CONTRO AL TRATTATO
DELLE COSE CHE STANNO SU L'ACQUA O CHE IN QUELLA SI MUOVONO.
ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNORE
ENEA PICCOLOMINI ARAGONA,
SIGNORE DI STICCIANO, PRIORE DI PISA DELLA RELIGIONE DI SANTO STEFANO, COPPIERE, CAMERIER SEGRETO E CAPITANO DI CAVALLI, TRATTENUTO DAL SERENISSIMO GRAN DUCA DI TOSCANA SIGNOR MIO COLENDISSIMO.
Io non poteva dedicare ad alcuno meglio che a V. S. Illustrissima le mie presenti scritture, trattandosi in esse la difesa di persona e dottrina tanto da lei a ragione stimata e onorata, prendendo oltre a questo speranza, che per la sua molta intelligenza di queste materie maggiormente le sieno per esser grate. Nè si maravigli di non veder particolarmente risposto a tutti quelli che in questo caso hanno scritto contro al Discorso del Sig. Galileo, perchè, ciò facendo, m'era necessario crescer soverchiamente il volume, e, ritrovando ad ogni passo in più d'uno le medesime opposizioni, replicare con troppo tedio le risposte medesime. Imperò m'è paruto a sufficienza l' eleggere solamente due, quegli a chi ho stimato sieno più a cuore ed in maggior pregio li loro errori, tralasciandone gli altri due, ch'a mio credere poco se ne cureranno. L'uno di essi, che uscì fuori con la maschera al viso, avendo per altra strada potuto conoscere il vero, poca cura dee prendersi di sì fatte cose; e l' altro da quel tempo in qua, per sopravvenimento di nuovi accidenti, per avventura e costretto a stare occupato in altri pensieri. Gradisca, dunque, V. S. questa mia offerta, dove in effetto vedrà risposto a quanto è stato contrariato al Discorso delle cose che stanno su l' acqua, accettandola in parte di dimostrazione de' molti obblighi che io le tengo. Ed essendo ella in questi affari sommamente desiderosa del vero, discorrendo io sopra fondamenti da lei conosciuti verissimi, potrà qui dentro, oltre al mio principale intento, ritrovare alcune cose, che forse non le saranno men care che le sia per essere l' aver vista difesa la verità. E facendole reverenza, le prego da Dio ogni suo più desiderato contento.
Di Pisa, li 2 di maggio 1615.
Di V. S. Illustrissima
Serv. Obblig.
D. Benedetto Castelli.
CONSIDERAZIONI
INTORNO AL DISCORSO APOLOGETICO
DI
LODOVICO DELLE COLOMBE.
Io so, giudiziosi e scienziati lettori, che voi dall'aver letto e inteso 'l Discorso del Sig. Galileo Galilei Delle cose che stanno a galla su l' acqua o che in quella si muovono, stimerete inutile e non necessaria questa mia impresa, di notar gli errori di chi gli ha scritto contro: e veramente, mentre io riguardo in voi soli, confesso 'l mio tentativo esser superfluo; perchè chi conosce 'l vero, scritto e dimostrato da quello, sarà, senz'altro avvertimento, conoscitore di qualunque falso, proposto da chi si sia, essendo il diritto giudice di sè medesimo e del torto. Ma perchè 'l desiderio mio è di giovar ancor a quelli che potessero restar ingannati dal vedere stampati fogli con inscrizioni significanti contraria dottrina a quella del Sig. Galileo, ho determinato d'avvertir una parte degli errori, prima del Sig. Lodovico delle Colombe, poi del Sig. Vincenzio di Grazia, toccando in fine alcune cose dell'Operetta del Sig. Giorgio Coresio, non senza speranza di poter esser anche di qualche giovamento agli stessi oppositori, sì nella dottrina come nel termine della civiltà e modestia: già che loro, non saprei dire da qual affetto spinti, son frequentemente scorsi a offender con punture quello che nella sua scrittura non ha pur con una minima parola offeso nissuno, e men di tutti loro, li quali ei pur non nomina; nè credo che gli volgesse mai 'l pensiero, nè forse sapesse che tal un di loro fosse al mondo. Questi conoscendo prima dalle mie risposte particolari la debolezza delle lor instanze, per la quale tanto più irragionevoli si scuoprono le mordacità che in compagnia di quelle il più delle volte si leggono, e in consequenza vedendo quanto l' istesse punture in lor medesimi con gran ragione si posson ritorcere, forse, col sentir in sè stessi la meritat'offesa de' lor proprii morsi, s'accorgeranno quanto mal convenga lacerar immeritamente 'l prossimo, in ricompensa dell'essers'affaticato per trargli d'errore; e per l' avvenire in altre loro scritture si ridurranno a termini più cortesi e adorni di quella modestia che mai non deve allontanarsi da chi contempla solo per il santissimo fine del ritrovar il vero. E certo io mi son molte volte maravigliato che questi signori non abbian compreso di quanto pregiudizio sieno simili mordacità a chi le usa. Imperochè negl'intendenti e capaci della forza delle ragioni è manifesto ch'elle non operano cosa alcuna nel persuadere circa la materia di che si tratta; e nè poco intendenti levano quell'opinione favorevole, la quale da questo concetto generale d'aver risposto e contradetto potrebbe in loro essersi destata, sapendosi quanto 'l parlar a passione tolga di credito e di fede.
Ma venendo al particolar del Sig. Colombo, certo che pur troppo manifestamente si scorge, che avend'egli veramente conosciuto di non poters'avanzar punto appresso gli uomini intendenti, s'è ridotto a contentarsi di far acquisto di qualche applauso delle persone vulgari: la qual determinazione chiaramente si scuopre da gli artifizii ch'egli usa in tutto 'l suo Discorso, i quali, sì com'è impossibile che restin celati a chi intende e si piglia fatica di leggerlo, così posson operar qualche cosa in cattivar gli animi de' meno intelligenti; per benefizio de' quali ho giudicato esser ben fatto lo scoprirgli, acciò, fattine prima avvertiti, possin più agevolmente riconoscergli nel loro autore. E ho determinato di mettergli qui, avanti alle particolari considerazioni, acciochè, detti una volta sola, mi levino la necessità di replicargli molte ne' luoghi particolari, ne' quali basterà accennargli per riconoscer come e quanto frequentemente e' se ne serve.
Il primo artifizio, con che ampiamente si diffonde per tutto 'l suo libro e che riesce molto accomodato al suo proponimento, è l'arrecar per lo più risposte lontane dal proposito, non intese nè intelligibili, e in somma per lo più prive di senso; perchè, sendo tali, non ammetton risposta alcuna, onde quelli che arditamente le profferiscono si vantaggiano assai apresso il vulgo, perchè son sempre gli ultimi a parlare; e gli uomini di giudizio non posson lungamente soffrir la nausea che gli arrecano simil discorsi, onde si quietano e più presto voglion ceder all'altrui garrulità, che vanamente consumar il tempo e la fatica per fare in fine restar sue ragioni superiori ad altre delle quali niuna cosa è più bassa.
Il secondo artifizio, attissimo a 'ngannar le persone semplici, che usa il Sig. Colombo, è il replicar con franchezza quelle ragioni dell'avversario che gli par d'aver intese, ritorcendole con le parole, se bene non con l' effetto, contro al primo autore, e, mostrando non solo di possederle, ma che punto non gli giunghino nuove, e quasi che il suo intenderle e porle in campo le faccia mutar natura, produrle come favorevoli alla causa sua, ben che gli sieno di diametro contrarie e repugnanti.
Ecci 'l terzo artifizio, pur molto suo familiare; ed è il promuovere egli medesimo obbiezzioni e 'l produr risposte in vece dell'avversario, soggiugnendogli poi le soluzioni. Ma se si considereranno tali instanze, si troveranno sempre leggierissime e senza niuna efficacia, e in somma quali bisogna che elle sieno per poter rimaner solute dalle sue risposte; e tali instanze al sicuro non addurrebbe mai il Sig. Galileo.
Cade sotto il genere di simili artifizii il non si mostrar mai nuovo di qualunque cosa inopinata e diversa da i comuni pareri, delle quali non picciol numero ne sono nel trattato del Sig. Galileo; anzi, mostrando d'aver gran tempo avanti sapute, intese e prevedute tutte l' esperienze e ragioni contrarie, ributtarle con maestevol grandezza e disprezzo, come cose più presto rancide e messe in disuso per la lor bassezza; e all'incontro, succedendogli 'l ritrovar qualche cosa di suo, per insipida ed inefficace che ella sia, portarla magistralmente come una gemma preziosa.
Non dissimile dal precedente artifizio è il citare autori senza avergli intesi nè forse letti, producendo per dottrina or di Copernico or di Archimede cose che in essi non si trovano: segno pur troppo manifesto, che il Sig. Colombo non parla se non per quelli che tal autori mai non son per leggere.
Ma che dirò d'un altro suo sesto particolare e inusitato artifizio, al quale, con qualche scapito della generosità d'animo, il medesimo Sig. Colombo si è lasciato trasportare, per non si scemare o totalmente annullare 'l campo dove comparir con sue scritture? Sono le proposizioni e le dimostrazioni del Sig. Galileo tanto vere e necessarie, che è impossibile, a chi le 'ntende, il contradirgli; ve ne son molte veramente alquanto difficili per lor natura, ma ve ne son anco molte assai chiare: quelle, come realmente non intese dal Sig. Lodovico, son del tutto lasciate stare; nelle facili ad esser apprese, egli s'induce bene spesso a finger di non l' intendere, acciò che, dandogli senso contrario e in consequenza falso, s'apra l' adito alla contradizzione e al poter diffonder parole in carta, le quali, facendo poi volume, satisfaccino all'aspettazion del vulgo, che, per non intender i sensi delle scritture, si quieta sul veder i caratteri e sul poter dire che sia stato risposto.
Il settimo artifizio, da lui usato per restar superiore, è la maniera dello scrivere incivile e mordace senza cagion alcuna; perchè così viene a assicurarsi che non gli sarà risposto, almen da quello contro 'l qual egli scrive, il che può mantenerlo in speranza che buona parte delle persone semplici e vulgari credano che 'l tacer dell'avversario derivi da carestia di risposte e mancamento di ragioni (se ben i successi d'altre contradizioni state fatte al Sig. Galileo, alle quali egli non ha risposto, posson assicurar ogn'uno ch'e' non ha taciuto per difetto di ragioni o falsità di sue conclusioni). E io con quest'occasione mi protesto al Sig. Lodovico, in caso ch'e' rispondesse con i soliti suoi termini, di non gli voler più replicar altro; perchè, se non potrò con questi miei scritti mutare in meglio la sua natura, procurerò al meno col tacere di levargli, quanto potrò, l'occasione di esercitare un così poco lodevol talento.
Tra gli artifizii vien numerato per ottavo quello col quale il Sig. Colombo, con l' accoppiamento di diverse parole e clausole che sono sparse in differenti luoghi nel Discorso del Sig. Galileo, va formando, a guisa di centoni, proposizioni ed argumenti falsi, per poter poi aver occasion di contradire, e mantenere che 'l Sig. Galileo proponga paradossi e sostenga conclusioni impossibili.
Usa, in oltre, assai frequentemente certa maniera di discorrere, dependente, per quanto io m'avviso, da mancamento di logica e dalla poca pratica nelle scienze demostrative e nel dedurre conclusioni da i suoi principii; la qual maniera è, che egli immobilmente si fissa nella fantasia quella conclusione che deve esser provata, e persuadendosi che ella sia vera e che non abbia a poter stare altrimenti, va fabbricando proposizioni che si accordino a lei, le quali poi, o siano false o siano più ignote di essa principal conclusione o tal volta, anzi bene spesso, la medesima cosa, ma detta con altri termini, egli le prende come notissime e vere, e da esse fa nascer la conclusione, come figliuola di quelle delle quali ella veramente è stata madre, che è quel difetto immenso che i logici chiamano provare idem per idem vel ignotum per ignotius; e questa maniera di discorrere non sarà da me chiamata artifizio, perchè credo che 'l Sig. Lodovico l'usi senz'arte alcuna e solo come la natura gli porge.
Finalmente , avanti ch'io descenda alle note particolari degli errori del Sig. Colombo, voglio scusarmi e liberarmi dal notarne una sorte che in gran numero si trovano sparsi nel suo Discorso, li quali più appartengono a retori e grammatici che a filosofi; e son quelli ch'e' commette nello spiegar i suoi concetti e formare i suoi periodi, bene spesso mal collegati, e che, cominciando in un proposito, trapassano e finiscono in un altro. Questi ho determinato tralasciar per la detta ragione, e per non raddoppiar il volume senza necessità: ma perchè il Sig. Colombo, il quale, già che gli commette, è forza ch'e' non gli conosca, non credesse che io senza fondamento gli imponessi cotal difetto, mi contento accennarne due o tre; e acciochè si possa giudicar la frequenza che di quelli si trova nel suo libro, e che io non gli ho auti a mendicare in qua e in là, propongo il principio e 'l fine della sua scrittura.
Nel principio [pag. 317, lin. 14], se si esaminerà la disposizione delle sue clausule, levandone, per meglio scoprire 'l concetto puro, le parole non necessarie alla testura, si verrà a formar un discorso tale: «Perchè le cose nuove fanno reputare i lor ritrovatori come Dei, di qui è che, essendo molti bramosi di correr cotale arringo, per la malagevolezza dell'impresa non conseguiscono il desiderato fine». Dove si vede che la conclusione non ha dependenza o corrispondenza con le premesse; perchè, che altri per la malagevolezza non conseguischino 'l lor fine, non depende dall'esser le cose nuove tali, che deifichino i lor ritrovatori. Leggesi un verso più a basso [pag. 317, lin. 6-11] il periodo che segue, di conclusione non punto meglio dependente dalle premesse; il quale, spogliato delle circuizioni di parole, suona così: «Ma che si trovino 'ntelletti che voglino far buio altrui con le tenebre dell'intelletto loro, che lode possono acquistarne? e che giovamento recare?». Dove, oltre all'independenza de' concetti, quel porre «intelletti che faccino buio con l'ombra dell'intelletto loro», ha quel suono che ciascuno da per sè stesso sente. L'ultima chiusa del libro [pag. 368, lin. 25-26] è una sentenza che il Sig. Colombo traduce da Quintiliano con queste parole: «Là dove non si possono scioglier le ragioni opposte, facciasi vista di non le stimare, e le dispregi o schernisca»; dove Cantalizio vorrebbe che si dicesse: «e si dispregino o scherniscano». Simili errori e altri di altro genere, come silogismi d'una sola proposizione, di quattro termini, periodi senza senso, non pur senza dependenza, son tanti, che, volendogli avvertir tutti, si potrebbe far un lungo trattato: ond'io mi ristringo a quelli che appartengon principalmente alle cose scientifiche.
CONSIDERAZIONI
INTORNO AD ALCUNE SCRITTURE USCITE FUORI CONTRO AL DISCORSO
del Sig. Galileo Galilei,
FILOSOFO E MATEMATICO DEL SERENISSIMO GRAN I)UOA DI TOSCANA,
DELLE COSE CHE STANNO IN SU L'ACQUA O CHE IN QUELLA SI MUOVONO.
Potrebbe forse più severo lettore dall'aver visto e inteso il Discorso del Sig. Galileo Galilei Delle cose che stanno a galla sull'acqua o che in essa si muovono, biasimare questa mia impresa, di notare gli errori di chi gli ha scritto contro: e veramente, se si averà riguardo a gli intendenti, confesso il mio tentativo esser superfluo e vano; perchè ed sicuro chi conosce il vero, scritto dal Sig. Galileo, sarà, senz'altro avvertimento, ancora conoscitore di qual si voglia falso, da chi si sia proposto, essendo il diritto giudice di sè medesimo e del torto. Ma perchè il desiderio mio è di giovare ancora a quelli che potessero restare ingannati dal vedere stampati fogli con inscrizioni significanti contraria dottrina a quella del Sig. Galileo, ho determinato di avvertire una parte delti errori, prima del Sig. Lodovico delle Colombe, poi del Sig. Giorgio Coresio, toccando in fine alcune cose del trattato di M. r Vincenzo Digrazia, già che questi uomini [autori] hanno sin ora mandato fuori libri per contradire a quello che dal Sig. Galileo è stato dimostrato. E questo farò io per beneficio loro e di chi potesse dalle loro scritture restare ingannevolmente persuaso; procurando però di procedere con quel termine di creanza che conviene alla professione mia e di chi sia vero e buon filosofo, lasciando stare le punture e facezie come a me non convenienti e tanto contrarie alla mia natura quanto [si dimostrano] conformi a quella del Sig. Colombo, per quello che da questa e da altre sue scritture si può comprendere [d'alcuni che pare che per altra strada non sappiano procacciarsi lode che co' l riempierne i lor discorsi ]. Anzi dirò di piti, che in un certo modo mi dispiace di non poterlo [poterli] applaudendo rimuovere da' suoi [da i loro] errori e fallacie, che lo farei molto volentieri; ma dove mi sarà forza, in grazia dell'acquisto del vero, fuggire ogni atto di adulazione, sfuggirò non meno ogni satirica mordacità, tenendo la strada di mezzo e facendo l'officio [ufizio] che [conviene] a uomo di sincera mente conviene: e così spero che l' acerbità apparente di qualche mia rigorosa censura doverà essere dal Sig.r Lodovico [da loro] stimata utilità filosofica, [e] non puntura mordace; e ciò potrà [potranno] conoscere dalle occasioni nelle quali io dissentirò dalla sua scrittura [dalle loro scritture], perchè saranno solo quelle dove si trattarà di vero e di falso: dispiacendomi di più che questi signori non abbian penetrato questo termine, dico di quanto pregiudicio siano simili mordacità a chi le usa, e massime in materie tanto aliene dalla inurbanità. Imperocchè nelli [negli] intendenti e capaci della forza delle ragioni è manifesto che le [elle] non operano nulla [cosa alcuna] nel persuadere circa la materia che si tratta; e ne' vulgari e poco intendenti levano quella opinione favorevole, la quale da questo concetto generale di aver risposto e contradetto potrebbe essere [essersi] destata in loro, sapendosi quanto il parlare a passione tolga di credito e di fede.
Ma prima che io discenda a i luoghi particolari del Discorso del Sig. Lodovico delle Colombe, ho giudicato essere necessario far due cose: una di protestarmi, come fo ora, di non volermi mettere a trattare delli [degli] errori grandi che [ei] commette il Sig. Lodovico ogni volta che apre bocca in materie geometriche; e questo fo perchè veggo [veggio] non potersi conseguire nessuno [niuno] di quei fini che mi potrebbono [potrebbero] spingere [spignere] a questa impresa. Perciochè il trattare di questi errori per rimuovernelo sarebbe vano, sì come ancora se altri fossero nel medesimo stato di lui, [il] quale mostra non sapere non solo le minime dichiarazioni dei termini, come che cosa sia cono, piramide, proporzione, centro di gravità, momenti ed altri, quali mette in questa sua scrittura per mostrarsi geometra, ma, quel che è peggio, mostra di non saper neanche la maniera delle diffinizioni geometriche, quale [che] consiste solo in certe libere imposizioni di nomi a determinate cose per fuggir l' equivocazione; sì che per cavarlo d'errore bisognerebbe cominciare dai primi principii, fatica immensa e che farebbe [a dismisura] crescere il volume fuor di misura. Se io poi volessi trattare di questi errori per dar sodisfazione [soddisfazione] alli [agli] intendenti, sarà superfluo;perchè le cose geometriche sono tali, che i cavilli [gavilli] ed [e] i paralogismi non possono apportargli perturbazione, essendo vere in un modo solo, ed esposte in un modo solo, e da chi le intende, intese ancora in un modo solo. Onde ogni mia fatica intorno a ciò sarebbe o vana o superflua. Mi dichiaro finalmente (come quello che attende solo all'utile del Sig. Colombo e di quelli quali solo dalla fama che egli abbi scritto potrebbono, anche senza leggerlo, formare, intorno al vero, concetto falso), mi dichiaro, dico, di voler solo notare certi errori, e tali che ognuno, ed il Sig. Lodovico stesso, potrà conoscere che chi scrive alla sua maniera e senza maggiori fondamenti non può dir cosa di momento. Trapassarò parimente moltissimi errori non solo per non crescere il volume in gran mole, ma perchè possono facilissimamente, o per loro stessi o da quel che sarà detto nelli [negli] altri, essere conosciuti. Tralasciarò ancora, come cosa appartenente più a gramatici e retori che a filosofi, il notare molti errori che ci commette nello spiegare i suoi concetti e formare suoi periodi, bene spesso mal coerenti [collegati], e che, cominciando un proposito, trapassano e finiscono in un altro; come saria, per essempio, nelle belle prime parole del Discorso, dove chi vorrà bene essaminare la disposizione de' suoi periodi, levandone, per meglio scoprire il concetto puro, [le parole non necessarie alla testura e spiegamento del concetto,] verrà a formare un discorso tale: «Perchè le cose nove fanno reputare i lor ritrovatori come Dei, di qui è che, essendo molti bramosi di correre cotale arringo, per la mala agevolezza dell''impresa non conseguiscono il desiderato fine». Dove si vede che la conclusione non ha dependenza o corrispondenza con le premesse; perchè, che altri per la mala agevolezza non conseguischino [conseguischano] il lor fine, non depende dall'essere le cose nove tali, che deifichino i lor ritrovatori. E per darne un altro essempio, senza voltar carta, un verso solo più a basso, si legge il periodo che segue, di conclusione non punto meglio dependente dalle premesse che la precedente; il quale, spogliato dalle circuizioni di parole, suona così: «Ma che si trovino intelletti che voglino far buio altrui con le tenebre dell'intelletto loro, che lode possono acquistarne? e che giovamento recare?». Dove, oltre alla independenza dei concetti, quel porre «intelletti che faccin buio coll'ombra dell'intelletto loro», ha quel suono che ogn'uno da per sè sente. Simili errori ed altri di altro genere, come sillogismi di una sola proposizione, di quattro termini, periodi senza senso, non pur senza dependenza, sono tanti, che, volendogli avvertire tutti, si potrebbe fare un longo trattato.
Mi ristringerò [ristrignerò] adunque a discorrere solo dove si tratta la materia con concetti filosofici, poichè ivi [quivi] gli [i] paralogismi, [l']equivocazioni e multiplicità di proposizioni, sì come prima ingannano quelli che li trovano e producono, così possono ingannare chi li ascolta e legge [gli legge e ascolta]; dove sarà utile loro che siino [siano] liberati da tali falsità, come procurarò [procurerò] fare con ogni mio potere.
La seconda cosa, che io giudico necessaria fare avanti, è manifestare una certa generale intenzione del Sig. Lodovico: e questa è, che avendo egli veramente conosciuto di non potersi avanzare punto appresso gli uomini intendenti, si è ridotto a contentarsi di far acquisto di qualche applauso delle persone volgari. Ciò manifestano chiaramente gli artifizii che egli usa in tutto il suo Discorso, i quali, sì come è impossibile che restino celati a chi intende e si prende fatica di leggerlo, così possono operar qualche cosa in cattivar gli animi de i poco [meno] intendenti; per beneficio de quali ho giudicato esser ben fatto lo scoprir tali arti [artifizii], acciò, fattine prima avvertiti, possino più facilmente riconoscerle [riconoscergli] nel lor proprio fonte. Ed ho determinato mettergli qua, avanti alle particolari considerazioni, acciochè, detti una volta sola qui in principio, mi levino di [la] necessità di replicargli molte nei luoghi particolari, nei quali basterà accennargli solo e riconoscere come e quanto frequentemente egli se ne serve.
Il primo artificio, [con] che amplamente [ampiamente] si diffonde per tutto il suo libro e che riesce molto accomodato al [suo] desiderato fine, è l' arreccare per lo più risposte fuori di proposito, non intese nè intelligibili da chi le ascolta nè forse da chi le dice, ed in somma prive di senso; perchè, sendo tali, non ammettono risposta alcuna, onde quelli che arditamente le proferiscono si vantaggiano assai appresso il vulgo, perchè son sempre gli ultimi a parlare; e gli uomini di giudizio non possono lungamente soffrir la nausea che simili insipidezze gli arreccano [simili discorsi], onde si quietano e più presto voglion cedere all'altrui petulanza [protervia], che vanamente consumare il tempo e la fatica per fare in fine restare sue ragioni superiori ad altre delle quali niuna cosa è più bassa e frivola [bassa].
Il secondo artifizio, attissimo a ingannar le persone semplici, che usa il Sig. Colombo, è il replicar con franchezza quelle ragioni dell'avversario che li pare di avere inteso, ritorcendole con le parole, se ben non con l' effetto, contro il primo autore, e, mostrando non solo di possederle, ma che punto non li gionghino nuove, e come che il suo intenderle e porle in campo le faccia mutar natura, produrle come favorevoli alla causa sua, benchè li siano di diametro contrarie e repugnanti.
Ecci il terzo artifizio, pur molto suo familiare; ed è il promuovere egli medesimo obbiezzioni e 'l produr risposte in vece dell'avversario, soggiungendoli poi le soluzioni. Ma se si considereranno tali instanze, si troveranno esser sempre legge rissime e senza nessuna efficacia, ed in somma quali bisogna che elle sieno per poter rimaner solute dalle sue risposte; e tali instanze di [al] sicuro non addurrebbe mai il Sig. Galileo.
Cade sotto 'l genere di simili artifizii il non si mostrar mai nuovo di qualunque cosa inopinata e diversa da i comuni pareri, delle quali non piccol numero ne sono nel trattato del Sig. Galileo; anzi, mostrando di aver gran tempo avanti sapute, intese e prevedute tutte le esperienze e ragioni contrarie, ributtarle con maestevole grandezza e disprezzo, come cose più presto rancide e messe in disuso per la lor bassezza; ed all'incontro, succedendoli di ritrovar qualche cosa di suo, per insipida ed inefficace che ella sia, portarla magistralmente come una gemma preciosa. Non dissimile dal precedente artifizio è il citare autori, ben che falsamente e fuori del proposito caso, non mai letti non che intesi da lui [senza avergli intesi ne forse letti], producendo per dottrina or di Copernico or di Archimede cose che in essi non si trovano: segno pur troppo manifesto, che il Sig. Colombo non parla se non per quelli che tali autori non son per leggere più che se gli abbia letti lui, che assolutamente non ne ha maggior notizia che 'l nome.
Ma che dirò di un altro suo sesto stravagantissimo particolare e inusitato] artifizio, il che quasi meriterebbe nome di bassezza di spirito, al quale [con qualche scapito della generosità d'animo] il medesimo Sig. Colombo si è lasciato traportare, per non si scemare o totalmente annullare il campo dove comparire con sue scritture? Sono le proposizioni e le demostrazioni del Sig. Galileo tanto vere e necessarie, che è impossibile, a chi le intende, il contradirgli; ve ne sono molte veramente alquanto difficili per lor natura, ma ve ne sono anco molte assai chiare: quelle, come realmente non intese dal Sig. Lodovico, per lo più son lasciate stare [son] del tutto [lasciate stare]; nelle facili ad essere apprese, egli s'induce [bene spesso] a fingere di non l'intendere, acciochè, dandoli senso contrario ed in conseguenza falso, ei si apra l' adito alla contradizione ed al potere diffondere parole in carta, le quali, facendo poi volume, satisfaccino all'aspettazion del vulgo, che, per non intendere i sensi delle scritture, si quieta sid vedere i caratteri e sid poter dire che sia stato risposto.
Il settimo artifizio, da lui usato per restar superiore, è la maniera dello scrivere incivile e mordace senza cagione alcuna; perchè così viene ad assicurarsi che non li [gli] sarà risposto, almeno da quello contro 'l quale egli scrive, il che può mantenerlo in speranza che buona parte delle persone semplici e vulgari credino che 'l tacer dell'avversario derivi da carestia di risposte e mancamento di ragioni (se bene i successi di altre contradizioni fatte al Sig. Galileo, alle quali egli non ha risposto, può [possono] assicurare ogn'uno che e' non ha taciuto per difetto di ragioni o falsità di sue conclusioni). Ed io con questa occasione mi protesto al Sig. Lodovico Colombo, in caso che mi rispondesse con i soliti suoi termini, di non li [gli] voler più rispondere altra... [replicar altro]; perchè, se non potrò con questi miei scritti mutare in meglio la sua natura, procurarò [procurerò] almeno col tacere di levargli, quanto potrò, l'occasione di essercitare sì biasimevole [un così poco lodevol] talento. Tra gli artifizi viene numerato quello con il [col] quale il Sig. Colombo va, con [l'accoppiamento di] diverse parole e clausule che sono [sparse in diversi luoghi] nel Discorso del Sig. Galileo, [va] formando [a guisa di centoni] proposizioni false a guisa di centoni [e argomenti falsi], per poter poi aver occasione di contradire, e mantenere che il Sig. Galileo proponga paradossi e falsità [e sostenga conclusioni impossibili].
Quella maniera di discorrere poi, che egli frequentemente usa [Usa, in oltre, assai frequentemente certa maniera di discorrere], dependente, per quanto io mi avviso, da mancamento di logica e dal non avere mai veduto quello che sia dimostrare e dedurre [e dalla poca pratica nelle scienze demostrative e nel dedur] conclusioni da' suoi principii; cioè fissarsi immobilmente [la qual maniera è, che egli immobilmente si fissa] nella fantasia quella conclusione che deve essere provata, e persuadersi che [persuadendosi che ella] sia verissima, e che non abbia a poter stare altrimenti, e ciò stabilito andar essaminando [va fabbricando] proposizioni che si accordino a lei, le quali poi, o siano false o siano più ignote di essa principal conclusione o talvolta, anzi bene spesso, la medesima [cosa], ma detta con altri termini, prenderle [egli prende] come notissime e vere, e da esse far [fa] nascere la conclusione, come figliuola di quelle delle quali ella veramente è stata madre, che è quel diffetto immenso che i logici chiamano provare idem per idem vel ignotum per ignotius vel petitio principii; [e] questa maniera di discorrere non sarà da me chiamata artifizio, perchè credo che il Sig. Lodovico l'usi senz'arte alcuna e solo come la semplice natura li [gli] porge.
Comincia il Sig. Lodovico delle Colombe il suo Discorso apologetico ↑ in cotal forma ↓:
[pag. 317, lin. 1] Perchè le cose nuove etc.
Ha tanta forza la verità, che quanto più s'ingegna alcuno di celarla e sommergerla, tanto più gli vien sempre innalzata e fatta maggiormente palese: sì come avviene al Sig. Colombo nel proemio della sua opera, che, avendo mira d'atterrare il Sig. Galileo, gli vien data grandissima lode; poi che egli celebra ed assomiglia meritamente alli Dei gl'inventori delle cose, tra' quali convenientemente è annoverato il Sig. Galileo per comun consenso di chi giudica privo d'ogni passione, avendo egli scoperto cose sì maravigliose e di sì gran lume a chi gusta la vera via di filosofare.
Séguita nella prima faccia, v. 11 [pag. 317, lin. 6]: Ma che si trovino intelletti etc.
Se il Sig. Colombo non intende parlar qui del Sig. Galileo, son fuori di proposito queste parole: ma se egli intende di lui, come ch' ↑ e' ↓ vada suscitando oppinioni vecchie, o egl'intende dell'opinioni esposte nel Discorso, o di altre ch' ↑ e' ↓pensi che sieno tenute da lui; se di queste, è parimente fuori di proposito l'accennarle, e darebbe segno d'animo non ben affetto; se di quelle, era in obbligo di nominar gli autori antichi che abbino auti i medesimi pensieri, altrimenti si reputa falso quanto dice: poi che la causa della principal conclusione di cui si disputa (cioè che l'aria sia cagione che alcune sottil falde di materie, che per lor natura discenderebbon nell'acqua, non discendono) è cosa nuova, nè mai prodotta da alcun altro; e 'l Sig. Colombo stesso lo sa, e lo scrive a car. 22, [pag. 333, lin. 15-17], del suo Discorso, dicendo al Sig. Galileo: E quest'altra cagione, non più stata fin ora osservata, crediate pure che, se fosse vera, non toccava a voi ↑ a ↓ osservarla, perchè saresti venuto tardi. E non solo questa conclusion principale è cosa nuova nel trattato del Sig. Galileo, ma moltissime altre, se non tutte; come chi ha pratica negli altri scrittori e intende questo, può per sè stesso giudicare. Or qui pur troppo chiaramente si scorge, la primaria intenzione del Sig. Lodovico esser d'abbassare in ogni immaginabii modo la fama del Sig. Galileo, e non punto il ritrovare 'l vero; perchè in questo particolar luogo, volend'egli tòrre al Sig. Galileo la gloria dell'invenzione, dice che le sue conclusioni son cose vecchie, e in quell'altro citato, a car. 22, volendo tassare il Sig. Galileo come che non abbia detto 'l vero, non si cura contradirsi ed ammetter l'istessa cosa per nuova sì, ma falsa.
Alla faccia medesima, v. 14 [pag. 317, lin. 8]: E che voglino oggi, che risplende etc. Non so vedere in che maniera possino arrecar tenebre, come dice il ↑ Sig. ↓ Colombo, quelli che s'affaticano dietro alla verità e che cercano d'imparare gli effetti naturali dalla natura stessa. Però che il supporre che dagli antichi sia stato detto ogni cosa e bene, è grand'errore, essendo gli effetti infiniti ed essendosipotuti gli uomini molto ingannare; e 'l diffidar che i moderni possino più filosofare come facevano gli antichi, è un chiamare matrigna la natura, perchè non ci abbia dotati d'intelletto e di strumenti atti a ritrovar la verità o che ci sia più scarsa in dimostrar gli effetti suoi. E in questo non vorrei che chi si trova inabile a tali specolazioni volesse misurar gli altri con la sua misura.
Facc. medesima, v. 18 [pag. 317, lin. 11]: Vorranno costoro etc.
S'inganna il Sig. Colombo a dire che 'l Sig. Galileo dia contro ad Aristotile senza averlo mai letto; perchè si vede che nelle cose trattate da lui, dove discorda da Aristotile, esamina con grandissima diligenza ogni minuzia, il che, se non l'avesse attentamente studiato, non potrebbe fare. Ardirei più presto dire che ci siano alcuni altri che si mettono a dar contro ad autori che ↑ e' ↓non possono di certo avere intesi, per non avere intelligenza alcuna della dottrina sulla quale si fondano; e si vede che eglino, perchè non gl'intendono, non fanno come il Sig. Galileo nel ribatter le ragioni di Aristotile, ma o non gli citano o, se ne fanno in qualche modo menzione, dicono ogni cosa a rovescio.
Facc. medesima, v. 23 [pag. 317, lin. 16]: Ora, quantunque il Sig. Galileo etc.
Il Sig. Galileo non ha per mira nella sua filosofia di dar contro ad Aristotile o di rinuovare opinioni antiche, ma sì bene di dire la verità; e però se accade, per scoprirla, dar contro ad Aristotile o rinovare opinioni antiche, segue tutto non per sua mala intenzione nè per capriccio, ma per desiderio del vero, il quale, conforme al giusto, egli antepone a qual si voglia altra cosa: sì come ancora, nelle cose naturali, antepone la natura stessa a qual si voglia autorità di celebre scrittore, come dovrebbe fare chiunque brama dirittamente filosofare.
Facc. medesima, v. 25 [pag. 317, lin. 18]: Non credo già che egli debba etc.
Se il Sig. Galileo al parere del Sig. Colombo stesso non deve essere annoverato tra quelli, pare a sproposito il proemio.
Facc. medesima, v. 28 [pag. 317, lin. 18-19]: Stimando io etc.
L'esercizio d'ingegno che fa il Sig. Galileo, e quello che egli stima, è essercitarsi nel ritrovare la verità, ma non già nel mantenere paradossi o sofismi, come crede il Sig. Lodovico: nè so immaginarmi, qual causa lo possa aver indotto a dir di credere che il Sig. Galileo non reputi per vere le conclusioni, e per sicure le dimostrazioni, che egli produce; poi che si veggono trattate con quella maggior resoluzione e saldezza che usar si possa circa le cose reputate per verissime. Ond'io inclino a pensare che, non potendo il Sig. Colombo in modo alcuno levargli la lode di aver detto 'l vero, s'induca, mosso da qualche suo particolare umore, a voler persuadere che quando 'l Sig. Galileo pur ha detto la verità, ciò gli sia accaduto, come si dice, per disgrazia e mentre egli andava scherzando su le burle.
Facc. medesima, v. 32 [pag. 317, lin. 24]: Il quale lesse più libri etc.
Queste iperboli tanto grandi, oltre l'esser false, son di non leve pregiudizio all'istesso Aristotile; perchè è manifesto che quanti più libri uno legge, tanto meno gli può considerare, e minor tempo ha di filosofare sopra gli effetti naturali intorno a' quali egli scrive; e quanto più uno dice, tanto più errori può commettere. Di maniera che le conclusioni del Sig. Colombo tornano a rovescio del suo intento: perchè quelli che egli vuole biasimare, gli vengono grandemente lodati, e quelli che si dà ad intendere di lodare e difendere, son offesi da lui non leggiermente. Sì che pare che sia più tosto da desiderarlo per avversario che per fautore.
Facc. medesima, v. 38 [pag. 318, lin. 3-4]: E doppo averne meco fatta lunga contesa etc.
Io so di sicuro che il Sig. Galileo non ha scritto per il Sig. Colombo, nè in questa scrittura ha voluto trattare con esso lui: ed egli poteva accorgersene non solo dal non esser mai stato nominato, ma dalla maniera con la quale è scritto 'l Discorso, nel quale la maggior parte delle cose che si provano, si dimostrano per via di geometria; cosa che poteva assicurare il Sig. Colombo che questa scrittura era inviata a gl'intendenti delle matematiche, e non a chi n'è del tutto ignudo.
Facc. 6, v. 10 [pag. 318, lin. 15]: Passorno alcune scritture etc.
È fuori di ogni affare del Discorso il produrre queste scritture, quasi che il Sig. Galileo abbia scritto il suo trattato a petizione del Sig. Lodovico, al quale io so certo che non ha mai applicato il pensiero; ma solamente ha auto intenzione di trattare questo argomento, non per contrariare ad alcuno, ma solo per ritrovare 'l vero. E se nel progresso ha impugnato l'opinioni o di Aristotile o d'alcuno de' suoi interpreti, ciò ha fatto perchè così richiedeva la necessità della materia; e se ciò pareva al Sig. Colombo non essere stato perfettamente eseguito, e aveva pensiero di contraddire per difesa d'Aristotile o di qual si sia altro compreso dal Sig. Galileo sotto quel nome generale di avversarii, doveva aver riguardo a quel tanto solamente che il Sig. Galileo ha stampato, convenendo con scritture publiche impugnare le scritture publiche, e non atti o ragionamenti privati. Però, universalmente, tutti gli atti privati prodotti dal Sig. Colombo e non posti dal Sig. Galileo nel suo trattato, come fuori del proposito di cui si tratta, ed anco per esser portati molto diversamente da quello che fu in fatto, saranno da me tralasciati; e solo proccurerò di dar satisfazione al Sig. Lodovico nel solver suoi argomenti e redarguir sue ragioni, poi che io le ritrovo tutte tali, quali è necessario che siano quelle che oppugnan conclusioni vere.
Facc. 7, v. 25 [pag. 319, lin. 25]: Ogni sorte di figura etc.
Che ogni sorte di figura, e di qual si voglia grandezza, bagnata vadia al fondo, e la medesima non bagnata stia a galla, è conclusione proposta e dimostrata dal Sig. Galileo nel suo trattato, ma non già intesa dal Sig. Colombo; o almeno egli, servendosi del 6° artifizio, ha finto di non l'intendere, per non si ristrignere il campo delle contraddizioni: che quando ciò non fosse, egli non arebbe mai scritto, come egli fa in questo luogo, che tal proposizione non sia vera, perchè una palla d'ebano asciutta cala al fondo e una falda di suvero bagnata galleggia; le quali due esperienze non hanno da far niente col detto del Sig. Galileo, il quale non si astrigne a materia che gli venisse proposta, ma solo alla figura ed alla grandezza. Però il nominar, che fa il Sig. Colombo, l'ebano ed il suvero, con pretender che 'l Sig. Galileo sia in obbligo di far vedere una falda di suvero bagnata andare in fondo e una palla d'ebano che galleggi, è domanda fuori dell'obbligo della presente asserzione del Sig. Galileo, nella qual e' non si lega se non all'universalità delle figure e delle grandezze, nè vi si nomina materia. Però, se 'l Sig. Colombo vuole con qualche atto particolare destrugger l'universal proposta, bisogna che egli mostri, la tal figura, come, v. g., la sferica, fatta di tal grandezza, come sarebbe d'un palmo di diametro, non esser sottoposta all'universal pronunziato del Sig. Galileo, ed esser impossibile che egli o altri possa far una palla d'un palmo di diametro, la quale bagnata vadia al fondo, e la medesima non bagnata galleggi: ma il volergli di più assegnare e limitare la materia ancora, col proporgli suvero, ebano o piombo, è un volerlo tirar di là dall'obbligo, non s'essend'egli astretto a materia nessuna a elezzione d'altri; onde tutta volta ch'egli farà vedere una palla di un palmo di diametro, e qualunque altra figura d'ogni grandezza assegnatagli, che faccia il detto effetto, avrà pienissimamente satisfatto alla promessa. Ma perchè egli tutto questo evidentemente dimostra nel suo libro a facc. 56 [pag. 122], resta la sua proposizione verissima, e le obiezzioni del Sig. Colombo di niuna consequenza. Io non posso dissimulare un poco di sospetto che ho, che 'l Sig. Colombo, avendo per avventura scorso così superficialmente il trattato del Sig. Galileo, abbia in confuso ritenuto il concetto di 2 proposizioni vere che vi si leggono in due luoghi diversi, delle quali egli poi ne abbia, congiugnendole, formato un concetto falso, ed ascrittolo al Sig. Galileo, per esser fatto di cose sue. Le proposizioni sono, una la sopradetta, cioè che ogni sorte di figura, di qual si voglia grandezza, bagnata va al fondo e non bagnata galleggia etc., e questa si legge alla facc. 50 [pag. 114 lin. 12-15]; l'altra, a facc. 48 [pag, 115, lin. 9-13], dice che ogni sorte di figura, di qual si voglia materia, bagnata va in fondo e non bagnata galleggia etc. Ma in quella non si nomina la materia, nè in questa la grandezza, perchè così sarebbono amendue false, dove che in quel modo son verissime: ma il Sig. Colombo, congiugnendole, vuole che il Sig. Galileo abbia affermato che ogni sorte di figura, di qual si voglia grandezza e di qual si voglia materia, bagnata etc; e così, facendo un centone di luoghi diversi, conforme all'ottavo artifizio, senza cagione incolpa la dottrina del Sig. Galileo.
Facc. 7, v. 36 [pag. 319, lin. 36]: Per secondo supponete che io etc.
Non è vero che il Sig. Galileo supponga che il Sig. Colombo si oblighi a mostrare che la figura operi assolutamente lo stare a galla o l'andare al fondo nell'acqua; anzi nel Discorso non si fa mai menzione del Sig. Colombo, non avendo il Sig. Galileo che fare con esso lui. I luoghi poi citati alla facc. 24 e 25 [pag. 87 e 88] non sono stati intesi, ancor che chiarissimi, dal Sig. Colombo, se già egli ↑ (conforme al suo sesto artifizio) ↓ non dissimulasse l'intelligenza, e a bello studio gli corrompesse. Le parole precise del Sig. Galileo son queste: «Che la diversità di figura non può esser cagione in modo alcuno, data a questo e a quel solido, dell'andar egli o non andare assolutamente al fondo o a galla»; dove essendo con la parola cagione congiunte le parole in modo alcuno, e molto lontana la particella assolutamente, che è congiunta con l'andare o non andare a fondo, nessuno sarà, fuori che il Sig. Colombo, che non intenda che il Sig. Galileo esclude la figura dal poter in modo alcuno, cioè nè per se nèper accidens etc., esser cagione del muoversi o non muoversi assolutamente, ma sì bene della tardità o velocità, come dichiarano l'altre parole della facc. 25 [pag. 88, lin. 1-2], prese pur al contrario dal Sig. Colombo, le quali parole son tali: «Può ben l'ampiezza della figura ritardar la velocità tanto della scesa, quanto della salita etc.». Insomma il Sig. Colombo si fa lecito il poter da diversi luoghi raccòrre parole, ed accozzarle a formare un concetto a modo suo, per addossarlo al Sig. Galileo e confutarlo in accrescimento del suo volume. E con simil licenza dice che il Sig. Galileo in questo luogo contradice a sè medesimo, avendo scritto il contrario alla facc. 6 [pag. 66], e fassi lecito chiamar contradizione il medesimo concetto, detto anco con l'istesse parole. Ecco le parole della facc. 6 [pag. 66, lin. 15-16]: «Conchiusi pertanto, la figura non esser cagione per modo alcuno di stare a galla o in fondo». Ecco le parole della facc. 24 [pag. 87, lin. 31-32]: «La diversità di figura non può esser cagione in modo alcuno dell'andare, o non andare, assolutamente al fondo o a galla etc.». Or chi non vedrà che il Sig. Colombo non ha scritto se non per quelli che non son mai per leggere di tutte queste scritture altro che i titoli? ↑ e che egli s'è accomodato a non tener conto del giudizio che sien per far di lui gl'intelligenti? ↓ |
Facc. 8, v. 6 [pag. 320, lin. 7]: Terzo presupposto etc.
È verissimo che il Sig. Galileo suppone che i corpi si abbino a mettere nell'acqua come in luogo, cioè circondati dall'acqua, e così si deve intendere in questo proposito, e non altrimenti; perchè, potendosi intendere il termine di esser nell'acqua in senso proprio e ristretto, ed in significato comune e largo, se nella presente quistione fussi lecito di pigliarlo, ad arbitrio d'una delle parti, in alcuno di quei sensi che comunemente ↑ e largamente ↓ s'usa di dargli, tal quistione, di filosofica, si farebbe divenire poco meno che scurrile e ridicola: perchè si costuma di dire, esser in acqua anco gli uomini e le mercanzie che son poste in una barca che sia in acqua; onde si legge nel Boccaccio, Gior. 5, nov. prima: Cimone etc. con ogni cosa opportuna a battaglia navale si mise in mare; e appresso: Efigenia, dopo onor fatto dal padre di lei a gli amici del marito, entrata in mare. Se, dunque, esser nell'acqua si deve nel Discorso intender del luogo in comune, come si devono intender i citati passi, e non del luogo proprio, non sarà difficil cosa fare stare a galla qual si voglia figura di qual si voglia grandezza e di qual si voglia materia; e io mi obbligherò a far galleggiar nell'acqua non solo la palla d'ebano, ma una montagna di marmi; e 'l Sig. Colombo non mi contradirà, volendo che la parola nell'acqua si deva prender nel senso comune e non nel proprio, e contentandosi che i monti de' sassi si ponghino in acqua nel modo che si pose Cimone o Ifigenia.
Ma, quello che più importa, quando il prender un pronunziato nel senso proprio e stretto diversifica 'l senso della quistione che si tratta, si deve prendere 'l significato proprio, e non il comune e improprio. Come, quando fussimo in contesa, se gli uomini posson vivere nell'acqua o no, chi non vede che 'l termine nell'acqua non s'ha da prender in quel senso comune e largo, nel quale si suol dire che un pescatore, che sia nell'acqua sin al ginocchio, è nell'acqua? ma ben si deve intender la quistione in questo senso, se gli uomini posson viver nell'acqua, cioè tuffati dentro, come altri animali vi vivono? Così nella presente quistione, essendo che la leggerezza è causa che alcuni corpi non descendino nell'acqua, benchè messivi dentro totalmente, così si mette in quistione se 'l medesimo accidente, di non profondarsi, può accadere a corpi più gravi dell'acqua, mercè della figura dilatata.
In oltre io dichiaro al Sig. Lodovico, che quando si pigli il termine di messo nell'acqua nel largo significato, non però creda di vantaggiar la sua condizione; perchè dal Sig. Galileo s'è chiaramente provato che nè anco 'l galleggiar in tal guisa depende dalla figura dilatata. E qui poi io vorrei finalmente saper dal Sig. Colombo, quel che si sia delle sue scritture, se la proposizione esposta come sta nel Discorso è vera o falsa: e se la reputa falsa, vorrei vederla rifiutata; e se la concede per vera, cioè se è vero che tutti i corpi più gravi dell'acqua, ridotti in qualunque larghezza di figura, vanno in fondo, cessi una volta d'insultar in vano contr'alla dottrina del Sig. Galileo, e dica liberamente che le figure non han che fare nel galleggiar d'un corpo che per sua natural gravezza andasse al fondo.
Facc. 9, v. 4 [pag. 321, lin. 1-2]: Poi che subito calano al fondo etc.
La cagione perchè il Sig. Galileo non deve pensar che Aristotile si creda che le lamine di piombo o ferro poste sotto 'l livello dell'acqua non discendino, è (dice il Sig. Lodovico) perchè subito calano al fondo: talchè se una proposizione non sarà vera, il Sig. Galileo non può ↑ nè deve ↓pensare che Aristotile l'abbia mai detta, come che pur sia notissimo che egli non possa aver detta una cosa falsa.
Facc. 9, v. 5 [pag. 321, lin. 3-7]: Non è egli vero, che quando si dice una cosa far un tal effetto, si dee intender in quel modo adoperata che ella lo fa? E Archimede stesso non direbbe, nè dice mai, che le cose che soprannuotano si debbano bagnare, per vederne l'effetto. Però questa è invenzion vostra, per disciorvi dal laccio nel qual sete inciampato etc.
Se questa regola del Sig. Colombo fosse vera e sicura, cioè che affermandosi una cosa produrr'un tal effetto, si dovessi intender «adoperata in quel modo che essa lo produce», ↑ sarebbe impossibile che non solo Aristotile, ma qual si voglia goffissimo uomo dicesse mai cosa che non fusse vera: e ↓a me darebbe l'animo di mantener per vera qual si voglia esorbitantissima conclusione; come sarebbe che una gravissima pietra non si movesse all'ingiù per l'aria, perchè adoperata in quel modo ch'ella non vi si muove, non vi si muove, che sarebbe sospendendola con un canapo a una trave. Così sarà vero che la campana grossa del Duomo non si sente da Fiesole, adoperata però in quel modo che non si sente, che sarebbe non la sonando, o sonandola fasciata con due materasse o più, se più bisognassero per verificar la proposizione.
Quanto a quel che segue, d'Archimede, dico che anco il Sig. Galileo, quando primieramente propose la questione, pronunziò semplicemente esser nell'acqua, nell'istesso modo che anco Archimede intende esser nell'acqua: e che ciò sia vero, tutti que' solidi che Archimede dimostra galleggiare, galleggiano bagnati, anzi, posti nel fondo, tornano a galla. Ma il Sig. Galileodi poi è stato necessitato aggiugner quella esplicazione, per essers'incontrato in persone che volevano storcere 'l proprio sentimento: nel che è stato manco avventurato d'Archimede, il quale, se altresì avesse auto di cotali contradittori, non ha dubbio che avrebbe fatto l'istesso che 'l Sig. Galileo, ↑ o vero, con più prudente consiglio, non arebbe riguardato a lor opposizioni. ↓
↑ Facc. 9, v. 10 [pag. 321, lin. 7-13]: E se la quistione, secondo voi, fu promossa tanto circa le cose che devono ascendere dal fondo, quanto circa quelle che devon calare, non per questo ne seguita che tanto l'une quanto l'altre figure si devan bagnare avanti che si posin nell'acqua. La ragione è, perchè l'une di necessità si bagnano, poichè si metton in fondo per farle ascendere; e l'altre, perchè hanno a galleggiare, potendo, non è necessario che si bagnino.
Che 'l Sig. Colombo scriva solamente per gli uomini vestiti di gran simplicità e nudi d'intelligenza, è manifesto da moltissimi luoghi di questa sua opera, sì come andrò additando: e 'l presente ne è uno, dove, dopo l'aver egli prodotta la scritta, nella quale apertamente si contiene ch'egli è non meno in obbligo di mostrar che la figura può proibir l'ascender a' corpi più leggieri dell'acqua, che 'l descender a' più gravi; nelle presenti parole pon in dubbio se questo sia o non sia stato; accennando di più, col dir secondo voi, che quando ciò pur sia stato, seguisse non di suo assenso, ma del Sig. Galileo solamente. Che poi non per questo séguiti che tanto nell'uno quanto nell'altro caso le figure si devin bagnare, è detto assai fuor del caso; perchè 'l Sig. Galileo non dice che, sì come le figure che devon ascender dal fondo son bagnate, così per necessità si devin bagnar quelle che hanno a descendere; ma solamente, per mostrar la vanità della fuga di coloro che si riducon a voler che le figure che hann' a discender sieno non solamente sottili e dilatate ma ancora asciutte, quasi che la dilatazion non possa bastare, gli oppon le falde che in virtù della dilatazione devon, contr'all'inclinazion della lor materia, restar in fondo; le quali non vi si potendo porr'asciutte, bisogna che gli avversarii per necessità confessino che del tutto, sia impossibile che tal figure si fermino in fondo (e confessin, in consequenza, d'aver già persa la metà della lite), o che la condizione della siccità sia una chimera che non abbia niente che far col presente proposito: sì com'ella veramente è tale, come diffusamente si dichiarerà a suo luogo, e come già dovrebb'esser chiaro dall'esser nata la presente disputa dal galleggiar delle falde di ghiaccio, nelle quali sarebbe pazzia 'l pretender che fossero asciutte.
Ma passo a considerar quanto acconciamente 'l Sig. Colombo renda ragione di questa disparità, cioè del non esser necessario che le falde ch'hann' a galleggiare si bagnino, ancorchè il bagnarsi sia necessario in quelle che devon ascender dal fondo, o, per meglio dire, che dovrebbon, mediante l'ampiezza della figura, restar in fondo. Quanto a questa parte, dic'egli, è necessario che queste si bagnino, poi che si metton nel fondo dell'acqua. Ma, se ben si considera, questa cagione non ha riguard'alcun all'effetto per il quale ell'è ricercata, ed è appunto come se altri dicesse, che per calafatar le navi già poste in mare, è necessario che 'l calafato ritenga lungamente 'l fiato, la qual retenzione non ha riguard'alcuno all'atto del calafatare, ma solo all'universal impotenza di poter respirar sott'acqua; e quando 'l calafato trovasse 'nvenzione di potervi respirare, egli benissimo farebbe l'opera sua senza ritener lo spirito. E così dell'assicella che si mette nel fondo acciò vi si fermi, il dir, come fa 'l Sig. Colombo, che sia necessario ch'ella si bagni, perchè le cose che si pongon sott'acqua per forza s'immollano, non ha rispett'alcuno all'effetto del restar in fondo o del venir ad alto, perchè l'istesso farebbon quando si potesser mantener asciutte: e però fuor di proposito gli vien attribuita la necessità del bagnarsi. Quant'all'altra parte, a me par che 'l Sig. Colombo adduca per ragion d'una cosa la cosa stessa per l'appunto. Si deve render la ragione perchè le figure, che devon galleggiar mediante la figura, ancor che di materia che per sua natura andrebbe in fondo, non si devon bagnar avanti che si posin nell'acqua; e la ragion ch'egli n'assegna è perchè, avend'a galleggiare, non è necessario che si bagnino. Tasserà poi 'l Sig. Colombo per difettoso di buona logica 'l Sig. Galileo. ↓
Facc. 9, v. 17 [pag. 321, lin. 13-14]: Ma il vero è, che la disputa si ristrinse solo alle cose che galleggiano o calano al fondo per causa della figura etc.
Séguita 'l Sig. Colombo di persistere in volersi disobbligar dal far veder materie che per causa della figura restino in fondo dell'acqua: e se ben la scritta, prodotta da sè senza veruna necessità, suona in contrario, egli pur la vuol posporre ad alcuni casi seguiti, dicendo che non s'è mai praticato se non con materie più gravi dell'acqua, nè inteso d'altre che di queste; e ne adduce per testimonio sè medesimo, con dir che, per tal rispetto, elesse solamente materie che vann'in fondo. Ma io veramente avrei stimato ch'e' si fosse ritirato alle materie che discendono solamente, per non poter con l'altre mostrar cosa che, almen in apparenza, potesse differirgli e ascondergli la dichiarazione della falsità della sua conclusione: e noto che, quanto più e' si trova lontano dal poter sostener la causa sua, tanto più altamente esclama con aggravio del Sig. Galileo, dicendo ch'e' gav illa, e trova invenzioni per disciorsi dal laccio nel quale è inciampato, e ch'egli ha viso di sentenza contro, per aver indugiato a trovar questo rifugio nella chiosa alla seconda stampa, che manifesta questo essere suo capriccio, ma inutile, e ch'egli si sarebbe rovinato sin'alle barbe: e tutti quest'insulti si carican addosso al Sig. Galileo tanto più ingiustamente, quanto che il Sig. Colombo gl'inserisce nel parlamento ch'e' fa per disobbligarsi dalla scritta da sè stesso prodotta, senz'esserne ricercato da alcuno e senza che 'l Sig. Galileo abbia mai trattato nè di lui nè di suoi patti. Però doveva, volend'impugnar la dottrina del Sig. Galileo, pigliare 'l suo trattato, e prima procurar d'intenderlo, e poi metters' all'impresa: se poi privatamente eran seguiti atti o parole che nel trattato non fussero, poteva, per sè prima e poi per gli amici particolari, dire che 'l libro non era scritto per lui, poi che nè 'l nome suo, nè le convenzioni, nè gli atti, nè i ragionamenti seguiti tra loro vi si contenevano, e che però egli non aveva necessità di rispondere se non in quanto, in termine di scienza, e' si sentiva discordare da quella dottrina, e che per via di filosofici discorsi voleva tentar di venir in sicurezza del vero. Però, sì come questo solo, e non altro, dovev'esser da lui effettuato, così questa parte sola vien da me considerata nel suo libro, perchè non ho altra intenzione che di sostener la dottrina del Sig. Galileo, parendom'ella in ogni parte vera.
↑ Facc. 9, v. 29 [pag. 321, lin. 25-31]: Vedete quel che opera la falsa opi nione, che quanto più si cerca farl'apparir vera, tanto maggiormente la verità le cava la maschera. Imperò che, se volete far capitale del concetto dell'ascender dal fondo dell'acqua ancora, come se fosse in patto, chi dirà mai che abbiate ragione a dir che le figure diverse non operino diversità d'effetto? Voi pur concedete ch'elle son causa della tardità e velocità di moto. Nè anco in questo membro della scritta s'è detto ch'elle sien causa di quiete etc.
In vero non si può negare che la presente sentenza del Sig. Colombo non sia verissima, cioè che quanto più altri s'affatica in voler sostener il falso, tanto meno conseguisce 'l suo 'ntento, anzi tanto più e più gravi fallacie produce 'n campo: e 'l presente luogo, ch'egli apporta, manifestamente ci mostra la verità di tal sentenza, se però si considererà nella persona sua e non nel Sig. Galileo, dov'e' non ha rincontro.
Vorrebbe pure 'l Sig. Colombo che non si facesse capitale, anzi che nè anche fuss'in patto, di dover considerar ciò che operi la figura circa 'l ritener in fondo le figure di materia, per sua natura, ascendente nell'acqua: ma la verità della scritta, da sè stesso prodotta, le viene a cavar la maschera, e mostrare scopertamente o con parole chiarissime ch'egli ha 'l torto. Egli pur si scontorce, e col testimonio di se medesimo vuol provar non s'esser mai praticato se non in materie descendenti, e però averl'elette più gravi dell'acqua, e non più leggieri quali dovrebbon esser per l'altra esperienza del farle fermar in fondo: ma la verità gli risponde, ch'e' non è venuto a questa seconda esperienza, non perch'ella non sia compresa nell'obligo, ma perch'egli non ha potuto trovar modo di palliarla in maniera, che nè pur le persone semplicissime ne dovessero restar ingannate. E si riduce sin a dir, che 'l Sig. Galileo medesimo nella scritta non apporta per dichiarazione della sua 'ntenzione altr'esempio che di materie più gravi dell'acqua, e che di queste in particolare parla 'n diversi luoghi del suo trattato: ma la verità gli replica che nella scritta sarebbe stato superfluo l'apportar più esempli: e che, quanto al trattato, il Sig. Galileo, per far tutt'i vantaggi a gli avversarii suoi, ha fatto 'l contrario di quel che fa 'l Sig. Colombo, cioè si è fermato su quella parte principalmente che in apparenza aveva maggior difficoltà e sembrava più favorir gli avversarii, lasciando l'altra troppo cospicuamente disfavorevol a quelli; dove che il Sig. Colombo si vuol ingolfar solamente in quella che maggiormente mostra applauder al suo 'ntento, e dall'altra si vorrebbe sgabellar del tutto. Si volge a un altro sutterfugio, e dice che, quando pur s'avess'a, far capitale delle materie ascendenti, a ogni modo 'l Sig. Galileo arebbe 'l torto a dir ch'elle non operin diversità d'effetto, anzi che egli stesso confessa la diversità di figure produr diversità circa 'l più e men tardo: ma la verità mostra in questo particolare 2 gravi errori del Sig. Colombo. Il primo è una manifesta contradizion a se stesso, mentre dice che 'l Sig. Galileo erra a dir che le figure non operin diversità d'effetto, e subito soggiugne ch'egli ammette ch'elle producan diversità d'effetto circa 'l tardo e veloce muoversi. Ma se 'l Sig. Galileo concede questa diversità, su che fondamento gli ascrive 'l Sig. Colombo ch'e' dica, quelle non produr diversità alcuna? L'altr'errore è d'una irremediabile equivocazione che 'l Sig. Colombo commette sempre in questo medesimo particolare, di non aver mai potuto 'ntender la differenza che è tra l'accrescer tardità al moto e l'indur la quiete assoluta: quell'effetto è stato sempre, senza nissun contrasto, conceduto dal Sig. Galileo depender dalla dilatazion di figura; quest'altro, del poter indur la total quiete, è stato sempre negato, e di questo solo si parla e si disputa. Non rest'ancor di tentar, ben ch'in vano, 'l Sig. Colombo d'adombrar la ragion sua, e, quasi che per sua difesa bastasse 'l ritardamento di moto, dice che 'n questo membro della scritta non s'è detto che le figure sien causa di quiete: ma la medesima verità, accompagnata da Cantalicio, produce le parole precise della scritta, che son tali: Avendo 'l Sig. Colombo opinion, che la figura alteri i corpi solidi circa 'l descendere o non descendere, ascendere o non ascender nell'istesso mezo etc.; e dichiara al Signor Lodovico quel che sin ora e' non ha 'nteso, cioè che il dir ascendere o non ascendere, descender o non descendere non significa ascender veloce o tardo, descender veloce o tardo, ma, nell'un caso e nell'altro, importa muoversi o non muoversi; e non muoversi, Sig. Colombo, vuol dire star fermo, e non vuol dir, come vorreste voi, muoversi adagio.
Séguita 'l Sig. Colombo d'accumular altre cose mal coerenti col resto ch'e' tratta 'n questo luogo: tuttavia, per dargli energia e credito appresso gl'idioti, l'accompagna con certa esclamazione alquanto mordace verso 'l Sig. Galileo, e scrive: Anzi vi sareste da voi medesimo rovinato sin alle barbe; perchè in queste prime parole si comprendon universalmente tutte le figure, fino i vasi concavi che galleggiano. Nè importa che vi sia l'aria; perchè nella scritta non è eccettuata, e con ragione, perchè l'aria vi sta mediante la figura, come principal cagione. Ma io veramente non avrei fatto di questo concetto punto di capitale; perchè la verità è, che 'l negozio si ristrinse alle figure che soprannuotano o calan al fondo. In verità, è cosa degna di non piccol'ammirazione 'l sentir il Sig. Colombo declamar per rovinato 'l Sig. Galileo per cagion di cosa, che, ben considerata, è la total rovina solamente di sè medesimo. E acciò che 'l tutto apertamente si comprenda, replichiamo brevemente la continovazion delle presenti cose con le precedenti.
Disse 'l Sig. Colombo, parlando al Sig. Galileo, che s'e' voleva pur far capitale delle materie ascendenti per lor leggerezza nell'acqua, che ad ogni modo avea 'l torto a dir che la diversità di figure non cagionasse diversità d'effetto, essendo manifesto produr lei maggior o minor tardità; la qual variazione tanto più doveva bastare, quanto in questo membro della scritta non si trattava dell'indur la total quiete. Séguita e scrive: Anzi vi sareste da voi medesimo rovinato; e la particella Anzi denota relazione tra le cose da dirsi e le già dette, sì che la struttura camina così: «Anzi, se si avesse a far capitale, come vorreste, Sig. Galileo, delle cose ascendenti dal fondo etc., vi sareste da voi medesimo rovinato sin alle barbe; perchè nelle parole della scritta si comprendon tutte le figure, sin a' vasi concavi e galleggianti. Nè importa che sien ripieni d'aria; avvegna che ella non vien eccettuata nella scritta, etc.» Queste Sig. Colombo, son le cose che spiantano 'l Sig. Galileo? A me par che voi ne restiate desolato sin a' fondamenti: e la ragion è assai manifesta. Imperò che, se nè voi nè altri può ritrovar modo di far restar in fondo, mercè della figura, falde piane di materie men gravi dell'acqua, che faranno le medesime fatte concave e ripiene d'aria? Io per me credo che elleno tanto manco vi resteranno. Anzi, tanto sete voi lontano dal vero e da cosa che non disfavorisca diametralmente la causa vostra, che non solamente i vasi di materia men grave dell'acqua, qual si richiede per l'esperienza di cui si parla, ma fatti di materie gravissime, come di rame, d'argento e d'oro stesso, non si fermeranno 'n fondo se saranno ripieni d'aria. Or vedete quanto 'l vostro filosofare è fluttuante, e le vostre fantasie indigeste e mal innestate 'nsieme. Nè mi diciate che, quando parlate di questi vasi concavi e pieni d'aria, intendete del fargli galleggiare, e non del fargli fermar in fondo; perchè ciò sarebbe un grandissimo sproposito 'n questo luogo, dove si tratta solamente del concetto del restar al fondo, come dal corso delle vostre parole, non solo precedenti, ma susseguenti, si comprende; scrivendo voi nell'ultime che non avreste fatto capital di quel concetto, perchè veramente 'l negozio si ristrinse alle figure che soprannuotano. Se dunque 'l negozio si ristrinse a queste figure galleggianti, e voi perciò non areste fatto capital dell'altro concetto, è necessario che nell'altro concetto, cioè in quello di chi avete parlato sin qui, s'intendesse solamente delle figure che devono fermarsi nel fondo.
Ma passo a notar altri assurdi che si contengono 'n queste vostre parole. Voi dite che nella scritta si contengon universalmente tutte le figure sin a' vasi concavi. Questo vi si concede senza contrasto veruno: però pigliate a piacer vostro un pezzo di rame massiccio, e formatene poi un catino o altro vaso concavo, e fateci vedere che 'l detto rame, in virtù della figura datagli, galleggi; che senz'altro arete vinto. Ma avvertite che vo' sete in obbligo di metter nell'acqua 'l rame accompagnato dalla sola vostra figura, e non accompagnato con qualche altro corpo leggerissimo che lo sostenga; perchè questo non sarebbe galleggiar mediante la figura. E quando voi dite che non importa che vi sia l'aria, perchè nella scritta non vien eccettuata, adducete una ragion molto frivola; perchè con altrettanta ragione potreste accompagnar a una piastra di piombo molte galle o suveri, e anco sostenerla con quattro spaghi legati al palco, perchè nè le galle nè 'l suvero nè gli spaghi son eccettuati nella scritta. Ma voi, Sig. Colombo, credete che sia conforme alla buona dottrina e alla mente d'Aristotile, che l'aria non deva esser esclusa da i corpi gravi che hanno a galleggiar mediante la figura: e non v'accorgete quanto grande sciocchezza voi gli fareste scrivere? Eccovi le sue parole: «Dubitasi onde avvegna che le falde di ferro galleggiano, e altre figure, come rotonde o lunghe, benchè minor assai, vann' in fondo»; dove, se a me sarà lecito, per vostra concessione, accompagnar con la figura l'aria ancora, io vi farò veder palle di ferro, non solamente piccole, ma grandissime, e figure lunghe, grandi come travi, galleggiare, e molto meglio che le falde piane, anzi le falde piane esser manco atte a sostenersi d'infinit' altre figure. Or vedete se si deve escluder l'aria, o no. Ma, più, chi v'ha detto che dalle parole della scritta non vien esclusa l'aria? Le parole del Sig. Galileo, prodotte da voi, dicono che «un solido corporeo, che ridotto in figura sferica va in fondo, v'andrà ancora ridotto in qualunque altra figura». Ora, se quando voi fate la palla, togliete un solido corporeo, quando poi fate l'altra figura non dovete tor due corpi, ma 'l medesimo uno; sì che la condizione dell'esser uno esclude tutti gli altri corpi che voi voless'accoppiargli, e in consequenza l'aria ancora. Il dir poi che l'aria vi stia mediante la figura, è gran semplicità; perchè se all'introduzzion di tal figura seguisse necessariamente l'accompagnatura dell'aria, sarebb'impossibile rimuover l'aria senza mutar la figura; or io m'obbligo a mantener qualunque figura più vi piacerà, rimovendone l'aria. Ma quel che vi dà l'ultimo spaccio è che, come voi non fate conto dell'esservi l'aria, tutta la considerazion delle figure e, per consequenza, tutta la vostra principal quistione resta vanissima, avvegna che tutte le figure con l'accompagnatura dell'aria si faranno galleggiar nell'istesso modo; adunque bisogna riformar il problema e dire: «Ond'aviene che i corpi più gravi dell'acqua, sotto qualunque figura, vanno 'n fondo; ma se si accompagneranno con conveniente quantità d'aria, galleggiano?», e così arem'un quesito d'assai facil soluzione e molto fanciullesco. ↓
Facc. 10, v. 7 [pag. 322, lin. 3-6]: Nè dovete argomentar contro di me, come fate a car. 37, con dir che in principio della disputa gli avversarii non curavano che le figure non si bagnassero, poichè se nacque dal ghiaccio, che è molle, sarebbe semplicità il dir in contrario: perchè io non mi son trovato a dispute di ghiaccio con voi etc.
V'ingannate a creder che il Sig. Galileo argumenti nulla contro di voi: ma ha scritt'un trattato provando, contr'all'opinione d'alcuni, che la figura non è cagion del galleggiare etc.; e perchè questa contesa ebbe origine sopra le falde di giaccio, le quali volevan, questi tali, che galleggiassero non per esser men gravi dell'acqua, ma per la figura, i medesimi son in obbligo di provar che le galleggiano per la figura, e, oltre a questo, non posson pretender che le falde da porsi nell'acqua sien asciutte, poi che le prime, proposte da loro per falde galleggianti in virtù della figura, eran bagnate; e se voi non eravatedi quelli della disputa del giaccio, dovevi ↑ di qui ↓ accertarvi che nè questo nè altro argomento del trattato era prodotto per voi, nè dovreste attribuir al Sig. Galileo gl'inconvenienti che son vostri: perchè egli molto ragionevolmente può pretender da' suoi avversarii la risposta all'instanza delle falde di ghiaccio, poi che queste furon le prime considerate e l'origin di tutta la disputa; ma voi non già potete con ragion biasimarlo ch'ei si vaglia di quest'instanza contro di voi, ↑ perch'e' non se ne vale, ↓ nè ha mai preteso di trattar con voi. Che poi vogliate esentarvi dal trattar delle falde di ghiaccio come da cosa non attenente a voi e come che 'l pigliar le liti d'altri vi dispiaccia, e non più tosto perchè non possiate liberarvi dalla forza dell'argomento, non so chi sia per credervelo; poichè, sfuggito quest'incontro, vi mettet' a disputar lungamente altri particolari del ghiaccio, molto manco attenenti alla principal disputa, nè vi dà più fastidio l'intraprender le brighe altrui, ↑ nè v'importa più che tra 'l Sig. Galileo e voi non sia caduta mai contesa se'l ghiaccio si faccia per condensazione o per rarefazzione. ↓
Facc. 10, v. 12 [pag. 322, lin. 9-12]: Presuponete di più, nel 4° luogo, che la materia sia non solo a vostra elezzione, ma anche la più proporzionata, quella che quanto alla gravità o leggerezza non ha azzione alcuna, perchè si possa conoscer quel che opera la sola figura etc.
Il Sig. Galileo non ha mai presupposto questo che voi dite, cioè che la materia da far l'esperienza deva esser a sua elezzione: ha ben dichiarato quali gli parrebbon le accomodate per venir in cognizion di quant'operi la figura, ma non però ha mai recusata materia alcuna; anz'egli ha più volte detto, e in particolar anco raccolto dalle sua dimostrazioni alla facc. 48 [pag. 114-115], potersi d'ogni materia più grave dell'acqua, insin dell'oro stesso, far ogni sorte di figure, le quali tutte galleggin in virtù dell'aria contenuta dentro a gli arginetti, nel modostesso che le falde piane. Però con ogni pienezza di libertà è concedutoche 'l Sig. Colombo, nel dimostrar ciò chela figura operi in far galleggiare, elegga materia grave quanto li pare e la riduca in che figura più li piace, nè si ricusa l'ebano o altro corpo che sia più grave dell'acqua; e quando farà ch'una palla di tal materia vadia 'n fondo, e ↑ che ↓la tavoletta in virtù della figura, e non dell'aria o d'altro corpo leggieri accompagnato con lei, resti a galla, io l'assicuro che 'l Sig. Galileo gli darà vinta la quistione ch'↑ e' ↓non ha mai auta con esso lui.
In effetto, Sig. Colombo, vo' non potete negar di scriver solament'a quelli che non hanno veduto, nè posson intendere, 'l libro del Sig. Galileo, ↑ ed è forza che quest'istessa cagione, che ha indotto voi al contradire, v'abbia mantenuta la speranza d'un vano applauso popolare; ↓ perchè altramente è impossibile che voi attribuissi al Sig. Galileo tante falsità, ed affermassi e negassi con tanta resoluzione tante cose, che non posson cattivare se non quella sorte d'uomini. Voi qui, in pochi versi, dite prima che 'l Sig. Galileo suppone che l'elezzion della materia sia sua: questo è falsissimo, come già ho detto. Passate poi a nominar vostre convenzioni, e dir che verba ligant homines, e che tal elezzion deve depender da voi, quasi che 'l Sig. Galileo l'abbia negata a nessuno; ma poi accant'accanto dite ch'egli la concede e ch'e' la ratifica a facc. 6 [pag. 66], dicendo che tutt'i corpi più gravi dell'acqua, di qualunque figura si fussero, indifferentemente andavan al fondo: ma s'egli vi concede e ratifica una cosa, come potete vo' dire ch'e' ve la neghi? ↑ La concessione è manifesta in molti luoghi del trattato del Sig. Galileo; ma la negativa non vi si legge in luogo veruno, nè credo abbia altr'esistenza che nella vostra immaginazione. ↓ Soggiugnete d'aver eletta materia conveniente; e questo non è chi ve lo neghi. Seguite, e scrivete così: Tanto più che se per voi sotto qualunque figura va in fondo, fu accettata la mia materia per convenevole anche da voi, perchè l'avereste vinta. A queste parole lascierò che la Sfinge vi risponda, perchè non credo che altri che lei ne possa cavar senso. Finalmente, per venir alla conclusione, dite che galleggiando le figure larghe fatte di materia più grave dell'acqua, e le rotonde e strette della medesima materia e peso andando al fondo (il che, soggiugnete, non avrebbe creduto 'l Sig. Galileo), concludete ch'egli si contenti, con sua pace, di darvi la lite vinta. Al che io, primieramente, vi dico, non poter a bastanza meravigliarmi con qual ardire voi diciate che 'l Sig. Galileo non arebbe creduto quel che dite, ↑ cioè che le falde dilatate di materia più grave dell'acqua galleggino, e le figure rotonde calino in fondo; ↓ nè saprei altro che dirvi se non che voi leggessi il suo trattato, nel quale si può dir che non si conteng'altro che l'investigazione della causa del galleggiar materie più gravi dell'acqua se saranno ridotte in falde, e del loro andar in fondo se aranno altra figura più raccolta. E voi dite che tal effetto gli è incredibile? Nel resto poi, toccherà a voi, Sig. Colombo, con vostra pace, a cominciar a provare che tali materie galleggino mediante la figura, se vorrete vincer la lite; perchè il far vedere l'effetto notissimo a ciascheduno non conclude niente per voi, ↑ perchè la disputa non è, se tali falde galleggino, ma se 'l lor galleggiare proceda dalla figura, ↓
↑ Facc. 10, v. 39 [pag. 322, lin. 33-38]: Nè per ciò si persuade che 'l Sig. Galileo non sia quel valentuomo che è, perchè egli resti vinto da altri in qualche cosa particolare. E qual maggior lode aspettare, che quella di sì belle osservazioni fatte nel Cielo? e in particolare le macchie retrovate nel Sole, di cui pur testimonia un eccellente mattematico di Germania per sue lettere più d'un anno fa, ma non che elle siano propriamente nel corpo del Sole.
Gran durezza di destino è questa del Sig. Colombo, che egli così rare volte possa effettuar cosa ch'egl'intraprenda a fare. Qui manifestamente si scorge in lui un affetto molto cortese d'esaltare il Sig. Galileo mediant'i suoi tanti meravigliosi scoprimenti celesti; ma poi, traportato da soverchia brama di conseguir l'intento suo, si scorda in certo modo di tutte l'altre cose scoperte da quello, e solamente nomina le macchie solari, con l'aggiunta dell'esser le medesime state osservate più d'un anno innanzi da un altro in Germania: la qual giunta, se ben a chi conosce il Sig. Colombo non caderà mai in animo ch'e' la ponga ad altro fine che per confermar tanto maggiormente la verità dell'osservazione del Sig. Galileo, tutta via i malevoli e invidi potrebbono interpretarla come detta più presto per avvisar chi non lo sapesse, che il ritrovamento sia stato del Todesco, cioè del finto Appelle, e usurpato come suo dal Sig. Galileo, e massime aggiugnendovi il Sig. Colombo, che Apelle non le mette nel Sole stesso, come crede il Sig. Galileo; la qual posizione essendo, per quanto io sento, reputata per molt'assurda dal Sig. Colombo, potrebbe, com'ho detto, chi che sia formarsi concetto che egli avesse voluto manifestare che quel che è di vero in quest'osservazione sia del Todesco, e solo resti al Sig. Galileo ciò che v'è d'assurdo e di falso: tal che, non avendo 'l Sig. Colombo maniere più avvedute di lodar gli amici e compatriotti suoi, potriano per avventura esser men da pregiarsi le sue lodi che i suoi biasimi. Ma qualunque si sia stata l'intenzion sua, credo che le Lettere del Sig. Galileo circ'a dette macchie solari, stampate ultimamente in Roma, aranno a bastanza rimossi tutti gli scrupoli da quelli che le avranno lette, ↓
Facc. 11, v. 5 [pag. 322, lin. 39-40]: Ora, acciochè noi siam men superflui che sia possibile, io avvertirò che la maggior parte dell'opera vostra, non appartenendo alla disputa, potrà tralasciarsi.
Il Sig. Colombo, per volersi sbrigare dalle proposizioni geometriche e loro demostrazioni, ↑ totalmente inintelligibili da lui, ↓scrive, con manifesta falsità, che la maggior parte del Discorso non fa a proposito della disputa. Ma perchè egli medesimo, soggiugnendo che le dimostrazioni del Sig. Galileo sono le medesime con quelle di Archimede ↑ (essendo differentissime), ↓dà segno manifestissimo di non aver nè inteso il Sig. Galileo, nè letto Archimede, si viene ancora mostrar inabile a giudicarle se sieno a proposito o fuori di proposito.
Facc. 11, v. 7 [pag. 323, lin. 1-9]: Imperochè tra noi solamente è in controversia, se le figure diverse ne' corpi operino diversi effetti, cioè se la figura aiuta la gravità e leggerezza de' solidi nel galleggiare e nel calar al fondo etc.
Non è vero che tra 'l Sig. Galileo ed alcun altro sia in controversia (come qui dice il Sig. Colombo), se le figure aiutino la gravità e leggerezza de' solidi nel galleggiare e nel calar al fondo; anzi ch'elle induchino tardità o velocità nel descendere, secondo che le saranno larghe o raccolte, l'ha egli molte volt'affermato, concordemente con tutt'i suoi contradittori.
Facc. 11, v. 21 [pag. 323, lin. 13-14] Di tre sorti materia si può nel caso nostro ritrovare. Leggiera in ispezie più dell'acqua etc.
Di queste tre sorte di materia, che 'l Sig. Colombo dice che si può nel caso della disputa ritrovare, cioè più leggier' in specie dell'acqua, egualmente grave, e più grave, giudica che solo la più grave sia atta all'inquisizione di quanto si cerca. Al che prima dico, che sendo in questione se la figura dilatata possa, per la resistenza dell'acqua, non meno impedir la scesa alle cose più gravi dell'acqua che la salita alle più leggieri, in questo secondo caso la materia più leggieri dell'acqua è sola accomodata all'esperienza, e la più grave è inetta, come a ciascuno è manifesto. Dico secondariamente, la materia egualmente grave con l'acqua esser opportunissima per l'una e per l'altra esperienza; il che ha con tanta chiarezza esplicato 'l Sig. Galileo, che non poco mi maraviglio che il Sig. Colombo non l'abbia appreso. Replico dunque, tal materia esser attissima ad amendue l'esperienze, perchè, librata una spaziosa falda di qualche materia, sì che stesse immobile a mezz'acqua, come quella che gli fusse eguale in gravità, con grand'esattezza si verrà in cognizione dell'operazioni della figura circa 'l vietar la scesa o la salita; perchè tanta sarà la sua virtù proibente la scesa mediante la sua larghezza e la resistenza dell'acqua, quanta sarà la gravità di nuovo peso che se gli possa aggiugnere senza ch'ella descenda; e tanta, all'incontro, s'intenderà esser la virtù proibente la salita, quanta sarà la resistenza che se gli vedrà fare all'impulso di materie leggierissime che se gli aggiugnessero: sì che, resistendo ella al peso, v. g., d'un'oncia di piombo, ed al sollevamento di tanto sughero quant'è una noce, tutto questo sarà effetto della virtù della figura nel proibire il moto: la qual virtù allora si conoscerà esser nulla, quand'ella non potrà sostener peso alcuno, benchè minimo, o resister a niuna minima virtù sollevante. Quanto poi alla materia che sia più grave in spezie dell'acqua, s'ammette ch'ellasarebbe attissima a concluder maggior forza nella figura per trattener a galla, ogni volta che questa tal materia, ridotta in qualche figura, dalla figura restasse trattenuta; perchè all'ora sarebbe manifesto che la medesima figura avrebbe molto più forza a sostener materia men superior all'acqua in gravità. Ma altrettanto mi dev'esser conceduto dal Sig. Colombo, che quando si mostrasse (come ha fatto 'ngegnosissimamente il Sig. Galileo) che la figura, ancorchè larghissima, non è potente a trattener a galla un corpo che descenda sott'altra figura raccolta solo con la debolissima forza d'un picciol grano di piombo, molto meno quella figura stessa sarà potente a sostenere una materia che avesse maggior eccesso di gravità.
Facc. 11, v. 24 [pag. 323, lin. 16-19]: Questa materia più leggieri non è abile a far l'esperienza; imperò che, non avendo gravezza che per sè sia bastante a vincer la resistenza dell'acqua per calar al fondo, tantomeno n'arà per contrapporsi alla figura spaziosa etc.
Mentre si vede che la figura, ancor che larghissima, congiunta con materia più leggieri dell'acqua, non può mai impedire 'l sormontar a galla, posta che tal figura fosse nel fondo, prima si conclude che l'acqua non ha resistenza alcuna alla semplice divisione; di poi si rende manifesto che, se la figura non può impedir una debolissima forza con la qual un leggieri ascendesse, molto meno potrà 'mpedir una maggior forza con la qual un grave discendesse: e da questo ne segue che la materia più leggier dell'acqua è conveniente per ritrovar la verità che si cerca nella presente disputa. E così, guadagnate queste conclusioni, quando mi saranno dal Sig. Colombo proposte le tavolette più gravi dell'acqua galleggianti in quella, concluderò necessariamente che cotale effetto non può nascer dalla ampiezza della figura, impotente a dividere 'l mezo, e renderò grazie al Sig. Galileo che ha avvertita la vera cagione, cioè la leggerezza dell'aria congiunta con la tavoletta sotto 'l livello dell'acqua, cosa non mai notata da nessun altro, e ora da lui mostrata non meno al senso con l'esperienze, che all'intelletto con salde e sottili dimostrazioni.
Facc. 12, v. 6 [pag. 323, lin. 37-39]: Anzi voi, Sig. Galileo, affermate a car. 59 [pag. 126, lin. 14-15] lo stesso, dicendo; «e veramente la figura, per sè stessa, senza la forza della gravità o leggerezza non opererebbe niente».
Non è vero che il Sig. Galileo a car. 59 dica l'istesso, nè che quivi si tratti (come dite voi) dell'operazioni delle figure contr'allo star a galla e lo stare a fondo, parlandovisi solamente di quel che operi la figura circa il tardo e veloce, dove è necessaria la gravità e ↑ la ↓ leggerezza acciò segua 'l moto. Ma qui si parla del cagionar la quiete, dove il Sig. Galileo ha sempre detto che la figura non opera niente, sieno pur le materie più o meno o egualmente gravi come l'acqua; e così non si contradice: ma bene 'l Sig. Colombo, ↑ o ↓ non intendendo o mostrando, con l'artificio 6°, di non intender le proposizioni del Sig. Galileo, s'allarga 'l campo per moltiplicar le cose fuor di proposito.
Facc. 12, v. 16 [pag. 324, lin. 6-8]: Nè vorrei che argomentasti sofisticamente, dicendo che quella materia che leverà ogni sospizione di poter dubitare se porti aiuto o incomodo all'operazion della figura con la gravezza o leggerezza etc.
Séguita 'l Sig. Colombo di accumular errori sopra errori ed accusar il Sig. Galileo d'argomentator sofistico per voler egli riconoscer gli effetti della figura in materie che non abbino nè gravità nè leggerezza nell'acqua. La qual accusa è falsa, perchè, come s'è detto di sopra, egli elegge, o, per dir meglio, dice che sarebbe bene eleggere, una materia simil all'acqua in gravità; ma la sua proposta non finisce qui, dove la termina il Sig. Colombo per non l'avere 'ntesa o per non si spogliar del poter contraddire; anzi 'l Sig. Galileo, nel servirsi poi di tal materia, vuole che, per veder quel che operi la larghezza della figura nel descendere, ella si ingravisca con l'aggiugnergli del piombo, perchè tanta sarà nella figura la facultà proibente la scesa, quanta sarà la gravità a chi ella resisterà; ed operando per l'opposito con l'aggiugnergli leggerezza, si conseguirà l'altra parte, ↑ cioè si vedrà quant'operi la figura dilatata nel proibir la salita. ↓
Facc. 12, v. 37 [pag. 324, lin. 25].
Séguita con maggior audacia e, per dar credito alle sue falsità, aggiugne parole pungenti, e scrive, parlando al Sig. Galileo [pag. 324, lin. 25-28]: Ma, che è peggio, voi medesimo non sapete che, se non deve la gravità della materia eleggersi per divider la crassizie, doverà almeno per superare il peso dell'acqua in spezie, acciò che possa il corpo calare al fondo? e non potendo, allora verrà dalla figura. Ma con qual fronte, per vita vostra, dite voi, Sig. Colombo, che il Sig. Galileo non sa questa cosa, la quale Voi medesimo avete copiata dal luogo che avete citato? Eccovi le parole formali del Sig. Galileo, alla facc. 29, v. 6 [pag. 92, lin. 13]: «L'elezzion, che io dissi di sopra esser ben farsi di materia simile in gravità all'acqua, fu non perch'ella fusse necessaria per superar la crassizie dell'acqua, ma la sua gravità, con la quale sola ella resiste alla sommersion de' corpi solidi». Se, dunque, il Sig. Galileo elegge materia simile all'acqua in gravità acciò che si vegga come con ogni minima aggiunta di peso ella descende, ed, all'incontro, ascende per ogni minima detrazione, non so come voi possiate dire ch'egli non sappia questa cosa. Venite, dunque, sempre dichiarando di scrivere a ogn'altro che a quelli che posson intendere 'l trattato del Sig. Galileo.
Facc. 13, v. 1 [pag. 324, lin. 30-33]: Chi dirà, Sig. Galileo: «Perchè sotto questa materia le figure non mostrano diversità d'effetto, adunque la materia convenevole è questa, e non qualche altra materia»? Due errori sono in questo argomento etc.
All'interrogazione che voi fate al Sig. Galileo rispondo io che quest'argomento, il qual voi ragionevolmente proponete con ammirazione, non sarebbe fatto, per mio credere, se non da chi fosse un grand'ignorante; e però mi dispiace che voi lo proponghiate com'usato dal Sig. Galileo, non avend'egli dette mai tali esorbitanze. Questo, che proponete, è capace di due sensi: uno è ottimo, ma in questo non può esser preso da voi, perchè non lo attribuireste al Sig. Galileo con detestazione; l'altro è pessimo, e in questo è forza che voi lo prendiate. Pessimamente discorrerebbe colui che, cercando di veder le diversità de gli effetti di varie figure, eleggesse per soggetto di quelle una materia, sotto la quale esse figure non potessero mostrar diversità veruna, e reputasse tal materia per convenevole a tal bisogno, e non alcun'altra. E questo vorreste persuadere al lettore che fosse 'l concetto del Sig. Galileo, e forse vi poteva succeder con alcuno di quelli che non fussero per legger altro che 'l vostro libro; ma chi leggerà quel del Sig. Galileo ancora, chiaramente vedrà ch'egli ottimamente argumenta in quest'altro modo: Per veder le diversità d'effetti di varie figure è bene elegger per soggetto loro una materia, la qual non possa mostrar tali diversità per altra cagione che per le figure; e questo acciò che noi restiàn sicuri che ogni diversità che si scorga, dependa dalla figura e non da altra cagione. In tanto voi, Sig. Lodovico, andrete pensando se poteste trovar più onesta scusa del vostro fallo che il conceder di non aver inteso 'l Sig. Galileo, perchè io, quanto a me, non saprei con termine più modesto scusarvi.
Seguitate poi e dite: Due errori sono in questo argomento: il primo è argomentar da una particolar materia, per concluder di tutte le altre il medesimo: il secondo è argomentar per negazione, che non ha virtù di concludere; perchè 'l dir: «Questo effetto non si verifica qui, adunque non si verificherà altrove» è ridicoloso. Io potrei lasciar di considerar altro circa questo argomento, poi che 'l Sig. Galileo non argomenta nel senso vostro; tuttavia mi par di notar non so che di diffetto più presto nelle vostre censure che in quell'argomento. Nel quale, quant'alla prima vostra obbiezzione, credo che erriate in tre modi. Perchè, prima, è falso che da una materia particolare concluda di tutte l'altre 'l medesimo; anzi non conclude di tutte l'altre, ma di quella medesima sola; dell'altre poi non conclude questo medesimo, ma l'esclude; e questo, finalmente, non fa ella di tutte, ma d'alcune. L'antecedente del vostro entimema è: Perchè sotto questa materia le figure non mostran diversità; la consequenza è: adunque la materia convenevole è questa (ecco che si conclude della sola materia medesima); il resto dell'illazione è: e non qualche altra materia; ecco che l'altre materie si escludono con la negativa, e non si conclude di loro 'l medesimo, come vi pareva; nè questo si dice di tutte, ma di alcune, dicendo voi: e non qualche altra . L'altra fallacia che voi gli attribuite, d'argumentar per negazione, non cade in mod'alcuno 'n quest'argomento; e l'esempio stesso che 'n dichiararvi producete, dimostra 'l vostro inganno. L'esempio è questo: Il dir: «Quest'effetto non si verifica qui, adunque non si verifica altrove» è ridicoloso. Prendet'ora l'antecedente del vostro argomento, che è: Perchè sotto questa materia le figure non mostran diversità d'effetto. Il subbietto di questa proposizione non è egli: le figure sotto questa materia? certo sì. Qual cosa si predica di questo subbietto? bisogna dir che si predica certo accidente, che è: non mostrar diversità d'effetto. Ora, Sig. Colombo, io vi dico che di questi termini si forma nel vostr'argomento una proposizione affermativa, e non una negativa, perchè delle figure, che è il subbietto, s'afferma, e non si nega, l'accidente, che è il non mostrar diversità; e si forma una proposizion al contrario di quella del vostr'esempio, nel qual si dice: «Quest'effetto non si verifica qui»; ma qua si dice: Quest'effetto (cioè il non mostrar diversità) si verifica qui (cioè nelle figure di questa materia). Onde, supposto che la materia convenevole sia quella sotto la quale le figure non mostran diversità, chi argomentando dirà: «Perchè 'l non mostrar diversità compete alle figure sotto questa materia, adunque la materia convenevol è questa», concluderà benissimo, e argomenterà per affermazione e non per negazione, nè dirà cosa che sia punto ridicolosa. E in tanto considerate quanto meno indecentemente io potrei esclamar contro di voi, che voi contr'al Sig. Galileo, e dirvi con ragione quel che senza causa dite a lui a facc. 48, v. 1 [pag. 357, lin. 6-8] : È possibile, Dio immortale, che nè voi nè i vostri consultori logici non conosciate una proposizion negativa da un'affermativa, e tant'altre fallacie? Chi volete che non conosca che voi 'l fate a posta? E quando, pochi versi più a basso, voi gli dite [pag. 357, lin. 24-25]: Supposto questa verità, vano ed a sproposito è fatto 'ntorno a ciò tutto 'l discorso vostro, per difetto di buona logica, vi doverrà dispiacere d'aver usati simil termini, e massime non commettendo 'l Sig. Galileo error alcuno nè 'n quello nè in altro luogo.
Continua 'l Sig. Colombo ad aggravare il Sig. Galileo de' non suoi errori, e, come quello che per la maggior parte del trattato non l'ha pur letto non che 'nteso, e, oltr'a questo, si contenta di far impressione solament'in quelli che similmente non lo son per intendere, si fa lecito di far dir al Sig. Galileo cose lontanissime dalla sua scrittura, e di citar suoi luoghi ne' quali non si trova pur una parola nel proposito per il qual e' gli produce, E per questo nella medesima facc. 13, falsamente gl'impone che, per aver veduto (com'egli scrive alla facc. 62 [pag. 129, lin. 3-5]) galleggiare piccoli aghi e piccole monete e globetti ed ogn'altra sorte di figura mediante la lor minima gravità, se ben fatti di materia assai più grave dell'acqua, gl'impone, dico, ch'egli per questo abbia creduto, senza pensar più là (uso i termini medesimi del Sig. Colombo), che l'istesso faccino tutti 'ndifferentemente, fatti d'ogni materia e di qual si voglia figura e grandezza, com'egli ha affermat' alle facc. 6 [pag. 66, lin. 17-20], 31 [pag. 94, lin. 25-28], 41 [pag. 107, lin. 34 - pag. 108, lin. 3], 45 [pag. 111, lin. 29-37], 47 [pag. 114, lin. 1-4] e altrove. Or qui, primieramente, dico non esser vero che 'l Sig. Galileo dica alla facc. 62 d'aver fatto esperienza 'n cose piccole di qual si voglia figura etc., ma ben dice che piccoli globetti di ferro, e di piombo ancora, galleggiano nell'istesso modo che gli aghi, sì come da le cose da lui dimostrate (e non da esperienze) si può raccòrre. Il che voglio solamente che sia detto per maggiormente assicurarci che 'l Sig. Colombo non ha, non che altro, lette le dimostrazioni del Sig. Galileo; il che ancor altrettanto e più manifesta col dir che di qui è nato tutto 'l mal suo, nel creder che l'istess' accaschi 'n tutte le figure d'ogni materia e grandezza, che è falso; anzi s'egli avesse lette le dette dimostrazioni, arebbe veduto quanto scrupolosamente vada 'l Sig. Galileo ritrovando quant'al più poss'esser la grandezza di varie figure, di diverse materie più gravi dell'acqua, acciò possin galleggiare; e s'egli mai le leggerà, potrà accorgersi quanto fuor di dovere e' sia scors' a dir che 'l Sig. Galileo senza pensar più là abbia creduto che così faccino tutte le figure d'ogni sorte di materia e grandezza, il che non si troverà mai nel suo libro. E de' luoghi citati per questo dal Sig. Colombo, prima, alla facc. 6 non c'è altro se non che i corpi più gravi dell'acqua, di qual si voglia figura, vanno 'n fondo; il che, come si vede, non ha che far nulla col dir o credere che i corpi di qual si voglia figura e grandezza, fatti di materia più grave dell'acqua possin galleggiare come gli aghi sottili o i piccoli globetti di piombo. Alle facc. 31, 41 e 45 non si trova pure una parola attenent' a questo proposito. Alla facc. 46 non c'è parimente tal cosa, e solo vi si legge com'ogni sorte di figura e di qual si voglia materia, ben che più grave dell'acqua (ma non v'è già scritto di qual si voglia grandezza), può per benefizio dell'arginetto sostenersi etc. E finalmente, alla facc. 47 non ci si trova cosa tale, nè vi si legge altro se non che è possibile di qual si voglia materia formar una piramide o cono, sopra qual si voglia base, il quale posato su l'acqua non vi si sommergerà etc.; ma ch'una tal figura si possa fare anche di qual si voglia grandezza, non v'è. Forse 'l Sig. Colombo ha creduto che, dicendosi di far tal piramide sopra qual si voglia base, importi 'l medesimo che dir di farla di qual si voglia grandezza; immaginandosi forse che le piramidi, per esser piramidi, devino esser d'altezza rispondente con qualche determinata proporzion alle linee della base.
↑ Questi e tant'altri errori commette 'l Sig. Colombo: e avvenga che 'l non. aver inteso niente del trattato del Sig. Galileo gli sia stato cagione del commettergli senza conoscergli, io, per l'affezzion che gli porto, non saprei augurargli dal Cielo grazia maggiore che la continuazione e perseveranza nel medesimo stato, sì che nè per questi miei scritti, nè per altra dichiarazione non gli venga arrecata l'intelligenza delle cose contenute nel detto trattato, acciò ch'e' non abbia a provare il cordoglio che necessariamente sentirebbe nel riconoscer le tante sue fallacie e vanità scritte e publicate. ↓
Facc. 13, v. 29 [pag. 325, lin. 18-21]: Quanto all'esclamazione, io non so qual sia da considerar più, o la vostra o quella d'Aristotile, rispondendo egli: «O chi crederebbe mai, che voi aveste creduto da me affermarsi, le lamine di piombo e di ferro posarsi sotto l'acqua, e che ad ogni modo soprannotassero?» etc.
Io vorrei pur tentar tante volte che 'l Sig. Colombo intendesse la mente del Sig. Galileo, che almeno una sola mi succedesse 'l farlo. Il Sig. Galileo non vuole che nè 'l Sig. Lodovico nè Aristotile metta le lamine sott'acqua per far che ↑ le ↓ galleggino, ma solamemte acciò venghino 'n cognizione che 'l galleggiare ch'elle fanno, quando galleggiano, non vien dalla figura, ma dall'aria congiuntagli sotto 'l livello dell'acqua, poi che quando tuffate non si fermano, ma vanno 'n fondo, non si muta la figura, ma solo si rimuove l'aria. E più dirò, che tutt'i solidi che galleggiano, i medesimi ancora tuffati tornan a galla, e non se ne troverrà mai uno che faccia altrimenti; e quando la falda che galleggia si conservasse la medesima, cioè se si tuffasse 'n fondo dell'acqua con quella quantità d'aria racchiusa dentro gli arginetti, tornerebbe senza dubbio a galla: ma perchè quel che galleggia è un corpo, e quel che si tuffa è un altro, non è maraviglia se producono divers'effetti. E che quel corpo che galleggia sia diverso da quel che si tuffa, è manifesto; perchè quel che galleggia è una falda, v. g., d'ebano congiunta con una falda d'aria, e quel che si tuffa è la semplice falda d'ebano. Ma la disputa è di quel che faccia la figura nel medesimo corpo. Finalmente soggiungo che chi considerasse la mole dell'aria che 'nsieme con la falda si trova tra gli arginetti sotto 'l livello dell'acqua, e quella medesima quantità d'aria congiugnesse con una palla della medesima materia e quantità che la falda, ella nè più nè meno galleggierebbe e tornerebbe a galla; tal che l'effetto del galleggiare 'n questi casi si vede che nasce dall'aria, e non dalla figura.
Facc. 14, v. 3 [pag. 325, lin. 32-35]: Se le figure diverse nel corpo solido e di materia grave, posate sopra l'acqua asciutte, mostrano diversità d'effetto, e per lo contrario tutte calano indifferentemente, bagnate, al fondo senza varietà, perchè non si dovrà far l'esperienza in quella maniera che riesce? etc.
L'esperienza del galleggiar delle figure si deve fare (dice 'l Sig. Colombo) nel modo che riesce, e perchè riesce con quell'aria congiunta, vuol che si faccia con quella; e poi n'inferisce, 'l galleggiare depender dalla figura. E chi non vede che questa non è esperienza del galleggiare per cagion della larghezza della figura, ma per la leggerezza dell'aria? Piglio l'esempio del coltello, proposto dal Sig. Colombo. Se io dicessi: «La costola del coltello non taglia», e uno contradicendomi tagliasse col filo, e dicesse: «Ecco che tu hai il torto, perchè la costola taglia; e così va fatta l'esperienza, perchè così riesce», io potrei legittimamente rispondere, e dire che questo non è un far esperienza del tagliar della costola, come s'afferma contradicendomi, ma del tagliar del filo, che è notissimo. E così, nel proposito nostro, quando si mette dal Sig. Lodovico la tavoletta asciutta su l'acqua, e con essa si demerge ancora l'aria, con dir: «Ecco che la figura fa galleggiare; e 'n questo modo va fatta l'esperienza, perchè così riesce», io rispondo: «Signor no; questo non è un far l'esperienza del galleggiare ↑ i corpi gravi più dell'acqua in virtù ↓della figura, come si dubita, ma del galleggiar d'un corpo leggieri, cioè del composto d'ebano e d'aria posto sotto 'l livello dell'acqua, del che non s'è mai auto difficoltà alcuna».
Facc. 14, v. 7 [pag. 325, lin. 35-38]: Forse perchè non ai è dichiarato? Questo mi basta: perchè com'io dissi di sopra, non si dichiarando, sempre s'intende 'n quella maniera affermarsi una cosa, nella quale tal cosa può essere etc.
Anzi si è dichiaratissimo, quando s'è detto «il medesimo ↑ più grave dell'acqua, ↓ ridotto in figura larga»; e se si deve pigliare «'l medesimo» ↑ e «più grave dell'acqua» ↓, non si prenda un altro ↑ e più leggieri ↓; e sì come una palla d'ebano descende essendo senza accompagnatura dell'aria, così la tavoletta senza l'accompagnatura dell'aria si deve far veder galleggiare, volendo persuadere che tal effetto proceda dalla figura e non dall'aria.E 'l Sig. Colombo deve aver inteso 'l tutto, ma finge di no, servendosi del sesto artifizio; sì come arrecando risposte fuor di proposito per il Sig. Galileo, si val del terzo.
Facc. 14, v. 13 [pag. 326, lin. 1-4]: Due sono gli effetti che le figure adoperano: l'uno è il dividere o non divider l'acqua; l'altro è di calar più veloce o più tardi, poi ch'è divisa. Ora, se elle si mettessero sotto l'acqua, non vi arebbe luogo per esperimentar il primo effetto, ma solamente il secondo etc.
Stimando'l Sig. Colombo che forse le parole degli uomini abbin forza di formar decreti nella natura, si mette a statuire che gli effetti delle figure sien due: l'uno il dividere o non divider l'acqua, sì che alcune figure la dividino e altre no; l'altro è di calar più o men veloce, dopo che la division è fatta. Questo secondo è ammesso dal Sig. Galileo e da ogn'uno; ma 'l primo si nega, non si trovando figura alcuna, che non divida l'acqua, anzi ↑ (per dar tanto maggior vantaggio al Sig. Colombo) ↓ non si trovando che una la divida più o meno dell'altra, ma tutte egualmente, pur che sien congiunte con materia della medesima gravità, come benissimo ha notato 'l Sig. Galileo e 'nsegnatone diverse esperienze. E che le falde di piombo o d'oro galleggino perchè non possino divider l'acqua, è falsissimo, perchè l'oro quando si ferma è penetrato nell'acqua, ed abbassatosi sotto il suo livello 18 o 20 volte più della grossezza della falda. Il dir poi che questa divisione non basta, è una fuga vanissima: perchè determini pure il Sig. Colombo a suo beneplacito quanto bisogni penetrar nell'acqua per poterla chiamar divisa ben bene a suo gusto, che io gli voglio conceder poi un palmo di più di vantaggio; anzi se egli determinerà, la division perfetta ricercar, v. g., un braccio di penetrazione, io m'obligo a dargliene quattro; anzi gli farò ad ogni suo piacere veder una picca 'ntera, sommersa con la punta all'ingiù sotto 'l livello dell'acqua, fermarsi non altrimenti che la tavoletta d'ebano, per l'aiuto dell'aria contenuta dentr'all'arginetto che gli resterà sopra, e profondarsi poi subito che la dett'aria sia rimossa. Or vegga quanto sia vero che tal galleggiar dependa dal non poter divider bene la resistenza dell'acqua. Ma più dico, che se noi prenderemo la falda d'oro, e faremo in modo che con lei non si profondi aria nè altro corpo leggieri (il che si schiverà col bagnar solamente la superficie sua), e ponendola nell'acqua la lasceremo, subito ch'ella sarà tuffata sin al livello giusto dell'acqua ella velocemente calerà in fondo, ancorchè non abbia 'ntaccata maggior profondità che quant'è la sua sola grossezza; ma, all'incontro, quando con lei descende l'aria, ella penetra nella profondità dell'acqua venti volte tanto, e poi si ferma. Or chi dirà che tale accidente dependa dall'impotenza della figura al dividere, e non dall'aria aderente? ↑ E finalmente, qual semplicità è quella del Sig. Colombo nel dir che la figura, quand'è sott'acqua, non può mostrar l'effetto del dividere etc.? Adunque vorrà dire che, divisa che è la parte superficiale, nel resto poi sin al fondo non si fa più divisione? Adunque un corpo che dal fondo dell'acqua ascende in alto, vien senza dividerla, perchè è nella profondità dell'acqua? Queste invero son troppo gravi esorbitanze. ↓
Facc. 14, v. 33 [pag. 326, lin. 19-22]: Pigliam la cera da voi proposta, la qual veramente, per non esser corpo semplice e fatto dalla natura, sendo di cera e piombo insieme per arte, non si deve accettar in modo alcuno; e facciasen' una falda larga e sottile, quando 'l composto è ridotto prima all'equilibrio etc.
Qui il Sig. Colombo non fa altro, servendosi del secondo artifizio, che replicar per appunto quello che ha detto 'l Sig. Galileo, con speranza di poterlo mascherare 'n modo che rassembri qualche cosa contraria alla sua dottrina, almen a quelli che fusser per legger queste scritture con poca attenzione o con poca 'ntelligenza, sopra le quali persone si scorge apertamente da mille rincontri ch'e' fonda la somma delle sue speranze: e io, per render cauto chi n'avesse bisogno, andrò avvertendo questi artifizii, ma non già per tutto, perchè sarebbe troppo tedios'impresa.
Egli, dunque, doppo aver preparato 'l lettore con promettergli di voler mostrar come nè anco la materia stessa proposta dal Sig. Galileo conchiude cosa alcuna di buono per lui, prima con grand'acutezza dice che tal materia fatta di cera e piombo, per non esser corpo semplice ↑ e fatto dalla natura, essendo di piombo e cera insieme per arte, ↓ non si deve accettare 'n modo alcuno, ↑ Al che io non voglio dir altro se non che, per dichiararsi 'n quattro parole lontanissimo dall'intendimento di queste materie, non poteva 'l Sig. Colombo addur cosa più accomodata di questa. S'egli avesse rifiutate anco le figure fatte artificiosamente col torno e con la pialla come non naturali, mi par ch'avrebbe dato l'ultimo compimento a questa sua provida cautela, e mostrato quanto sia difficile 'l poterlo 'ngannar con artifizii o cavilli. ↓ Séguita poi scrivendo cose tutte ammesse dal Sig. Galileo, e nulla concludenti per se. Imperciochè,che la cera ridotta all'equilibrio con l'acqua non cali a basso, è stato detto e dimostrato nel Discorso, non della detta materia solamente, ma di tutt'icorpi che sono equilibrati con i mezzi: così ancora, che posata la cera e altri corpi gravi, ridotti in falde asciutte, su l'acqua non calino a basso, ancor che vi s'aggiunga qualche peso, è stato dimostrato nel medesimo Discorso; e la cagion assegnata quivi, e non intesa o dissimulata dal Sig. Colombo, è la leggerezza dell'aria congiuntalisotto 'l livello dell'acqua, e non la figura. E queste son quelle proposizioni e dimostrazioni, le quali, sodisfacendo maravigliosamente al quesito, son chiamate dal Sig. Colombo bagattellerie e cose fuor di proposito, mentre son proposte dal Sig. Galileo: ma ogn'un che 'ntenda, vedrà che qui dal Sig. Colombo son replicate senza concluder cosa alcuna. E qui mi piace di notare com'avendo 'l Sig. Galileo non solamente dimostrato in universale come, e perchè le falde non men gravi dell'acqua galleggiano, ma tutti gli accidenti particolari, del quanto le possono esser grosse secondo la diversità delle materie e del quanto le possono sostener appunto; il Sig. Colombo in questo luogo, forse per non mostrarsi da manco del Sig. Galileo nel determinar precisamente tutti i particolari, che è 'l vero intender le cose, si assicur'a dire che una falda di cera ridotta all'equilibrio dell'acqua sosterrà, senza calar al fondo, non solamente un grano di piombo, ma non calerà anco aggiugnendovi tanto quanto pesa la stessa cera. La qual proposizion generale non è vera; perchè dell'istessa cera si faranno falde che non sosterranno nè anco la decima parte del peso loro, aggiuntogli 'n tanti grani di piombo; altre ne sosterranno la metà, altre 'l doppio, altre dieci e cento e mille volte più del lor proprio peso; e tutto questo accaderà secondo le diverse grossezze che si daranno alle falde: il che non giugnerebbe nuovo al Sig. Colombo, s'egli avessi 'ntese le dimostrazioni del Sig. Galileo, le quali vengon ad esser comprese 'n quella maggior parte dell'opera del Sig. Galileo, che il Sig. Colombo dice a facc. 11, v. 6 [pag. 322, lin. 40] potersi tralasciar come non appartenente alla disputa. Ma s'egli fusse voluto star su la vera cagione di tal tralasciamento, poteva lasciare star tutta l'opera.
Facc. 15, v. primo [pag. 326, lin. 27-28]: Io dirò che sete più valente d'Archimede etc.
Se il Sig. Colombo avesse dato qualche segno d'intender Archimede e 'l trattato del Sig. Galileo, si potrebbe far capitale e stima del suo giudizio; ma stando il fatto altramente, basterà gradire 'l buon affetto.
Facc. 15, v. primo [pag. 326, lin. 28-29]: E così ancora se fate che la palla, col medesimo peso che darò all'assicella, nuoti.
Il Sig. Galileo farà egualmente notare ed andar al fondo la palla e l'assicella, adoperando l'istesso 'ntorno ad ambedue le figure, che sarà congiugner tant'aria e piombo all'una quant'all'altra.
Facc. 15, v. 2 [pag. 326, lin. 39-32]: Ma voi, Sig. Galileo, per nascondere 'l vostro desiderio, che è tutto fondato nel bagnar i corpi che s'hanno da metter nell'acqua (non dico gli stretti e lunghi, che questo non vi dà una noia al mondo, ma le falde larghe) etc.
Quello che desidera e domanda il Sig. Galileo non è che si bagni o non si bagni, ma che la materia sia la medesima e solo si muti la figura: e perchè ciò non veniva osservato, ha reclamato e detto che si rimuova l'aggiunta di quel corpo leggieri, che fa l'altro solido men grave dell'acqua; e perchè nell'esperienze prodotte questo corpo era l'aria, ha detto che questa si rimuova; e essend'un modo assai pronto per rimuoverla, nel caso proposto, il bagnar la falda, disse che si bagnasse, in modo che quel che si poneva nell'acqua fusse 'l solo ebano o piombo, non escludendo qualche altra maniera ch'ad altri piacesse d'usare. Onde, pur che si levi l'aria e si mantenga l'identità della materia (che così s'è parlato sempre), si lascerà tener a ciascuno quel modo che ↑ più ↓ gli piacerà.
Facc. 15, v. 9 [pag. 326, lin. 35-38]: E dico maggior cosa. Piglisi, di più, la materia che avete ridotta al modo vostro, fatene una falda larga e asciutta; noterà: fate poi d'essa una palla e bagnatela; che mai non calerà, se non ci aggiugnete peso, il che non conviene.
Questo suono di questa cosa maggiore dell'altra detta di sopra, mi mosse desiderio di considerarla con attenzione; e 'l considerarla mi mostrò che ell'è la medesima dell'altra, e che 'n tutta questa parte non si dice cosa nessuna che non solamente non sia contr'al Sig. Galileo, ma che non sia da lui stata scritta.
La prima cosa detta dal Sig. Colombo fu ch'una falda della materia proposta dal Sig. Galileo non si profonderebbe, benchè se gli aggiugnessero molti grani di piombo, ma fattone una palla non potrebbe, notando, reggere 'l medesimo peso; e questa materia preparata dal Sig. Galileo dichiara 'l Sig. Colombo esser cera ridotta con piombo a esser poco men grave 'n specie dell'acqua. L'altra maggior cosa, ch'e' dice, è ch'una falda larga e asciutta della medesima materia galleggia, e fattone una palla e bagnandol'ancora, pur galleggia, non se gli aggiungend'altro peso. Ma questa (come ho detto) è la medesima cosa che la prima, nè ha altra maggioranza ch'un error di più; mentre vuole 'n questo secondo caso che la falda sia asciutta, dove l'esser asciutta è superfluo, perchè, non dovend'ella far altro che notare, non importa l'esser bagnata, poi che si suppone che ella sia 'n spezie men grave dell'acqua. E da queste cose, le quali son vere e dette dal Sig. Galileo, ne cava il Sig. Colombo, fuor di tutti i propositi, una consequenza, che il bagnare o non bagnare non operi anco nella materia particolare del Sig. Galileo. Ma quando ha mai detto 'l Sig. Galileo che le materie men gravi dell'acqua per bagnarle o non bagnarle vadino 'n fondo? Se voi aveste, Sig. Colombo, lette le sue dimostrazioni o quelle d'Archimede, areste veduto dimostrato, esser impossibile che i solidi men gravi dell'acqua vadano mai 'n fondo, e che sempre di loro ne rest'una parte sopra 'l livello dell'acqua. E questi domandate i dolci 'nganni del Sig. Galileo, per questo giubbilate che l'ingannatore sia per rimaner a piè dell'ingannato? Non vedete voi che non c'è altro 'ngannatore, non altro 'ngannato, che voi solo?
Séguita 'l Sig. Colombo, e, essend'egli quello ch'esclama per fortificar la sua ragione, dice [pag. 327, lin. 4-5] al Sig. Galileo: E che gridate voi mai altro contro di noi, se non questa mutazione di leggerezza e gravità in specie, mutata per cagion dell'aria? e quel che segue. Dove, scrivendo il Sig. Colombo quello ch'e' non intende, e però non s'intendendo quel ch'egli scrive, si confonde in maniera, ↑ servendosi del primo artifizio, ↓ che mi costrigne quasi a tacere: e 'n questa parte io veramente mi confesso di gran lunga inferior a lui, poi ch'egli sa egualmente contradir alle cose intese e alle non intese. Pur dirò quello che mi par di cavar da questo luogo; che è, che sì come 'l Sig. Galileo non vuole ch'a gli avversarii sia lecito 'l mutar le falde di piombo o d'ebano di più gravi in meno con l'accompagnatura dell'aria, così non debba esser lecit'a lui l'ingravir con piombo le falde o palle di materia men grave dell'acqua per farle descendere 'n fondo; dal che egli poi ne cava che l'argumento medesimo del Sig. Galileo si ritorce contro di lui, e forma una conclusione contraria alla sua, dicendo: Non ogni sorte di figura di qual si voglia grandezza, bagnata va in fondo, e non bagnata resta a galla, essendo l'esperienza 'n contrario. Ma ditemi, Sig. Lodovico, qual'è questa esperienza 'n contrario alla conclusione posta dal Sig. Galileo? Bisogna che voi rispondiate, esser questa che pur ora avete scritta; cioè che falde e palle di materia men grave dell'acqua stanno sempr'a galla, sieno o asciutte o bagnate. Quest'esperienza è vera, Sig. Colombo, ma non fa a proposito per impugnar la conclusione del Sig. Galileo, nella quale non si nomina materia, ma solo si dice che ogni sorte di figura e di qual si voglia grandezza (ma non già d'ogni materia, e massime di materia men grave dell'acqua) bagnata va 'n fondo, e non bagnata resta a galla. Bisogna, se voi volete destrugger questa conclusione, che voi ritroviate qualche figura e qualche grandezza, la quale, applicata a qual materia si voglia, non osservi 'l tenor della conclusione del Sig. Galileo. Ma voi, operando tutto a rovescio e lasciando da banda le figure e la grandezza, proponet'una materia, della quale tutte le figure e di qual si voglia grandezza galleggiano sempre, bagnate e asciutte, e quest'è la materia men grave dell'acqua; e parendovi 'n questo modo d'aver convinto 'l Sig. Galileo, l'aggravate con dirgli: Veramente i vostri scritti son pieni di fallacie; e per ciò non posso credere che non le conosciate, ma sia da voi fatto ad arte: la qual puntura potete vedere quanto e quanto più convenevolmente caschi sopra di voi.
Séguita 'l Sig. Colombo, e con piacevolezza interroga 'l Sig. Galileo, dicendo [pag. 327, lin. 12-15]: Che dite, Sig. Galileo? le figure alterano i corpi solidi circa 'l descendere o non descendere, ascendere o non ascendere? Non fanno anche alterazione per entro lo stesso corpo dell'acqua, ben che bagnate, poi che operan effetto di più tardo e di più veloce, come voi concedete? Io credo che 'l Sig. Galileo, rispondendo alle vostre due interrogazioni, quanto alla prima direbbe quel che ha detto sempre; avvenga che 'l vostro discorso sin qui non ha concluso niente 'n contrario, non contenend'altro se non che le figure di materia men grave dell'acqua galleggiano, sien bagnate o no; del qual effetto non s'ha mai auto dubbio veruno, nè è stato in controversia: e al contenuto nell'altra interrogazione vi concederebbe prima 'l tutto, e poi con ragione si maraviglierebbe che voi voleste 'mprimer concetto nel lettore d'averlo condotto con vostri argumenti a concedervi quasi sforzatamente quello ch'egli ha scritto molte volte e molto chiaramente. Ma se voi stesso dite ch'egli lo concede, come potete nell'istesso tempo portarglielo come cosa non saputa o non avvertita da lui? Direte poi che egli si dà della scure sul piede.
Soggiugnet'appresso [pag. 327, lin. 16-17]: Ma che direte, se di qui a poco vi farò vedere che, anche bagnate, le figure starann'immobili nel fondo dell'acqua? Dirà che, se tali figure saranno di materia più grave dell'acqua, la vostra esperienza non sarà del tutto nuova, essendosi veduto più volte de' sassi e de' ferri star immoti nel fondo dell'acqua; ma se le figure saranno di materia men grave e che a suo tempo vi succeda 'l farle veder immobili nel fondo per cagion della figura, egli, per non esser da voi vinto di cortesia, dirà che sete più valente d'Archimede e d'Aristotile 'nsieme. E io in tanto vi prego a non differir molto questa veduta, già che nel presente libro o voi non vi sete ricordato di scriverla, o io mi sono scordato d'avercela letta: se già non pretendeste d'aver sodisfatto a quest'oblazione con quello ch'insegnate a facc. 22, v. primo [pag. 333, lin. 2], dicendo che per veder quest'effetto, del rimaner nel fondo le falde men gravi dell'acqua com'impotenti a fenderla, bisogna dar certe condizzioni del pari e certi termini abili; tra le quali condizzioni mi par, s'io non m'inganno, che voi ricerchiate che le falde non sien bagnate (se ben ora fate offerta di farvele vedere restar bagnate), acciò con la lor siccità possin contrastar con l'umidità dell'acqua, sua contraria; vorreste anco che nel fondo l'assicella fra la terra e sè non fosse penetrata dall'acqua, come più grave, per esser ritenuta (uso le frasi del Sig. Colombo); e finalmente vi conducete alla reale a lasciarvi intendere che, quando l'acqua non fusse più grave di tali falde, non arebbe facoltà di scacciarle a galla, e così resterebbono 'n fondo. Del ritrovar poi queste condizioncelle e termini abili, cioè di far che le falde sieno nel fondo dell'acqua senza bagnarsi e senza che l'acqua penetri fra la falda e la terra e che, essendo loro men gravi dell'acqua, l'acqua non sia più grave di loro; del ritrovar, dico, questi requisiti, ne lasciate 'l carico al Sig. Galileo, o a chi avesse voglia di veder l'effetto promesso da voi. Ora, Sig. Colombo, se prima promettete con tanta franchezza di voler far vedere 'n breve un effetto, del quale, quando si viene al fatto, concludete che non si può fare, come volete voi che si possa mai creder altro se non che voi scrivete solamente a chi manca di memoria e di giudizio, e che dell'applauso di questi soli vi contentate?
Facc. 15, v. 34, e per tutta la facc. 16 [pag. 327, lin. 17 – pag. 328, lin. 22].
Il Sig. Galileo, per provar come 'l galleggiar delle falde più gravi dell'acqua non depende dalla figura, sottilmente argomenta, e dice: Non è dubbio che la falda di piombo che galleggia mentre è asciutta, la medesima va ancor al fondo quand'è sott'acqua, ma va tardamente, e di tal tardità n'è cagione la figura dilatata; la qual figura non potendo produr se non una tanta tardità, e non maggiore, è impossibile ch'ella possa produr l'infinita tardità, cioè la quiete; e però è forza che altro impedimento che la larghezza della figura sia quello che ferma la medesima tavoletta sopra l'acqua, non potendo la medesima causa produrr'effetti diversi nel medesimo suggetto; e questo nuovo impedimento dichiara esser l'aria, che 'nsieme con la detta falda descende e penetra sotto 'l livello dell'acqua. Questo 'l Sig. Colombo dice che è un argomentar male e con fallacia: e noi andremo esaminando le ragioni ch'egli ne apporta.
E prima, e' dice [pag. 327, lin. 26-31] che la causa del mal argomentar del Sig. Galileo è il non voler, contr'ogni ragione, ch'una stessa cagione possa produr divers'effetto nel medesimo subbietto; il che dice esser falso, perchè rispetto a diversi accidenti e mutazioni si posson dalla medesima causa produr diversi effetti; la qual cosa egli afferma esser conceduta anco dal Sig. Galileo, mentr'egli dice: «se qualche nuovo impedimento non se le arreca, bastante a far la quiete.» Ma qui, primieramente, è qualche alterazion nel testo del Sig. Galileo, nel quale non sono le parole bastante a far la quiete; e 'n questo luogo citato dal Sig. Colombo non si parla dell'indur la quiete, ma dell'accrescer la tardità; dove 'l Sig. Galileo dice che, discendendo una tal falda naturalmente, v. g., con 6 gradi di tardità, è impossibile ch'ella descenda con 20, se qualche nuovo impedimento non se le arreca. Quando poi e' parla dell'indur la quiete, dice che molto meno potrà ella quietarsi per cagion della medesima figura, ma bisogna che, qualunque volt' ella si ferma, altro impedimento le sopravvenga che la larghezza della figura. Non cerchi per tanto 'l Sig. Colombo di voler mettere 'l Sig. Galileo a parte de' suoi errori, leggendosi 'n cento luoghi del suo trattato che la figura non ha che far nulla nel galleggiar di queste falde; e quando qui e' dice che altro 'mpedimento che la figura larga gli sopravvenga per far la quiete, esclude totalmente la figura, e non ce la tiene a parte, come vorrebbe 'l Sig. Colombo che fosse creduto. Però provi pur l'intento suo con altra autorità che con quella del Sig. Galileo, che è di parere tutto contrario; e sappia che 'l dire: «Altro, dunque, che la figura è quello che ferma la falda» è molto diverso dal dire: «La figura, dunque, insieme con un'altra cosa è quella che ferma etc.», perchè il primo detto esclude la figura da tal operazione, e il secondo l'include. Sentiamo pertanto quel che dice 'l Sig. Colombo di suo proprio. Egli prima scrive (se ben contr'alla dottrina peripatetica) che è cosa contra ogni ragione il non voler che una stessa cagione possa produr divers'effetto nel subbietto medesimo; prova poi questo suo detto con dire: perchè rispetto diversi accidenti e mutazioni si possono dalla medesima causa produrr'effetti diversi. Ora, lasciando stare che quest'è un provare idem per idem, io dimando al Sig. Colombo: Questi diversi accidenti e mutazioni a chi si devono applicare? Bisogna rispondere: Alla cagione, o al subbietto, o ad ambedue. Ma se questi ricevon diversità d'accidenti e mutazioni, come restano i medesimi? Non conoscete voi, Sig. Colombo, la contradizion manifesta? e che l'esser mutato è incompatibile con lo stare 'l medesimo? e che 'l più spedito modo per far che una cosa non sia più la medesima, è il mutarla? Io credo che in mente vostra voi abbiate veramente voluto dire, che la medesima cagione può produr effetti diversi ne' subbietti diversi, come il caldo che 'ntenerisce la cera e 'ndurisce l'vuova: ma tal regola non potrete voi applicar poi al vostro proposito.
Ma, posto per vero e per bene spiegato questo che dite, veggiamo quanto egli serva alla vostra causa. Voi, avendo prima supposto e conceduto che la figura dilatata ritardi la velocità del moto, dite che la medesima dilatazzione, concorrendo con essa qualche altro accidente e impedimento, può anco indur la quiete: venendo poi a specificar questo nuovo accidente, e a mostrar come Aristotile lo conobbe e scrisse, dite [pag. 327, lin. 34-37]: L'impedimento, dunque, è quello che dice Aristotile, cioè le molte parti del corpo subbietto alla tavoletta così larga, con gli altri suoi accidenti, che alla sua inabilità del dividere e dissipare fanno tanta resistenza, che rimane in tutto immobile. Qui, primieramente, non è vero che Aristotile, oltre alla resistenza delle molte parti da dividersi, dica concorrervi altri accidenti; ma voi, che v'andate spianando la strada per far comparir la siccità in campo, vorreste in qualche modo farla credere e ammetter dal lettore come invenzion d'Aristotile, per acquistargli qualche poco di reputazione. Ma Aristotile non arebbe così puerilmente filosofato, ch'egli si fusse 'ndotto a dire: «La cagion di questo effetto è la tale, insieme con l'altre cause che vi concorrono», lasciando poi di nominarle; perchè se 'l non escludere una cagione bastasse al ben filosofare intorno a un effetto naturale, la filosofia s'imparerebbe tutta in quattro parole; e se di tanto voi vi contentaste, io potrei pianamente sodisfare ad ogni vostro quesito. Perchè se voi mi ricercherete qual sia la cagione della salsedine del mare, vi dirò esser le macchie della luna, insieme con gli altri accidenti che fanno la salsedine; l'innondazione del Nilo vi dirò che depende dal moto di Mercurio e da gli altri accidenti che concorrono al produr tal effetto, li quali accidenti nella vostra filosofia, benchè io non gli nomini, basta che non venghino esclusi. Ma noto, secondariamente, che avendo voi prima conceduto che la dilatazione della figura induce tardità di moto, e volendo poi che la medesima sia causa ancora della quiete, mentre venga accompagnata da altro impedimento; nell'assegnar poi qual sia questo impedimento, proponete immediatamente una cosa, la quale non solamente interviene anco nel semplice ritardamento del moto, ma non si può in modo alcuno separar mai dalla figura dilatata; e questa è la moltitudine delle parti dell'acqua sottoposte alla tavoletta: sì che, secondo il vostro concetto, la sola figura dilatata produce la tardità del movimento; ma la medesima figura poi con la moltitudine delle parti dell'acqua da dividersi produce (conforme al vostro modo d'intendere Aristotile) la quiete. Ma come non vedete, Sig. Colombo, che la medesima moltitudine di parti è sottoposta alla medesima tavoletta tanto quando la si muove, quanto quando la quieta? e come non intendete voi l'impossibilità del separare la larghezza della figura dal posarsi sopra molte parti? Bisogna, dunque, che voi per necessità concediate che Aristotile, non assegnando altra cagione della quiete delle falde che la larghezza della figura con la moltitudine delle parti sottopostegli, o abbia creduto che le dette falde non descendessero mai, ↑ poi che la figura dilatata non può mai non aver molte parti sottoposte, ↓ o che egli in questo luogo sia stato diminuto, ↑ non assegnando altro di nuovo per causa della quiete. ↓ E veramente non è dubbio che voi, dentro all'animo vostro, avete conosciuto il mancamento, poi che vi sete ingegnato d'emendarlo, ma non l'avete voluto confessare: ma perchè vano è ogni medicamento dove 'l male è incurabile, però il vostro tentativo è stato inefficace.
Voi, dunque, seguitando in questo luogo medesimo di voler supplir quel che manca alla figura e alla moltitudine delle parti da dividersi, sì che ne possa seguir la quiete nella superficie dell'acqua, la qual non si può dalle medesime cagioni produr nelle parti più basse, sete andato considerando qual cosa ha la tavoletta collocata in superficie più di quello che ha quando è tuffata; e benchè la differenza di questi due casi sia chiarissimamente quella che ha osservata il Sig. Galileo, voi non dimeno, per dir più presto qual si voglia esorbitanza che quello che da lui vien detto, avete molto acutamente osservato l'assicella galleggiante aver parte della sua superficie asciutta, e vi sete appreso a questa siccità, dicendo che questa, accompagnata con la larghezza della figura, produce il galleggiare, e che, sì come si deve comparar la gravità o la leggerezza del mobile con quella del mezo per sapere se un solido descenderà o no, così si devon comparar le forze del dividente e del divisibile, come la figura della falda con la crassizie e continuità dell'acqua, e anco la siccità della medesima falda a cui repugna l'umidità dell'acqua. Ma io m'aspetto che, dopo che vi si sarà mostrato che la siccità non ha che far niente in questo caso, ricorriate all'opacità della falda combattuta dalla perspicuità dell'acqua, o alla durezza contraria alla liquidezza; e forse non sarebbe manco a proposito l'addur la negrezza dell'ebano contraria alla chiarezza dell'acqua. Ma fermandomi alquanto sopra questa siccità, prima vi dico che, concedutovi che non l'aria che descende con la falda, come vuole il Sig. Galileo, ma la siccità sia cagion del suo galleggiare, voi pure nell'istesso modo restate convinto, non esser la figura dilatata cagion di quest'effetto, ma un'altra cosa; perchè nel medesimo modo che ha dimostrato il Sig. Galileo che tutte le figure galleggiano pur che abbino tant'aria congiunta, si dimostrerà che l'istesse faranno 'l medesimo pur che abbino tanta siccità; onde rimarrà manifesto, l'operazion della figura non esser nulla, ma tutta della siccità; anzi apertamente si mostrerà, le falde piane esser le manco atte a galleggiare di tutte l'altre, perchè una tal falda di piombo che non possa galleggiare, incurvandola in figura d'un piatto o bacino galleggierà benissimo. Ma passiamo pure a dimostrar quanto vanamente si sia ricorso a tal accidente.
E prima, Sig. Colombo, era necessario che voi mostraste esser tra l'umidità e siccità nimicizia tale, che l'una discacciasse l'altra, nè volesse sua amistade; e questo per due ragioni: l'una, perchè io non so quanto bene in dottrina peripatetica si possa attribuire azzione alcuna a queste qualità, che passive vengono domandate; l'altra è, perchè l'esperienze mostran più tosto tutto 'l contrario, vedendo noi giornalmente i corpi aridissimi non solamente non sfuggir l'umido, ma con grande avidità assorbirlo; per lo che non apparisce ragion alcuna, per la quale le falde non descendino per nimicizia ch'abbia la lor siccità con l'umido dell'acqua. Ma passo più avanti, e vi domando dove risegga questa siccità, o dentro o fuori della falda. Se dentro, ella non meno vi resta quand'è tuffata che avanti; e non penso che voi crediate che l'umidità dell'acqua penetri immediatamente dentro al ferro o al piombo a vincere e discacciare la sua siccità, ond'egli poi senza contrasto descenda: se dunque la siccità vi resta, come non impedisc'ella 'l moto? Fuori della falda non la potete voi collocare, perchè non v'è altro che acqua e aria; e l'aria so che non negherete esser più umida che l'acqua. La metterete forse nella superficie della falda. Ma prima io vi dirò, non ci mancar delle materie gravi che sono a predominio aquee e 'n consequenza umide assai: anzi voi stesso affermerete, il piombo esser tale, e ricever la sua grandissima gravità dalla molta umidità che è in lui; e niente di meno e' galleggia, benchè tenga convenienza con l'acqua nell'umidità. Di più, essendo manifesto non si poter far contrasto o altr'azzione senza contatto, non potrà l'umidità dell'acqua oppugnar la siccità d'una falda, se non dove l'acqua e la falda si toccano; tal che maggior dovrebbe esser la resistenza quando l'acqua tocca tutta la tavoletta, che quando ne tocca una parte sola: niente di meno subito che l'acqua ha circondato tutta la tavoletta, ella senza contrasto descende, quando appunto il combattimento dovrebbe esser massimo, essendo i nemici, che prima non si toccavano, venuti, come si dice, alle prese. Io non credo già che voi pensiate di poter porre un'umidità separata dall'acqua, e una siccità disgiunta dalla tavoletta, le quali, lontane da' lor subbietti, venghino alle mani; perchè sapete bene che questi accidenti non si trovano senza la loro inerenza: adunque il combattimento non si può far se non dove l'acqua tocca la tavoletta, e però la siccità o non combatte o è subito vinta; e perciò ella non può vietar in modo alcuno l'operazione della figura e della gravità del mobile e dell'acqua.
Aggiungo di più che voi medesimo proponete una cert'operazione per convincer di falsità la cagione addotta dal Sig. Galileo circa questo effetto, la qual operazione quanto è lontana deal provar nulla contro al Sig. Galileo, tanto è ben accomodata al redarguir voi medesimo. Voi, per mostrar che non è l'aria aderente alla falda, e contenuta dentro a gli arginetti sotto 'l livello dell'acqua, quella che proibisce il profondarsi, (a facc. 29 [pag. 339, lin. 35 e seg.]) dite che si separi l'aria dalla tavoletta bagnando sottilmente tutta la sua superficie, eccetto che un filetto molt'angusto intorno 'ntorn' al suo perimetro vicino a gli arginetti, che così sarà rimossa l'aria, eccetto che una piccolissima parte, impotente senza dubbio a sostenerla; o vero dite che s'unga totalmente con l'olio, perchè così vien rimossa tutta l'aria: e perchè poi ella a ogni modo galleggia come prima, concludete non si poter in mod'alcuno attribuire all'aria la cagione di tal'effetto. Ora io, pigliando la vostra medesima invenzione, vi dico non si potere in modo alcuno attribuire alla siccità della falda la causa del suo galleggiare, poi che rimovendo la siccità, col bagnarla nel modo detto da voi o vero con l'ugnerla, ella nientedimeno galleggia: e questa esperienza è tanto più efficace contro di voi che contro al Sig. Galileo, quanto che questo bagnare o ugnere toglie via veramente la vostra siccità, sì che voi non potete dire che ella vi rimanga in modo alcuno; ma non toglie già l'aria del Sig. Galileo, la quale nè più nè meno vi resta come prima, e segue nell'istesso modo l'assicella, ben che bagnata o unta. Io non credo già, Sig. Colombo, che voi siate per dire che l'olio non sia umido, perchè se voi considererete la diffinizion dell'umido, ella così, bene se gli adatta come all'acqua stessa. Di più, io vi domando, Sig. Colombo, onde avviene che la siccità della superficie di sotto della tavoletta non fa resistenza alcuna al suo profondarsi, come nè anco la siccità delle parti intorno intorno? Credo che mi direte, per risponder men vanamente che sia possibile, che, quanto alla superficie di sotto, come prima ella bacia l'acqua, subito perde la siccità; e che, restando l'assicella superiore all'acqua ed essendo molto grave, descende e supera la resistenza dell'acqua e dell'umido, combattente con la piccola siccità delle sue sponde; ma che poi, perchè la falda nell'andar penetrando l'acqua perde assai del suo peso e riman ancora la molta siccità della superior superficie, però ella si ferma. Ma ora io vi domando, per qual cagione la falda di piombo o d'oro non si ferma subito che ella è scesa tanto che pareggi appunto il livello dell'acqua, ma seguita di discendere ancora dodici o venti volte più della sua grossezza? E pure, quanto al peso del piombo e dell'oro, egli finisce la sua diminuzione subito che pareggia il livello dell'acqua; e la siccità non si fa maggiore nell'abbassarsi oltre al medesimo livello. Simili difficoltà non solverete voi mai con tutte le limitazioni e distinzioni del mondo; ma ben pianissimamente e con somma facilità e chiarezza si torranno via col dire che l'oro e 'l piombo seguitan di descender oltr'al primo livello dell'acqua, essend'ancora molto più gravi dell'acqua scacciata da loro; e descendendo in lor compagnia anche l'aria che resta tra gli arginetti, si va seguitando di scacciar dell'altr'acqua per dar luogo all'aria aderente alla falda, sin che si trova sotto 'l livello una mole composta d'oro e d'aria non più grave d'altrettant'acqua, onde la falda non cala più; perchè, se si abbassasse ancora, venendo seguita dall'aria, si scaccierebbe tant'acqua, e si occuperebbe dalla falda e dall'aria, sua seguace, uno spazio capace di tant'acqua, che peserebbe più di essa falda, il che sarebbe inconveniente; e però di necessità si ferma.
Aggiungo di più, parermi, Sig. Colombo, che voi ve la passiate molto seccamente con questa vostra siccità, circa la quale sarebbe stato di bisogno che voi aveste fatta una molto distinta esplicazione, del modo col qual ella vien combattuta dall'umidità ed impeditogli il descendere, e massime non sendo ciò stato fatto da Aristotile nè da altri, li quali non credo che nè pur abbino pensato a questa siccità, come interveniente 'n questo negozio. E tanto faceva più di mestier una tal dichiarazione, quanto che voi proponete nominatamente tre qualità nel mobile da compararsi con tre altre del mezo (ho detto nominatamente, perchè altre ve ne riserbate 'n petto e in confuso, per produrle poi a temp'e luogo, quando queste tre non bastino): e dite che bisogna conferir la gravità del mobile con quella del mezo; la resistenza della tenacità e la moltitudine delle parti del mezo da esser divise, con la virtù della figura dilatata del solido e con la forza del suo peso; e nel terzo luogo volete che si metta in ragione l'umidità dell'acqua resistente alla siccità della falda. Ora, quanto alla prima coppia di qualità, egli non è dubbio che l'effetto del muoversi 'l mobile per il mezo segue tanto più prontamente, quanto maggiore sarà la diversità di peso tra esso mobile e 'l mezo; essendo chiaro che quanto il solido sarà più grave dell'acqua, tanto meglio descenderà; e quanto sarà più leggieri della medesima, tanto più veloce ascenderà; e niente si muoverebbe, quando e' fusse di gravità similissimo a quella. E così parimente, quanto all'altre dua condizioni, si vede che quanto più si scemerà la moltitudine delle parti da dividersi e la lor tenacità, e si crescerà la virtù del dividente, tanto meglio seguirà l'effetto del muoversi. Or perchè non segue l'istesso tra quest'altre due qualità? cioè che quanto maggiore sarà la siccità del mobile oppugnante l'umidità del mezo, tanto meglio segua l'effetto del vincer la sua resistenza e del penetrarlo e discendervi? ma all'incontro volete che l'umidità resti superata da una similissima umidità e che allora si faccia 'l moto, e che la quiete segua solamente quando le contrarietà sono nel maggior colmo.
Questi punti hanno gran bisogno d'esser dichiarati in dottrina così nuova, e massime che 'l discorso par che, oltre a questo che si è detto, ne persuada più presto il contrario, facendo un'altra considerazione. Voi sapete che, in via peripatetica, l'umido è quella qualità per la quale i corpi che ne son affetti son facilmente terminabili da termini alieni ed esterni, come bene apparisce nell'acqua, la quale speditissimamente si figura secondo la forma d'ogni vaso che la contenga; e però quanto più un corpo sarà tenue cedente e fluido, tanto più umido doverà stimarsi. Ma, per la ragion de' contrarii, la siccità sarà quella qualità per la quale i corpi si terminano da loro stessi e non senza gran difficoltà s'accomodono a termini stranieri; e secchissimi doverranno stimarsi quelli che in modo nessuno non si adattano ad altra figura che la prima ottenuta da loro, come sono le gemme, le pietre e altri corpi durissimi: dal che si raccoglie, i corpi consistenti e duri potersi reputar di qualità secca. Ora, essendo quest'atto di descendere per l'acqua un'azzione di violenza, dovendosi penetrare, dividere, dissipare, scacciare, muovere, alzare etc., io non so 'ntendere come e' non deva esser meglio esequito da un mobile di qualità contrarie alla mollizie tenuità e cedenza dell'acqua, che da uno che più a lei si assomigli. Or prendete, Sig. Colombo, gli aggravii di parole che voi in questa facc. 16 [pag. 327-328] date al Sig. Galileo, dicendo che egli male argomenta, che egli commette fallacie, e che voi potete con la sua medesima dottrina convincerlo in tutti i capi di questa materia; e vedete quanto a torto voi lo tassate, che sete inestricabilmente involto in que' lacci, da' quali egli è libero e sciolto del tutto.
Ma prima ch'io volti faccia, voglio pur notare in questa medesima un altro mancamento del Sig. Colombo, tra molti che tralascio per giugnere una volta a fine di questa impresa: e questo è che egli imputa per fallacia al Sig. Galileo il considerare 'l mobile secondo sè, e non per accidente nè in rispetto al mezo e al subbietto in cui egli deve operare, etc. Dove, primieramente, è falso che 'l Sig. Galileo non consideri 'l mobile in relazione al mezo, e qualificato di quegli accidenti che se gli ricercano, ed in ciò non erra punto: ma erra ben gravemente il Sig. Colombo, il quale, non avendo preso 'l filo che lo possa guidar senza smarrirsi, si va avvolgendo or qua or là, e sempre più inviluppandosi; e una volta non vuole che il mobile sia fatto artifizialmente di cera e piombo, ma vuol una materia sola più naturale; poi non gli basta ch'e' sia di figura larga, ma vi vuole la siccità con altre sue qualità; ha poi bisogno che 'l mezo sia continuo, sia viscoso e resistente alla divisione, e altri requisiti secondo che il bisogno ricercherà; e questo, com'ho detto, per andar puntellando il suo mal fondato edifizio. Ma il Sig. Galileo non ha mai bisogno di alterar la sua massima e general proposizione, con la quale toglie tutte le difficoltà; la quale è, che tutti i corpi che posti nell'acqua galleggiano, per necessità bisogna che sieno men gravi dell'acqua: dove primamente si vede ch'e' piglia 'l solido qualificato di gravità o leggerezza e lo riferisce al mezo, dicendo dover esser men grave di quello; ma non dirà già ch'e' deva esser di materia naturale e non alterata dall'arte, di questa figura e non di quella, asciutto e non umido; che queste cose o non son vere, o non attenenti al fatto, e solo introdotte per reffugii miserabili (siemi lecito usar questo termine del Sig. Colombo) di chi vuol sostener per ogni via una falsità.
Ma passiamo ormai alla facc. 17, v. 1 [pag. 328, lin. 22], dove il Sig. Colombo comincia a provar che la dilatazion della figura può non meno indur la quiete che 'l più tardi muoversi ne i corpi, eziandio sotto acqua, e scrive in cotal guisa: Con la medesima cera e piombo voi, Sig. Galileo, riducete la gravezza d'un corpo a tal segno e grado di tardità, che, se bene per sè medesimo non è in termine di quiete, la sua virtù di descendere è così ridotta debole e fiacca, che in comparazione alla resistenza dell'acqua per la sua gravità non può muoversi, non superando quella di peso etc. Prima che io passi più avanti, voglio accennare come mi sono 'ncontrato in molti luoghi di questa scrittura di natura tali, che quanto più si considerano manco s'intendono, per lo che ho talor dubitato, loro esser con non molta considerazione stati scritti: e 'l presente ne è uno, dove, per molto che io l'abbia considerato per cavarne 'l senso, non posso sfuggir che non vi sia dentro una contradizione; la quale in tanto mi fa maravigliare, in quanto 'l Sig. Colombo l'attribuisce falsamente al Sig. Galileo, che mai non ha scritto cosa tale, nè mai ha detto di ridur con piombo e cera corpo alcun a tal segno, che se ben non è in termine di quiete, ad ogni modo non possa muoversi, cioè si quieti, non superando col suo peso la gravità dell'acqua. Ma se tal corpo non supera la gravità dell'acqua (la qual acqua, per vostro detto, Sig. Colombo, impedisce anco 'l moto con la difficoltà de l'esser divisa), come potete voi dire che per sè stesso non sia in termine di quiete? E quando vi sarà? quando col suo peso supererà la gravità dell'acqua? sendo, dunque, tal incongruenza di parlar vostra, non vogliate attribuirla al Sig. Galileo.
Ma riguardando più a quel che avete voluto dire che a questo che avete scritto, venghiamo a quel che soggiugnete; e concedendovi tutto questo che addimandate, vediamo ciò che ne potret'inferire. Voi, credendo di poter dimostrar contr'al Sig. Galileo, in virtù delle medesime sue concessioni, che la dilatazion della figura possa non sol cagionar tardità di moto alle cose che descendono per l'acqua, ma ancora indur la quiete, scrivete, parlando al Sig. Galileo: «Voi non potete negare (avendolo già detto e conceduto) che la dilatazion della figura induce tardità di moto: ora supponete che un corpo rotondo sia prima ridotto, con cera e piombo etc., a tanta minima gravezza di più dell'acqua, che lentissimamente in quella descenda al fondo; chiara cosa è che, se a questa somma tardità s'aggiugnerà quel che opera la figura, dilatandolo in una falda molto larga, egli cesserà di più muoversi». Qui, per farvi conoscer la fallacia del vostro argomento, basterà ridurlo solamente in termini particolari. Intendasi, dunque, per esemplo, una palla di piombo d'un dito di diametro, la quale nella profondità, v. g., di 20 braccia d'acqua descenda in quanto tempo piace a voi, e sia, per caso, in un minuto d'ora; ma dilatata poi in una falda d'un palmo di diametro, discenda per la medesima altezza molto più tardamente a vostro beneplacito, cioè, per esempio, in dieci minuti, sì che la dilatazion di figura da un dito a un palmo induca nove minuti di tardità. Prendasi poi un'altra palla del medesimo diametro d'un dito, ma ridotta a tal tardità che descenda per la medesima acqua con quanta lentezza vi piace, come sarebbe in cento minuti; a questa, dilatata in una falda d'un palmo, aggiugnete quella tardità che già avete detto derivar da tal dilatazione; che, se io fo bene il conto, ella descenderà per la medesima acqua in 109 minuti, e non, come credevi, non descenderà mai. Che dite, Sig. Colombo? è egli possibile che voi non sappiate ancora che la quiete dista da ogni moto, benchè tardissimo, per infinito intervallo, per lo che tanto è lontana dalla quiete la velocità d'un fulmine quanto la pigrizia della lumaca? Voi credevi, col crescer la tardità, di andar verso la quiete, e vi ingannavi non meno che chi sperasse di trovar l'infinito col passar da numeri grandi a maggiori e maggiori successivamente, non intendendo che tutti i caratteri de' numeri che fin ora hanno scritti tutti i computisti del mondo, ridotti in una sola linea, rileverebbono un numero non più vicino all'infinito che il 3 o 'l 7 o altro carattere solo. Se io credessi che voi sapessi che cosa sia proporzion aritmetica e proporzion geometrica, e che differenza sia tra di loro, potrei pensare che voi, per far l'error vostro apparentemente minore, vi ritirassi a dire che intendete che tale augumento di tardità, dependente dalla figura, s'abbia a far con geometrica, e non con aritmetica, proporzione (se bene le vostre parole denotan questa, e non quella); e che, importando la dilatazione nel piombo detto una tardità dieci volte maggior della prima, così s'abbia da intender dell'accrescimento di tardità nell'altra materia poco più grave dell'acqua, cioè che, descendendo quando era in figura di palla in cento minuti di tempo, quando poi è ridotta in una falda deva accrescer la sua tardità non minuti nove di più (che tale sarebbe l'agumento aritmetico), ma dieci volte tanto, osservando la geometrica proporzione. Ma intendendo anco in cotal guisa, che ne seguiterà egli altro se non che tal falda descenderà in mille minuti d'ora? Ma questa è forse tardità infinita, che possa dirsi quiete? Concludovi pertanto che, pigliando la cosa in questo o in quel modo, e mutando tempi, tardità, distanze e figure in quanti modi vi piacerà, sempre il conto tornerà in vostro disfavore. Or vedete quanto meglio s'assesta a voi che al Sig. Galileo, quello che scrivete per sigillo di questo vostro argumento, dicendo [pag. 328, lin. 35-36] che i suoi argomenti sofistici e fallaci non concludono nulla.
Io non voglio passar più avanti senza notare certo vostr'artifizio, che usate 'n questo luogo per raddoppiar l'errore che attribuite al Sig. Galileo; il che fate col replicar due volte la medesima cosa, porgendola la seconda volta come un corollario dependente dalla prima. Voi cominciate, e dite che il Sig. Galileo con cera e piombo riduce un corpo a grandissima tardità; e seguite di dire, ch'e' lo supponga ridotto a tale, che lentissimamente descenda; e concludete, esser chiara cosa che, aggiuntogli quel di più tardi che vien dalla figura, e' si fermerà. Passate poi, e dite, come se fosse un'altra cosa, che da questo si conchiud'ancora necessariamente, che anco la materia eletta dal Sig. Galileo, sommersa nell'acqua per la virtù della figura, si fermerà: il che è l'istesso che il primo detto; onde io vo pensando una delle due cose, cioè o che voi, supponendo di scrivere a lettori che poco sien per applicar la mente alla vostra scrittura, vi contentiate di suscitar in loro solamente certo concetto superficiale d'errori del Sig. Galileo molto numerosi, o che voi abbiate opinione che il vostro replicar la medesima cosa due volte abbia virtù di farla diventar due cose diverse.
Passo ora a considerar quello che soggiugnete doppo l'aver concluso che gli argomenti sofistici e fallaci del Sig. Galileo non concludon nulla; che è che non vi si domandi che voi mostriate in atto pratico una falda che si fermi sotto l'acqua senza descendere e una palla della medesima materia e peso che descenda, sì come in teorica e demostrativamente avete concluso ciò esser vero contr'al Sig. Galileo; perchè voi all'incontro dimanderete a lui che vi dia in atto un corpo che stia sotto 'l livello dell'acqua senza calar punto o salire, sì che stia in equilibrio appunto: dove pare che vogliate 'nferire che, non vi si dando questo, voi non siate in obbligo di mostrar quello. Ma qual ritirata debole e inaspettata è questa? e qual domanda fuor di proposito? Prima vi vantate di convincere 'l Sig. Galileo, e per far ciò supponete una materia che, anco fatta in figura sferica, descenda lentamente; questa vi si concede, e vi si dà in atto di tanta tardità quanto vi piace: supponete inoltre che la dilatazione accresca la tardità, e questo ancora vi si concede in atto a che misura vi piace: finalmente, sopra queste due concessioni, concludete la quiete dependere dalla figura, e così dite d'aver convinto 'l Sig. Galileo. Quando poi altri poteva pretender da voi la verificazione in effetto della vostra conclusion dimostrata, ↑ uscite di traverso con una nuova richiesta, e ↓ volete che 'l Sig. Galileo sia quello che trovi un corpo che quieti sotto l'acqua. Ma ora domando a voi se tal corpo fa a proposito per la causa vostra o no: se non fa a proposito, è manifesto che 'l domandarlo è una fuga miserabile per isgabellarvi dall'obbligo, e con altrettanta ragione potevi domandar che vi si desse una macine che volasse; ma se è necessario al proposito vostro, prima tocca a voi di farvene provisione, e non al Sig. Galileo. Secondariamente, in qual modo, senza tal corpo ↑ necessario per effettuar la vostra conclusione, ↓ avete voi potuto formar l'argomento vostro concludente? Terzo, dovevi al manco dichiarar a che uso voi di quello volevi servirvi: perchè ponghiamo che 'l Sig. Galileo vi desse questo tal corpo che si fermasse sotto 'l livello dell'acqua, e che ve lo desse, v. g., di figura sferica o d'altra di quelle che paressero più atte a fender la resistenza dell'acqua (già che voi non lo domandate più d'una che d'un'altra figura); che farete di lui? Se volete servirvene per mostrar la vostra esperienza, ditemi quello che voi credete ch'e' sia per fare ridotto in una falda. Direte forse ch'e' discenderà? questo non già, perchè sarebbe effetto contrario alla vostra opinione: anzi, per la medesima vostra dottrina, egli nè anco salirà in alto, perchè la figura dilatata tantum abest che induca moto a i corpi che non l'hanno, ch'ella lo ritarda, e, per vostro creder, lo toglie 'n tutto a quei che l'hanno: adunque necessariamente, figurato di ogni sorte di figura, egualmente resterà in quiete. Ma se voi di tal corpo non volete servirvi (e già potete intender quanto e' sia inetto al vostro proposito), perchè lo domandate? Io non veggo che voi possiate risponder altro, se non che voi lo chiedete per intorbidare 'l negozio, e vi fate lecito di domandar una cosa che sperate non si poter trovare, stimando in cotal modo di disobbligarvi dall'obbligo; non avvertendo, di più, che tal dimanda, oltre all'esser inutile al vostro bisogno, è anco di cosa la quale il Sig. Galileo non ha mai preteso di poterla far vedere, anzi l'ha stimata o impossibile o difficilissima ad effettuarsi, ↑ sì che voi non potete nè anco, secondo 'l costume de' fanciulli, opporvi al Sig. Galileo e dirgli: Se tu vuoi ch'io ti faccia veder quest'effetto, fa' tu prima veder quell'altro del qual ti vantasti. ↓ Ma più dico, che conoscendo voi ancora tal impossibilità, dovreste per essa intendere come nell'acqua non è resistenza alcuna alla divisione; perchè se ve ne fusse, un tal corpo, ridutto quanto al peso alla medesima gravità dell'acqua, dovrebbe, per la di lei resistenza alla divisione, non solamente quietare sotto l'acqua, ma resistere a tanta violenza che se gli facesse per muoverlo ↑ in giù o in su ↓, quanta è appunto la detta resistenza.
Finalmente concludete questa vostra prima confutazione con dire [pag. 328, lin. 40 – pag. 329, lin. 3] al Sig. Galileo: Ma perchè mi risponderete , a car. dieci che le conclusioni son vere e le cagioni sono difettose, e che per ciò il fatto riesce altramente, io vi rispondo il medesimo; e in particolare una delle cagioni difettose, che impedisce l'effetto, è 'l mezo fluido co' suoi momenti. Circa questa chiusa io, prima, vi confesso ingenuamente non intendere nè punto nè poco quello che ella abbia che fare al proposito vostro, e son certo che simil risposta non vi verrebbe mai dal Sig. Galileo: il quale al luogo citato, parlando d'ogni altra cosa che della presente, solo dice che i solidi più gravi dell'acqua descendono in quella necessariamente, e i men gravi non si sommergono, ma una parte della mole loro resta fuor dell'acqua, del qual effetto potrebbe ad alcuno parere esserne cagione che 'l solido nel tuffarsi vada alzando tant'acqua, quanta è la mole demersa; il che soggiugne il Sig. Galileo esser falso, perchè l'acqua che s'alza è sempre manco che la mole del solido sommersa; e però dice che la conclusione è vera, ma tal cagione addotta è difettosa, benchè nel primo aspetto paia vero che il solido nel sommergersi scacci tanta mole d'acqua, quant'è la mole demersa (e veramente ciò ha tanto del verisimile, che Aristotile medesimo ci s'ingannò, come si vede nel libro quarto della Fisica, t. 76). Or veggasi ciò che ha da far questa cosa nel presente proposito, dove voi trattate che la dilatazion della figura possa indur la quiete a i corpi più gravi dell'acqua anco sotto 'l suo livello. Voi direte che, sì come quelle conclusioni del Sig. Galileo erano vere, e quella apparente ragione difettosa, così la vostra conclusione, che la figura dilatata induca quiete anco sott'acqua, è vera, benchè la vostra dimostrazione sia difettosa. Tutto sta bene: ma bisogna avvertire che 'l Sig. Galileo non si fonda mai su quella apparente ragione, anzi, avendola scoperta diffettosa, ne trova le vere e concludentissime; ma voi, non ne adducendo altra, che la fallace, in virtù di quella stabilite per vera la conclusione, e riprendete 'l Sig. Galileo chiamando i suoi argomenti fallaci e nulla concludenti; e immediatamente passato questo vostro bisogno, non v'importa più se anco la vostra medesima ragione sia diffettosa. Ma quel che più importa è che voi, per liberarvi dall'obligo di far veder in esperienza un corpo che, descendendo per l'acqua in figura sferica, si fermi per entro quella, ridotto che sia in una falda, dite che risponderete come il Sig. Galileo a facc. 10, che le conclusioni sien vere e le cagioni diffettose, e che per ciò il fatto riesce altramente. Ora io vi domando, Sig. Colombo, qual è la conclusione, e quali le cagioni nella vostra dimostrazione? Certo che la conclusione è che un corpo più grave dell'acqua, dilatato in falda, si ferma sott'acqua; e le cagioni sono che la dilatazion di figura apporta tardità, la qual, aggiunt'alla minima gravità del mobile sopra la gravità dell'acqua, cagiona l'equilibrio. Ora non vi si domandando che voi facciate divenir buone le cagioni diffettose, ma solo che mostriate in fatto la quiete della falda, che dite esser conclusion vera, non potete ragionevolmente negar tal dimanda, perchè nè anco il Sig. Galileo, il quale in questo particolar volete secondare, vi contenderà 'l farvi vedere i solidi men gravi dell'acqua galleggiare e i più gravi affondarsi, che sono le sue conclusioni, benchè quella tale apparente cagione di ciò sia difettosa: oltre che, per bene imitarlo, dovevi investigar perfette cagioni della vostra conclusione, come fece egli della sua. E meravigliomi che voi non vi siate accorto della stravolta maniera d'inferire che è nel vostro parlare, mentre dite che le conclusioni son vere e le cagioni diffettose, e che per ciò 'l fatto riesce altramente; perchè, avendo il fatto riguardo alla conclusione, e non alle cagioni, purchè la conclusion sia vera, il fatto dovrà riuscire, benchè le cagioni addotte sien diffettose. E di grazia, Sig. Colombo, non attribuite così frequentemente al Sig. Galileo gli errori che son vostri, dei quali questo è uno; perchè ha bene scritto 'l Sig. Galileo che quelle tali conclusioni son vere e le cagioni diffettose, ma l'aggiunta, che perciò il fatto riesca altramente, non si trova nel suo libro. Quanto poi alle vostre ultime parole, che una delle cagioni diffettose, che impediscono l'effetto, è il mezzo fluido coi suoi momenti, io veramente mi sono molto affaticato per trarne senso che si accomodi al proposito di che si tratta, nè mi è potuto fin ora succedere; però non ci dico altro, e voi ricevete il mio buon volere: dirò solo che, se 'l mezo fluido co' suoi momenti è causa in qualche modo che impedisca l'effetto del fermarsi una falda nell'acqua, nè voi ne altri già mai ve la faranno fermare, non essendo possibile il levare all'acqua i suoi momenti o la fluidità. Vi sete dunque, Sig. Colombo, con grand'animo messo per dimostrar un effetto; e finalmente, dopp'esservi lungamente affaticato 'n vano, l'ultima conclusione della vostra dimostrazione è che tale effetto è impossibile a effettuarsi.
Or vediamo se forse con più fermi discorsi confutate l'altra sperienza del Sig. Galileo; e per più facile intelligenza, succintamente descriviamola. Per provar che l'ampiezza della figura del solido e la resistenza dell'acqua all'esser divisa non posson indur la quiete, dice 'l Sig. Galileo che si prenda una materia pochissimo più leggieri dell'acqua, sì che, fattone una palla, molto lentamente ascenda per l'acqua; riducasi poi la medesima materia in una larghissima falda, e vedrassi che ella parimente dal fondo si solleverà; e pur dovria fermarsi se nella figura e nella resistenza dell'acqua alla divisione consistesse il poter levar via 'l movimento. A questa, che voi domandate esperienza non simile ed argomento fallace, rispondete varie cose, Sig. Colombo, ma tutte, per mio parer, molto lontane dal proposito, come nell'andarle partitamente esaminando credo che si vedrà manifesto. Rispondete primieramente, al principio della facc. 18 [pag. 329, lin. 14-36], che Aristotile non afferma e non nega che la resistenza dell'acqua nasca dalla sua viscosità, la qual egli nè pur nomina 'n questo luogo; anzi, dicend'egli che 'l galleggiar delle figure larghe nasca dall'impotenza a divider le molte parti del mezo, che non facilmente si dissipano e distraggono, può il Sig. Galileo attribuir tal cagione alla resistenza che fa la gravità dell'acqua, senza pregiudicare ad Aristotile; essendo che alla distrazzione delle parti, e massime del corpo grave com'è l'acqua, vi è resistenza, ben che ella fusse di parti divise come la rena, e non continue, come 'l Sig. Galileo affermò innanzi a S. A. S. disputando col Sig. Papazzone. Soggiugnete poi, che non essendo la gravità dell'acqua suffiziente a resister a un corpo più grave di lei, sì che non la penetri e divida, bisogna che altre cause concorrino a far la total resistenza, tra le quali, con Aristotile, riponete la figura, non escludendo anco le altre cagioni. Soggiugnete in ultimo, la viscosità e la tenacità del continuo dell'acqua non potersi negare da alcuno se non dal Sig. Galileo, che nega l'acqua esser continua; e però passate a dimostrar che ella pur sia continua con molte ragioni.
Ora io non so vedere che tutto questo discorso faccia altro che moltiplicare le fallacie, senza punto risponder alla ragione e all'esperienza del Sig. Galileo. Noi siamo in fatto; e 'l senso ci mostra, nell'acqua non esser facoltà veruna, per la quale ella possa tòrre a' corpi men gravi di lei l'ascender per la sua altezza, poi che tutti, benchè insensibilmente men gravi e di figura inettissima per la sua ampiezza a dividere, v'ascendono, e per l'opposito i medesimi, ingraviti con qualunque minima gravità, vi descendono: onde, con chiarezza molto superiore a quella del sole, apparisce il nulla operar della somma dilatazion di figura o altra resistenza che sia nell'acqua, circa il vietare la salita e la scesa a' corpi per entro la profondità di quella; onde, per esser l'acqua in tutte le sue parti simile a sè stessa, resta necessario, la cagione per la quale grandissime falde di piombo e d'oro, non dirò insensibilmente, ma venti volte più gravi dell'acqua, si fermano nelle parti supreme, esser diversissima dall'impotenza della figura e dalla resistenza dell'acqua all'esser divisa; e tanto più che tali falde, quando si quietano, già si veggono aver penetrata l'acqua. Ma voi, non mostrando la fallacia di questo argomento e l'incongruenza di tale esperienza se non col nominarle, vi mettete con l'immaginazione a ritrovar molte cause nell'acqua, per le quali poss'esser impedito e annullato il moto di tali falde, se bene il senso mostra sempre il contrario; e dite che la resistenza dell'acqua alla divisione, la continuità, la tenacità, la viscosità, il non si dissipar facilmente la moltitudine delle sue parti, e, quando ancora così piacesse al Sig. Galileo, la sua gravità e la difficil distrazzione, quando ben le sue parti fosser divise come quelle della rena, posson levar cotal moto; e stimando di arreccar efficacia alla causa vostra con la multiplicità di questi accidenti, veramente non fate altro che multiplicar le falsità e raddoppiarvi le brighe; perchè sin tanto che l'esperienza del Sig. Galileo resta 'n piede, che al sicuro sarà un tempo lungo, bisognerà confessar, per la vostra dottrina, che nell'acqua non si trovi nè resistenza alla divisione, nè continuità, nè tenacità, nè viscosità, nè gravità, nè renitenza all'esser dissipata, nè all'esser distratta, ↑ poichè postavi qual si voglia di queste condizioni, dovrebbe di necessità seguir la quiete, la qual per esperienza si vede non vi si poter ritrovare. ↓
Ma sentiamo un'altra serie d'errori particolari, per entro questo vostro breve discorso disseminati. Prima, doppo l'aver tassato di fallacia l'argomento e l'esperienza del Sig. Galileo, aggravate l'error suo con dire che egli l'ha prodotta senza reprovar le ragioni peripatetiche, affermanti l'acqua esser continua e tenace: nel che voi doppiamente errate. Prima, perchè dove si ha un'esperienza sensata e evidentissima, non è obbligo di riprovar ragioni, le quali convien che al sicuro sian fallaci: e io credo pur che voi sappiate che, anco in dottrina peripatetica, una manifesta esperienza basta a snervare mille ragioni, e che mille ragioni non bastano per render falsa un'esperienza vera. Secondariamente, io non so quali voi chiamate ragioni peripatetiche confermanti la continuità e tenacità dell'acqua; perchè Aristotile, che io sappia, non prova in luogo alcuno tal continuità, se forse voi non chiamaste ragioni la sua autorità e l'averlo egli solamente detto; ma se questo è, l'atterrar tal ragione e far che quel che è detto non sia detto, non è in potestà del Sig. Galileo. Ma se per ragioni peripatetiche voi intendeste quelle del Sig. Papazzone, addotte in voce alla presenza del Serenissimo Gran Duca, o queste che voi stesso producete adesso in questo luogo; prima, quanto a quelle, il Sig. Galileo non è così mal creato che si mettesse a publicar con le stampe atti o ragioni o discorsi fatti in voce da chi si sia, e massime per confutargli, non gli parendo onesto il privar alcuno del benefizio del tempo e del poter pensarvi sopra, correggergli e ben mille volte mutargli. Ma non solo i ragionamenti in voce, ma nè anco le scritture private de gli altri non farebbe pubbliche senza esserne ricercato da i proprii autori, o almeno senza lor licenza, e solo anco portandole con laude e con approvazione; e voi medesimo potete esser di ciò a voi buon testimonio, il quale, benchè molte volte in voce, e anco per lettere scritte ad amici, abbiate stimolato il Sig. Galileo a dover parlar di vostre scritture private fatte contro altre sue opinioni, non però l'avete potuto indurre a rispondervi, solo perchè egli non poteva farlo se non con far palesi molti vostri errori; e se finalmente con questa vostra apologia stampata non fuste tornato più d'una volta a far instanza sopra queste vostre scritture contro al Copernico, gloriandovi che il Sig. Galileo le abbia vedute e taciuto, forse per non sapere risolvere le vostre debolissime e triviali instanze, niuno ne arebbe mossa parola. Però lo stampare scritture particolari, congressi privati, parole referite da questo e da quello, e bene spesso non sinceramente, e opinioni che voi, senza occasione, vi immaginiate che altri possa tener per vere, per servirsene poi solo per deprimer la reputazione del compagno, si lascerà far a voi, Sig. Lodovico, senza curarsi punto d'imitarvi. Ma se per le ragioni peripatetiche intendete quelle che appresso producete voi stesso di vostra 'nvenzione, veramente grande sproposito è il dimandarne la soluzione avanti che voi le proponghiate; e se alla facc. 42 [pag. 352, lin. 8] voi date al Sig. Galileo titolo più tosto d'indovino che d'intelligente, per certa esposizione data da lui a un luogo del Buonamico, veramente che l'attributo di mago o di negromante non gli sarebbe da voi stato risparmiato, se egli avesse voluto solvere i vostri argomenti prima che e' fussero stati prodotti.
Seguitate, nel secondo luogo, d'avvertire 'l Sig. Galileo, ch'egli non creda che la tenacità e viscosità dell'acqua sia come quella della pece o della pania: il qual avvertimento viene a voi, Sig. Colombo, che attribuite all'acqua la tenacità e resistenza alla distrazione, e non a lui, che ha sempre detto che l'acqua manca totalmente di tali accidenti.
Terzo, voi dite che Aristotile non fa menzione della viscosità dell'acqua, e 'nsieme nominate, con esso lui, la resistenza alla divisione per esser di parti che non facilmente si distraggono. Ma che altro è la viscosità, che quella qualità per la qual alcune materie, distraendosi, resistono alla divisione? a differenza di quelle che resistono alla divisione senza distrarsi, come 'l vetro freddo, il diaccio ed altre cose simili.
Quarto, voi dite che, senza pregiudizio del detto d'Aristotile, il galleggiar delle falde si può attribuir, come piace al Sig. Galileo, alla resistenza che fa la gravità dell'acqua, dicend'Aristotile che tal galleggiare nasce dall'impotenza al dividere le molte parti dell'acqua comprese sotto, le quali non facilmente si dissipano e distraggono, ↑ Ma come non v'accorgete della grande sciocchezza che voi fareste dire a Aristotile, quand'e' volesse metter la gravità dell'acqua a parte di quest'effetto del galleggiare in compagnia della sua resistenza alla divisione? L'acqua non può resister con la gravità, se non in quanto una sua parte vien alzata sopra 'l suo livello; alzar una parte d'acqua non si può nel presente caso, se prima la tavoletta non divide e penetra la continuità di quella; adunque la resistenza della gravità non può esser dove prima non sia la cessione alla divisione: onde si manifesta, tali due resistenze esser incompatibili nel medesimo soggetto; e però grand'errore commetterebb'Aristotile, che non vuol che la falda divida e penetri l'acqua. ↓
La somma di tutta la disputa che voi dite aver co 'l Sig. Galileo, è intorno all'investigar la vera cagion del galleggiare, la qual egli non attribuisce mai ad altro che alla gravità dell'acqua, maggiore in specie di quella di tutte le cose che galleggiano; e voi, che professate di esser altrettanto contrario alla sua opinione quanto conforme a quella d'Aristotile, in qual modo cominciat'ora ad ammetter a parte di quest'effetto la gravità dell'acqua, non mai nominata in tutto questo capitolo da Aristotile? Il quale, ancor che l'occasion di nominarla gli sia venuta in mano, ha nondimeno detto che bisogna paragonar la gravità del mobile con la resistenza dell'acqua alla distrazzione; ma della gravità, ne verbum quidem; e pur molto meglio si compara la gravità del mobile con la gravità dell'acqua, che con la resistenza alla distrazzione. Io non voglio dire a voi (se ben con molta ragion potrei farlo) quello che senza ragion alcuna, come su 'l luogo proprio vi mostrerò, dite voi in derisione del Sig. Galileo a facc. 24 [pag. 335, lin. 15-16], mentre invitate i lettori a vederlo calar dolcemente le vele e rendersi vinto e arrenare; ma lasciando a voi simili scherni, dirò bene, parermi che nel voler voi in certo modo accordare 'l detto del Sig. Galileo con quel d'Aristotile, usiate termini non molto tra sè concordanti; nè so veder ciò che abbia che far la resistenza dependente dalla gravità dell'acqua, posta dal Sig. Galileo, con la difficultà all'esser dissipato e distratto, posta da Aristotile, poi che queste non son qualità che alternatamente si conseguitino, vedendo noi alcuni corpi gravissimi, come 'l piombo, l'oro e l'argento vivo, molto più facilmente distrarsi e dissiparsi che le gemme, che 'l vetro o l'acciaio, tanto manco gravi; e 'l diaccio stesso quanto è più resistente dell'acqua, poichè, senza pur inclinarsi, sostiene gravissime pietre e metalli! e pur non è più grave di quella, anzi meno. Con tutto ciò, volendo voi in certo modo render ragion del vostro detto, dite (ed è il quinto errore) che alla distrazzione delle parti del corpo, e massime del corpo grave, come l'acqua, vi è resistenza, benchè ella fusse di parti divise, come la rena: dove, oltre alle cose già notate, si scuopre manifestamente che voi avete concetto che la distrazzione sia una cosa molto differente da quello che ella è, stimando che 'l corpo, benchè di parti divise come la rena, sia in ogni modo distraibile; il che è falso, non essendo distraibili se non quelle materie che hanno le parti attaccate e conglutinate, come la cera, i bitumi e anco i metalli. Seguitate poi, e dite che, non bastando la gravità dell'acqua a resister alla divisione e penetrazion d'un solido più grave di lei, bisogna che altre cagioni concorrano a far la total resistenza, tra le quali è principal la figura, non escludendo l'altre. Qui, primieramente, io laudo assai quest'ultima clausula, di non escluder l'altre cagioni, acciò se altri investigasse mai la vera, voi ancora possiate dir d'esservi a parte, come quello che non l'aret'esclusa; e in questo sete stato più cauto d'Aristotile, il quale, senza riserbo alcuno, ha attribuito tutto alla difficoltà delle molte parti dell'acqua alla distrazione, in relazione al poco peso delle falde dilatate. E già che voi avete cominciato a dar orecchio alla resistenza dependente dalla gravità dell'acqua, potete desister dal cercar più altre cagioni, perchè le figure, le siccità e ogn'altra immaginabil chimera non ci hanno che far niente. Voi già intendete che la gravità dell'acqua resiste, ma insin ch'ella si trova superiore a quella del mobile; ma vi par poi impossibile che ella possa resister a gravità superior alla sua, qual'è quella del ferro e del piombo e dell'oro etc. Ma il Sig. Galileo vi leva questo scrupolo, se voi voleste intenderlo, e vi dice che mai non avviene il caso che s'abbia necessità di ricorrere ad altri che alla resistenza della gravità dell'acqua, perchè mai non galleggia cosa alcuna che sia più grave di lei, e quella quantità d'acqua che resiste alla falda d'oro pesa più di lui. Ben è vero che bisogna aprir ben gli occhi per veder quanta sia la detta acqua; ma già il Sig. Galileo l'ha palesata a chi la vuol vedere, perchè non è dubbio che tant'acqua contrasta con la falda, quanta, mercè di lei e per concedergli 'l luogo, si trova scacciata nell'imposizion di essa falda. Però tornate a considerar quant'acqua si conterrebbe nello spazio ingombrato dalla falda d'oro e da quello che la segue sotto 'l livello dell'acqua; che voi senza dubbio troverete che l'acqua che bisognerebbe per riempier questo spazio non peserà un pelo manco dell'oro e del resto che con lui 'ngombra il medesimo spazio, talchè quest'effetto non differisce punto da quel di tutti gli altri corpi che galleggiano; e insieme vi chiarirete quanto miserabil refugio sia 'l dire, che l'ampiezza della falda impedisca 'l far la total divisione. E qual cosa manca a questa total divisione, quando la falda dell'oro non pur si trova tutta sotto 'l livello dell'acqua, ma si vede profondata diciotto ↑ o venti ↓ volte più della sua grossezza? Nè perdete più tempo in voler difender Aristotile in questo particolare, non si potendo per lui addur migliore scusa se non ch'egli credette che tali falde non intaccassero la superficie dell'acqua, ma vi si posassero come sul ghiaccio. Ma passo ormai a considerar le ragioni, con le quali vi sforzate di provar l'acqua esser un continuo.
Facc. 18, v. 24 [pag. 329, lin. 37- pag. 330, lin. 1]: Provasi, dunque, in questa maniera. Ogni corpo continuo è tale, perchè le parti di esso son unite di maniera, che attualmente una sola superficie lo circonda: ma l'acqua ha una sola superficie; parlo di qualche quantità che noi eleggessimo, posta in un vaso o altro luogo che la contenesse, acciochè non mi pigliaste in parole: adunque è corpo continovo.
Il non aver mai nè in sè stesso provato, nè osservato in altri, che cosa sia il dedur la ragion d'una conclusione da' suoi principii veri e noti, fa che molti nelle prove loro commetton gravissimi errori; supponendo bene spesso principii men certi delle conclusioni, o prendendogli tali che son l'istesso che si cerca di dimostrare, e solo differente da quello ne' termini e ne' nomi, o vero deducendo esse conclusioni da cose che non han che far con loro; e, per lo più servendosi, ma non bene, del metodo risolutivo (che, ben usato, è ottimo mezo per l'invenzione), piglian la conclusione come vera, e 'n vece d'andar da lei deducendo questa e poi quella e poi quell'altra consequenza, sin che sen'incontri una manifesta, o per se stessa o per essere stata dimostrata, dalla qual poi con metodo compositivo si concluda l'intento, in vece, dico, di bene usar tal gradazione, formano di lor fantasia una proposizione che quadri immediatamente alla conclusione che di provar intendono, e non si ritirando in dietro più d'un sol grado, quella prendono per vera, benchè falsa o egualmente dubbia come la conclusione, e subito ne fabbricano il silogismo, che poi, senza guadagno veruno, ci lascia nella prima incertezza: onde avviene che bene spesso, e massime in questioni naturali, i trattati interi, letti che si sono, lasciano 'l lettore pien di confusione e con maggior incertezza che prima, e ingombrato di cento dubbii, mentre da un solo cercava di liberarsi. Esempli di questi errori ne son tanti nel Discorso del Sig. Colombo, quante vi sono conclusioni da esso intraprese a dimostrarsi, come ogni mediocre intendente può comprendere. Ma perchè troppo tediosa e vana 'mpresa sarebbe l'additargli tutti, voglio che mi basti in questa sola parte, che attiene alle prove sue della continuità dell'acqua, allargarmi alquanto, e mostrar di qual confusione è forza riempiersi la fantasia per dar luogo a quanto da quello ci vien proposto.
Volendo dunque 'l Sig. Colombo provare, l'acqua esser un continuo, comincia da una proposizione cavata dall'essenza di esso continuo, dicendo, allora 'l corpo esser continuo, quando le sue parti son di maniera unite, che attualmente una sola superficie lo circonda; soggiunge poi, l'acqua essere tale, cioè contenuta da una sola superficie; onde etc., e qui finisce la dimostrazione, tralasciando tutto quel che importa, cioè di provar la minore. Però si può desiderar dal Sig. Colombo d'essere assicurati, o per via del senso o per dimostrazione, che l'acqua sia contenuta da una sola superficie; perchè io posso pigliar un vaso, e empierlo di qualche polvere impalpabile, qual sariano i colori fini, e calcarvela dentro con un piano ben terso; che senza dubbio ella resterà tale, che nessuno, quant'alla visibil apparenza, la giudicherà altro che una superficie continuatissima e una; e soggiungo di più al Sig. Colombo, che quanto maggiore e maggiore sarà la finezza della polvere (che tanto è quanto a dire che tal corpo sarà più e più discontinuato), tanto la superficie sua apparirà più unita e simile al continuo. Essendo, dunque, che l'apparente unione di superficie compete egualmente al corpo continuo e al discontinuatissimo, l'argumento del Sig. Colombo è egualmente accommodato a provare la continuità e la somma discontinuità; e però si aspetterà qualche sottil distinzione che rimuova tale ambiguità, perchè il detto sin qui non conclude nulla.
Facc. 18, v. 29 [pag. 330, lin. 1-4]: Secondo, tutti i corpi che si mescolano e son flussibili, massimamente quegli della stessa materia, com'è l'acqua, confondono le lor parti in modo che si fanno un corpo solo e continuo: l'acqua dunque è continua, e non divisa.
Nel secondo argomento, avendo prima il Sig. Colombo con grand'acutezza considerato che l'acqua è fluida e che le sue parti si confondono insieme, forma subito, conforme al nono artifizio, una proposizione, e senza altramente dimostrarla (per non dir, come egli direbbe al Sig. Galileo, senza pensar più là), supponendola per vera, l'addatta al suo bisogno, per raccòrne poi nulla. Prende, dunque, per vero, che tutti i corpi che son fluidi e si mescolano, e massime quando sono della medesima materia, come è l'acqua, si confondino in modo le parti loro, che si faccino un corpo solo e continuo: conclude poi: «Adunque l'acqua è continua». Tal discorso, com'ho detto, non conclude niente. Imperochè io, primieramente, domando al Sig. Colombo, se questi corpi fluidi e dell'istessa materia, che si mescolano e che confondon le parti loro sì che si faccia un corpo solo e continuo, avanti che si mescolassero eran in loro stessi continui o no: se mi dirà che sì, prima tutto questo discorso è buttato via, perchè bastava dire che tutti i corpi fluidi son continui e che in consequenza l'acqua è continua, essendo fluida; ma questo poi sarebbe un suppor troppo scopertamente per vero quel che si deve dimostrare: ma se dirà che avanti 'l mescolarsi non eran corpi continui, adunque ci sono corpi fluidi, tra' quali è l'istessa acqua, che non son continui, poi che non si fan continui se non dopo il mescolamento. In oltre parmi di avvertire, che al Sig. Colombo non basti che i corpi sien miscibili solamente, per far di essi un continuo, avendo forse osservato che i colori 'n polvere si mescolano, nè però si continuano; nè anco gli basta l'esser fluidi, perchè forse vede l'olio e l'acqua esser fluidi, nè però farsi di loro un continuo; ma ha voluto l'una e l'altra condizione, cioè che sien fluidi e miscibili, e di questi ha affermato farsi 'l continuo, mentre si confondono le lor parti. Ma tal assunto, preso con maggiore arditezza che evidenza, ha gran bisogno di prova, non apparendo ragion alcuna per la quale la flussibilità congiunta col mescolamento abbia a produr necessariamente la continuità ne' corpi; la qual continuità nè al mescolamento nè alla flussibilità, separatamente presi, per necessità non conséguita.
Facc. 18, v. 32 [pag. 330, lin. 4-9]: Terzo, l'aria ha men virtù di resistere alla divisione che non ha l'acqua, e nondimeno è un corpo continovo: adunque la poca resistenza alla divisione non argomenta che l'acqua non sia corpo continovo. Ne si può negar nell'aria la continuità; perchè altramente vi sarebbe 'l vòto, il che è impossibile: e se voi concedeste 'l vòto, provatelo; e vi si risponderà, mostrando che v'ingannate.
Questa, ch'espone per la terza prova, è più presto una risposta a uno degli argomenti che altri potesse far per provare che nelle parti dell'acqua non sia continuità, inferendosi ciò dal non resistere ella punto alla divisione, poi che veggiamo ogni gran mole esser mossa per l'acqua da qual si voglia minima forza; alla qual ragione si leva incontro il Sig. Colombo, e dice: L'aria ha men virtù di resister alla divisione che non ha l'acqua; non dimeno è corpo continuo; adunque la poca resistenza alla divisione non argomenta che l'acqua non sia corpo continuo. Scuopronsi 'n tal discorso molte fallacie: e, prima, e' suppon per vero quel che ha bisogno d'esser provato, anzi quello che è in certo modo la proposizione di cui si disputa; poi che e' suppone che nell'acqua e nell'aria sia resistenza alla divisione, il che da noi si nega e se ne producon manifeste esperienze; e si è dichiarato che la resistenza che si sente nell'acqua, mentre che in essa si muove con velocità una mano o altro solido, non è per divisione che s'abbia a far nelle sue parti, ma solamente per averle a muover di luogo, in quella guisa che si trova gran resistenza a muover un corpo per l'arena, la qual resiste a tal moto senza che di lei s'abbia a divider parte alcuna. In oltre, qualunque si sia questa resistenza, tuttavia il Sig. Colombo discorre al contrario di quel che si dovrebbe per discorrer bene. Egli dice che la poca resistenza non argomenta discontinuità nelle parti: ma ciò non basta, perchè 'l Sig. Galileo non argomenta la discontinuità dalla poca resistenza, ma dalla nulla; e però doveva il Sig. Colombo provar che la nulla resistenza non arguisce discontinuità; il che egli non ha fatto, nè farà mai. Posso ben io, all'incontro, con maggior verità mostrar che la grandissima resistenza non argomenta continuità, perchè veggiamo infiniti corpi sommamente resistere a tal separazione, e esser aggregati di parti solamente contigue. E chi dirà che il feltro sia altro che un aggregato di innumerabili peluzzi, congiunti insieme per un semplice contatto? e pur è renitentissimo alla separazione. La saldatura di stagno e piombo, che attacca insieme due pezzi di rame, gli conglutina pure col semplice toccamento; e pur resiston tanto alla separazione. Grandissimo, dunque, è l'error di chi voless'argomentar la continuità tra le parti di un solido dal sentir gran resistenza nel separarle, potendo bastar alcuni semplici contatti a saldamente congiugnerle. Anzi io non trovo che il Sig. Colombo nomini e proponga corpo alcuno, del quale ci assicuri ch'e' sia un continuo vero; e credo che s'egli o altri si mettesse a voler dimostrar concludentemente la continuità delle parti d'alcun de' nostri corpi, avrebbe che fare assai, e forse inutilmente: tantum abest ch'e' sia manifestissimo, com'egli suppone, che l'aria sia un continuo. Dico suppone, perchè la prova ch'e' ne produce, è, come l'altre, di niun vigore. La sua prova è, che se alcuno negasse la continuità nell'aria, bisognerebbe porvi 'l vòto; il che, dice egli, è 'impossibile, e ne sfida 'l Sig. Galileo a disputa, quand'egli pretendesse 'l contrario, e s'offerisce a ribatter le sue ragioni. Ma perchè 'l Sig. Galileo non ha mai scritto di darsi o non darsi vacuo per l'aria, l'appello del Sig. Colombo è a sproposito; e se pur egli aveva desiderio di correre quest'arringo, toccav'a lui a essere 'l primo a comparir con sue prove a destrugger 'l vacuo. E qui, discreto lettore, potrai far giudizio quanto il Sig. Colombo sia poco pratico del modo di disputare, perchè, sostenendo il Sig. Galileo la conclusione della discontinuità delle parti dell'acqua, e facendo il Sig. Colombo la persona dell'argomentante, in questo caso vuol che 'l Sig. Galileo di cattedrante (per usare 'l proprio termine) diventi argomentante, non sapendo che chi difende conclusioni non argomenta mai: toccava adunque, come si è detto, al Sig. Colombo a produr ragioni contr'al vòto, e non offerirsi a rispondere a chi le producesse. Ma tornando alla materia, dice il Sig. Colombo resolutamente, non si poter negare nell'aria la continuità, perchè altramente vi sarebbe il vòto: dove io noto diversi errori. E prima, se l'inconveniente del darsi 'l vòto è mezo bastevole per provar la continuità nell'aria, perchè non bast'egli con altrettanta forza a provarla nell'acqua? e perchè non dice il Sig. Colombo, non si poter negar nell'acqua la continuità, perch'altramente vi sarebbe 'l vòto? anzi, se la discontinuità non può star senza 'l vòto (com'e' suppone nel dir che, se l'aria non fusse continua, necessariamente vi sarebbe 'l vòto), la continuità resta molto più evidente nell'acqua che nell'aria; perchè molto più si può temer che 'l vòto si ritrovi nell'aria che nell'acqua, poi che l'aria si comprime e condensa assai con poca forza, e l'acqua non punto con forza immensa. Di più, la conseguenza che 'l Sig. Lodovico si forma, dicendo che se nell'aria non fusse la continuità vi sarebbe il vòto, è non solo non dimostrata, ma falsa. E donde cava il Sig. Colombo, che in quel corpo dove non è la continuità, necessariamente vi sia il vòto? non si può forse comporr'un corpo di parti contigue solamente, senza lasciarvi il vòto? egli ha pur osservate quelle formette da stampare ch'e' nomina nel suo Discorso, le quali, essendo composte di prismetti rettangoli, combaciano 'nsieme di modo, che posson riempier lo spazio senza lasciarvi il vòto. E come s'è egli scordato che Platone attribuisce a' primi corpuscoli componenti la terra la figura cuba, perchè questa sola tra' corpi regolari è atta a riempiere 'l luogo e formar il suo solido densissimo? Ma perdonisi pure al Sig. Colombo un tal errore, che non può esser conosciuto nè schivato se non da chi ha qualche lume di geometria; nè egli si dovrà arrossir di non aver inteso tanto avanti, poi che Aristotile medesimo, se bene intese questo, tuttavia non meno gravemente s'ingannò, quando, per tassar Platone in questo luogo, disse che non solo i cubi (com'esso Platone avev'affermato), ma le piramidi ancora potevan riempiere 'l vacuo, accomodandole coi vertici di queste contro alle basi di quelle: errore veramente gravissimo, ma però tale che può scusarne un altro in Aristotile, quando e' disse che i fanciulli potevano esser geometri; perchè, se per meritar titolo di geometra basta saperne così poco, possono i fanciulli, e anco i bambini, esser matematici. Ma passiamo al quarto argomento, e veggiamo se in esso 'l Sig. Colombo si mostra punto miglior geometra che nell'antecedente.
Facc. 18, v. 38 [pag. 330, lin. 9-15]: Quarto, i corpi continui son tali, che non si può muover di quegli una parte, che non se ne muovano molte o tutte, secondo la durezza o flussibilità del corpo; come, v. g., d'una trave non si può muover una parte, che non si muovan tutte e nel medesimo tempo: ma dell'acqua, perch'è tenue e flussibile, se ne muovon molte quando il movimento è debole, e tutte quando è gagliardo, anche nel primo impeto. E che sia vero, gittisi un sasso nel mezo d'un vivaio; a quella caduta si farà un cerchio nell'acqua, e quello ne farà un altro etc.
Io voglio tralasciare in questo silogismo un error (come minimo), non so s'io lo deva dir di logica, o di memoria, o pur d'amendue 'nsieme: ed è, che chi ben lo considererà, lo troverà esser un silogismo d'una proposizion sola, nella quale 'l Sig. Colombo si va diffondendo e allargando tanto, che si smarrisce, nè arriva alla minor proposizione, non che alla conclusione. Fingendosi, dunque, un altro sintoma de' corpi continui, differente dall'altro posto nel principio di questo particolar discorso, dice, i corpi continui esser tali, che non si può muover di quelli una parte, che non se ne muova molte o tutte secondo la durezza o flussibilità del corpo (dal che primieramente, per necessaria consequenza, s'inferisce che quel corpo del quale si potesse muover una parte sola, senza muoverne altre, non sia continuo, ma discreto, in dottrina del Sig. Colombo). Or, da queste parole si scorge primieramente che 'l Sig. Colombo s'immagina di poter prender nel continuo una parte sola, e anco molte; cosa non intesa sin ora da verun matematico, nè credo anche filosofo di qualche intelligenza; i quali, intendendo come il continuo è divisibile in parti sempre divisibili, comprendono, in consequenza, non si poter di esso prender una parte, che 'nsieme non se ne prendino innumerabili. Ma se quest'è vero, come è verissimo e noto ad ogni tenue discorso, il dire 'l Sig. Colombo che del continuo non se ne può muover una parte che non se ne muovino molte, è 'l medesimo che dire che del continuo non si posson muover parti innumerabili che non se ne muovino molte, poi che non è nel continuo parte alcuna che non ne contenga iunumerabili. Si aspetterà, dunque, che egli insegni il modo di poter prender del corpo continuo una parte sola. In oltre, conceduto al Sig. Colombo che si possa d'un continuo prender una parte sola, e che egli intenda che al moto di quella necessariamente se ne muovino molte fuor di quelle che in lei si contengono, esaminiamo 'l resto delle sue consequenze. Egli ammette esser alcuni continui de' quali al moto di una parte se ne muovon per necessità molte, e altri che al moto di una parte si muove necessariamente 'l tutto: ora io piglio un de' primi continui, il qual sia AB, del quale mossa una parte sola, come, per esempio, la B, se ne muovino necessariamente molte, come, v. g., le C, D, E, restando immobile l'avanzo AF. Perchè, dunque, al movimento di B si muovon necessariamente le C, D, E, ma non più, adunque è possibile muover la parte E senza che si muova il resto FA; se dunque si segheranno via le parti D, C, B, si potrà del rimanente EFA muover la parte E senza che si muova 'l rimanente FA: ma quel corpo (per dottrina del Sig. Colombo) del quale si può muover una parte sola senza che si muovin l'altre, è discontinuato: adunque 'l corpo AFE è discontinuo, e non continuo: cosa che è contr'all'assunto, che fu che tutto 'l corpo AB fusse continuo. Bisogna, dunque, che 'l Sig. Colombo trovi altre proprietà del continuo, per ben distinguerlo dal contiguo. Ma posto anco che tanto quello quanto questo fossero aggregati di parti quante e determinate, come bisogna che 'l Sig. Colombo si abbia imaginato, poi che ha creduto potersi del continuo prender una parte sola senza prenderne molte; e posto ancora che 'l continuo differisse solamente dal contiguo perchè le parti di questo fossero staccate, e di quello attaccate insieme, ond'egli abbia stimato potersi nell'aggregato di contigui muover una parte senza muovern'altre, ma non già nel continuo; non però dimostr' egli cosa veruna contro la discontinuità dell'acqua, e l'esperienze ch'e' produce son fuor del proposito e male 'ntese e peggio applicate. Imperò che, se ben, v. g., d'un monte di miglio, che è un aggregato di parti discontinuate, se ne può muover un sol grano senza muovern'altri, ciò non si farà operando inconsideratamente, con buttarvi dentro, v. g., una pietra o agitarvi un bastone, perchè in questa guisa si muoveranno, oltre a' grani tocchi dal sasso o dal legno, moltissimi altri, e vi si farà grand'agitazione e perturbazion di parti: ma chi vorrà muover un sol grano, bisognerà che con un piccolo stilo ne tocchi un solo, e con gran diligenza lo spinga da una parte, e tanto maggior esquisitezza vi bisognerà, quanto i corpuscoli componenti saranno più sottili; ond'io credo che con gran fatica anco il Sig. Colombo stesso potrebb'andar separando l'un dall'altro, movendon'un sol per volta, i grani del cinabro e dell'azurro finissimo. Veggasi, dunque, quant'è vana e fuor del caso l'esperienza del Sig. Colombo per provar la continuità dell'acqua col gettarvi dentro una pietra, e osservar che al moto delle prime parti tocche dal sasso se ne muovon altre. S'e' voleva servirsi di tal prova, bisognava prima ch'e' ci insegnasse a determinar le parti dell'acqua, sì che noi sapessimo pigliar una sola senza prenderne molte, e che poi ci desse strumenti così sottili e maniera d'operar così diligente, che noi potessimo muover una di dette parti, al cui moto ci si facesse poi manifesto che di necessità molt'altre si movessero. Ma in tal operazione, quando far si potesse, credo che l'esperienza mostrerrebbe 'l contrario di quel che 'l Sig. Colombo si pensa; perchè sì come in un monte di sottilissima polvere si vede un leggier venticello andarne superficialmente levando molte particelle, lasciando l'altre immote, così crederò io che i medesimi venti vadano portando via con i loro sottilissimi aliti le supreme particole dell'acqua d'un panno o d'una pietra bagnata o dall'acqua contenuta in un vaso, non movendo altre parti che le sole che si separano da quelle che restano: e se noi volessim'ancora strumenti più sottili e operazion più esquisita, direi che guardassimo i raggi del sole, osservando con quanta diligenza vanno separando le supreme e minime particole dell'acqua, le quali dall'esalazion ascendente vengon subblimate, ed essendo ridotte forse ne' primi corpicelli componenti, son a noi invisibili a una a una, e solo ci si manifestano moltissime 'nsieme sotto specie di quel che noi chiamiamo vapore o nebbia o nugole o fumi o cose tali. Che poi vento gagliardo sollevi l'arena e ce la rappresenti discontinua e polverizata, e ciò non faccia nell'onde del mare, le quali ritengon le parti dell'acqua unite (che e un'altra dell'esperienze del Sig. Colombo), ciò non avvien, com'e' crede, perchè le parti dell'acqua sien continue; anzi procede dall'esser loro sommamente discontinuate, e dall'esser tanto, tanto e tanto piccole, che tra esse non possono entrar le particole dell'aria commossa per separarle e sollevarle in profondità, ma solo va portando via le superficiali, e le altre commovendo con la sua immensa forza: ma perchè i grani dell'arena son tanto grandi, che tra essi non solamente posson penetrar le particole minime, dell'aria, ma continuamente ve ne sono mentr'ella è asciutta, quindi è che i cavalloni (per usare 'l termine del Sig. Colombo) dell'acqua si commuovon solamente e non si dissolvono, ma quei dell'arena si commuovono e dissolvono ne' lor primi grani componenti.
Mette 'n questo luogo alcune interrogazioni il Sig. Colombo, domandando che altro possa cagionar l'ondeggiar di quelli arginetti bistondi intorno all'assicella, se non la corpulenza dell'acqua; domanda anco che simil effetto se li mostri ne' corpi che non son continui: ma s'io avessi a mostrargli e 'nsegnargli tutto quello ch'e' non vede e non intende, non verrei mai a fine di quest'opera. Pure non voglio restar per questa volta di avvertirlo d'un trapasso ch'e' fa nella prima delle due 'nterrogazioni, dove, dovendo concluder la continuità delle parti dell'acqua, ne conclude in quel cambio la corpulenza; quasi che i corpi discontinui manchino di corpulenza, e che aver corpulenza sia altro che esser corpo. Ma rispondendo al suo intrinseco 'ntento, dico primamente, esser verissimo che i corpi che fossero veramente continui, avrebbon le parti attaccate insieme; anzi, quand'e' voless'anco che le fossero attaccate in maniera che per modo alcuno non si potesser separare, forse 'l Sig. Galileo gliel'ammetterebbe: ma non val già 'l converso di tal proposizione, che tutti i corpi le cui parti stanno congiunte, sì che non si separino senza violenza, sien di necessità continui, come di sopra ho mostrato. E quando nell'altra 'nterrogazione 'l Sig. Colombo domanda che se gli mostri un tal effetto, cioè d'aver le parti coerenti in un corpo che non sia continuo, senza molto dilungarsi gli dico che guardi i medesimi arginetti dell'acqua, i quali si sostengono e son d'un corpo discontinuo, non avendo egli nè altri per ancora provato l'acqua esser continua. Non vi accorgete, Sig. Colombo, quanto frequentemente incorrete nell'error di suppor quel che è in questione?
Facc. 19, v. 12 [pag. 330, lin. 22-23]: Voi ne mostrate l'esperienza, dell'acqua esser il corpo continuo, quando mettete 'l cilindro, cioè una colonna, in un vivaio etc.
Séguita il Sig. Colombo di voler convincere 'l Sig. Galileo con l'esperienza addotta, ben che in altro proposito, da lui medesimo; e produce una colonna che si tuffi successivamente in un vivaio, dove quando si parton dal luogo, nel quale entra la colonna, quelle parti d'acqua che occupavan quello spazio, successivamente tutte le altre si mutano; il che non fariano se 'l corpo non fusse continuo, ma di parti disgregate e divise (dice egli) dal tutto, come l'arena e la farina ammassata. Dato e non conceduto tutto questo discorso, io non veggo che il Sig. Colombo mi provasse altro, se non che l'acqua non fa l'istesso effetto nel porvi dentro un solido, che fa l'arena o la farina; ma che per ciò e' possa inferire: «Adunque l'acqua non ha le parti discrete», non segue altramente, se prima e' non mi prova che tutti i corpi discontinuati, nel mettervi dentro un solido, faccino 'l medesimo che l'arena e la farina. Dove io per sua intelligenza l'avvertisco, che diversi aggregati di parti discrete fanno diversi effetti nel mettervi dentro un solido, secondo che dette parti saranno di questa o di quella figura, di superficie aspra o tersa, di peso maggiore o minore. Se 'l vivaio fosse pien di globetti, meglio vi s'immergerebb'un solido, che se fusse pieno di dadi, perchè quelli sfuggendo risalterebbon sopra facilmente, e questi con gran difficultà; più facilmente cederebbe la crusca, che se fussero scaglie di ferro, essendo quella men grave di queste; ma se i globetti fussero di perfettissima figura sferica e esquisitamente lisci, nè più gravi in specie del solido che vi si dovesse porre, speditissimamente cederebbono, e di più, nel cavarne fuori 'l solido, tornerebbono a spianarsi egualmente senza lasciar cavità veruna, il che non faranno altre figure angolari e scrabrose. Perchè, dunque, io trovo al Sig. Colombo un aggregato di parti discontinuate, che cede facilmente all'immersion d'un solido e scorre prontamente a riempier lo spazio, può molto ben creder che l'acqua ancor essa poss'esser un simile. Mi meraviglio ben sommamente ch'e' soggiunga, per levar (com'e' dice) l'occasion del sottilizare (ed ha ben cagione di sfuggire 'l sottilizare, perchè le prove sue non averanno mai, per mio credere, apparenza di concludenti, se non dove con poca sottigliezza si filosofasse), soggiunga, dico, che la rena, cavatone la colonna, non fa l'effetto dell'acqua, perchè le parti di questa tornano a riempiere il luogo e resta tutta la superficie piana, ma non già le parti di quella, anzi ne cade una parte e non finisce di riempiervi; maravigliomi, dico, come il Sig. Colombo sì presto contradica a sè medesimo, o, per dir meglio, voglia che l'istesso accidente serva per provar egualmente conclusioni contrarie. Dieci versi di sopra, dal sostenersi che fanno gli arginetti dell'acqua, ne ha argomentata la sua continuità, e ha creduto che un tale effetto non poss'aver luogo in un corpo discontinuato; e ora, dal veder l'istesso effetto negli argini della rena, cioè che si sostengon senza scorrere a riempier lo spazio tramesso, e che quelli dell'acqua non si sostengono, n'inferisce parimente, l'acqua esser continua e non come l'arena: tal che 'l suo discorso, ridotto al netto, cammina così: «Perchè gli arginetti dell'acqua si sostengono, l'acqua è continua», e in oltre: «Perchè gli arginetti dell'acqua non si sostengono come quei della rena, però l'acqua è continua»: dove che, per maneggiar bene le sue premesse e esperienze, il discorso doveva proceder così: «Se gli argini dell'acqua, perchè si sostengono, fosser argomento di continuità, molto più continua sarebbe la rena, che più si sostiene; ma perchè la rena di certo è discontinuata, adunque 'l sostenersi dell'acqua può stare con la discontinuità delle sue parti». Bisogna dunque al Sig. Colombo scoprir altri particolari nell'acqua, e altri in un aggregato di parti sicuramente disgiunte, se vuol produr ragioni almen apparenti per la sua conclusione.
Facc. 19, v. 23 [pag. 330, lin. 33-35]: Non possono in modo alcuno i corpi flussibili, toccando altri corpi della natura loro, star separati com'i corpi sodi, ma si mescolano e uniscono, se non vi è qualità repugnanti per qualche accidente etc.
Passa ad un'altra considerazione, e dice che i corpi flussibili, toccando altri corpi della natura loro, non posson in modo alcuno star separati come i corpi sodi, ma si mescolano e s'uniscono, se non vi sono qualità repugnanti per qualche accidente etc. Qui se li potrebbe conceder tutto 'l discorso; perchè, primieramente, non inferisce nulla assolutamente, essendo non un silogismo, ma una sola proposizione, independente dalle cose antecedenti e senza connessione alcuna con le seguenti, ond'ella resta sospesa e vana. Secondariamente, quando ben altri si contentasse di prenderla così in aria, non troverà in lei cos'alcuna attenente al proposito di che si tratta; avvenga che, in vece di provar che l'acqua sia un continuo, propone solamente, lei come flussibile mescolarsi con gli altri fluidi della natura sua, proprietà che non compete a' corpi sodi. E finalmente, se tal discorso si considera con attenzione, cavandone quel più di sostanza che trar se ne possa, si troverà concluder tutto l'opposito di quel che era in mente del suo autore, dico stando anco dentro a' termini della sua medesima dottrina.
E prima, io non credo che 'l Sig. Colombo sia per metter difficultà nel conceder, la continuità esser assai men dubbiosa ne' corpi solidi e duri, come sono i metalli, le pietre, le gemme e simili, che ne' fluidi, come l'acqua, l'aria etc., e massime se riguarderà la sua prima definizione, che fu che il corpo continuo era tale, che di esso non si poteva muovere una parte che non se ne movesser molte o tutte; e a tutti gli uomini credo che sia manifesto che, v. g., al moto di una parte di un diamante si muoverà il tutto, se ben fusse grande come una montagna, il che non seguirebbe con tanta necessità e evidenza in altretant'acqua o aria, della quale se ne può muover qualche parte senza muover il tutto. Ora, stante questo, e posto di più per vero quel che al presente egli scrive, cioè che i corpi sodi (li quali già in dottrina sua son sicuramente di parti continuatissime), tocchinsi quanto si vogliono, non per questo si mescolano nè s'uniscono, e che, per l'opposito, i flussibili non posson in modo alcuno toccarsi senza mescolarsi e unirsi, si potrà di tali proposizioni formar contro al Sig. Colombo tale argomento: Quei corpi li quali indubitabilmente son continui, toccandosi non si mescolano nè s'uniscono; ma i corpi flussibili, come l'acqua, toccandosi, necessariamente si mescolano e s'uniscono; adunque il necessariamente mescolarsi e unirsi de' corpi fluidi molto più probabilmente arguisce in loro la discontinuità che la continuità. Or quali irrisioni areste voi, Sig. Colombo, usate verso il Sig. Galileo, se mai vi fuss'accaduto 'l ritorcergli contro in simil guisa alcun de' suoi argomenti? Ma io altre cose considero in tal discorso. E prima, voi stesso vi scoprite e manifestate manchevole nel vostro argomentare, mentre dite che i corpi flussibili, toccandon'altri della natura loro, non posson in modo alcuno non mescolarsi, e poi soggiugnete: se però non vi sono qualità repugnanti per qualche accidente, dal che s'inferisce, che quando vi fosser tali qualità, potrebbono non mescolarsi: e se questo è, cioè che mediante tali qualità potrebbono non mescolarsi, chiara cosa è che 'n qualche modo possono non mescolarsi; come dunque dite avanti, che non possono non mescolarsi in modo alcuno? In oltre, questo che voi dite è manifestamente falsissimo, perchè il vin rosso, messo con diligenza sopra il bianco, lo tocca, nè punto si mescola con lui: ma se per sorte voi aveste questa rossezza e bianchezza per di quelle qualità repugnanti per accidente e proibenti il mescolamento, e voleste che tali corpi flussibili fossero della medesim' essenza e qualità per appunto, io vi proporrò un mezo bicchier d'acqua, e vi dirò potersi sopra quella aggiugnerne altra, la quale la toccherà senza mescolarsi con lei. Ma senza altre fatture, la metà dell'acqua che è in un vaso, non tocch'ella l'altra metà senza mescolarsi seco? Non credo però che voi crediate che ella stia in un continuo rimescolamento. Ma più vi dico, per maggior intelligenza, che si posson far due vasi di vetro congiunti insieme, uno superiore all'altro, li quali communichino per un canaletto non molto largo; e se l'inferiore si empierà di vin rosso e quel di sopra d'acqua o di vin bianco, si vedrà il vin rosso ascendere, e calare il bianco o l'acqua superiore, e passar l'uno per l'altro liquore senza confondersi e mescolarsi; e in somma vedremo 'l solo contatto non bastar per fare 'l mescolamento, ma bisognarvi qualche agitazione e commozione. E più dirò, che chi ben considera questo mescolamento, credo che da esso trarrà più presto coniettura di discontinuazion delle parti de' corpi che si mescolano, che per l'opposito; perchè, se io metterò due corpi solidi 'nsieme, ancor che alcuno molto gli commovesse e agitasse, mai non si mescolerebbono; ma se i medesimi si dividessero in molte parti, queste più agevolmente si confonderebbono e ci apparirebbono mescolarsi; e finalmente, molto più farebbon ciò se in sottilissima polvere si risolvessero, che è quant'a dire che sommamente si discontinuassero. Ora, perchè le parti de i fluidi agitate e commosse assai prontamente si confondono e mescolano, quindi è che molto ragionevolmente discontinuatissimi si devono stimare: e veramente io non mi saprei mai immaginare come e perchè due corpi veramente continui, nel congiugnersi si dovessero o potesser mescolar insieme e confondersi; ma ben senza niuna repugnanza intendo potersi fare il mescolamento tra corpi discontinuati e dissoluti in parti minime innumerabili.
Facc. 19, v. 27 [pag. 330, lin. 35-38]: Ma non si vede questo anche ne' misti, che son composti di nature contrarie? Il corpo umano e tutti gli altri corpi de gli animali non son continui? Domin, che voi diciate che sien le parti separate dal tutto? etc.
Qui passa il Sig. Colombo a voler dimostrare che anco ne' misti si trovi una continuità di parti, benchè composti di nature contrarie, e dice: Il corpo umano e tutti gli altri corpi delli animali non son continui? Domin, che voi diciate (seguita egli) che sien le parti separate dal tutto etc. Io non so a che proposito faccia sì gran trapasso, conforme al suo terzo artifizio, dicendo che gli uomini e gli animali sien corpi continui: e veramente questa mi è giunta la più nuova e inaspettata proposta del mondo, perchè, concedutagliel'anche, non però seguita che l'acqua, della qual sola si disputa, sia un continuo. E posso concedergli che gli uomini e gli animali e tutte le altre cose sien continue, eccetto l'acqua, e tanto basterebbe per piena risposta in questo luogo; ma non voglio restar d'avvertirlo d'altr'errori ch'e' commette.
E prima, egli medesimo reprova sè stesso, per non si ricordar di ciò che poc'avanti aveva scritto. Disse di sopra, circoscrivendo 'l corpo continuo, quello esser tale, che di esso non se ne poteva muover una parte senza che se ne muovesser molte o tutte; dal che, come notai, per necessaria consequenza, nella sua dottrina ne seguita, che quel corpo del qual se ne potesse muover una parte senza muoverne molte o tutte, non fusse un continuo, ma discreto. Ora, stante questa determinazione, dico al Sig. Colombo che io posso muovere un dito di un uomo, un occhio, un orecchio, un capello, il sangue, il fele, la milza e altre parti une, senza muovern'altre; adunque per la sua medesima dottrina, o l'uomo non è un continuo, o egli imperfettamente ha circoscritto esso continuo: e se forse e' dicesse che queste non son parti une, ma che ciascheduna ne contien molte, toccherà a lui a dichiarar quali sono le parti une, e a mostrar che elle non si posson muover sole. Séguita di meravigliarsi che altri volesse dire che l'uomo avesse le parti separate dal tutto, e che esso non fusse un uomo, ma una massa di più corpi. Prima, tal meraviglia è superflua, non avendo il Sig. Galileo detto mai che l'uomo non sia uno nè continuo; di più, io non so come 'l Sig. Colombo possa non conceder che almeno 'l sangue, gli altri umori e gli spiriti non siano divisi da i vasi che gli contengono. Nè veggo, appresso, perchè l'uomo non possa esser uno, essendo composto di alcune parti contigue solamente; in quel modo che le parti che formano un orivolo, e che concorron con diversi movimenti a un movimento solo primieramente inteso, son tra di loro solamente contigue, e tali è necessario che sieno, dovendo far tanti moti differenti, non potend'un vero continuo esser capace d'altro che d'un moto solo: anzi è necessario che la carne tutta, sì come anco l'esperienza stessa ci mostra, sia diversi aggregati di innumerabili filamenti per differenti versi ordinati, altramente non si potrebbon fare i movimenti varii che si fanno; perchè nel corpo che fusse veramente continuo, non cade distinzione di positura di parti, e come questa non vi fusse, un muscolo non potrebbe tirar più per questo verso che per quello, onde o non si farebbe moto alcuno o inordinatissimo e senza alcuna prescrizione. In oltre, la continua traspirazione e 'l ricorso che fanno gli spiriti più sottili per tutte le parti, argumentano una somma discontinuazione nella sustanza, non si potendo intendere come un corpo continuo possa penetrar un altro continuo. E in somma, se il Sig. Colombo non m'avesse con sue maniere di discorrere messo in dubitazione, io avrei sempre tenuto per fermo che un uomo non potesse mai esser talmente continuo, che in lui niente fosse di discreto. Da questi argomenti conclude il Sig. Colombo la continuità dell'acqua, e volto al Sig. Galileo dice: Siate voi ancor chiaro, che l'acqua sia un corpo continuo, e che le sue parti sieno unite, e non separate e ammassate come la rena? Ma di qual valore siano tali sue prove, credo ormai che possa esser noto da quant'ho detto.
Facc. 19, v. 38 [pag. 331, lin. 5-7]: Séguita a scrivere: In conseguenza della continuità, non credo che neghiate la viscosità e corpulenza: perchè io vi domanderò, d'onde nasca, che i corpi misti si tengono uniti e attaccati insieme.
Qui, conforme al resto, argomenta il Sig. Colombo a rivescio di quello che dovrebbe, ponendo che la viscosità nell'acqua necessariamente conseguiti alla continuità, dove 'l porla è assolutamente superfluo, nè v'ha ella che far nulla; perchè 'l corpo che fusse veramente continuo, non ha bisogno di visco o colla che tenga unite le sue parti, ma ben con ragione si può domandare qual sia il visco che tien attaccate le parti di un aggregato discreto: e così ragionevolmente domanderà alcuno, qual sia il glutine che tiene attaccate le parti di una tavola commessa di mille pezzetti di marmi; ma il ricercar tal viscosità in un sol pezzo di marmo, che forse, secondo il Sig. Colombo, è un corpo solo continuato, sarebbe ben gran semplicità: e però se l'acqua è un continuo, non si ricerca in lei viscosità alcuna. Non vien, dunque, in verun conto la viscosità in consequenza della continuità. Oltre che, io non so quanto ben in dottrina peripatetica si possin a i corpi semplici e primi attribuir altre qualità che le prime. Però se il Sig. Colombo fosse qual e' pretende di persuadere, cioè filosofo peripatetico, doveva pensare che la viscosità, come qualità non prima, non può competere a' corpi semplici. Quanto poi al quesito che e' fa, d'onde nasca che i corpi misti si tengon uniti e attaccat' insieme, io non voglio per adesso mettermi a determinar questo problema, il quale io stimo esser molto più difficile di quello che lo reputi il Sig. Colombo; ma dirò bene che l'attribuirlo alla viscosità dell'acqua nella maniera che egli fa e per gl'indizii che e' n'adduce, non mi par che concluda cosa alcuna, perchè con altrettante e più conietture e esperienze si concluderà tutto 'l contrario. Egli dice che questo attaccamento non può venir dalla terra, perchè, essendo arida, non ha viscosità nè unione, e però non può darla ad altri; e però conclude, nascer dall'acqua. Ora io, fermandomi su questa regola addotta dal Sig. Colombo, che altri non possa dar quello che non ha per sè, dico che parimente convien che di necessità segua che, dando altri di quello che ha, non ne possa dar più che egli stesso ne possiede, perchè se ne desse più, verrebbe in consequenza a dar quello che e' non aveva; il che sarebbe contro alla regola. Se dunque nel misto la terra non apporta tenacità alcuna, non ne avendo per sè, ma tutto vien dall'acqua, adunque o bisogna dire che l'acqua, contro alla regola, dia quello che non ha, o che ella sia più viscosa e tenace di tutti i misti; il che è tanto falso, quanto che si vede in infiniti misti una viscosità e tenacità di parti grandissima, e nell'acqua si disputa se ve ne sia punta, anzi, per meglio dire, è manifesto non ven'esser tanta che sia sensibile. In oltre, chi di fermo discorso s'indurrà a creder che dall'acqua dependa la tenacità con la quale le parti della terra s'attaccano insieme, vedendo noi per esperienza che le medesime parti molto più fissamente si tengono dopo che, seccandosi la terra, il sole ne averà estratta l'acqua? Ma più, se noi considereremo quali effetti cagionerà il fuoco nella medesima massa di terra rasciugata, osservando come prima egli raddoppia la tenacità, poi gliel'accresce ancora eguale a quella delle pietre, e finalmente la vetrifica, chi non dirà esser forza (stante la proposta regola) che il fuoco sia mille volte più viscoso dell'acqua, conferendo egli una tanta consistenza e tenacità di parti? tutta via io non credo che il Sig. Colombo lo reputi tale. Voglio per tanto inferire che egli è molto lontano dal ben filosofare circa questa materia difficilissima, mentre va fondandosi sopra tali regole ed osservazioni, dalle quali (se altrimenti non vengono maneggiate) non si trarrà altro che confusione, mostrandosi piene di contrarietà. Eccovi che l'acqua ammollisce e dissolve molte gomme, come l'arabica e altre di diversi alberi e draganti; ma un simil effetto fa il fuoco nella cera, nella pece, nel mastice e in cent'altri bitumi: l'olio mescolato con la cera gli scema la viscosità, ma aggiunto alla pece greca gliel'accresce fuor di modo: il fuoco indurisce il pane, e l'acqua lo dissolve; all'incontro il fuoco dissolve quella massa di gesso che poco innanzi con l'acqua s'era impastato e ridotto duro come una pietra. Quante ragie, colle e bitumi ci sono, che sentendo ogni piccola umidità mai non attaccano, ma vi bisogna 'l fuoco! Come dunque ne' misti la viscosità non vien se non dall'acqua? Anzi i legni che son attaccati con la colla, sentendo l'umidità si staccono: or veggasi ciò che faranno le parti dell'acqua, che non son mai senza l'umido. E per levar al Sig. Colombo l'occasione di multiplicar gli errori con l'introdur qualche distinzione di per modum recipientis etc., consideri il zucchero e altre materie che si dissolvono dall'acqua e anco dal fuoco. Dice il Sig. Colombo che l'acqua dà tanta tenacità alla farina, che s'attacca e divien come colla; ma d'onde sa egli che non sia più presto la farina che dia la viscosità all'acqua? anzi questo ha per avventura più del verisimile, perchè questa, che è seconda qualità, con più ragione si può creder che risegga nella farina, come corpo misto, che nel semplice elemento dell'acqua; e di più l'esperienza ci mostrerrà, le parti della farina non esser meno coerenti che quelle dell'acqua, perchè io credo che un uomo più facilmente camminerà per l'acqua standovi dentro sino alla gola, che se stesse nella farina. Nè occorre che il Sig. Colombo apporti in contrario l'esperienza delle parti dell'acqua che si sostengono, come si vede nelle gocciole, perchè, per sostenersi così, non ci è bisogno di viscosità, bastando il semplice toccamento esquisito, come appare in molte falde di vetro ben piane e terse, le quali tutte si sostengono col semplice toccarsi: anzi veggasi quanto sia debole nell'acqua questa virtù per la quale le sue parti si sostengono, che, non se ne potendo sostenere 'n figura di gocciola se non piccolissima quantità, come se gli comincerà a aggiugner della farina, le gocciole si potranno reggere assai maggiori, tal che con molta farina si reggeranno moli grandissime di pasta, le cui parti resteranno anco tanto più coerenti, quanto più si verrà scacciando l'acqua tra esse contenuta. Non si può dunque dire, questa tenacità riseder più nell'acqua che nella farina. Credo bene che con molto più verità si possa dire, che 'l voler argomentar da simili esperienze, e col suppor per vera la regola del nemo dat etc., o del propter quod unumquodque tale etc., sia un perdimento di tempo; perchè, quanto all'esperienze, ci porranno, come ho detto, in grandissime confusioni, e ci ridurranno a quelle estreme miserie, per risponder all'opposizioni insolubili, di formarci strane chimere di umidi innati e radicali (a,' quali ricorre 'l Sig. Colombo), che eccitati dal fuoco, con l'aiuto dell'umido dell'acqua, vengono in superficie della farina e in manifesto, e si congiungono con l'umido estrano, e partito poi l'estrano vi rimangon loro a far l'uffizio medesimo di tener congiunte le parti, il che non posson fare senza quell'umido strano, perchè il fuoco abbrucerebbe la farina, non avend'ella umido a bastanza per difendersi etc.: le quali fantasie se fussero tanto vere e dimostrate quanto son con franchezza profferite, basterebbono per aquistar gran credito a' loro ritrovatori. Quanto poi alle regole, credo che abbino bisogno di tante limitazioni, che più sieno i casi eccettuati che i compresi sotto quelle. Lo stagno è metallo molto tenero, e pure mescolato col rame gli dà una durezza grandissima: l'acciaio riceve estrema durezza dal fuoco e dall'acqua insieme, anzi dall'aria ancora, con la qual si temperano coltelli e spade di tempera meravigliosa, movendo il coltello infocato con gran velocità contr'all'aria: un canapo riceve dall'umido gran durezza, e dal caldo si ammollisce: una corda di minugia fa tutto 'l contrario. Posso dunque dir con ragion al Sig. Colombo quello che egli senza ragione dice al Sig. Galileo alla facc. 17 [pag. 328, lin. 35-36]: Non concludono cosa alcuna i vostri sofistici e fallaci argomenti.
Facc. 20, v. 10 [pag. 331, lin. 17-20]: Ricordatevi, a car. 56 [pag. 122, lin. 10-15], che voi fate abbassar la testa all'amico, e gli mostrate che, nel cavar l'assicella fuor dell'acqua, l'acqua seguita sopra 'l suo livello, per la grossezza d'una piastra, di star attaccata alla superficie di sotto etc.,
Perchè 'l Sig. Colombo ha tolto a impugnare 'l vero e difendere 'l falso, quindi è che ogni sua ragione e ogn'esperienza sempre o si ritorcerà contro di lui o si mostrerà molto lontana dal proposito. Egli 'ntende di voler provare la continuità e viscosità nelle parti dell'acqua; per lo che produce l'esperienza d'una falda, che nell'esser estratta fuor dell'acqua, vien seguita da un'altra falda d'acqua che gli aderisce: e non s'accorge che quest'esperienza fa contro di lui. Perchè io non credo già ch'egli stimi che dell'acqua e della falda di piombo o d'altra materia si faccia un continuo, nè che tali due falde sien altro fra di loro che toccantisi: ma se questo semplice toccamento basta per far che buona parte d'acqua si sollevi dietro alla detta falda e gli resti attaccata, perchè si deve far difficultà e negare che un simile o più esquisito toccamento delle particelle minime dell'acqua tra di loro poss'esser bastante a far che le si seguitino e che scambievolmente si sostenghino? E tanto meno si dee ciò revocar in dubbio, quanto possiamo, qualunque volta ci piace, veder molte falde sottili di vetro reggersi con un simil toccamento semplice.
Facc. 20, v. 14 [pag. 331, lin. 21-23]: Come anco dite a 39, concedendo la violenza alla divisione per la resistenza del divisibile. Segno è che non solo è continua, ma viscosa ancora; il che non può fare nè la rena nè la farina.
Se il Sig. Galileo concede la resistenza alla divisione, la concede dove si ha da dividere, e non dove non si fa division ↑ alcuna ↓: e quel che da lui viene scritto a car. 39 [pag. 102-108], è tutto l'opposito di questo che pone il Sig. Colombo; il quale è forza che non legga i periodi del Sig. Galileo interi, e massime quando 'ncontra qualche passo nel quale gli paia che quello contrarii a sè stesso ↑ o al vero ↓, ma bisogna ch'e' si fermi a mezo, per non trovar le seguenti parole che possin diminuirgli 'l diletto preso dall'↑ immaginato ↓ error dell'avversario; e bisogn'ancora ch'e' creda che gli altri lettori sien per far l'istesso, o veramente (e questo mi consuona più) egli si contenta d'esser letto da quelli solamente, che non son per veder mai l'altro trattato. Le parole del Sig. Galileo son queste, a facc. 39, v. 24 [pag. 103, lin. 12-15]: Non occorre che ricorriamo alla tenacità che abbino le parti dell'acqua tra di loro, per la quale contrastino e resistano alla divisione distrazzione e separazione: sin qui vorrebbe che si leggesse 'l Sig. Colombo, acciò paresse che 'l Sig. Galileo concedesse la tenacità e la resistenza alla divisione nelle parti dell'acqua, che l'altre volte ha negata; ma le parole seguenti lo disturbano, le quali sono: perchè tal coerenza e repugnanza alla divisione non vi è. È dunque manifesto, ch'↑ e' ↓ si serve del primo artifizio.
Facc. 20, v. 17 [pag. 331, lin. 23-26]: E la farina, per dar un esempio che lo sanno le donne, mescolata con l'acqua, non solo si unisce e si fa un corpo continuo, ma si fa, mediante l'acqua, viscosa e si attacca; e lo confessaste disputando dinanzi a l'AA. SS., non sapendo scappare.
Questo argomento della farina con l'acqua fu prima del Sig. Papazzoni avanti loro Altezze, se bene il Sig. Colombo, per avvilirlo, lo propone come esempio di donne; e veramente, come parto di quell'ingegno, muov'assai, parendo di prima fronte che, se l'acqua fa esser continua la farina, essa debb'esser molto più tale. Ma considerando meglio, si vede che da questo modo d'argomentare, ↑ come diffusamente s'è discorso di sopra, ↓si può parimente concluder tutto 'l contrario, perchè l'acqua dissolve quei corpi che son tenuti continui, come biscotto, zolle di terra, pezzi di calcina; anzi tutti i corpi metallici, che pur son di parti coerentissime, si dissolvono in particole minutissime con liquidi com'acqua: sì che si potrebbe concluder ↑ per ↓la discontinuità dell'acqua, ogni volta che il modo d'argomentar del Sig. Papazzoni avess'auto efficacia, dicendo: Quel corpo che discontinua gli altri corpi, è discontinuo; l'acqua gli discontinua; adunque l'acqua è corpo discontinuo. E sia con pace di quel signore, al quale fu risposto dal Sig. Galileo quanto bisognava e conveniva: e se il Sig. Colombo fusse stato presente alla disputa, son sicuro che e' non arebb'auto occasione di ridursi a questi termini, di stampare atti e parole di questo e di quello, occorse in congressi particolari, e massime non v'essendo egli intervenuto, e 'n conseguenza non sendo sicuro di scrivere 'l vero; e veramente io credo che 'n tutti i libri de' filosofi non s'abbino esempli di così fatti filosofamenti. Comprenda 'l giudizioso lettore da questo, e da simili altri luoghi, con qual affetto si sia messo quest'autore a scriver queste contradizioni. ↑ Che poi 'l Sig. Galileo rispondesse a sufficienza al Sig. Papazzone, lo potrà conietturar il Sig. Colombo e ogn'altro da queste cose che ho scritte io, le quali posso chiamar rigaglie d'alcuni ragionamenti che ho sentiti in più volte incidentemente fare al Sig. Galileo; e son sicuro che quand'e' si mettesse a trattar ex professo quest'argomento, arebbe da dir molto più. ↓
Facc. 20, v. 29 [pag. 331, lin. 33-36]: Imperochè si risponde, che è l'umido ad ogni modo che lo tien insieme, e sì come l'umido dell'acqua aggiuntavi, mentre che non fu cacciato, lo tenne unito e continuo, così con l'aiuto di quello etc.
Di quest'umido radicale, che viene in superficie e 'n manifesto, non so che altro dire, solo che avrei desiderato che 'l Sig. Colombo spiegasse in che corpo o parte di corpo è quella superficie dove l'umido viene, e come egli se n'avvede, e come viene in manifesto: moltitudine di conclusioni tutte ignotissime, come quelle che son remotissime e dal senso e dalla ragione, nè, per mio credere, hann'altra esistenza che la chimera che altri si figura; modi d'argomentare che, se avesser alcun'efficacia, saria facilissima cosa 'l provare qualsivoglia mostruosa stravaganza. Se dunque 'l Sig. Colombo non ne fa altra prova, dirò che il dubbio risoluto con discorso non intelligibile resta molto più intrigato che sciolto. L'esempio dell'argento fuso non dichiara nulla, anzi riduce sempre a concetti e conclusioni molto più astruse.
Facc. 21, v. 14 [pag. 332, lin. 17-19]: Aggiungo che tutti i corpi che si distendono e son flussibili, son continui e viscosi; che perciò le parti, stand' attacat' insieme, seguon tutte le prime che si muovono e si dilatano.
Che tutti i corpi che si distendono e son flussibili, sien continui e viscosi, non solamente non deve esser supposto per vero e noto, ma ha tanto maggior bisogno di prova, quanto molte esperienze ci mostrano 'l contrario. Moltissime polveri finissime si distendono e son flussibili, come, v. g., quelle de gli orivuoli; nè però sono un corpo continuo, nè viscoso. In oltre, se all'esser continuo e viscoso ne vien in conseguenza che tutte le parti seguitin le prime che si muovono e si dilatano, come qui scrive il Sig. Colombo, adunque i corpi de' quali le prime parti che si muovono e si dilatano non son seguite da tutte l'altre, non saranno nè continui nè viscosi: ma tale appunto è l'acqua; perchè se da un vaso d'acqua io ne solleverò una particella, tuffandovi prima un dito e poi tirandolo fuora e lentamente alzandolo, tutte l'altre parti non seguono altrimenti quella che aderisce al dito, ma l'abbandonano; e, quel che più importa e deve esser considerato, non tutta l'acqua si separa dal dito, ma gliene resta attaccata una parte; onde si scorge che più facilmente si separano le parti dell'acqua l'una dall'altra, e meno stanno attaccate fra di loro che al dito o ad altro corpo: e perchè non si può dir che dell'acqua e del dito si sia fatto un continuo, adunque molto meno ciò si potrà inferir delle parti dell'acqua tra di loro; inferir, dico, dal loro stare attaccate, che le sien tra di loro continue, poi che tale attaccamento è più debole di quello che vien dal contatto dell'acqua e del dito. Di più, quel che dovrà parer più strano al Sig. Colombo, l'acqua che da un piccol foro, che sia nel fondo d'un vaso, vien fuora e cade al basso, non vien congiuntamente seguita dalle successive parti, se non per brevissimo intervallo, dopo 'l quale esse parti si separano, e continuandosi 'l moto, più e più si distaccano; sì che venendo da qualche notabile altezza, si conducono in terra divise in piccolissime stille. E che solo per brevissimo spazio scendino le dette parti congiunte, si conoscerà ricevendole con un bicchiere, nel quale, mentre l'acqua dello spillo cade unita, ella vien riceuta senza strepito, non vi facendo percossa; ma abbassando e allontanando a poco a poco 'l bicchiere, subito che si arriva al termine dove le parti dell'acqua cadente si cominciano a disseparar fra di loro, si comincia altresì a sentir lo strepito delle lor percosse sopra l'acqua contenuta nel bicchiere. Il medesimo effetto, d'andar solamente per breve spazio congiunte, si vede nelle parti dell'acqua d'un zampillo che salti all'insù: tal che, se quel corpo del quale le parti non si mantengono attaccate, nè scambievolmente si seguon tutte l'una l'altra, non è continuo, l'acqua senza dubio sarà discontinuata. In oltre, io non so da quali ragioni o conietture si sia lasciato persuadere il Sig. Colombo, che tutti i corpi che si distendono sien continui; anzi mi par che questo distendimento sia molto più intelligibile in un composto di parti discrete, che in un continuo. Perchè se io vo considerando quel che convien che si faccia tra le parti d'un pezzo d'argento, mentre si distende in un filo sottile più d'un capello, che prima era grosso com'un dito, non credo che si possa far di meno di concedere che le sue parti, nell'allungarsi il filo, si vadino per il verso della lunghezza separando, per dar ricetto a quelle che, nell'assottigliarsi 'l filo, si muovono per traverso e si vengono a frammetter tra quelle che si vanno movendo per lunghezza; onde sia necessario che tra le parti di esso argento si vadino mutando posizioni e accompagnature, e 'n conseguenza toccamenti, sì che tal particella che da principio era prossima a un'altra, se gli trovi in fine molte braccia lontana, essendo tra esse succedute molte di quelle che traversalmente si muovono nell'assottigliarsi il filo. Questa trasposizion di parti, questo mutamento d'accompagnature e questi diversi contatti si capiscono facilmente potersi fare in un aggregato di particelle minime; ma l'intender mutazioni di toccamenti in un corpo continuo, che tanto è quanto se dicessimo in un corpo che non ha parti che si tocchino, mi par sin qui che ecceda la capacità del nostro intendimento.
↑ Io non dubito niente, che tutta la difficultà dell'intender questo punto, e quello che sommamente è per perturbare 'l Sig. Colombo e qualche altro, consiste ne l'aver fatto concetto che in un aggregato di parti contigue solamente non possa ritrovarsi un attaccamento gagliardo e una coerenza tenace tra esse particelle, regolando il lor discorso dal vedere gli aggregati di grani minuti e le polveri sottilissime, le particelle delle quali non hanno coerenza tra di loro, nè può il semplice toccamento ritenerle fissamente congiunte. Ma, com'in parte ho detto di sopra e dirò poco a basso, non ogni toccamento di parti basta per tenerle fortemente attaccate, ma quelli solamente che sono tanto esquisiti, che non lasciano tra i corpi che si toccano meati per i quali possa penetrar l'aria o altro corpo cedente, quale è il toccamento di due specchi o della foglia che a essi s'attacca: e l'istessa tenacità si trova tra le particelle de i corpi, le quali sono di tanto estrema picciolezza, che non ammettono tra di loro l'ingresso dell'aria o dell'acqua etc.; e tali si deve credere che sieno le particelle componenti i metalli, le quali nè dall'aria nè dall'acqua comune vengono dissolute, ma sì bene da gli atomi sottilissimi del fuoco, o di qualche altro corpo che sia di parti tanto sottili, che possa penetrare tra i pori di essi metalli. ↓
Facc. 21, v. 16 [pag. 332, lin. 19-21]; Quelle bolle che i fanciulli chia man sonagli, che vedete far alle volte ne' rigagnoli per qualche grossa pioggia, come si farebbon se l' acqua non fosse continua e tenace etc.
Il Sig. Colombo ha impresso nella fantasia, come di sopra ho detto, che i corpi tutti che stanno attaccati insieme sien continui; e, per quel ch'io m'immagino, egli non ha mai posto cura alle tante esperienze che ci mostrano, infinite materie col solo toccamento restar saldissimamente attaccate, tal che dal saldo congiugnimento non si può in modo alcuno concluder continuità tra le parti congiunte. Basta a tenere due corpi attaccati che tra le loro superficie non resti aria nè altra materia distraibile, nè meati per li quali ella vi possa penetrare, perchè tramettendovisi e restando aditi patenti da potervene succeder altra, secondo che i due corpi solidi si vanno separando e allontanandosi, non si sente resistenza alcuna nella separazione. Ora io dico che per far che l'aria che ascende per l'acqua in figura di porzion di sfera, nel sormontar sopra 'l livello di essa si levi, come diciamo, in capo un sottilissimo velo d'acqua, basta che i minimi e primi corpuscoli componenti essa acqua sien così piccoli e di figure tali, che i meati che restano tra di loro, per la lor angustia e piccolezza, sien incapaci de' corpuscoli dell'aria; per lo che toccandosi restano attaccati, nè si potendo tra loro frammetter l'aria, non vi è chi gli separi, e in cotal guisa resterebbon lungo tempo, se l'esalazioni ignee, molto più sottili dell'aria, ascendendo continuamente, non passassero per il velo di esse bolle e lo dissolvessero, subblimando e portando via parte de i corpicelli dell'acqua: perchè, mostrandoci la continua esperienza che l'acqua de' vasi scoperti, e più sensibilmente de' panni bagnati, se ne va ascendendo, non credo che per dir conforme al vero si possa dir altro, se non che ella vien portata via da i detti corpuscoli caldi, come la polvere dal vento. Da questo si fa poi manifesto perchè nè la rena nè la farina fanno le bolle; il che avviene perchè i lor corpicelli non son nè di tal figura, nè di grandezza così piccoli, che l'aria non possa penetrar tra essi, anzi ella continuamente vi è e gli tiene staccati, e non gli solleva perchè l'aria nell'aria non ascende: ma se alcuno con violenza facesse muover dell'aria all'in su per la farina, ne porterebbe in alto molte particelle, nel modo che l'esalazioni ignee sollevano le parti minime dell'acqua; le quali creda pure il Sig. Colombo che mai non si solleverebbono, mai non darebbono il transito ad altri corpi, se fussero un corpo solo continuo, ma resterebbono impermeabili.
Facc. 21, v. 22 [pag. 332, lin. 24-27]: O se per la vostra virtù calamitica l' aria s'attacca e s'unisce all'assicella d'ebano più fortemente che le mignatte alle gambe de' buoi, perchè non direte il medesimo delle parti dell'acqua unirsi insieme, poichè vi è più ragion di simiglianza?
Con qual forza si attacchino le mignatte alle gambe de' buoi, non ho io mai esperimentato: però in questo mi rimetto in tutto e per tutto all'attestazion del Sig. Colombo, che ne deve avere esperienze sicure. Ho ben veduto le lamprede attaccarsi al legno e alle pietre in modo, che un uomo ha delle fatiche a staccarle: ma che fanno queste esperienze, altro che contrariare all'opinione del Sig. Colombo e favorir la vera? Crederà egli forse, per veder questo pesce così fermamente attaccato a un sasso, che di amendue si sia fatto un continuo? Certo no. Adunque se una così forte congiunzione può farsi senza continuità, chi potrà con ragion dubitare, se quella minima coerenza che si vede tra le parti dell'acqua, possa derivar da un sol contatto esquisito? Che poi il Sig. Galileo abbia detto che l'aria si attacchi all'assicella d'ebano per virtù calamitica, non è vero altramente;ma quando l'avesse detto (il che assolutamente è falsissimo) non ha però detto, nè egli nè altri, nè il Sig. Colombo stesso lo può dir con verità, che quella unione sia continuazione, essendo solo col toccamento de gli estremi e, in consequenza, union di contatto. Ma che va toccando il Sig. Colombo particolari tutti diametralmente opposti alla causa sua? Egli che crede che lo star due corpi attaccati sia argomento necessario di continuità, nomina ↑ fortissimi attaccamenti per il semplice contatto, e rammemora ↓ la virtù calamitica? Non ha egli veduto nella Galleria di S. A. S. una catena di ferro di più di trenta libbre star attaccata col solo toccamento a una piccola lastretta d'acciaio, e esser da lei sostenuta per questa virtù calamitica? Ecco dunque un'altra maniera d'attaccar due corpi insieme senza farne un continuo. Tal che si può conceder al Sig. Lodovico quanto ricerca, e glie lo concedo; anzi affermo che dice benissimo, e che non ha detto altrettanto di buono nel suo Discorso: gli concedo, dico, tutto quel ch'e' domanda, cioè che le parti dell'acqua s'uniscono nel medesimo modo a punto tra di loro, che fa l'aria all'assicella; e così ogni mediocre ingegno, e 'l Sig. Lodovico stesso, doverà concludere che, essendo l'aria contigua, e non continua, all'assicella, le parti dell'acqua saranno ancora contigue, e non continue, tra di loro. E già che finalmente 'l Sig. Colombo medesimo è forzato da' suoi proprii detti a confessare che l'acqua sia corpo contiguo, non andiamo più avanti in questa materia, nella quale pur troppo sono stato necessitato a estendermi per la moltitudine de gli errori di questo suo discorso: solo noto com'egli, alla facc. 22, v. 15 [pag. 333, lin. 14-15], vuole che 'l sopranotare dell'ebano dependa solo dalla larghezza della figura e ↑ dalla ↓ resistenza dell'acqua all'esser divisa, e n'invita 'l Sig. Galileo a conceder l'istesso; e di sopra ha introdotta la siccità come cagione del medesimo effetto, con incostanza e contradizione.
Facc. 21, v. 29 [pag. 332, lin. 29-31]: In oltre, se l'acqua non fusse corpo continuo, quand'ella ghiaccia non sarebbe tutt'un corpo, ma si vedrebb'una massa di corpiccioli come la rena etc.
Il Sig. Colombo non mi può negare, trovarsi infiniti corpi così piccoli, che non è possibile vedergli a uno a uno; quali son, v. g., i minimi grani di terra che 'ntorbidan l'acqua, quelli de i colori finissimi, etc. Ora io gli dico che quelli dell'acqua posson esser cento volte minori, e però tanto più invisibili a uno a uno: e se e' non si veggono mentre che l'acqua è fluida, qual cagione vi muove, Sig. Colombo, a volergli veder in sembianza di rena quando è congelata? Forse doventano maggiori? forse si distaccano, sì che s'abbino a veder come la polvere? Non fanno nè l'un nè l'altro, anzi, come l'esperienza ci mostra, stanno più che prima attaccati: e se l'attaccamento non potesse star senza la continuità delle parti, veramente al più che voi poteste dire del diaccio sarebbe ch'e' fusse continuo; ma se la continuità produce questo attaccamento nelle particelle del ghiaccio, non vedete voi come per necessaria consequenza sia forza dire che le particole dell'acqua non sieno altramente continuate, non si vedendo in loro saldezza di unione per un centomillionesimo di quella del ghiaccio? Ma io non direi che le particole del diaccio fossero continue, nè anche che si toccassero più che quando erano in acqua, non ci mancando modo di farle star così fortemente attaccate senza la continuità. Quando poi voi aveste curiosità di veder i minimi dell'acqua distaccati, direi che voi guardaste quel fumo che si solleva nell'asciugarsi un panno al sole o al fuoco: ↑ ma bisogna che voi deponghiate prima quel falso concetto, che l'acqua si tramuti in aria o in vapori che sieno altra cosa che l'istessa acqua. ↓
Facc. 21, v. 35 [pag. 332, lin. 35-39]: Se quando gli stampatori componevano il vostro Discorso aveste osservato che davan acqua alle formette perchè i caratteri si attaccassero insieme e non si scomponessero, son certo che areste dato bando totalmente a questo capriccio di dir che l'acqua non sia viscosa e continua, per non mostrar di saperne manco di loro.
L'acqua che si dà alle formette dalli stampatori, è vero che tiene attaccate le formette; ma non vi accorgete voi come questo è tutto in vostro pregiudizio? Perchè quel velo d'acqua che resta tra l'un e l'altro carattere, è attaccato con ambedue; ne però è con loro continuato, ma contiguo solamente;il che mostra sicuro che in natura si dà altro attaccamento che quello della continuità. E tale può esser quello delle parti dell'acqua ↑ tra di loro, ↓cioè contiguità: e con questa considerazione potrà il Sig. Colombo (e non, come dice egli, il Sig. Galileo in questo medesimo luogo)dar bando per un'altra volta al capriccio di voler trattar di materia, che al sicuro non può, o almeno dimostra di non aver potuto, intendere.
Con tutto ciò egli con resolutezza conclude, e dice: L'acqua adunque, come tale, può far resistenza alla divisione; e per ciò l'assicella d'ebano di figura larga, impotente a dividerla, sta a galla. Io veramente son necessitato di confessarmi degno di grandissimo castigo, avendo intrapreso questo fastidio di rispondere a questa sorte di discorsi, che è impossibil cosa che dal loro autore in poi persuadino nessun altro; tutta via, già che ho fatto sin qui, facciasi ancora qualche cosa di più. Che il Sig. Colombo credesse che l'assicella d'ebano non descendesse 'n fondo per l'impotenza di divider l'acqua, avanti che dal trattato del Sig. Galileo fosse fatto avvertito, poteva meritar qualche scusa, e massime avendo auto per compagno nell'errore Aristotile medesimo: ma che dopo l'essergli stato dimostrato sensatamente, che quando ella si ferma ha già penetrata l'acqua e si ritrova notabilmente più bassa del suo livello, egli ad ogni modo persista nel medesimo detto, dà veramente indizio più che manifesto di disputar per fine molto diverso dal desiderio di venire in cognizioni del vero, non si potendo, nè convenendo in modo alcuno, supporre che egli, per mancamento di senso o di discorso, non vegga quello che è più chiaro che 'l sole. Ma quando pure egli, o per difetto suo o del Sig. Galileo che non si fusse dichiarato a bastanza, restasse veramente non ben capace di questa sensatissima verità, io torno a dirgli che se la divisione fatta dall'assicella d'ebano non fusse patente e palpabile a suo gusto, io gli farò vedere un'altra tavola, di materia che pur andrà per sua natura in fondo, grossa quattro dita, un palmo, un braccio, dieci braccia; gli farò veder una picca, star a perpendicolo tutta sott'acqua, nè però andar in fondo, mercè dell'aria che egli vedrà contenersi dentro a quel piccolo spazio circondato da gli arginetti; la qual aria quanto prima sarà rimossa, detto solido descenderà in fondo, nel modo a punto che fa l'assicella. Se poi una tal divisione non gli bastasse, comincerei a disperar del caso interamente. Intanto, per non lasciar intentata cosa che mi sovvenga, domando al Sig. Colombo se, vedendo egli una trave galleggiare e star, v. g., un palmo della sua grossezza sotto l'acqua e 'l resto sopra, egli crede che ell'abbia divisa l'acqua per quanto comporta il suo peso, o pur che la larghezza della sua figura, per impotenza al dividere, la sostenga ella ancora in parte? Se egli mi dicesse, creder che la figura la sostenesse in parte mediante la resistenza alla divisione, per trarlo d'errore gli direi ch'e' la calcasse alquanto, facendola demerger un dito di più, e poi la lasciasse in libertà, perchè senz'altro e' vedrebbe ch'ella si solleverebbe a quel segno giusto, dove era avanti che fosse calcata: argomento necessario, che l'ampiezza della figura non gl'impediva punto il demergersi quanto si conveniva alla sua gravità. Ora, se la figura della trave, tanto più spaziosa di quella dell'assicella d'ebano, non diminuisce punto la demersione a una materia tanto men grave dell'acqua, qual ragione potrà persuader ad alcuno che tal impedimento possa esser arrecato a una materia molto più grave dell'acqua da una figura tanto manco spaziosa della trave? Ma, finalmente, prenda 'l Sig. Colombo la sua assicella, e dopo che ella sta galleggiante, calchila destramente con mano o con qualche peso postogli sopra, e noti bene che egli la farà abbassare ancora alquanto, e vedrà gli arginetti farsi più alti; cessi poi di calcare, o vero levi via il detto peso, ch'egli vedrà l'assicella respirare e tornare a sollevarsi al segno di prima: e poi se gli piace di confessare di essersi accertato che ella non aveva restato d'abbassarsi per l'impotenza al dividere, poi che, sendo stata aiutata, al penetrar più, ella recusa tanta penetrazione e risorge nè più nè meno come i solidi men gravi dell'acqua, se gli par, dico, di ammetter questa verità, faccialo; quanto che no, potrà far di manco di affaticarsi mai per guadagnar miglior concetto delle conclusioni filosofiche di quel primo che una volta gli si imprime nella fantasia.
Facc. 21, v. ultimo [pag. 333, lin. 1-4]: L'esperienza che fate per l'opposito, dissi non esser simile, ma fallace; perchè bisogna dar le condizioni del pari e i termini abili, e vedrete l' effetto riuscire anche nelle falde di noce più leggieri dell'acqua, e starsene al fondo senza ritornar a galla, perchè saranno impotenti a divider l' acqua etc.
Resta ora da esaminar quello che dice il Sig. Colombo contro l'esperienza proposta dal Sig. Galileo. Prima, dice che la similitudine della tavoletta che ascende e divide sormontando a galla, non è simile per la mancanza delle condizioni e termini abili; tra le quali condizzioni con manifesta contradizzione, com'ho detto di sopra, numera la siccità. Or, poi che questa esperienza, per detto suo, è difettosa, sarebbe stato bene ch'egli avesse insegnato il modo di farla giusta, perchè non credo che fuor di lui altri la sapessero ritrovare; ↑ oltre che poco di sopra egli stesso spontaneamente esibì al Sig. Galileo d'esser per fargli veder l'assicella di noce restar in fondo per impotenza di fender l'acqua: ↓ e veramente in un punto tanto principale e in una esperienza che essa sola basterebbe a decider tutta la quistione ↑ e dargliela vinta, ↓il Sig. Colombo (sia detto con pace sua) è stato alquanto manchevolein tralasciarla; e tanto più era il far ciò necessario, quanto ragionevolmente, vedendosi per ogn'uno come l'assicella di noce bagnata viene a galla, è credibile che quando si potesse far che ella restasse asciutta, molto più ci verrebbe. Nè posso a bastanza meravigliarmi come, avendo il Sig. Colombo conosciuto che la siccità faccia stare a galla e 'l bagnare faccia andar in fondo, or si riduca a dire, per il contrario, che per la mancanza della condizione della siccità la tavoletta di noce viene a galla, e che quando la siccità vi fusse, resterebbe in fondo. E chi non vede che se il bagnare fa andar in fondo e il mantener asciutto fa star a galla, chi non vede, dico, che se la tavoletta di noceavesse questa condizione dell'esser asciutta, molto più prontamente dovrebbesormontare a galla, e non avendola dovrebbe star a basso? Il Sig. Colombo, dunque, ricerca una condizione nella tavoletta di noce per far che resti al fondo, la quale, secondo la sua dottrina, farebbe contrario effetto al suo bisogno. Onde io non posso stimar altro, se non che e' si riduca per ultimo, ma vanissimo, refugio a domandar un impossibile, dico di far che una tavola fusse nel fondo dell'acqua senza bagnarsi (ancor che a lui toccherebbe il trovarla), per prolungar la vita, non dirò alla sua opinione, ma al suo primo detto; ↑ perchè quanto all'opinione, io non posso creder che ella non sia a quest'ora mancata. ↓
Facc. 22, v. 13 [pag, 333, lin. 13]: Per tutte queste ragioni, Sig. Galileo etc.
Già si è mostrato che le ragioni prodotte dal Sig. Colombo sono insufficientissime; e però nè il Sig. Galileo nè altri posson per quelle attribuire il sopranotar dell'assicella d'ebano alla figura, come invita ora il Sig. Colombo, escludendo ogn'altra cagione, in quelle parole: potrà ella, e non gli avversarii suoi, cessar d'attribuire 'l sopranotare dell'ebano ad altra cagione che alla larghezza della figura e alla resistenza alla divisione dell'acqua: nelle quali parole contradice a diversi passi di questo suo Discorso, e in particolare a quello che ha detto di sopra sette versi, dove ha introdotta la siccità tra le cagioni essenziali di questo effetto.
Facc. 22, vers. 21 [pag. 333, lin. 20-21]: La detta assicella di noce, perchè è di figura larga, verrà a galla più tardi che non verrà in figura stretta, è vero?
In questo discorso, che il Sig. Colombo propone per modo d'interrogazione, notisi che nelle citate parole dimanda al Sig. Galileo se è vero che l'assicella di noce venghi a galla più tardi per la figura larga, che è tanto quanto dimandare se la larghezza della figura è cagione della ritardanza; e col serrar la sua interrogazione con le parole: è vero? mostra d'accettarla per conceduta, cioè che la larghezza di figura sia cagione del ritardamento. Seguendo poi il discorso, torna a domandare, non se ne accorgendo, un'altra volta il medesimo, scrivendo queste formali parole: E di questa ritardanza che cosa n'è cagione? Al che io, in nome del Sig. Galileo, torno a rispondere, e dicoin buon'ora: «La cagione è quella che avete ↑ pur ora ↑detta voi, nè si è da me nè da altri negata mai: la larghezza della figura». Nè vede il Sig. Colombo,che questo errore è come se uno interrogando dicesse: «Il giorno si fa per la presenza del sole, è vero? di questo farsi giorno che n'è cagione?», dove non si fa altro che proporr'un effetto e la sua vera causa come nota; e poi immediate, come se fusse dubbiosa, vien di nuovo domandata. Ma quello che appar più reprensibile nel Sig. Colombo è che, dopo una gran confusione di lungo discorso, egli torna di nuovo a concluder questo medesimo, come ch'e' non fusse stato dieci volte conceduto e scritto dal Sig. Galileo, o che la fusse conclusione apportantegli qualche gran comodo; e scrive alla medesima faccia, v. 37 [pag. 333, lin. 34-36]: Adunque il più tardi ascendere è necessario che si cagioni dalla larghezza della figura, non facendo finalmente altro che dedur da un principio supposto per vero il medesimo principio in vece di conclusione. Solamente, non contento di quest'errore, aggiugne alla detta conclusion vera una clausula falsa, dicendo: per la difficoltà a dividere il continuo dell'acqua: la qual aggiuntaè il quarto termine del silogismo del Sig. Colombo, di cui non si è mai fatto menzione nelle premesse, tal che si può negare, e in effettosi nega, nella conclusione, non si essendo in tutto 'l discorso antecedente provato altro, e anco malamente, che la ritardanza dependente dalla figura, ma non già mai per la difficultà a dividere il continuo dell'acqua. Conceduto, dunque, quel tanto che è stato in questo discorso provato, cioè che la figura larga sia cagione di tardanza, veggasi quanto sia fuor d'ogni ragione detto al Sig. Galileo, che mai non ha negata questa cosa: Digrazia, cessate voi per tanto di più disputare; e se non volete cessare per grazia, cessate perchè la ragione e l' esperienza vi sforzano. Vien poi da questo autore tassato il Sig. Galileo per uomo che commetta molti errori per difetto di buona logica, come si legge a facc. 48, v. 21 [pag. 357, lin. 25]: e veramente se la loica buona è di questa sorte, il Sig. Colombo ha mille ragioni, perchè i discorsi del Sig. Galileo son molto lontani da questo stile.
Facc. 23, v. 1 [pag. 333, lin. 40 – pag. 334, lin. 1]: L'aggiunta dell'esempio dell'oro in comparazion della cera, perchè sono svanite le vostre ragioni, non arà che far nel proposito nostro etc.
Passa il Sig. Colombo a voler confutar un'altra esperienza del Sig. Galileo, prodotta per mostrar come non è altramente la figura larga, insieme con la resistenza alla divisione, quella che sostien la falda d'oro a galla: ma la confutazione è portata molto languidamente e alla sfuggita, con termini solamente generali, referendosi alle cose dette di sopra, senza ridursi a far menzione d'alcuna espressamente; e questo non per altro che per abbagliar la mente del lettore, e procurar che almanco gli possa rimaner concetto così in confuso, che il Sig. Colombo possa aver prodotto nelle cose sopradette qualche punto che faccia per la sua causa, ↑ se ben non v'è assolutamente nulla; ↓ ma perchè egli veramente, nell'intrinseco suo, conosce di non potere produr cosa che sia di momento contro all'insuperabil verità, va adombrando quel poco che dice, e più tosto mostrandosi gagliardo con l'esclamazioni che con la forza delle ragioni. E per chiarezza di quanto dico, credo che basterà ricordar con brevi parole l'esperienza del Sig. Galileo, e ridurre a termini chiari la risposta del Sig. Colombo.
Scrisse il Sig. Galileo [cfr. pag. 96, lin. 31– pag. 97, lin. 13]: «L'oro, che, per esser venti volte più grave dell'acqua, ha grandissimo impeto di descender per essa, ridotto in una sottil falda galleggia; all'incontro, se si ridurrà una palla di cera, o altra materia trattabile, tanto poco inferior di gravità all'acqua, che non resti superata di due per cento, onde ella lentissimamente venga a galla, facendosi poi di questa una falda larghissima e ponendola nel fondo dell'acqua, ella non vi resterà altramente, ma lentamente se ne verrà a galla, nè sarà bastante ampiezza di figura, o resistenza d'acqua all'esser divisa, a proibirgli la salita. Ora, se una palla d'oro ha impeto d'andare a fondo mille volte maggior della virtù della palla di cera per venire ad alto, e nulla dimeno a quello dalla figura dilatata in falda resta proibito 'l potere affondarsi, e la cera da simil figura non viene altramente ritenuta in fondo; adunque altro che la resistenza dell'acqua e la figura dilatata è quello che ferma il grandissimo impeto dell'oro, poichè la medesima resistenza e la medesima figura non bastano per fermare la minima propensione della cera di venire a galla». Questa esperienza scrive il Sig. Colombo non aver che fare nel proposito nostro, essendo svanite le ragioni del Sig. Galileo; e adducendo la causa per che tale esperienza non conclude niente, dice così: Perchè è vero che alla falda di cera manca di quelle cagioni che non mancano all'assicella d'ebano nè alla falda d'oro, come si è provato, e perciò è la figura larga e spaziosa che ferma l'oro e l'ebano a galla. Ma di grazia, Sig. Colombo, esaminiamo brevemente questa vostra risposta. Voi dite che alla falda di cera mancano di quelle cagioni che non mancano alla falda d'oro; e poi immediatamente nominate le cagioni della quiete dell'oro, tra le quali di ragione devrebbe esser nominata principalissimamente quella che manca alla falda di cera, poichè di tal diversità, e non d'altro, si tratta in questo luogo: ma quel che voi nominate per l'oro è la figura larga e spaziosa, la qual figura larga e spaziosa l'ha nè più nè meno anco la falda di cera: adunque che potete voi inferire da tal discorso? Qui, Sig. Colombo, non cade altra risposta, se non che voi, come più volte ho detto, non scrivete se non per quelle persone che, sendo lontanissime da questi maneggi, non sien per applicar punto la mente alle vostre risposte, anzi non sien per passar più là del titolo del vostro libro: o vero bisogna che voi confessiate di esservi peritato a nominar quella nuova cagione ritrovata da voi, come quella che trapassa di troppo intervallo tutti gl'inverisimili; dico la siccità, la quale manca alla falda posta 'n fondo dell'acqua. A due particolari vorrei che voi ingenuamente mi rispondeste: l'uno, se voi intrinsecamente e veramente credete che, se la falda di cera fusse posta nel fondo dell'acqua, asciutta, ella vi resterebbe immobile, o pur credete, come tutti gli uomini, che venendo ella a galla quand'è bagnata, meglio ci verrebbe se fusse asciutta; l'altro è, se quando da principio voi toglieste a sostenere che la dilatazione della figura potesse annullare il moto de i solidi tanto descendenti quanto ascendenti per l'acqua, aveste concetto che tali figure dovessero anco esser asciutte, o pur se questo pensiero vi è venuto somministrato dalla necessità per ultimo refugio, dopo che le ragioni v'hanno forzato internamente a credere che la figura non opera niente in questo fatto.
Non so già a qual proposito voi soggiunghiate queste parole, parlando pure al Sig. Galileo [pag. 334, lin. 4-6]: Nè si toglie per questo che non sia contraria la cagione de' diversi effetti, se aprirete gli occhi dell'intelletto, levandone la benda della troppa affezione. Anzi voi stesso date segno di aver bendati ed abbacinati gli occhi della mente, non v'accorgendo che appunto per questo si toglie l'esser contraria la cagione di diversi effetti; poichè essendo il salire e lo scendere per il medesimo mezo effetti contrarii, voi volete che la medesima cagione, cioè l'umidità, gli produca amendue, e che la siccità di pari amendue gì'impedisca; e pur se l'umido aiuta il moto all'in giù, doverebb'esser d'impedimento al suo contrario. E vorrei che per un'altra volta, già che voi non sapete parlar senza punger fuor d'ogni ragione il prossimo, al manco specificaste meglio la dependenza della vostra puntura; come nel presente caso sarebbe stato necessario che voi aveste additato l'error del Sig. Galileo, nel credere o non credere che la cagione d'effetti diversi sia o non sia contraria, e quali sieno questi effetti, e quali queste cagioni; perchè altramente voi con poca pietà rimprovererete al misero l'esser cieco, e con manco carità lo lascerete nella cecità, potendolo ralluminare.
Facc. 23, v. 8 [pag. 334, lin. 7-8]: L'esempio dell'acque torbide, che per molto spazio di tempo reggon la terra avanti che vada a fondo, non argomenta contro la resistenza etc.
Il Sig. Colombo pensa di ritorcer contro al Sig. Galileo una esperienza, ma egli dà più presto segno di non aver intesa la sua applicazione. Qui non si disputa nè si cerca, se nell'acqua sia resistenza alcuna, la quale possa ritardare 'l moto de' corpi che in essa ascendono o descendono, perchè questa è conosciuta e conceduta da ogn'uno, e dal Sig. Galileo in particolare in dieci luoghi, se non più, del suo trattato: ma si cerca se nell'acqua sia resistenza all'esser divisa, sì che ella possa non solo ritardare, ma annullar totalmente il muoversi ad alcun corpo che per sua natura, cioè per la sua gravità o leggerezza, in lei si moverebbe; e il Sig. Galileo dice di no, e per confermazione del suo detto dice che quando nell'acqua fusse una tal resistenza all'esser divisa, si troverebbono de' mobili di così piccola forza, che non la potessero dividere, e che in consequenza in essa si fermassero; cercando poi con diverse esperienze se tale accidente si vegga accadere, fra le altre piglia alcuni corpi di così poca gravità, che a pena l'imaginazione v'arriva, quali sono quegli atomi invisibili e impalpabili che dopo la deposizione d'alcune ore restano ancora a far torbida l'acqua; e mostrando come nè anco questi posson esser fermati dalla resistenza dell'acqua all'esser divisa, poichè essi ancora vi discendono, conclude tal resistenza non esser sensibile. Ma ora il Sig. Colombo si crede aver ritorto l'esperienza contro il Sig. Galileo, poichè detti atomi vi discendono adagio; quasi che il muoversi tardo sia non muoversi, e il dividere adagio sia non dividere. Voi avete bisogno, Sig. Colombo, di mostrar che e' non si muovino, se voi volete persuadere che la resistenza dell'acqua possa indur la quiete; perchè, quanto al ritardare il moto, vi si concede quanto voi volete che la figura, la minima gravità, la piccolissima mole lo possa fare, ma questo non fa niente al vostro bisogno, nè al vostro proposito.
Facc. 23, v. 14 [pag. 334, lin. 13-14]: L'esperienza della trave o navicello tirato con un capello di donna, io negherei potersi ben far, per molti accidenti, anche quando 'l capello fosse quel di Niso etc.
Passa il Sig. Colombo a voler reprovare anco quest'altra esperienza; e conforme al suo costume, poi che ella è tale che non vi è che replicare, la comincia a metter in piacevolezza, perchè dove non si può aprir bocca alle ragioni, è bene aprirla al riso. Nega, primieramente, potersi tal esperienza far esquisitamente per diversi accidenti, de' quali però non ne vien nominato nessuno; ma, quel che è più considerabile, egli si piglia fastidio degli accidenti e impedimenti che possino difficoltar l'esperienza, i quali non posson esser di pregiudizio se non al Sig. Galileo, al qual tocca di far veder cotal prova: onde 'l Sig. Colombo si prende i fastidi d'altri senza necessità. Passa poi dalla piacevolezza ad un parlar alquanto più acuto, e domanda al Sig. Galileo quel ch'ei vuole inferire quando ben l'esperienza fosse vera: al che crederei di risponder io conforme all'intenzion del Sig. Galileo, dicendo aver lui preteso con questa sua esperienza persuader la verità della sua conclusione a chiunque fusse capace di ragione; il che credo anco veramente ch'egli abbia operato nell'interno dell'istesso Sig. Colombo, ma che egli dissimuli l'aver capita la forza di questa esperienza per non si privar di poter accrescer il volume e, conforme al sesto artifizio, rispondere in qual si voglia maniera alle ragioni del Sig. Galileo. Tutta via per non dar occasione a qualcuno di sospettar che questi fosser miei trovati per liberarmi dallo scioglier l'instanze del Sig. Colombo, son contento fargli ogni agevolezza, e creder per ora ch'e' non simuli, ma non abbia inteso veramente la forza delle illazioni che 'l Sig. Galileo deduce dalla presente esperienza; e mi contento di andar con pazienza mostrando le sue equivocazioni e paralogismi.
E prima, per vostra maggiore intelligenza, dovete, Sig. Colombo, avvertire, altra esser la resistenza all'esser mosso semplicemente, altra all'esser mosso con tale e tal velocità, altra all'esser diviso. Resistono al semplice moto quei mobili che noi vogliamo muovere contro alla loro inclinazione; come se noi volessimo alzare una pietra di cento libbre, la quale col momento di cinquanta o sessanta o novanta solamente non si moverà punto assolutamente, ma vi bisognerà forza che superi il suo peso. E questa sorte di resistenza è diversissima dal resistere alla velocità del moto; anzi è tanto diversa, che questa della velocità si trova ancora nel moto al quale il mobile ha naturale inclinazione, come nel moto all'in giù d'una pietra, nella quale, se vorrete farla andar con maggior velocità della sua naturale, voi sentirete resistenza, e tanto maggiore quanto il mobile sarà più grave: e ciascuno ne potrà fare l'esperienza pigliando un pezzo di piombo di dieci libbre e altrettanto legno in mole, che in peso sarà manco d'una libbra, e questi con violenza scaglierà da un luogo alto all'in giù; dove nel piombo sentirà molto maggior resistenza all'impulso della mano che nel legno, e facilmente potrà accorgersi che tal volta gli succederà cacciar il legno sin in terra più velocemente che 'l piombo. Or questa tal resistenza non si può dire che dependa da contraria inclinazione del mobile, sendo egli grave e il moto all'in giù; però ella depende solamente dalla velocità che altri gli vuol dare sopra la sua natural disposizione. Per questo rispetto medesimo una sfera perfettissimamente rotonda sopra un piano esquisito fa resistenza a chi la vorrà muovere, e resisterà più e meno secondo la velocità che altri vorrà conferirgli. E questa resistenza non ricerca una determinata forza per esser superata; ma sì come la velocità in se stessa ha latitudine e si può accrescere e diminuire in infinito, così non è forza così minima che non possa apportar qualche grado di velocità a' movimenti non preternaturali, nè forza così grande a cui qualche massima velocità non resista: ma all'incontro, non si dando mezo o latitudine alcuna tra 'l muoversi semplicemente e 'l non muoversi, non ogni virtù può muovere, ma bisogna che ella prima superi la resistenza dependente dalla contraria inclinazione del mobile; e però, com'ho detto, cinquanta libbre di forza non alzeranno punto cento libbre di peso. L'istesso accade della resistenza alla divisione, la quale non da ogni forza è superata, non si dando mezo o latitudine tra l'essere e 'l non essere attaccato o diviso; e per ciò non ogni forza strappa una corda, nè ogni peso che calchi sopra un marmo o un vetro lo rompe, ma vi bisogna una forza superiore alla tenacità che tiene attaccate le parti della corda, del marmo e del vetro. Queste tre resistenze tal volta sono separate, tal volta sono due di loro insieme, e anco tutt'a tre. Se una pietra di cento libbre sarà attaccata in terra e io vorrò alzarla, prima ci vorrà cento di forza per la resistenza della gravità del sasso; poi, oltre a questa, ci bisognerà altra forza per superar l'attaccamento, il quale, com'ho detto, non da ogni minima forza è rotto, ma ve ne bisogna una determinata, e non minore: ma superate la resistenza della tenacità e quella del peso, resta a considerar la velocità con la quale io voglio che la pietra ascenda; e qui, perchè la velocità ha latitudine in infinito verso il massimo e verso 'l minimo, qualunque forza si applicherà per tale effetto, opererà, producendo la poca forza poca velocità, e minima forza grandissima tardità, forza massima somma velocità, etc. Se io vorrò staccar due corpi, li quali nello staccarsi, e anco dopo l'essere staccati, non s'abbino a muovere di movimento contrario alla loro inclinazione, non ci vuole altra forza che quella che supera la resistenza dell'attaccamento; ma per superarla non basta ogni virtù, ma se ne ricerca una determinata e superiore alla tenacità del glutine che attacca le parti del corpo che si ha da dividere: fatta poi la divisione, le parti, che non resiston più nè per esser attaccate nè per contraria inclinazione, saranno mosse da qualunque virtù; e la differenza dell'operar di virtù diseguali non consisterà nello staccare o non staccare, nè meno nel muovere assolutamente o non muovere, ma solo nell'indur maggiore o minor velocità.
Dichiarate queste cose, io vengo a mostrarvi come questa resistenza alla divisione non si trova nell'acqua, e che, in consequenza, non vi è cosa alcuna che a divider s'abbia; e insieme esamino quanto voi adducete contro al Sig. Galileo.