galileo vuole, se l'aria è contigua? quale è quella virtù che unisce quelle particelle dell'aria, sì che le si uniscano a formare quel composto? qual virtù calamitica le ritiene insieme? Adunque pare che sia necessario, che l'acqua e l'aria sia un corpo continuo, e non contiguo. In oltre, il Sig. Galileo concede che la terra e le cose terree sien corpi continui: ma dee avvertire che questo effetto dalla acqua dipende; imperciocchè se non fusse l'acqua, la terra, come fredda e secca, non starebbe unita, anzi resterebbe in guisa che si vede la cenere, e la sua gran mole agevolmente si sparpaglierebbe. Il simile si vede nella cenere, nella farina, nella polvere e in molte altre cose contigue, che mediante l'acqua si fanno continue. E non doviàn dire che ella sia continua? Quanto a quella sperienza della divisione, che è diversa nell'argento sodo e nell'argento fuso, non dimostra, s'io non m'inganno, che l'argento fuso sia senza resistenza, e ch'il sodo abbia resistenza alla divisione, ma che l'argento sodo è più dificile, e il fuso è più facile, al dividersi. Imperciocchè essendo i metalli esalazioni e vapori acquei, nelle viscere della terra dal freddo congelati, perciò hanno la resistenza della terra, come nel ghiaccio apparisce; quando poi dal caldo si liquefanno, si riducano alla lor primiera natura, cioè alla resistenza dell'acqua. Non so già ritrovare, in che maniere il Sig. Galileo voglia che i metalli si dividino quasi in parte indivisibili da i sottilissimi aculi del fuoco, e quali sien questi aculi che in esso si ritrovano; se però egli non vuole che le cose si componghino di atomi e di parte indivisibili, il che non posso credere, come quel che repugna alle sue matematice, le quali non concedano che la linea e si componga di punti; oltre a che ci sono infinite ragioni d'Aristotile, alle quali il Sig. Galileo doveva rispondere. Ma per dimostrare che ancora nell'argento fuso sia resistenza alla divisione, si potrà pigliare due moli, eguali di peso e di materia e diseguali di figura, verbi grazia una ritonda e l'altra di figura piana; e si vedrà che la ritonda si moverà per entro a quello più veloce, e quell'altra più lenta. Adunque sono i corpi fluidi, e l'acqua istessa, corpi continui e non contigui; onde fa di mestiero che i solidi che si mettano nell'acqua penetrino dividendo, e non movendo: e perciò molti corpiccioli piccoli, come la polvere, galleggiano nell'acqua, non potendo fendere la continuità di essa. Adunque l'acqua ha resistenza all'esser divisa, sì come hanno tutti gli altri elementi e i composti di essi. Quello provi la macina, natante nell'acqua, tirata da un sottil capello, e quello provi le piastre della cera, già si è detto. Segue ora che ricerchiamo la cagione, perchè l'assicelle dell'ebano e le falde del ferro e del piombo, quando sono asciutte galleggiano sopra dell'acqua, e quando son bagnate se ne vanno al fondo; non tenendo per vere quelle che ne adduce il Sig. Galileo. Imperciocchè è falso che quella resistenza, che abbiam provato esser nell'acqua, sia più nelle parte superficiali che nelle parti interne, non apparendo il perchè e veggendosi per il senso altrimenti. Similmente la seconda, che le falde abbi a cominciare il movimento nella superficie, il quale si comincia più difficilmente che egli non si séguita, non pare possa esserne la cagione; quantunque io non nieghi ch'egli possa adoperar qualche cosa, vedendo noi che se le cose gravi si muovano, si muovono più velocemente quando sono più vicine al centro, movendosi però per un medesimo mezzo. Onde fa di mestiero il ricercarne nuova e vera cagione: e questa senza dubbio credo che sia, che l'acqua, oltre a quella resistenza che abbiam detto ch'ella ha insieme con tutti gli altri continui, ne ha un'altra. Imperciocchè noi veggiamo che tutte le cose che hanno l'essere, desiderano la propia conservazione, e quella alloro potere difendano. Quindi è che le piante sfuggono naturalmente l'uggia a loro nocevole, e che gli uccelli e i pesci mutano, secondo i tempi, luoghi e regioni; anzi l'acqua, cadendo sopra la terra, s'unisce in figura rotonda, per potere meglio difendersi. Adiviene ancora per questa ragione che gli elementi al suo luogo si muovono, perchè in quello da i contrarii meglio si difendano. Stando dunque questa proposizione, aviene che tutti gli elementi devano resistere alla divisione, imperciocchè da quella depende il lor propio distruggimento; conciosia che gli elementi e i composti da quelli, essendo composti di contrarie qualità, continuamente fra loro si distruggano: onde passando l'assicella dell'ebano per l'acqua, come quella che è un misto terreo, viene a corrompere qualche particella dell'acqua, e perciò ella resta unita, non desiderando la divisione, perchè da quella ne nasce la sua corruzione; là dove, quando l'assicella è bagnata, si lieva via questa resistenza, e perciò, non resistendo l'acqua, come quella che non sente il contrario, può l'assicella scorrere a suo piacere verso il fondo. In oltre, egli non è dubbio che a volere generare questo accidente ci vogliano due continui, l'uno è l'assicella dell'ebano, l'altro è l'acqua: ma non si avede il Sig. Galileo, che, bagnando l'assicella, di due continui se ne viene quasi a fare uno, perchè la superficie dell'assicella, dove che di sua natura è arida, bagnandosi diviene umida sì come è l'acqua. Per le quali ragioni si dee credere, che la detta assicella galleggi sopra dell'acqua. Non par già sia vero, che la detta assicella possa essere retta dall'aria contigua, e che di essa e dell'aria se ne faccia un misto men grave dell'acqua: imperciocchè, come abbiam detto, preso dell'acqua e bagnata l'assicella sino a tanto che intorno intorno vi resti tanta aria o altra materia che non sia acqua, come olio, mèle, o simili, si vede che ad ogni modo quella sopranuota. Adunque pare che si debba dire, che l'assicella dell'ebano e le piastre del ferro e del piombo non galleggino per l'aria aderente per virtù calamitica, ma sì bene per le già dette ragioni: imperciocchè essendo l'acqua corpo denso e sodo, e perciò resistente, e desiderando di restare unita, viene aver tanta virtù, che l'assicella con la sua inclinazione non la può superare, e per tal cagione sopranuota nell'acqua. Quindi agevolmente si scioglie ongni difficultà: imperciocchè la detta assicella non sopranuota nell'aria, perchè ella non è così densa e così resistente come l'acqua; e l'assicelle del noce del Sig. Galileo non restano al fondo, perchè non vi è quella resistenza che nella superficie si ritrova, cioè quella che depende dal desiderio dell'acqua della sua conservazione. Adunque fermiamo questa conclusione: che la quiete delle cose gravi nella superficie dell'acqua sia accidentale, e dependa da uno impedimento che da tre cagioni sia composto, il quale non lasci che le cose gravi, che di lor natura nell'acqua se ne andrebbano al fondo, possino eseguire il lor movimento; e queste tre cagioni sono la figura larga, la resistenza dell'acqua come densa e soda, e la resistenza di cosa che depende dal desiderio del suo propio conservamento. |
Nel 4, 6 della Fisica. Arist., 5 Met., cont. Arist., 2 della Generaz. e Cor. testo 49. |
Ora, poi che... Voglio... [pag. 108, lin. 36 – pag. 121, lin. 23]
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Voglio con un'altra esperienza... Ho detto... [pag. 121, lin. 23 – pag. 123, lin. 26] Avanti ch'io venga a considerare quella parte dove il Sig. Galileo impungna precisamente Aristotile, mi è paruto conveniente il considerare l'ultima esperienza colla quale il Sig. Galileo vuole provare che le piastre del piombo galleggino sopra l'acqua mediante la virtù dell'aria, quantunque, se mi ricordo, questa è una ragione altre volte da lui proposta. Ma che? questo è il suo solito: onde se per fortuna nel mio trattato ci fusse contra il buon ordine qualche repricazioni, spero che mi s'abbia a perdonare, dovendo io rispondere al Sig. Galileo, che di esse non si è molto guardato. E questa è, che una falda di piombo eguale di peso ad una palla, poste amendue nella superficie dell'acqua, sì come l'assicelle, la falda sarà molto più difficile a sollevare che la palla; adunque, sì come l'acqua s'attacca alla piastra di piombo mentre si solleva dalla sua superficie, così l'aria si dovrà attaccare a quella mentre ella si profonda nell'acqua. La qual consequenza io crederei che si potesse negare: imperciocchè, sì come abbiam detto, l'acqua ha una certa viscosità, con la quale ella s'attacca alle cose e particolarmente alle terree, della quale è privata l'aria; onde adiviene che l'acqua si attacca alla piastra, e l'aria non si può attaccare. In oltre fra l'acqua e la terra può esser qualche simpatia, avendo fra di loro una qualità comune, quale e la frigidità, là dove l'aria e la terra, come composte di contrarie qualità, non possono avere alcuna convenienza. E perciò io mi persuado che questo effetto possa accadere nell'acqua, e non nell'aria; e tanto più mi ci confermo, quanto si vede che non è l'aria che è cagione che le piastre e altre cose simile galleggino nell'acqua, come si è detto. Adunque è manifesto la cagione perchè le piastre del piombo e altre cose simili si quietano accidentalmente nell'acqua. Ci resta a considerare quello dice il Sig. Galileo contro a Aristotile. |
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Ho detto... Quanto al primo punto... [pag. 123, lin. 26 – pag. 124, lin. 1] Avendo sin qui considerato quello che in questa dubitazione ha detto il Sig. Galileo, e non ci essendo cosa che sia contro ad Aristotile, ci resta a considerare quello che egli gli oppone nel fine del quarto del Cielo. Nella qual considerazione ho giudicato esser bene addurre le parole del testo greche, e dipoi volgarizzarle, sì come nella sua Poetica fa il doctissimo cavalier Salviati; imperciocchè in tal maniera adoperando, più agevolmente si vedrà la 'ntenzione del Filosofo e si scorgerà qual sia il vero volgarizzamento. Egli non è dubbio che Aristotile, sì in questo luogo come in tutti gli altri, è stato di parere che la figura non possa cagionare il muoversi e il non muoversi semplicemente al centro o alla circonferenza; e perciò molto mal pare al Sig. Galileo che egli, nel rendere la cagione del sopranuotare delle piastre di ferro e di piombo, sia stato di contrario parere. La qual cagione s'egli o il Sig. Galileo l'avrà bene incontrata, da quello si dirà si potrà dedurre agevolmente. |
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Quanto al primo punto... [pag. 124, lin. 1] Queste son le parole precise: Τὰ δὲ σχήματα οὺκ αίτια του̃ φέρεσθαι άπλω̃ς η κάτω η ά̃νω, ὰλλὰ του̃ θα̃ττον η βραδύτερον δι’ ά̀ς δὲ αι̉τίας, ου̉ Χαλεπὸν ι̉ο̃ει̃ν «Ma le figure non son cause del muoversi semplicemente o in su o in giù, ma del più tardi e più veloce; per quali cagioni, non è difficile il vedere.» Tre sono l'esposizioni che si possono dare a questo luogo: la prima, congiugnendo la dizione semplicemente alla dizione figure; la seconda, alla dizione cause; la terza, alla dizione muoversi; tutte le quali son verissime, e niuna di esse ripugna nè ad Aristotile, nè alla natura di quel che si tratta. E dalla ultima incominciando, notisi che che nel testo d'Aristotile tre sono i termini, e non quattro come dice il Sig. Galileo, cioè movimento, più tardo, e più veloce, non ci essendo la quiete, nè il tardi e il veloce; e perciò nominando Aristotile le figure concause del più tardi e più veloce, ed escludendole dal movimento semplice e assoluto, ancora l'esclude dalla quiete semplice e assoluta, ma non da ogni quiete. Imperciocchè la quiete altra è naturale e altra accidentale, sì come si dice che il fuoco si quieta naturalmente nella sua sfera, e per accidente nelle viscere della terra. Onde è manifesto che Aristotile afferma, le figure non esser cagione del moto semplice, e in consequente della quiete semplice e assoluta, ma non d'ogni quiete; conciosia che la medesima cagione che negli elementi produce il movimento naturale, produce ancora la quiete naturale. Segno ne sia la terra, che per la gravità al centro si muove, e per quella ancora nel centro si quieta; e il fuoco, che per la leggerezza ha il suo natural movimento e la quiete. Là dove la quiete accidentale ha diversa cagione da quella del natural movimento: imperciocchè il fuoco si quieta accidentalmente nelle viscere della terra per la gran resistenza di essa, e per la propia leggerezza naturalmente si muove. Adunque chi dicesse, le figure non esser cagion del muoversi semplicemente, ma sì bene in qualche maniera della quiete accidentale, favellerebbe dirittamente. Se il Sig. Galileo mi domandasse quali sieno quelle figure che cagionano nell'acqua la quiete accidentale in quei corpi che naturalmente si moverebbano, gli risponderei quelle essere le larghe o sottili: e se egli repricasse: «Adunque quelle ritonde o grosse saranno causa di muoversi», gli direi ciò esser falsissimo, Imperciocchè quantunque si vegga le falde del ferro e del piombo quietarsi sopra dell'acqua, e ridotte in figura rotonda muoversi, non per questo la figura rotonda sarà cagione di quel moto, nè ancora come rimovente lo 'mpedimento; conciosia che la resistenza dell'acqua e la figura larga siano lo 'mpedimento che ritiene le piastre del ferro e del piombo; e perciò chi muta la figura larga in rotonda, è cagione rimovente lo 'mpedimento, e non la figura rotonda. Ma quando si concedesse ancora che la figura rotonda fusse cagion come rimovente lo 'mpedimento, non sarebbe, così come vi pensate, dirittamente contro ad Aristotile: imperciocchè egli dice che le figure non son causa del movimento semplice, e non del movimento in genere; onde quando la figura rotonda fosse cagione del movimento come rimovente lo 'mpedimento, non sarebbe cagione del movimento semplice e naturale se non per accidente; e se quella materia che sotto diverse figure si ritrova, non fusse atta a muoversi in recto naturalmente, mal si potrebbe muovere mutandola in qual si voglia figura. E perciò avendo Aristotile escluse le figure come cagioni del moto semplice e naturale, e in consequenzia della quiete naturale, a ragione dubita perchè le falde del ferro e del piombo si quietino sopra dell'acqua, potendosi sempre dubitare se si quietano naturalmente, dove ch'egli dimostra che elleno sopranuotano per altra cagione e accidentalmente. Adunque è manifesto che Aristotile conclude, le figure non essere cagioni del movimento semplice, e in consequenza della quiete naturale, ma sì bene del più veloce e del più tardo; e che egli non nega che le figure in qualche guisa possano cagionar la quiete accidentale, come egli poco appresso manifesterà: onde non apparendo la mente di Aristotile inconsequenzia contro a' nostri aversari, non è forza che la loro esposizione non sia precisamente tale; se poi da loro avete altramente inteso, questo può essere agevolmente. La seconda esposizione, congiugnendo la dizione semplicemente alla dizione cause, dal Sig. Galileo stimata di celebri interpreti, ma fuori di ragione, quantunque questa possa essere del Buonamico, tuttavia per non averla egli detta nell'esposizione di questo luogo, e per essere esposto, come diremo, diversamente da Temistio, Simplicio, Averroe e San Tommaso, i quali si deono chiamare celebri commentatori di Aristotile, o non la chiamerei di celebri commentatori. Ma sia come si vuole, questa esposizione, o del Buonamico, o de' vostri avversari, o di qual si voglia, è verace e buona, e in tal guisa si può ottimamente intendere Aristotile; quasi egli dica, che le figure non sien cagioni semplicemente del movimento, ma del più tardi e del più veloce. |
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Intorno questa esposizione... [pag. 125, lin. 19] Quanto alle difficultà proposte dal Sig. Galileo, è agevole la risposta. E dalla prima incominciando, dico che se il Sig. Galileo, sì come si dà ad intendere, avesse ben visto e letto Aristotile, poteva far di meno di non addurre questa ragione e questa difficultà: imperciocchè avrebbe ritrovato ne gli Elenchi e nella difesa de' poeti, nel fine de i libri della Poetica, che quando le parole nella testura generan difficultà e contrarietà a coloro che le scrivono, si deono correggere κατα διαίρεσιν, cioè per la divisione o col punteggiare ben le scritture; e se egli non credeva ad Aristotile, dovea legger Quintiliano nei settimo libro, dove e' tratta dell'ambiguità. Ma, secondo mi vien referto, il Sig. Galileo si compiace di studiar le cose in su il libro della natura, e non vederle sopra le fatiche de' valent'uomini. E perciò se la dizione semplicemente cagionasse contrarietà accoppiata con la dizione muoversi, il che non è vero, si dovrebbe adattarla in altra maniera, sì come fece Aristotile difendendo Empedocle, il quale in un sol verso si contrariava infinitamente, come si è detto. Oltre a che non ci doviam maravigliare che Aristotile collocasse in tal guisa la dizione άπλω̃ς,: imperciochè a chi vuole scriver bene, fa di mestiero l'accomodar le parole dove elle rendono miglior suono; onde Aristotile, che col testimonio di Cicerone scrisse ottimamente tra i Greci, così le volle ordinare, conciosiachè il punteggiare sia quello che renda chiara ogni scrittura. |
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Di più, se l'intenzione d'Aristotile... Aggiungo che, se... [pag. 125, lin. 36 – pag. 126, lin. 16] Quanto al secondo, affermo che il dire «non son cause semplicemente del moto, ma del moto più tardi e del più veloce», non solo è superfluo e falso, ma necessario e vero. E notisi che Aristotile dice «più tardi e più veloce», e non «tardi e veloce»: il che si mette in considerazione, non perchè importi alla nostra dubitazione, ma per mostrare che si debbe andar cauto nell'esporre gli autori, e non pigliare un termine per uno altro. Imperciocchè tre sono le cagioni assolute del più tardi e del più veloce nel movimento: la maggiore o minore inclinazione del mobile, la resistenza del mezzo e la varietà della figura. Della maggiore o minor inclinazione del mobile, non pare possa cader sotto dubitazione. Quanto alla resistenza, già si è detto a bastanza. Ci resta dunque a dimostrare, che la varietà della figura renda assolutamente, e di sua natura e per sè, il movimento più tardi e più veloce. Il che pare che il Sig. Galileo altre volte conceda, come che ora si nieghi per troppa vaghezza di contradire: imperciochè dice a carte 26 [pag. 88, lin. 1-2]: «Può ben l'ampiezza della figura ritardar la velocità, tanto della scesa quanto della salita»; e a car. 33 [pag. 95, lin. 17-18]: «e di tal tardità ne è veramente cagione la figura»: ma perchè egli potrebbe sfuggire in dicendo che intende che la figura sia cagione per accidente, e non semplicemente, perciò così mi è paruto di provarlo. Pongasi per tanto nel medesimo mezzo due mobili eguali d'inclinazione, cioè di gravità o di leggerezza, ma diseguali di figura, verbi grazia l'uno sferico e l'altro circolare; sensibilmente apparirà, l'uno muoversi più tardi, e l'altro muoversi più veloce: se, dunque, di questo accidente non è cagione la inclinazione, non la resistenza, sarà necessario esserne la figura. Adunque la figura è causa, per sè e semplicemente, d'una specie di più veloce e più tardo. Ma che la figura di questa velocità sia cagione per sè assoluta, non credo che il Sig. Galileo ne debba dubitar punto: imperciocchè dando l'inclinazione si darà il movimento, che, come ben dice Aristotile, non può essere prodotto dalla figura; ma concedendo che un mobile figurato si muova, ne segue necessariamente che 'l suo movimento per quella si è tardo o veloce: onde è ben vero che la figura non cagiona il movimento retto, perciocchè ancora le matematiche si moverebbono, e il cielo al centro e alla circunferenza, come gli elementi, avrebbe il suo movimento; ma è cagione del più tardi e del più veloce. Quanto al testo 71 del quinto della Fisica, ancorchè Aristotile in quello non faccia espressa menzione della figura, tuttavia l'include in quelle parole: αν ταλλα ταυτα υπάρχη, cioè «se avranno le medesime condizioni»: il che dichiarando nel testo 74, non solo, come si pensa il Sig. Galileo, la mette come causa instrumentale, ma al pari della gravità e della leggerezza, dicendo: η γαρ σχήματι διαιρει η ροπη ην εχει το φερόμενον, cioè: «conciosia che il mobile divida o per la figura o per l'inclinazione». Notisi che il movimento e l'inclinazione appresso d'Aristotile s'appartiene alla gravità e alla leggerezza, come si è detto; e perciò pare che il Sig. Galileo adduca falsamente le parole del testo di esso, dicendo: «La gravità divide per la figura o per l'inclinazione», e Aristotile dice: «Il mobile divide per l'inclinazione, cioè per la gravità, per la leggerezza, e per la figura». E si deve avvertire che lo intendere in questa maniera il testo leva ogni difficultà; imperciocchè Aristotile espressamente mette al medesimo grado la figura, e la leggerezza e la gravità. Adunque se la gravità e la leggerezza è causa, assoluta e per sè, del dividere e della velocità, dee esser ancora la figura, come si è detto, causa assoluta e per sè. |
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Aggiungo che se Aristotile... [pag. 126, lin. 16] Al terzo argomento si risponde, che avendo Aristotile fatta questa conclusione: «le figure non essere cause semplicemente del muoversi o del non muoversi, ma del muoversi più tardo e del più veloce», il cercare, in forma di dubitare, perchè le falde galleggino sopra dell'acqua, non è punto stato a sproposito, ma convenientissimo: imperciocchè, se già egli aveva detto che le figure non son cause semplicemente e per sè della quiete, ci restava da dubitare, in che modo la figura può far sopranuotare le piastre del ferro e del piombo. Il qual problema dichiarando Aristotile, dice che la figura non è cagione semplicemente, ma come apportatrice dell'impedimento onde aviene che le piastre sopra dell'acqua galleggino. Mi piace, alquanto in digredendo, dimostrare e dire ch'io dubito ch'il Sig. Galileo non interpreti bene il testo d'Aristotile, quando egli dice, molte consequenze non essere degne d'un fanciullo, e son le vere e le germane sentenzie d'Aristotile: e questo avviene, s'io non m'inganno, perchè egli non distingue, come doverebbe fare. Perchè nel libro della natura, dove infinite distinzioni si leggono, tanto studiato dal Sig. Galilei, quelle che a intender questo luogo d'Aristotile fanno di mistieri vi son chiarissime: cioè che i mobili che per lor natura si muovono d'un movimento, interviene alle volte, per alcune circunstanze, il muoversi di contrario movimento, che si chiama moto accidentale; come il fuoco che di sua natura si muove all'in su, ma quando è forzato si muove al centro, come nelle saette si vede: in oltre, che uno agente d'un movimento accidentale non può esser cagione nel medesimo tempo dell'effetto contrario; verbi grazia, che quel che tira le cose gravi alla circunferenza, e perciò è cagione del moto per accidente, non può essere cagione della quiete accidentale in un medesimo tempo. E qui si potrebbe dire al Sig. Galilei, ch'e' bisognerebbe, a dar contro gli autor nobili, andar più adagio. Al quarto avvertisca, che Aristotile non ha voluto stabilire in questo luogo che la figura sia cagione in qualche modo della quiete, avendo detto, come infinite volte si è replicato, che la figura non è cagione semplicemente del muoversi, ma del più tardo e del più veloce, donde si deduce che, non essendo cagione del movimento semplice, non è anco cagione della quiete semplice e assoluta; di poi in un particular solo dimostra come la figura può indur quiete per accidente, e non per sè; e questo è, quando la figura larga, accoppiandosi con la resistenza dell'acqua, è cagione che le piastre di ferro restino sopra dell'acqua: e perciò si può concludere che Aristotile in queste parole non abbia attribuito alla figura assolutamente virtù di muovere e di quietare. Ma non ha negato che per accidente ella non possa questo effetto cagionare; onde poco appresso egli dimostra, in che guisa ella questo effetto, con la virtù del continuo, potrà produrre. La terza esposizione, come quella che è de' migliori commentatori d'Aristotile, devesi seguitare, cioè che la dizione άπλω̃ς si adatti alla dizione figure. Onde diceva Temistio: «Le figure universalmente non son cagione del movimento de gli elementi, ma che eglino più tardi e più velocemente si muovino»: a questo s'aggiugne Simplicio, mentre diceva, la figura semplicemente non esser cagion del moto, ma del più tardi e del più veloce: e per non tediare i lettori, Averroe, San Tommaso, e tutti i commentatori, son di questa opinione, e perciò pare che questa si debba seguitare; quantunque, come si è detto, tutte sien verissime, e in nessuna accaggia alcuna difficultà o cosa che si possa chiamar errore. Ma se gli argomenti del Sig. Galilei fussono ancora contra questa esposizione, gli si potranno adattare le medesime soluzioni che si son dette di sopra. ’Απορει̃ται γαρ νυ̃ν, δια τί τα πλατέα σιδήρια, και μόλιβδος, επιπλει̃ επι του̃ υδατος, αλλα δε ελάττω και ηττον βαρέα, αν η στρογγυλα η μακρά, οιον βελόνη, κάτω φέρεται. «Imperciocchè si dubita ora, perchè le falde di ferro e di piombo sopranuotano sopra l'acqua, e l'altre cose minori e men gravi, se saranno rotonde o lunghe, come l'ago, si muovono all'ingiù.» |
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Ecco che Aristotile propone il tanto impugnato problema, nel quale lui aver filosofato ottimamente abbian dimostrato sino a ora. Ci resta a sciorre le difficultà, che, rappresentandosi al Sig. Galileo, gli danno occasione di dubitare che Aristotile non abbia ritrovata la vera cagione: alle quali si potrebbano dare tali soluzioni, che se il Sig. Galileo sarà più alla confession della verità, che alla contradizione, inclinato, resterà capace di essa. Primieramente, a quello dice, che uno ago posato sopra dell'acqua resti a galla non altrimenti che le falde del ferro e del piombo, che egli stima cotanto contro ad Aristotile, crederei che facilmente gli si potesse rispondere. E prima, non accettando l'esposizion di coloro che credono che si debba intender dell'ago messo per punta, come contradicente al testo che ragiona delle cose messe per la lunghezza e non per l'altezza, dico, che quando ne gli autori si ritrovano delle parole anfibologiche, sì come dice Aristotile ne gli Elenchi e ne' libri della Poetica, si debbano distinguere, e adattare al testo quella significazione che più è verace, altrimenti sarebbe, non intendendo gli autori, calunniarli contr'a ragione. Adunque se la dizione βελόνη nella greca favella ha molte significazioni, come è verissimo, si dee pigliare quella che è più atta ad esplicare il testo; cioè che Aristotile si serva di detta dizione quando significa de gli aghi grossi, e non di quegli da cucir sottigliami. Quanto sia a sproposito il dar questa interpretazione al testo, o non intendendo gli autori calunniarli, lo lascerò giudicare a lui. Alla domanda, non solo posta nella prima edizione, ma ancora nella seconda replicata, se Aristotile credeva che gli aghi piccoli e sottili galleggiassero o no, rispondo che sì. Alla nuova accusa del Sig. Galileo, d'avere sfuggito un problema maraviglioso e difficile, e introdotto un più facile e di maraviglia minore, rispondendo reprico, che, se fussi vera, che cosa inconvenevole sarebbe ella? Era in questo luogo obbligato ad esplicare tutti i problemi particulari? imperciocchè i problemi particulari richieggono diversi trattati dagli universali, sì come dimostra Aristotile, Teofrasto, Alessandro e mille altri: tratta dunque solo del primo, e perchè da Democrito era stato proposto, e perchè molto al trattato delle figure si apparteneva. Ma quando la dizione βελόνη non avesse altra significazione che di piccolissimi aghi, de' quali alcuni galleggiassero, come egli dice, non per questo sarebbe contro ad Aristotile. Imperciocchè poco di sotto ci mostrerà che qual si voglia materia, benchè gravissima e di qual si voglia figura, riducendosi a sì poca gravità che non possa fendere la continuità dell'acqua, sopranuota; anzi che la polvere non solo nell'acqua, ma nell'aria si regge: e perciò notisi dal Sig. Galileo che Aristotile non ha tralasciato questo problema, che ancora gli aghi che nell'acqua si muovano all'ingiù, se si ridurranno a sì poca gravità ch'eglino non possano fender l'acqua, in quella si reggeranno: adunque, sì come non sarebbe falso se dicessimo che la terra nell'aria si muove al centro, ancorchè la polvere, che è terra, in quella sopranuoti, così non sarà falso dicendo che gli aghi al centro nell'acqua si muovano, quantunque alcuni in quella, per non la poter dividere, si quietano. Onde è manifesto che nell'una e nell'altra maniera si salva il testo d'Aristotile, se bene io più aderirei alla seconda esposizione, ch'egli non abbia tralasciato questo problema. E che da vero, sentite: και οτι ενια δια σμικρότητα επιπλει, οιον το ψηγμα και αλλα γεώδη και κονιορτώδη επι του̃ αέρος. «e perchè molte cose piccolissime sopranuotino nell'acqua pulverulente, come la rena dell'oro e altre cose terrestre o spolverizzate nell'aria.» Io non so perchè il Sig. Galileo dica che Aristotile propone una altra conclusione, se conclusione è quella che da argomento depende, non avendo egli fatto argomento alcuno: egli si doveva più tosto dire, da poi che si ha da trattare de' termini fanciulleschi, una questione, un problema, una proposizione. La quale consideriamo se è diversa dal vero, come dice il Sig. Galileo. Ma prima notisi che la dizione ψηγμα non significa l'oro in foglie, ma sì bene spolverizzato, come dal Sig. Galileo si pensa, che s'appiglia al testo di Averroe, che per giudizio de' migliori filosofanti in molte cose è corrotto, e al traduttore di Simplicio, il quale è stato ingannato dalle parole di esso, che egli male intese: δεύτερον δε, δια τί τινω̃ν και τω̃ν βάρος εχόντων σωμάτων τα μέρη επιπολάζει τω̃ υδατι, ως του̃ χρυσου̃ ψη̃γμα και φύλλα και τα κονιορτώδη εν τω̃ αέρι. |
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«e secondariamente, perchè le particelle de' corpi che hanno gravità, sopranuotano nell'acqua, come la limatura e le foglie dell'oro e le cose pulverulente nell'aria»: dove egli si pensa che Simplicio avessi posta la dizione foglie come dichiarazione dell'altra parola ψη̃γμα, e perciò nella traduzzione disse ψη̃γμα, cioè foglie dell'oro, il che non è vero. Nel secondo luogo si debbo avertire, che Aristotile non dice che la limatura dell'oro sopranuoti nell'aria, ma nell'acqua; il che dimostra chiarissimamente Simplicio, come aviàn detto, nel dichiarare le parole di Aristotile; onde fa di mestieri il distinguere, per la divisione, il testo sì come lo distingue Simplicio. Non dicendo, adunque, Aristotile che la limatura dell'oro per l'aria, ma per l'acqua galleggi, non so vedere qual sia quella esperienza che ci dimostra il contrario. E quando egli lo dicesse, e ch'il testo stesse nella maniera ch'il Sig. Galileo lo traduce, tutta volta le esperienze di Aristotile son verissime. Imperciocchè, che la polvere sopranuoti nell'acqua, per una facile esperienza apparisce: e questa è, che spazzandosi e spolverandosi le stanze, dentro delle quali sia un vaso pieno d'acqua (come può avere avertito ogni minima femminella), vedesi in esso tanta polvere galleggiare, che par propio un velo; e non dimeno niuna particella di quella polvere è invisibile, e ad una ad una si veggiono, là dove nella vostra acqua torbida molte centinaia insieme non appariscono, della quale esperienza si è detto a bastanza. Quanto a che la medesima polvere resti nell'aria come nell'acqua, si vede la mattina a buon'ora, mentre il sole entra per le stanze, che una infinità d'atomi per l'aria ne va vagando; il che da Lucrezio, tanto dotto filosofo quanto leggiadro poeta, leggiadramente si descrive: |
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Contemplator enim , cum solis lumina cumque Interdum fundunt radios per opaca domorum, Multa minuta modis multis per inane videbis Corpora misceri radiorum lumine in ipso, Et veluti aeterno certamine praelia pugnasque Edere turmatim certantia, nec dare pausam. |
Libro secondo |
Si deve avertire che questo non adiviene per la commozione de i venti; anzi quanto più il tempo è quieto, tanto più queste particelle nell'aria si veggiono, delle quali senza dubbio credo abbia voluto significare Aristotile. Quello che della polvere si è detto, segue ancora della sottil limatura dell'oro: onde è manifesto, che quanto son vere le esperienze di Aristotile, tanto false quelle del Sig. Galileo. E notisi che il Sig. Galileo dice che i globetti del piombo, gli aghi, sopranuotino nell'acqua, e ora nega che la polvere sopra di quella galleggi: ora io desidererei sapere perchè quelli e non questa sopranuota, se quelli son più gravi che questa; onde par che il Sig. Galileo fusse in obligo di dimostrare perchè questa differenza in questi suggetti si ritrova. Περι δη τούτων απάντων το μεν νομίζειν αιτιον ειναι ωσπερ Δημόκριτος, ουκ oρθω̃ς εχει. ’Εκει̃νος γάρ φησι, τα ανω φερόμενα θερμα εκ του̃ υδατος ανακωχεύειν τα πλατέα τω̃ν εχόντων βάρος, τα δε στενα διαπίπτειν δλίγα γαρ ειναι τα αντικρύοντα αυτοι̃ς. ’Εδει δ’ εν τω̃ αέρι ετι μα̃λλον του̃το ποιει̃ν, ωσπερ ενίσταται κακει̃νος αυτός, αλλ’ ενοτας λύει μαλακω̃ς φησι γαρ ουκ εις εν ορμα̃v τον σου̃ν, λέγων σου̃ν την κίνησιν τω̃ν ανω φερομένων σωμάτων. «Ma di tutte queste cose il pensare esserne la cagione come Democrito, non ha del conveniente. Imperciocchè egli dice che gli atomi ignei che si muovano all'insù per l'acqua, ritardano le piastre delle cose che hanno gravità; e le strette si muovano all'ingiù, essendo pochi l'atomi che gli si oppongano. Ma era necessario che molto più eglino facesseno questo nell'aria, sì come egli a sè stesso oppone, e opponendo solve debolmente; imperciocchè egli dice che nell'aria non fanno il movimento in un punto, dicendo σου̃ν il movimento de i corpi che all'ingiù si muovano.» |
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Passa poi a confutare Democrito... Quel che ha fatto... [pag. 129, lin. 24 – pag. 130, lin. 24] Anzi Aristotile passa a spiegare la sentenzia di Democrito, e non a confutarla, il quale diceva, gli atomi ignei che si muovano all'insù per l'acqua, essere cagione della quiete delle falde del ferro e del piombo; ed avendola riferita, ne adduce una instanzia di Democrito con la sua soluzione, la quale egli stimando debole non impugna, facendo molte volte come le saette far sogliano, che sfuggono le cose debole senza nuocergli, e le gagliarde e forte rompano e sfracassano. È dunque l'instanza che Democrito si fa contro, che se fusse vero che gli atomi ignei sostenessero le falde del piombo nell'acqua, lo doverebbano ancora sostenere nell'aria; il che non segue: e il medesimo Democrito scioglie questa dubitazione, dicendo che gli atomi nell'acqua hanno il movimento unito, e nell'aria si sparpagliano; la qual soluzione da Aristotile non si impugna, ma egli solamente dice che è debol soluzione. E se volesse sapere perchè è debole soluzione, sarà facile il dimostrarlo. Ma prima si deve avvertire al modo d'Aristotile nel confutare gli antichi, il quale quasi sempre procede contro di loro con i loro principi, come quello che con le propie armi li voleva superare e vincere: e perciò io, seguitando le sue vestigie, prima suppongo, secondo Democrito, che si dieno gli atomi ignei, quantunque Aristotile nella Fisica, nel Cielo, nella Generazione e nella Metafisica, abbia dimostrato questo principio Democritico esser falso. Supponendo dunque questo principio, per due cagioni gli atomi ignei dovrebbano sostenere maggiormente le falde del ferro nell'aria che nell'acqua. La prima è, che essendo il calore, che da gli atomi è generato, molto maggiore nell'aria che nell'acqua, dimostra, quivi essere più atomi dove è maggior calore: e chi non sa che i molti possano meglio che pochi adoperare? La seconda è, che gli atomi ignei più veloci nell'aria che nell'acqua si muovano, come da me si è dimostrato. Adunque, sendo più gagliardo il movimento de gli atomi ignei nell'aria che nell'acqua, potranno più agevolmente sostenere le falde nell'aria che nell'acqua; e perciò Democrito scioglie la sua dubitazione debolmente: e perciò doviam dire che la cagione addotta da Democrito non paia al tutto vera, e che la sua istanzia resti in vigore e la soluzione sia alquanto debole. Quanto a quello che gli atomi ignei, come si è detto, più velocemente nell'aria che nell'acqua si muovino, io lo stimo verissimo, come credo di sopra aver provato; e alle nuove difficultà rispondendo, si vedrà se il Sig. Galileo o Aristotile si è ingannato in più d'un conto. E al primo rispondendo, il quale è ch'essendo il movimento all'ingiù più veloce nell'aria che nell'acqua, doverà, per la contraria cagione, il movimento all'insù essere più veloce nell'acqua che nell'aria (imperciocchè i mobili che hanno gravità, quanto più si accostano al termine propio, tanto diminuiscano di gravità; e perciò si crede egli che i mobili gravi si muovono più velocemente nell'aria che nell'acqua; onde adiverrebbe ch'ancora i mobili che hanno leggerezza si dovessino muovere più velocemente nell'acqua che nell'aria); avanti rispondiamo, notisi che la velocità da tre cagioni, come si è detto, dipende, dalla maggior resistenza del mezzo, da maggiore inclinazione, e da figura più atta a dividere; e che, secondo Aristotile, la seconda e la terza s'appoggia alla prima: imperciocchè i mobili che hanno maggiore inclinazione e più atta figura, si muovano più velocemente, perchè fendano più facilmente la resistenza del mezzo; e perciochè, non essendo la resistenza, non sarà tardità o velocità alcuna, anzi non sarà movimento, come si è detto; al che non avertendo Giovanni Grammatico, si messe a contradire ad Aristotile. Adunque bisogna considerare se quella velocità che nelle cose gravi si ritrova, mentre sono nell'aria, dalla resistenza o da la maggior inclinazione della gravità dipende; essendo chiaro che dalla figura non ha sua origine, ed essendo manifesto che quella velocità dalla maggior resistenza e non dalla maggior inclinazione. Imperciocchè le cose gravi, o son gravi di gravità assoluta; come la terra, che per sua natura, secondo Platone e Aristotile, per tutti i luoghi è gravissima, è impossibile che divenga più e men grave: e le leggieri di leggerezza assoluta, è impossibile che divenghino più e men leggieri; anzi quanto più al centro s'avicinano, più velocemente si muovano: e ne i propii luoghi e quelli mantiene la gravità e questi la leggerezza; segno ne sia che si quietano nel centro e nella circonferenza, e di quivi non si possano rimuovere senza gran violenza. Quelle cose che son gravi o leggieri di leggerezza respettiva, possan diminuir la loro inclinazione, e far l'effetto che dice il Sig. Galileo; imperciocchè hanno una volta non solo a fermarsi, ma ancora, sendo per qualche accidente rimossi di quel luogo al centro, hanno a tornare a racquistarlo: verbi grazia, l'acqua, che, come grave, si muove nell'aria, quando è arrivata al suo centro, se bene è grave, non è così grave che possa nella terra generar movimento all'ingiù; e perciò quando nella terra per qualche accidente si profonda, divien leggieri, e all'in su si muove. Venendo dunque all'argumento, dico, che trattandosi della terra e del fuoco, l'una delle quali è grave assoluta e l'altro leggieri assoluto, che per tutti i luoghi sono egualmente gravi e leggieri, sarà impossibile che sien più e men veloci nella acqua o nell'aria, ma in tutti a duo i luoghi saranno veloci equalmente, e perciò non ci entra l'argumento del contrario; massimamente essendo chiaro, che quella velocità depende dalla maggiore e minor resistenza, e non dalla maggiore e minor inclinazione. Onde temo che il Sig. Galileo non abbi d'una cosa in un'altra, cioè dalla gravità respettiva alla gravità assoluta, e dalla velocità che depende dalla resistenza a quella che della maggiore inclinazione, che non è altro se non fare di molti sofismi a simpliciter a quodammodo. |
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Quel c'ha fatto credere... [pag. 130, lin. 24] Queste ragioni, che abbiam dette, sono state in causa che Aristotile non ha volsuto ch'il fuoco più velocemente nell'aria che nell'acqua: e avertasi ch'egli non solo ha risguardato alla minor e maggior resistenza de i mezzi, e alla diversità, ma ancora alla maggiore e minore inclinazione del mobile, come già il Sig. Galileo accennò citando il testo 71 del quinto della Fisica. Ma chi direbbe mai, quantunque poco esercitato in Aristotile, che egli non avesse tenuto conto della gravità non solo rispetto al più veloce, ma ancora al moto istesso e la quiete? Imperciocchè egli nel quarto del Cielo ponendo la gravità e la leggerezza respettiva, che ora è grave e ora leggieri, e pur il contrario se egli non avessi visto ch'uno elemento rispetto a un luogo è grave e rispetto all'altro è leggieri; verbi grazia, l'acqua nell'aria è grave perchè la pesa più di quella, e perciò si muove al centro, e nella terra divien leggieri, e perciò si muove alla circunferenza; adunque bisognerà confessare che Aristotile ha considerato l'eccesso della gravità del mobile rispetto al mezzo: onde avviene che quelli elementi che diminuiscano la gravità e la leggerezza, cioè quelli di inclinazione respettiva, in un luogo si muovono al centro, nell'altro si quietano, e nell'altro alla circunferenza. Ma perchè egli non l'ha considerato nella gravità assoluta, il Sig. Galileo si pensa ch'egli non l'abbia considerato nella respettiva; il che è tornare al nostro solito di argumentare a simpliciter a quodammodo, essendo manifesto in un intero libro d'Aristotile, che dell'eccesso della gravità de' mobili respetto a i mezzi egli ne ha auto diligente conto. Quanto alla leggerezza positiva si dia non altrimenti che la gravità, si è dimostrato con tante ragioni, che sarebbe superfluo il soggiugnerne d'avantaggio. Aspetterò dunque che il Sig. Galileo ce lo dimostri con ragioni e con esperienze, quando arà tempo e quando egli ne arà maggior necessità. |
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L'instanzia, dunque, di Aristotile... [pag. 131, lin. 11] Anzi l'instanzia di Democrito contro a sè stesso, e non d'Aristotile, è in vigore, essendo manifesto che il movimento del fuoco è più veloce nell'aria che nell'acqua. Non è già buona la soluzione di Democrito, ch'il movimento de gli atomi sia più unito nell'acqua che nell'aria; imperciocchè nè egli nè il Sig. Galileo, che fa del Democritico, non dimostrano per che cagione gli atomi più si devano sparpagliare nell'aria che nell'acqua. La potranno dimostrare; e se sarà vera, gli prometto che più sarò alla verità che alla contradizione inclinato. |
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S'inganna, secondariamente, Aristotile... [pag. 131, lin. 21] Essendo l'instanzia di Democrito, s'ingannerà Democrito, e non Aristotile: ma averta il Sig. Galileo, che nè l'uno nè l'altro s'inganna, dicendo che le piastre del ferro e del piombo più si dovrebbano sostenere nell'aria che nell'acqua, stando l'opinione di Democrito. Imperciocchè il piombo e il ferro son gravi di gravità assoluta; e il Sig. Galileo argumenta dicendo, che tal corpo peserà cento libbre, che nell'acqua sarà leggieri: ma questi sono di gravità respettiva: adunque l'argumento non conclude. Anzi le falde del ferro e del piombo, sendo gravissime, tanto saranno grave nell'aria che nell'acqua: il che per esperienza agevolmente si può provare. E per far ciò, piglisi tanto piombo che nell'aria contrapesi due libbre; dico che nell'acqua lo contrapeserà: e questo adiviene perchè è grave di gravità assoluta. Ma se si metterà una bilancia nell'acqua e l'altra nell'aria, quella dell'aria peserà più per la resistenza: imperciocchè la resistenza dell'acqua sostenendo quella bilancia che è in essa, viene a diminuire il peso; e quindi aviene che molte machine nell'acqua son sostenute da minor forza che nell'aria, trattando sempre della gravità non assoluta. Concludasi, dunque, che nel particulare del Sig. Galileo, se nessuno ha filosofato male, egli è stato Democrito, e non Aristotile, se ben io direi che in questa instanzia niuno di loro avessi mal filosofato. Quanto alla opinione de gli atomi di Democrito, è tanto fuori del senso e tanto impugnata d'altri, che sarebbe superfluo aggiugnere d'avantaggio. Quanto alla sperienza del Sig. Galileo, delle falde che poste nel vaso ripieno d'acqua fredda, sotto il quale si ponga del fuoco, che egli dice che si sollevano da gli atomi ignei di Democrito, avertisca che le sono esalazioni, e non atomi: imperciocchè riscaldando il fuoco l'acqua, l'assottiglia, e ne cava i vapori e le esalazioni; le quali, sendo leggieri, si muovano all'insù, e incontrando quella piastra, con la lor leggerezza la sollevano. Ma quando la esperienza fusse vera, avertiscasi che ella non è per Democrito; perchè egli parlava delle falde di ferro e di piombo, e questa segue nelle piastre di materie poco più gravi dell'acqua; o perchè egli trattava del sopranuotare, e non dello stare sotto dell'acqua, come segue. Adunque non bisogna ch'il Sig. Galileo dica, che Democrito tratta d'altro sopranuotare ch'Aristotile, deducendo da questa esperienza; anzi fa di mistiero che diciamo che la sperienza sia falsa, dicendo Democrito che le piastre del ferro sopranotano sopra l'acqua; e in tal maniera non imporre ad Aristotile, ch'egli non avessi inteso Democrito. |
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Ma, tornando ad Aristotile... senza molto... [pag. 132, lin. 31 – pag. 133, lin. 1] Faciànci a intendere: l'instanza de gli atomi ignei non è ella di Democrito? or come l'attribuite voi ora ad Aristotile? e se è d'Aristotile, qual saranno l'istanzie che Democrito si muove contro? Egli è Democrito che si impugna, dicendo che se gli atomi ignei sollevasserono le falde nell'acqua, le doverebbono sollevare ancora nell'aria. Veggasi adunque, se Aristotile o il Sig. Galileo mostra più voglia di atterrare altrui che di saldo filosofare. Aristotile non dice altro in questo luogo, se non che Democrito scioglie la sua istanza debolmente; e mostra gran voglia d'atterrare Democrito, ch'egli in tanti luoghi ha lodato, dandogli il pregio fra tutti i filosofanti: e il Sig. Galileo, che quello è di Democrito l'impone ad Aristotile; e in questa maniera lo biasima, cadendo in quello errore che egli rinfaccia ad Aristotele: il che ora per dimostrar maggiormente, non si curando di allungar a sproposito il ragionamento, di che, quando aveva a rispondere alle sue ragioni, mostrava di essere così geloso, va a trovare un altro luogo di Aristotile per aver occasione di impugnarlo. La qual cosa quanto gli sia per riuscire, lo dimostrerà il fine. |
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senza molto discostarsi... [pag. 133, lin. 1] Si deve dunque sapere, che Aristotile nel capitolo precedente, del quale il Sig. Galileo piglia il luogo per oppugnare, ebbe intenzione di mostrare che, sendo quattro gli elementi, faceva di bisogno il constituire una materia remota, della quale essi elementi si componessino, e quattro prossime; e questo, per poter rendere la ragione de i movimenti de i corpi semplici: e quindi viene a impugnare Platone, che una sola materia voleva che avessino gli elementi, e questa era, secondo la sua opinione, i triangoli; e di poi similmente dà contro a Democrito, che a i quattro elementi dava due materie, e queste erano il vacuo e il pieno, dando alla terra il pieno e al fuoco il vacuo, e componendo gli elementi mezzani della terra e del fuoco. Contro la qual posizione Aristotile argumenta di questa maniera: Sarà, dunque, una gran quantità d'acqua che conterrà più fuoco che una picciola d'aria, e una gran quantità d'aria che avrà più terra che una picciola d'acqua: adunque si arebbe a muovere la gran quantità d'aria più velocemente all'ingiù che la piccola d'acqua; il che in nessun luogo giamai si è veduto. E perciò non pare che Democrito filosofasse rettamente nel por due materie prossime a gli elementi, come Aristotile dimostra sino al fine del capitolo. La qual ragione il Sig. Galileo in due maniere inpugna: la prima, dicendo che detto argomento non conclude; e la seconda, che se conclude, nella medesima maniera si potrebbe ritorcere contro ad Aristotile. Il primo argumento, che dimostra la ragione d'Aristotele non concludere, è, che se fussi vero che la maggior quantità d'aria si dovessi muovere più velocemente all'ingiù che la piccola d'acqua, per contenere maggior porzione di terra, al certo bisognerebbe che fussi vero che una gran quantità di terra si movesse più velocemente che una piccola. Il che dal Sig. Galilei si stima per falso, ma, s'io non m'inganno, a torto, e, non se ne avvedendo, ripugna al senso ed alle sue propie esperienze. Imperciocchè il Sig. Galileo dice, che quelle minute particelle di terra le quali si trovono nell'acqua torbida, penano cinque o sei giorni a andare per quello spazio che una quantità di terra grossa quanto un minuzzol di pane in un momento trapassa; adunque senza difficultà si vede, che molto più velocemente si muove una quantità maggiore della medesima gravità in spezie, che una piccola; ma perchè alcuna volta per la poca disaguaglianza e per il poco spazio non si scorge sensibil differenza, perciò Giovanni Grammatico, a cui aconsente il Pendasio, e dipoi il Sig. Galileo, si pensò che due quantità di terra diseguali di mole avessino la medesima velocità nel movimento; la qual cosa, come si è dimostrato, è falsa. Onde avvertisca il Sig. Galileo, che non solo la maggior gravità in spezie è cagione della maggior velocità di movimento, ma ancor la maggior gravità in individuo; e non tanto questa, quanto ancora la gravità in genere, se sarà tanta che sovrasti di gran lunga quella che e assoluta s'appella, si moverà più velocemente che quella: e nel danaio del piombo e della trave di cento libbre nell'acqua, come abbiam detto, si vede. Il secondo è, che nel multiplicar la quantità dell'aria non solo si multiplica la terra, ma ancora il fuoco, onde se gli accresce non meno la causa dell'andare in giù, che quella dell'andare in su; e finalmente credo che voglia dire, che nell'aria è molto maggior porzione di fuoco, che nell'acqua di terra: e perciò, crescendo la quantità della terra nell'aria, per crescere la sua mole, si agumenta tanto maggior il fuoco, che può compensare quella terra agumentata; onde giamai aviene ch'una gran quantità d'aria si muova più velocemente all'ingiù ch'una piccola d'acqua. Notisi, per rispondere a questa ragione, che Aristotile, come si è detto, impugnando gli antichi, suppone le loro opinioni, contro di loro argumentando, quasi che egli gli voglia con le propie armi superare: e perciò, supponendo Democrito che quei mobili più velocemente si movevano al centro che avevan più pieno, così argumenta Aristotile: «Se è vero questa vostra supposizione, o Democrito, adunque una gran quantità d'aria, per aver più pieno che una piccola d'acqua, si doverà muovere all'ingiù più velocemente di quella»; onde, come bene diceva Aristotile riprendendo Democrito, egli non solo doveva dire che quelle cose andranno più velocemente all'ingiù, che averanno più pieno, ma manco vacuo. Il qual refugio il Sig. Galileo ha preso, parendogli d'aver ritrovato qualche gran cosa di nuovo, e nondimeno, come si è detto, è di Aristotile; e non monta niente, non sendo conforme a i principii di Democrito; e quando fussi, non per questo arebbe vinto la lite. Imperciocchè, se la proporzione del vacuo e del pieno fusse quella che cagionasse che la gran quantità d'aria non dovesse muoversi più velocemente all'ingiù che la piccola d'acqua, tutta volta ne seguirebbe che una gran quantità d'acqua nell'aria si dovessi muovere all'ingiù con equal velocità che una piccola, il che segue al contrario; imperciocchè la medesima porzione che è in quella gran quantità, è ancora nella piccola; verbi grazia, un terzo di terra e due terzi di fuoco. Ma che una gran quantità di acqua si muova nell'aria più velocemente che una piccola, sì come si è dimostrato della terra, così è facile a mostrarlo dell'acqua. Veggasi quanto più velocemente si muove una gran doccia, che quelle stille di minutissima acqua, che noi chiamiamo da cimatori. Adunque non è fallacia alcuna nell'argumento di Aristotile. Quanto alla seconda ragione, che ritorce l'argumento contra d'Aristotile, dicendo: Se è vero che gli elementi estremi l'un sia semplicemente grave, e l'altro semplicemente leggieri, e quei di mezzo partecipino dell'una e dell'altra natura, ma l'aria più del leggieri e l'acqua più del grave, adunque sarà una gran quantità d'aria che sarà più grave che una piccola d'acqua; si deve considerare, come bene diceva Temistio, che Democrito voleva che gli elementi di mezzo fussino composti de gli estremi e mistura di quelli, là dove Aristotile dice che tutti a quattro gli elementi sono composti d'una materia remota e di quattro materie prossime, delle quali egli ad ogni elemento ne assegna una: alla terra, una materia grave assoluta; al fuoco, una leggieri assoluta; all'aria, una leggieri rispetto alla terra e l'acqua, e grave rispetto al fuoco; all'acqua, grave rispetto al fuoco e all'aria, e leggieri rispetto alla terra; ma voleva ancora che l'aria rispetto all'acqua fusse assolutamente leggieri, e l'acqua rispetto all'aria assolutamente grave. Dalle quali ragioni è manifesto la differenza che è fra la posizione di Democrito e quella di Aristotile; onde l'argumento senza fallacia procede contro a Democrito, e non contro d'Aristotile: imperciocchè secondo la sua sentenzia gli elementi di mezzo son mistura de i duoi estremi, sì come l'esalazione che è composta di terra e di fuoco, e perciò son gravi e leggieri; e secondo Aristotile, son gravi e leggieri perchè così sono atti nati, e così comporta la loro natura. Per la qual cosa non si può mai concedere che una gran quantità d'aria si possa muovere più veloce al centro che una piccola d'acqua, per esser questa rispetto all'acqua semplicemente leggieri, o quella rispetto all'aria semplicemente grave: adunque è manifesto perchè l'argomento conclude contro a Democrito, e non contro d'Aristotile. Alla dimanda del Sig. Galileo, dove si potrebbe fare la esperienza che dimostrasse che una gran quantità d'aria si movesse più velocemente che una piccola d'acqua, gli rispondo che se fussi vera la posizion di Democrito, questo deverebbe seguire nel luogo dell'aria. Imperciocchè se fusse vero che l'aria per l'aria e l'acqua per l'acqua non si movessino, il che è falso, veggendo noi molti fiumi sopranuotare sopra a i laghi, e l'aria grossa restar sotto la sottile, anzi sendo spinta all'insù ritornare al suo luogo; nondimeno, se una gran quantità d'aria fusse più grave ch'una piccola d'acqua, si moverebbe per tutti i mezzi all'ingiù più veloce di quella: onde non bisogna domandare dove si potrebbe fare questa esperienza, e non dove Aristotile l'ha fatta. ’Επει δ’ εστι τα μεν ευδιαίρετα τω̃ν συνεχω̃ν, τα δ’ ηττον, και διαιρετικα δε τον αυτον τρόπον τα μεν μαλλον, τα δ’ ηττον, ταύτας ειναι νομιοτέν αιτίας. Ευδιαίρετον μεν ουν το ευόριστον, και μαλλον το μαλλον αηρ δε μαλλον υδατος τοιου̃τον, υδωρ δε γη̃ς και το ελαττον δη εν εκαστω γένει ευδιαιρετώτερον και διασπα̃ται ρα̃ον. Τα μεν ουν εχοντα πλάτος δια το πολυ περιλαμβάνειν επιμένει, δια το μη διασπα̃σθαι το πλει̃ον ραδίως τα δ’ εναντίως εχοντα τοι̃ς σχήμασι δια το ολίγον περιλαμβάνειν φέρεται κάτω, δια το διαιρει̃ν ραδίως, και εν αέρι πολυ μαλλον, οσω ευδιαιρετώτερος υδατός εστιν. ’Επει δε το τε βάρος εχει τινα ισχυν καθ’ ην φέρεται κάτω, και τα συνεχη̃ προς το μη διασπα̃σθαι, ταυ̃τα δει̃ προς αλληλα συμβάλλειν εαν γαρ υπερβάλλη η ισχυς η του̃ βάρους το εν τω̃ συνεχει προς την διάσπασιν και την διαίρεσιν, βιάσεται κάτω θα̃ττον εαν δε ασθενεστέρα η, επιπολάσει. «Ma perchè de' continui altri sono facilmente, altri difficilmente divisibili, e i divisibili nella medesima maniera, altri più, altri meno, si deve pensare queste essere le cagioni. Imperciocchè quello è più facilmente divisibile che è più flussibile, e quello più che più, e l'aria è più tale dell'acqua, e l'acqua della terra, e in ciaschedun genere il minore è più divisibile e si disperge con più facilità. Adunque quelle cose che hanno larghezza, per occupare molto e per non si disperdere il maggiore, agevolmente sopranuotano; ma quelle che hanno contrarie figure, per occupar poco e per dividere più facilmente, si muovano all'ingiù, e nell'aria molto più, perchè è più divisibile dell'acqua. Ma avendo la gravità una certa virtù, mediante la quale si muove al centro, e i continui a non essere divisi, fa di mestiero paragonarle insieme; imperciocchè se la virtù della gravità alla separazione e alla divisione supererà quella del continuo, si moverà all'ingiù velocemente; ma se sarà più debole, sopranoterà.» Ecco il luogo dove Aristotile rende la ragione perchè le sottil falde di ferro e di piombo sopranuotano nell'acqua, e perchè la limatura dell'oro (e non le foglie), se però in tal guisa si ha da intendere il testo, e la polvere non pure nell'acqua, ma nell'aria ancora vadia notando; e perchè le falde devano cagionare quest'effetto nell'acqua, e non nell'aria: e dice che de i continui altri sono più divisibili, altri meno, e che i continui maggiori si dividan meno, e i minori più. |
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Qui io noto... [pag. 135, lin. 19] Contro le quali posizioni il Galilei oppugnando dice che le conclusioni d'Aristotile in genere tutte son vere, ma che egli le applica male a i particulari, perchè l'acqua e l'aria non hanno resistenza alla divisione: ma essendosi dimostrato che non solo i detti elementi, ma gli altri ancora hanno resistenza alla semplice divisione, per l'argumento del contrario seguirà, che Aristotile applichi bene le sue conclusioni universali a i particulari. Ma notisi dal Sig. Galileo, che trattando Aristotile della quiete delle falde del ferro e del piombo, tratta della quiete accidentale, e il simile è la quiete della polvere nell'aria; e perciò, sendo le cose accidentali di lor natura non durabili, non è maraviglia se la polvere non sta sempre nell'aria, essendo che quando ella ha superato la resistenza dell'aria, ella si muove al suo centro; e perchè più resiste l'acqua che l'aria, perciò più si quieta la polvere e le falde del ferro e del piombo nell'acqua, che non fa nell'aria. E perchè le falde e la polvere, bagnate, nell'acqua calino al fondo, già si è detto: si possono bene collocar in quella se non in tutto prive dell'aria, almeno con sì poca, che ella non può cagionare questo effetto del sopranotare. Quanto alle oposizioni che il Sig. Galileo si fa contro, son tanto deboli e fievole, che non pare che metta conto spender il tempo intorno di esse. E chi non sa che le cose leggieri galleggiano, non per non poter fendere la resistenza dell'acqua, ma per esser più leggieri di essa? e che sommerse dentro de l'acqua, elleno, rompendo la sua resistenza, ritornano sopra di quella? Non so chi sien coloro che si credano ch'uno vuovo galleggi nell'acqua salsa, e non nella dolce, per la maggior resistenza; ma bene mi paiano poco esperti nelle cagioni delle cose e nella filosofia, venendo questo accidente perchè l'vuovo è più leggieri dell'acqua dolce, e più grave della salsa. Ma mi sono molto maravigliato che il Sig. Galileo dica che a simili angustie deducano i principi falsi d'Aristotile, non sapendo vedere perchè molto meglio si possa rendere la cagione di questo effetto con i suoi principi che con i nostri; anzi molto meglio, perchè oltre al rendere ragione onde avvenga che un vuovo galleggia nell'acqua salsa e non nella dolce, si può ancora dimostrare perchè una gran mole di aria nell'acqua si moverà più velocemente che una piccola. Adunque a ragione si può dire al Sig. Galileo: «A queste angustie conducano i falsi principi»: imperciocchè la maggior mole dell'aria ha maggior virtù che la piccola, e perciò si move più velocemente di essa; là dove il Sig. Galileo, che non concede virtù alcuna che produca il movimento all'insù, non può dimostrare tale accidente. |
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cessa, dico, tal discorso... [pag. 137, lin. 9] Essendo, dunque, vero che l'acqua e l'aria hanno resistenza, sarà verissimo il discorso d'Aristotile, che le falde larghe sopranuotano nell'acqua perchè comprendano assai, e quello che è maggiore meno agevolmente si divide. Ma il dire che le piastre, quando si fermano, abbino già penetrato la superficie dell'acqua, è una vanità, come si è dimostrato. Il simile si può dire della nave; della qual cosa ci rimettiamo a quello si è detto, non volendo, senza osservare metodo, noiare noi medesimi e gli uditori. Perciò faceva meglio a non repricar tante volte le medesime cose. Adagio, Sig. Galileo, non saltiam d'Arno in Bacchiglione, al nostro solito. Il Buonamico dice che l'acqua del mare è più grossa nella superficie che nel fondo; e il Sig. Galileo subito s'attacca che egli dica il simile nell'acqua dolce. Sapeva ancora il Buonamico, che ne i fiumi l'acqua grossa sta di sotto, sì come aviene del lago di Garda, del lago Maggiore e del lago di Como, sopra de i quali senza mesciarsi passano varii fiumi, e che sopra del mare i fiumi sopranotano per molte miglia; ma diceva, che paragonando l'acqua del mare fra sè medesima, che quella di sopra era più crassa perchè era più amara, straendo il sole del continuo de i vapori da quella, e quella di sotto men crassa per essere più dolce e per non potere il sole cavare di essa le parti più sottili. Quanto al dubitare della sua esperienza, poco importa; perchè il Sig. Galileo potrà farne la sperienza al contrario, e allora gli si potrà credere qualche cosa. E noti il Sig. Galileo, che delle cose sensibili il senso ne è ottimo cognoscitore, e non la ragione. Vaneggia colui, e ha debolezza d'ingegno, che vuole le cose sensibili ricercar con ragione. E in questo proposito mi piace di dimostrare un metodo pellegrino del Sig. Galileo nella sua filosofia: e questi è, che egli nelle cose che son sottoposte al senso, e che noi continuamente veggiamo, vuole dimostrarle con matematiche ragioni; e nelle cose dove non arriva il senso, o almeno ripieno d'imperfezioni, egli le vuol cognoscere col senso, come della concavità della luna, delle macchie del sole, e di mille altre cose simili: dove che egli si vorrebbe fare al contrario; imperciocchè dove si può fare la esperienza, son superflue le ragioni, sì come del galleggiare della nave e della salsedine adiviene; ma dove il senso non arriva, se non pieno d'imperfezione, bisogna correggerlo e aiutarlo con la ragione; imperciocchè, quando noi veggiamo il sole che apparisce della grandezza d'un piede, se noi non correggessimo quel senso, noi crederemmo una cosa falsissima per vera. Perciò quando al Sig. Galileo par di vedere la luna montuosa e il sole macchiato, fa di mestiere che consideri bene se la ragione comporta tal cosa, e se il senso si può ingannare in tanta lontananza e accompagnato da quello instrumento del Sig. Galileo. |
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Ma tornando ad Aristotile... [pag. 138, lin. 6] E tornando dove ci partimmo, dico che la larghezza delle piastre del ferro è cagione del sopranotare. Si deve bene avertire che la detta larghezza si deve accompagnare con la sottigliezza: il che dimostra Aristotile dicendo che se la virtù della gravità supererà la del continuo, le piastre se ne andranno al fondo; onde bisogna che le dette piastre sieno leggieri, e perciò sottili. Quanto alla esperienza che le piastre del ferro e del piombo, se si divideranno in strisce e in piccoli quadretti, si reggeranno non altrimenti che prima facevano, si debbe avertire che questa esperienza non conclude per due cagioni: la prima, perchè non è vero che nel medesimo modo galleggi una gran falda che una piccola; imperciocchè molto più gagliardamente galleggierà la grande che la picciola, come per esperienza si è provato: la seconda, che il Sig. Galileo, volendo mostrare che la figura piana non cagiona l'effetto del galleggiare, sempre mantiene le falde in detta figura, ora grande, ora picciola, e perciò non è maraviglia che ella sempre galleggi; ma se egli di dette falde ne taglierà qual si voglia porzione, purchè sia di sensibil gravità, di qual si voglia figura fuor della piana, subito se ne andrà al fondo. Adunque la figura larga è quella che sostiene le falde del ferro e del piombo. |
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E per dichiarazion di questo... [pag. 138, lin. 6] Quanto a che le figure più corte e più strette dovessino galleggiar meglio, eccoci alle nostre vanità. Se il senso ci dimostra il contrario, perchè ci vuole il Sig. Galileo far stravedere? Ma veggia la cosa dove si riduce: egli, per dimostrare questa stravaganza, entra in una maggiore, supponendo che l'acqua che è intorno intorno al perimetro delle piastre, deva reggerle sopra di essa; il che è falsissimo, essendo manifesto che è l'acqua ch'è sotto della piastra. Segno di ciò ne è, che sendo diviso tutto il perimetro dell'acqua, ad ogni modo la piastra si regge: oltre a che, non è tant'acqua al perimetro delle figure lunghe, quanto alle larghe, v. g., a una striscia tagliata da una falda di ferro o di piombo, ma così stretta che più non sia di figura piana? e nondimeno, ella non può galleggiare. Onde, se bene è vero, per la sua geometria, che dividendo una falda sempre si fa più superficie, nondimeno la larghezza della piastra sempre sarà la medesima; imperciocchè rimessa insieme la detta piastra divisa, overo misurata così separata, sarà la medesima. |
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Dicogli di più... [pag. 138, lin. 11-12] Con nuovo e ultimo argumento impugna Aristotile il Sig. Galileo, dicendo che, concedendosi ancora la resistenza dell'acqua essere la propia cagione del galleggiare delle piastre del ferro, nondimeno molto meglio non dovrebbe galleggiare una gran falda di piombo che una piccola: il che egli volendo provare, mette in considerazione che le piastre del piombo discendano dividendo l'acqua che è intorno al loro perimetro e alla loro circunferenza; quasi ch'egli voglia dire, che le parte dell'acqua che son sotto la piastra del piombo, da esse non si dividino: la qual cosa è contro alla sperienza e ad Aristotile. Imperciocchè sensibilmente si vede che le piastre del piombo qualche volta hanno diviso tutte le parte dell'acqua che sono intorno alla loro circunferenza, e nondimeno non si profondano: e Aristotele dice che le piastre del piombo galleggiano perchè occupano gran quantità d'acqua, e le rotonde o lunghe, per occuparne poca quantità, si muovono all'ingiù; avendo prima detto, che i continui divisibili, quelli che son maggiori più malagevolmente si dividano che i minori; onde è manifesto, Aristotile dire che le falde del piombo in movendosi devino dividere tutte le parte dell'acqua, e non quelle sole che sono intorno al perimetro: e quindi avviene che le falde grandi stanno più gagliardamente sopra l'acqua che le piccole. Segno ne sia di ciò, che elleno sostengano sopra di sè molto maggior peso che quelle non fanno. Anzi, supponendo la sua opinione, il suo argomento non conclude l'intento; e se niente conclude, conclude con condizione. Imperciocchè, ponendo la tavola ABCD, lunga otto palmi e larga cinque, sarà il suo ambito palmi 26, e 26 palmi ponghiamo che sia il taglio ch'ella dee fare per andare al fondo; dividasi quanto il Sig. Galileo vuole e quanto egli desidera: dico che l'argomento non conclude l'intento. Imperciocchè, se noi pigliamo qual si voglia parte di quelle divise, niuna ve ne sarà che abbia 26 palmi d'ambito, come quella che si è divisa: adunque ella non potrà galleggiare meglio che la già divisa: adunque non sarà vero ch'una piccola falda possa galleggiare meglio che una grande. E se però conclude niente, conclude con condizione. Imperciocchè se quelle particelle divise non si uniscano di maniera insieme, che quella superficie che si è acquistata per la divisione ricongiungendole non si perda, non concluderà l'argomento; la qual cosa il Sig. Galileo non fa, e non dimostra in che maniera si possa fare: e quando si riducesse in atto, non proverebbe altro se non che la detta asse, divisa e ricongiunta in maniera che non si perda la circunferenza acquistata per la divisione, seguirà, per il supposto del Sig. Galileo, ch'ella meglio deve galleggiare che prima non faceva. Notisi, che se bene nel segare una assicella s'accresce la sua circunferenza, perchè si fa una superficie che prima non vi era, nondimeno la superficie del fondo riman la medesima, anzi si diminuisce, mancandovi lo spazio che nel dividerla si consuma nel segamento: il che è chiarissimo; perchè segandosi una asse di qual si voglia grandezza in cento parti, e riunendola nella medesima maniera che era prima, non solo non divien maggiore, ma alquanto minore per la detta cagione, trattandosi della superficie del fondo, che è quella la quale, secondo Aristotile, è la cagione dei sopranotare. Questo è quello che seguirebbe in dottrina d'Aristotile, contro alla sua medesima dottrina, anzi contro alla dottrina del Sig. Galileo. |
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Finalmente a quel che si legge... [pag. 139, lin. 26] Diciamo, dunque, che tutto quello che si quieta e si muove nell'acqua, o si quieta e si muove naturalmente o accidentalmente: in oltre, quello che in queste maniere si quieta e si muove, o è corpo semplice, o è misto. I corpi semplici o si muovono nell'acqua naturalmente al centro, o alla circunferenza. Quelli che si muovono per quella al centro, si muovono per essere più gravi dell'acqua, come la terra; e quelli che alla circunferenza, per essere più leggieri di essa, come l'aria e 'l fuoco. I corpi misti o si muovano naturalmente per l'acqua al centro, e ciò per il predominio dell'elementi più gravi di essa, come l'oro e il piombo; o si muovono alla circunferenza, e ciò per il predominio delli elementi più leggieri dell'acqua, come i vapori e l'esalazioni; o finalmente si quietano nella superficie dell'acqua e nel confine di quella dell'aria, e questi sono quei misti che sono a predominio aerei, come i sugheri, le galle, e simili. Di nuovo, quello che si quieta per accidente nella superficie dell'acqua, o è corpo semplice, o misto: e ciò in due maniere; o per essere così piccolo e di sì poca gravità, che non possa fendere la continuità dell'acqua, come la polvere e altre cose pulverulente; o per essere di figura piana e sottile, la quale, per comprender molto continuo dell'acqua e perciò per non poter dividerlo, cagiona a i corpi gravi, ne' quali ella si ritrova, il sopranotare nell'acqua, come nelle piastre dell'oro, del ferro, del piombo, nell'assicelle dell'ebano, e simili; avendo dimostrato per sensibile esperienza, che dette falde quando si pongano nell'acqua sono semplice oro o piombo, e che non vi è congiunta aria, e se pur ve n'è, è sì in minima quantità, che di essa e delle piastre non si può comporre un corpo più leggieri dell'acqua. Adunque dette piastre si quietano sopra l'acqua per la figura piana, sì come era la sentenzia d'Aristotile. Questo è quello che in difesa della verità e di Aristotile mi è sovvenuto di dire in queste mie Considerazioni sopra 'l Discorso del Sig. Galileo. Il quale se avesse publicato i libri dove egli pone i principii e fondamenti della sua filosofia, come dovrà fare fra poco tempo, forse mi sarei appreso alla sua opinione, o io con più fondamento gli avrei dimostrato, l'opinione d'Aristotile in questa dubitazione esser vera: imperciocchè mal si può impugnare chi ora s'appiglia ad una opinione e ora a un'altra, ora a quella di Democrito, ora a quella di Platone, e ora a quella di Aristotile, non si vedendo come egli da' sua principi deduca queste conclusioni. Il Fine. |
Concediamo licenza al M. R. Sig. Vincenzio Rondinelli, Canonico e Penitenziere Fiorentino, che possa rivedere la presente opera, considerando se in essa si trovi cosa che militi contro la pietà Christiana o li buoni costumi, e riferisca in piè di questa.
Il dì 23 Aprile 1613.
Piero Niccolini Vicario di Firenze.
Io Vincenzio Rondinelli Canonico Fiorentino ho revisto il presente trattato del Sig. Vincenzio di Grazia circa le cose che stanno sopra l'acqua o in quella si muovono, di controversia a quel del Sig. Galileo Galilei, e non ci ho trovato cosa che sia contro alla Christiana religione e contra buoni costumi. Ed in fede ho scritto, questo dì 4 di Maggio 1613.
Attesa la premessa relazione, concediamo che la soprascritta opera si possa stampare in Firenze, osservati gli ordini soliti.
4 Maggio 1613.
Piero Niccolini Vicario di Firenze.
Il P. Maestro Francesco Vecchi, Regente di S. Spirito, rivegga per parte del Sant'Offizio, e referisca etc.
Dal Sant'Offizio di Firenze, 5 Maggio 1613.
F. Cornelio Inquisitore di Firenze.
Io Fra Francesco Vecchi ho letto il presente trattato, intitolato Considerazioni del Sig. Vincenzio di Grazia sopra il Discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che stanno su l'acqua e che si muovono in quella, e non ho trovato cosa che repugni alla santa Fede e buoni costumi. In fede di che ho scritto di propria mano, questo dì 7 Maggio 1613.
F. Cornelio Inquisitore di Firenze. 8 Maggio 1613.
Stampisi secondo gli ordini, questo dì 9 di Maggio 1613.
Niccolò dell'Antella.
FRAMMENTI
ATTENENTI ALLA SCRITTURA
IN RISPOSTA A
L. DELLE COLOMBE e V. DI GRAZIA.
Non mette conto il mettersi a confutare uno che è tanto ignorante, che, per confutar tutte le sue ignorantaggini (essendo quelle più che le righe della sua scrittura), bisognerebbe scriver volumi grandissimi, con nissuna utilità degl'intendenti e senza vantaggiarsi niente appresso il vulgo.
Il Galileo nello scrivere il suo trattato non ha auto per mira di persuader la sua dottrina a tutti quelli che solamente sanno leggerla; anzi era molto ben sicuro che più di 80 per 100 non arebbono inteso ciò che egli ha scritto. Per lo che egli non si sente in obbligo di dover risponder al Colombo, al Coresio, al Grazia, o ad altri che, per non aver intesa punto la sua scrittura, si sian posti a contradirli, atteso che tal fatica sarebbe totalmente inutile: perchè gl'intendenti non hanno bisogno di altrui confutazioni per conoscer la leggerezza di tali oppositori; e per gli oppositori stessi ogni fatica sarebbe gettata in vano, perchè se e' non hanno intesa pur una delle dimostrazioni del Sig. Galileo, scritte anco con somma chiarezza, ben sarebbe stolto chi si persuadesse, con tutti i discorsi del mondo, il potergliele far capir tutte. Però il miglior consiglio sarebbe che i suoi contradittori studiassero le matematiche, perchè intenderebbon il libro del Galileo, e senz'altro rimarrebbono persuasi, sì come l'esperienza mostra in tutti gl'intendenti di tale scienza.
Come sarà possibile attutare i balordi, se mentre voi impugnate una loro sciocchezza, vi si fanno incontro con un'altra maggiore?
facciasi esperienza della velocità dell'acqua e dell'aria, empiendo uno schizzatolo pien d'acqua e lasciandolo versar, notando il tempo; poi mettendolo sott'acqua con la bocca in giù, e notando parimente il tempo dell'uscita [de]ll'aria.
Risponder al Colombo e simili oppositori, sarebbe fatica inutile e vana, perchè gl'intendenti conoscono le gofferie di costoro, per lo che appresso di loro non è bisogno di altra risposta; l'assenso di quelli che non intendon, nulla non si deve desiderare, ma lasciarl[o] per frutto delle fatiche di simili contradittori.
Tollerano men gravemente la dottrina de i remotissimi di tempo, perchè gli par di potere attribuire la causa del non saper loro a un difetto di natura universale; sì come par che altri men si dogga morendo di un contagio universale, che di una infirmità che, toccando te solo, lasci gli altri illesi. Così men duole la cattiva ricolta universale che la tempesta particolare, a chi la tocca.
E come che l'altrui scienza e industria sia una peste che flagelli la loro inerzia ed ignoranza, con animo men turbato sentono gli avvisi de i progressi di lei in regioni remote: ma che ella fermi il piede ed aqquisti vigore nella provincia loro o nella propria città, vien con tale spavento veduto, e sentito con tanto rancore, che non si lascia di tentare ogni provisione, benchè difficile e pericolosa, per estirparla dalla radice e troncarla nel suo primo allignarsi. E se noi considereremo i particolari eventi del Galileo, troveremo il numero maggiore de' suoi contradittori, e quelli che più impetuosamente si sono sollevati per supprimerlo, esser della sua propria patria: i remoti, ancor che non ne mancassero sul principio che si risentissero e negassero le sue novità, finalmente, come quelli che da altro affetto non venivano perturbati fuor che dalla qualità delle conclusioni lontane delle concepite opinioni, sentita poi la forza delle ragioni e dell'esperienze manifeste, si sono quietati e con sincerità d'animo rimessi. Il che non dirò che sia accaduto a i lontani solamente, anzi pure al numero maggiore de gli studiosi della città di Firenze. Di che, de i molti particolari testimonii che io produr potrei, voglio che un solo mi basti appresso i forestieri: che è il veder qual numero di nobiltà si sia nuovamente applicata con gran fervore allo studio della geometria; resa ormai sicura, a qual altezza senza le sue ali altri si possa sollevare nella cognizione della natura. I contradittori, mantenuti tuttavia da quell'affetto che pur troppo chiaramente si scorge negli scritti loro, non lasciano intentato artifizio veruno, di quelli che possino mantenergli certo popolare applauso o al meno la moltitudine indifferente: de i quali uno è il fargli tornar frequentemente all'orecchie l'apparente esorbitanza delle semplici e nude conclusioni, lontane dalle vulgate opinioni de i reputati sapienti, acciò che, continuandosi in loro le prime concezzioni, non gli nasca pensiero di sentir alcuna delle contrarie ragioni. Un altro artifizio, e che mirabilmente viene usato dal Sig. Colombo, è il rispondere a tutte le ragioni dell'avversario, ancor che insolubili: dico rispondere, benchè ne egli le abbia intese punto, nè sia chi punto intenda le sue risposte, non intese nè anco da sè medesimo. Ben ha egli, per mio avviso, da buona scuola di retori imparato, di quanta efficacia sia, per guadagnarsi l'assenso dell'universale, il dir molto e con audacia, onde il semplice lettore confuso resti al meno irresoluto nel prestare o negare l'assenso a quello che egli reputa per propria incapacità di non intendere. Io non negherò mai al Sig. Colombo d'aver sentito gusto particolare nel veder con quanta franchezza e' trova risposte dove le non sono, forma discorsi di concetti senza senso e produce dottrine non mai vedute, non che studiate, da lui, e tutto con sottile accortezza, per cavar dall'astuzia quell'utile che e' non può sperar dalla ragione.
hanno, questi signori Peripatetici, usata un'altr'accortezza, per mantenersi, quanto è possibile, l'aura popolare; ed è stata di fare scrivere a persone di poco grido nella lor dottrina: acciò che, prima, appaia che si è potuto rispondere alle mie dimostrazioni; secondo, che, per ogni evento che anco l'universale si accorga della fiacchezza delle risposte, resti loro sempre una ritirata per mantenimento del lor credito, cioè che quando i principali avessero risposo loro; il negozio sarebbe passato altramente.
non si accorgono costoro della loro semplicità, mentre stimano, grandissima esser la perfezione di un corpo quando egli abbia la figura perfettamente sferica; il che saria una miseria estrema, simile alla domanda di Mida.
Io non posso: usar cavilli, perchè sostengo il vero, e l'arguzie si mostrano nel difender paradossi; come le piacevoli lodi del Benna calzano in lodare suggetti magrissimi, come l'orinale, la peste, il debito, Aristotile, etc., ma non tornerebbono bene lodandosi il sole, la giustizia, etc.
Contro di me a facc. 9, versi 10, etc. Par che il mio discorso concluda solamente quando il vaso non è pieno d'aqqua, perchè allora l'aqqua si alza; ma se il vaso sarà pieno, l'aqqua traboccherà, e non sarà alzata. Tuttavia, chi ben considererà, l'aqqua vien alzata: altramente, non solo non ne traboccherebbe tanta quanta è la mole del solido demersa, ma non ne traboccherebbe punto, perchè già stava senza versarsene quando si cominciò a tuffare il solido; segno che la sua costituzion non bastava all'effusione, ma bisognava alzarla più. Dell'altr'aqqua, poi, che séguita di spandersi, non si può dubitare se si elevi; poi che ha da esser quella che si conteneva dentro del vaso, più e più bassa del su' orlo, secondo che maggior quantità sene versa.
Sarebbe cosa molto ridicola se alcuno si meravigliassi che gli usurai, i ladri e gli assassini non restassero di assassinare per tante e tante evidentissime ragioni che i iurisperiti e i teologi adducono in detestazione di questi peccati; e mostrerebbe in certo modo di credere che gli assassini medesimi stimassero di aver ragione nell'assassinare, e che per ciò persistessero negli assassinamenti; il che non è.
Non negano gli avversarii che la gravità e la leggerezza del solido in relazione all'acqua possino per sè sole esser causa del descendere e del galleggiare, rimossa la considerazione della figura; e affermano, ancora la figura poter cagionare l'istesso effetto, rimossa anco l'operazion della gravità, sì che non possa esser materia alcuna così grave, che in virtù della figura non si faccia galleggiare. Ora, stanti queste cose, è necessario che tra le figure ve ne siano alcune più atte a produrre il loro effetto, ed altre meno (perchè se tutto fossero egualmente atte, sarebbe l'istesso che se non facessero niente; perchè tutta la causa dell'operare si doverebbe attribuire alla materia): onde è forza che, tra le figure differenti, ve ne sia alcuna indifferente al produr questo o quello effetto, dico di descendere o galleggiare, sì che il solido figurato in tal figura eserciti senza alterazione alcuna quella operazione che depende semplicemente dalla sua gravità. Ora io domando a gli avversarii, quale è quella figura che non aiuta o disaiuta 'l descendere. Dichino, per esempio, la sferica: e perchè il modo con che opera la figura nel vietare il descendere è col proibir, con la sua ampiezza, la divisione, adunque bisogna dire che la figura sferica non è nè atta nè inetta al dividere, ma indifferente: e s'è così, adunque le figure più acute della sferica saranno più di lei atte alla divisione; per lo che sarà qualche solido men grave dell'acqua, che ridotto in figura acutissima descenderà; il che è impossibile: adunque non è vero che la figura operi etc. In oltre, essendo che la figura sferica è quella che non arreca alterazione alcuna alla propension della materia, sarà forza che ogni sfera di materia più grave dell'acqua descenda, ed in consequenza non sarà possibile fare una palla che galleggi e anco descenda, come fa la falda distesa; il che è falso: adunque la figura non ha che far nulla nel galleggiare o descendere.
non occorre rispondere: per convincer loro o, per dir meglio, per fargli confessar convinti, il tempo è buttato via; per gli altri, è superfluo il dir niente.