ALL'ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO
Sig. D. GIOVANNI MEDICI.
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A Lei si doveva dedicar questa mia disputa, Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, quale ella si sia: imperocchè, essendo della nostra patria nuovo Epaminonda, il qual fu filosofo, capitano e principe, come filosofo, la risolvette in favor mio; come capitano, l'ha posta più di una volta in pratica, sperimentando in gloriose battaglie quel che possa nell'acqua artificio di macchina far galleggiare o affondarsi; come principe, rimane adesso che mi difenda da coloro che sono incorsi nell'error di quei che, vedendo in Apulia la statua che aveva cinto le tempie d'una fascia di bronzo, scrittovi: «A Calen di Maggio il mio capo sarà d'oro», attendevano a lacerarla con fiere percosse, non vi trovando mai nulla; ma un che miglior matematico era degli altri, osservò l'ombra che faceva il capo della statua, e dove terminava ritrovò il tesoro. Trattin pur male Aristotele gli avversari, e con indiscreti colpi cerchino a tutta lor possa d'annullarlo; che per questa via non troveranno mai il tesoro. Io, che l'ombra e le vestigie di lui maravigliose e divine osservo, a guisa di buon matematico, ho trovato il tesoro della verità nella presente disputa: e conveniva, secondo le leggi, che al Principe ne dessi contezza e ne facessi offerta, come faccio. E le prego il tesoro delle celesti grazie da Chi può dargliele.
Di Fiorenza, li 12 di dicembre 1612.
Di V. S. Illustrissima ed Eccellentissima
Umilissimo Servitore
Lodovico delle Colombe.
Perchè le cose nuove fanno i lor ritrovatori di sì gloriosa memoria, che sono, io non dirò ammirati solamente, ma reputati come Dei, di qui è che, essendo a pochissimi conceduto questo particolar talento, molti, bramosi di correr cotale arringo, per la mala agevolezza dell'impresa non conseguiscono il desiderato fine d'intorno al vero. Nondimeno biasimevoli non sono, e giovamento non piccolo n'apportano. Ma che si trovino intelletti che, a somiglianza di costoro, sperino far nuove apparir le medesime cose di già tralasciate per la falsità loro, in derision degli stessi inventori, e che voglino oggi, che risplende sì bel giorno di verità, far buio altrui con le tenebre dell'intelletto loro, stimando che Ecuba Elena rassembri, e che Alcina piaccia a Ruggiero; che lode acquistarne, e che giovamento arrecar possono a gli amatori di sapienza? Vorranno costoro contro i primi scrittori del mondo del pari giostrar, senza sapere di che tempra sien l'armi degli avversari, e senza aver arrotate le sue? Chi mai ha sciolto le loro invitte ragioni? Chi n'ha ritrovate delle nuove per seppellir le vecchie? Ben disse Teofrasto, che la falsità si muor giovane, ma la verità vive di vita immortale.
Ora, quantunque il Sig. Galileo quasi in tutte le cose mostri di contrariare ad Aristotile, nel quale è la somma delle filosofiche verità, rinovando molte delle antiche opinioni, non credo già che egli debba annoverarsi tra quegli, stimando io che egli il faccia solo per esercizio di ingegno. Imperochè, se altrimenti fosse, avvenga che per molti suoi meriti e ragioni io il reverisca e reverirò sempre, parendomi che a torto sia doventato un Antiperipatetico, in questo particolare io vorrei poter doventare un Antigalileo, per gratitudine di quel gran principe di tante accademie, capo di tante scuole, soggetto di tanti poeti, fatica di tanti storici, il qual lesse più libri che non ebbe giorni, composene più che non ebbe anni, novello e divin Briareo, che par che con cento mani e penne dettasse sempre cento opere, e di cui finalmente autor famosissimi han detto che natura locuta est ex ore illius. Sostiene il Sig. Galileo in particulare, contro Aristotile nel quarto del Cielo, che la figura ne i corpi solidi non operi cosa alcuna circa lo stare a galla o calare al fondo nell'acqua; e dopo averne meco fatta lunga contesa, n'ha stampato e detto molto ingegnosamente, per darmi occasione, sì come a molt'altri ancora, di maggiormente esercitarsi nelle virtuose dispute. E come che io sappia, Aristotile non essere in ciò che ha detto invincibile, nulla dimeno questa cosa tra quelle è che inespugnabili sono, secondo il comun parer de' prudenti. Ma pure, quando egli stimasse vera la sua impugnazione, poi che molti de' suoi amici al parer di lui s'acquietano, amico non men caro esserli doverò anch'io, poscia che servendo al suo fine, o sia per esercizio, o perchè maggiormente il vero apparisca, accomodandomi al voler suo, qual focile tento di far che le faville de' singolari capricci suoi saltino in aria e si facciano scorgere. E se finalmente avrà contro il forte Stagirita per consenso de' savi la vittoria, potrà gloriosamente dire: Non iuvat ex facili lecta corona iugo.
Passarono alcune scritture tra 'l Sig. Galileo e me, per istabilimento delle convenzioni e a maggior chiarezza di quello che si affermava da ciascuno; le quali, per non essere state messe da lui in istampa, e parendomi che in alcune cose abbia alquanto diversificato da quelle ne' presuposti del libro, mi son risoluto stamparle in principio dell'opera, acciochè dalla verità di quelle si venga in cognizione di chi abbia più rettamente filosofato. La scritta delle convenzioni fu questa, fatta di propria mano del Sig. Galileo:
«Avendo il Sig. Lodovico delle Colombe opinione, che la figura alteri i corpi solidi circa il descendere o non descendere, ascendere o non ascendere nell'istesso mezo, come, v. g., nell'acqua medesima, in modo che un solido, per esempio, sendo di figura sferica andrebbe al fondo, ridotto in qualche altra figura non andrebbe; ma, all'incontro, stimando io Galileo Galilei ciò non esser vero, anzi affermando che un solido corporeo, il quale ridotto in figura sferica o qualunque altra cali al fondo, calerà ancora sotto qualunque altra figura; e sendo per tanto, in questo particular, contrario a detto Sig. Colombe, mi contento che venghiamo a farne esperienza. E potendosi far tale esperienza in diversi modi, mi contento che il Molto Reverendo Sig. Canonico Nori, come amico comune, faccia eletta, tra l'esperienze che noi proponessimo, di quelle che gli parranno più accommodate a certificarsi della verità; come anco rimetto ai suo medesimo giudizio il decidere e rimuovere ogni controversia che fra le parti potesse accadere nel far la detta esperienza.»
Allora io soggiunsi di mia mano sotto la detta scritta:
«Che il corpo sia cavato della stessa materia e del medesimo peso, ma di figura diversa, a elezion di Lodovico; e la scelta de' corpi in quella si scelga più equale di densità che sia possibile, a giudizio del Sig. Galileo; e le figure, a elezione di Lodovico: e se ne faccia l'esperienza in quattro volte, della medesima materia, ma di tanti pezzi della medesima materia quante volte si farà l'esperienza.»
Fu dato di comun consenso per giudice compagno al Sig. Nori il Sig. Filippo Arrighetti.
Il prescritto giorno si comparì nella casa del Sig. Filippo Salviati, gentil'uomo principale della nostra città e così ricco de' beni dell'animo come di quegli della fortuna, presente l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Sig. D. Giovanni Medici, con una nobil brigata di letterati, per sentirci disputare insieme: ma nè si potette far venire a disputa il Sig. Galileo, nè volle far l'esperienza in conveniente grandezza di figura e quantità di materia; e più tosto si risolvette (giudichi ogn'uno della cagione a suo modo) a mandar in luce un suo trattato intorno a questa materia, sperando far credere altrui col discorrer, quello che non può far veder col senso; atteso che alterando e aggiugnendo, e levando da i patti e dal vero, si può facilmente con false premesse e supposti cavar la conchiusion vera.
Ma, acciò che si venga in cognizion del vero, e possa ciascuno giudicar chi abbia ragione in questa disputa, sì nel particular nostro tra lui e me, sì ancora quanto ad Aristotile, facciamo adesso quel che allora non si fece. E primieramente esaminiamo la scritta e le convenzioni: e per procedere con brevità, cominciamo da i supposti che fate, acciochè da qui innanzi io parli con voi, Sig. Galileo.
In prima, aveste per fermo che io non potessi elegger la figura di che grandezza pareva a me; che perciò non si diede effetto all'esperienza. Ma passato quel pericol presente nel quale eravate, avendo tempo a pensare a qualche refugio, e parendovi averlo trovato, benchè la figura fosse grande a mia elezione, come dice la scritta, mi mandaste di vostra mano, per dichiarazione di qual fosse stata l'ultima vostra intenzione e volontà, questo codicillo: «Ogni sorte di figura fatta di qualsivoglia grandezza, bagnata va al fondo, e non bagnata resta a galla: adunque non è la figura o la grandezza cagion dell'andare al fondo o dello stare a galla, ma l'essere o non esser bagnato»: credendo che il bagnarla fosse il vostro Achille. Ma non è vera la proposizione in universale, perchè una palla d'ebano asciutta cala al fondo, e una falda di suvero bagnata galleggia; nè anche nella materia eletta da voi in particulare è vero, come si proverà a suo luogo. E tutto fu da voi medesimo registrato nel libro, se ben non così ogni cosa, a carte 6 [pag. 66, lin. 15-28] e 54 [pag. 120, lin. 15-28]. Ecco che V. S. faceva un presupposto falso; perchè quanto alla grandezza della figura non potevate rifiutarla, e pure ne faceste sì grande schiamazzo.
Per secondo, supponete che io m'oblighi a mostrar che la figura assolutamente operi lo stare a galla o l'andare al fondo nell'acqua, e lo dite a carte 24 [pag. 87, lin. 31-37] e 25 [pag. 88, lin. 1-14] e altrove: benchè a carte 6 [pag. 66; lin. 15-16] vi contrariate, dicendo: «Conchiusi per tanto, la figura non esser cagione per modo alcuno di stare a galla»; a tal che, se per qualche modo ella ne fosse cagione, avremmo l'intento, contro a quello che altrove avete detto; e, che più importa, è che in patto abbiamo, se leggete le convenzioni, tutto il contrario. Imperocchè, dicendo la scritta che io son di parer che la figura alteri i corpi solidi, in qualunque modo che dalla figura verranno alterati circa lo stare a galla o calare al fondo, io avrò conseguito 'l fine; nè importerà se altra cagione vi concorre in aiuto, pur che l'effetto segua.
Terzo presuposto, che voi fate, è che i corpi si debbano, per virtù della scrittura, sommerger sotto l'acqua per far tale esperimento, come dite a car. 31 [pag. 94, lin. 37 — pag. 95, lin. 9] e altrove; affermando, che le parole di quella importano che ambe due i corpi si pongano nell'acqua, e che esser nell'acqua vuol dire, per la diffinizion del luogo del medesimo Aristotele, esser circondato dalla superficie del corpo ambiente; adunque allora saranno le due figure nell'acqua, quando la superficie dell'acqua l'abbraccerà. Aggiugneste di più, perchè per altro poco vi importava cotal luogo, che tutte le figure, di qualsivoglia grandezza, bagnato andavano al fondo, e non bagnate stavano a galla.
Ora, io non so veder che nella scritta possiate mostrare che le parole importino la sommersion de' corpi nell'acqua; perchè ivi si dice da voi: «come, v. g., nell'acqua medesima». Che forse non sarà nell'acqua una nave nel mezo del mare, benchè non sia tutta ricoperta dall'acqua? non sarà in casa chi non è circondato e cinto e abbracciato dalle mura di quella per tutto il suo corpo? Se Aristotele facesse per voi, ogni volta che n'aveste di bisogno, come adesso, io son certo che mai non fareste seco la pace. Perchè dovevate avvertire, che egli considera il luogo in due maniere, cioè luogo proprio e luogo comune. E quanto al proprio, dite benissimo che dee circondar tutto il locato: ma non già il luogo comune; perchè altramente ne seguirebbe che nè voi nè io, quando ci troviamo su la piazza di Santa Maria del Fiore o in casa, fossimo altramente in quel luogo, nè vi potrebbono anche esser molti con esso noi; il che è da ridere. Diciamo adunque, che quando i solidi saranno messi nell'acqua, scoperta la superficie di sopra, saranno nell'acqua, e in luogo conseguentemente; anzi che voi medesimo ve ne contentate e non ne fate scalpore, poichè nell'intitolazione del libro stesso dite: «intorno alle cose che stanno in su l'acqua». Adunque non sotto, ma sopra; purchè vi si faccia piacer di bagnar solamente quel corpo che noi intendiamo di far galleggiare, avanti si posi su l'acqua; ma non già ogni sorta di figura, come dite in quella seconda scrittura, e più chiaramente a car. 54 [pag. 120, lin. 17-19], affermando che tutte le figure di qualunque grandezza possono andare e non andare al fondo, secondo che le lor sommità si bagneranno o non si bagneranno; che è falso così pronunziato, come si proverà. Volendo veder, adunque, ciò che opera la figura, bisogna lasciarla libera in sua balia, e non affogarla o alterarla bagnandola. Ma per ora non voglio entrar nelle ragioni; stiamo ne' puri termini de' patti. Oltr'acciò non credo che V. S. stimi, Aristotile aver creduto le lamine di ferro e di piombo soprannotar nell'acqua poste sotto il suo livello, poi che subito calano al fondo; che però disse: super natant, e della polvere, perchè vaga per entro il corpo dell'aria, disse: natat. Non è egli vero, che quando si dice una cosa fare un tale effetto, si dee intendere in quel modo adoperata che ella lo fa? E Archimede stesso non direbbe, nè dice mai, che le cose che soprannuotano si debbano prima bagnare e sommergere, per vederne l'effetto. Però questa è invenzion vostra, per disciorvi dal laccio nel qual siete inciampato. E se la quistione, secondo voi, fu promossa tanto circa le cose che debbono ascender dal fondo, quanto circa quelle che devon calare, non per questo ne seguita che tanto l'une quanto l'altre figure si devan bagnare avanti che si posin nell'acqua, o si devan sommergere. La ragione è, perchè l'une di necessità si bagnano, poi che si mettono in fondo per farle ascendere; e l'altre, perchè hanno a galleggiare, potendo, non è necessario che si bagnino. Ma il vero è, che la disputa si ristrinse solo alle cose che galleggiano o calano al fondo per causa della figura. E quantunque non fusse ristretta, a noi basta, per vincer la lite, mostrare in un solo particulare, la deversità dell'effetto cagionarsi dalla figura. Di grazia, Sig. Galileo, non gavilliamo perchè elessi materia grave solamente, e non leggiera, se, per tornare a galla dal fondo, non è a proposito, ma leggiera. Non dite voi nella scritta così: «come, per esemplo, un solido di figura sferica andrebbe al fondo, ridotto in qualche altra figura non andrebbe»? Così ancora lo confermate in quella istessa scrittura e a carte 5, 6 [pag. 66, lin. 8-15] e 54 [pag. 120, lin. 17-28].E che s'è egli mai praticato altramente? Nel vero, Sig. Galileo, voi avete viso di sentenza contro; se non per altro, almeno perchè avete indugiato a trovar questo refugio nella chiosa alla seconda stampa, che manifesta esser nuovo capriccio, se ben non vi gioverebbe. Vedete quel che opera la falsa opinione, che quanto più si cerca farla apparir vera, tanto maggiormente la verità le cava la maschera. Imperocchè, se volete far capitale del concetto dell'ascendere dal fondo dell'acqua ancora, come se fusse in patto, chi dirà mai che abbiate ragione a dir che le figure diverse non operino diversità d'effetto? Voi pur concedete che elle son causa della tardità e velocità del moto. Nè anche in questo membro della scritta s'è detto che elle sian causa di quiete. Anzi vi sareste da voi medesimo rovinato fino alle barbe; perchè in queste prime parole si comprendon universalmente tutte le figure, fino i vasi concavi che galleggiano. Nè importa che vi sia l'aria; poichè nella scritta non è eccettuata, e con ragione, perchè l'aria vi sta mediante la figura, come principal cagione. Ma io veramente non avrei fatto di questo concetto punto di capitale; perchè la verità è, che il negozio si ristrinse alle figure che soprannuotano o calano al fondo. Che dite adesso? Adunque il luogo comune è quello nel qual si devono posare i corpi, e non nel proprio, come volete voi, dove non posson, bagnati, mostrar quello che opera la figura; ma asciutti si devon posare, poichè in tal maniera la palla subito, ben che asciutta, cala al fondo, e l'assicella del medesimo peso e della stessa materia resta a galla, contro il parer vostro.
Nè dovete argomentar contro di me, come fate a carte 37 [pag. 101, lin. 9-18],con dir che in principio della disputa gli avversari non curavano che le figure non si bagnassero, poichè se nacque dal ghiaccio, che è molle, sarebbe semplicità il dire in contrario: perchè io non mi son trovato a disputa di ghiaccio con voi, nè voglio per me le liti d'altri, nè mi è lecito; però stiamo nelle nostre convenzioni, senza mescolar le dispute loro.
Presuponete di più, nel quarto luogo, che la materia sia non solo a vostra elezione, ma anche la più proporzionata, quella che quanto alla gravità o leggerezza non ha azione alcuna, perchè si possa conoscere quello che opera la sola figura. Ma, per quello che aspetta alle convenzioni dintorno all'elezione di essa materia, lasciando per ora la disputa di qual sia più conveniente, riserbandomi trattarla poi a suo tempo, dico: Verba ligant homines; perchè le convenzioni dicono: «Che il corpo sia cavato della stessa materia e del medesimo peso, a elezion di Lodovico». Che più? nel vostro libro, a carte 6 [pag. 66, lin. 17-19], lo ratificate dicendo: «e perciò tutti i corpi più gravi di essa acqua, di qualunque figura si fussero, indifferentemente andavano a fondo». Io, perchè ho eletto materia più grave dell'acqua, ho eletto la materia conveniente. Tanto più che, se per voi sotto qualunque figura va al fondo, fu accettata la mia materia per convenevole anche da voi, perchè l'avreste vinta: ma perchè le figure larghe poste su l'acqua galleggiano, fatte di materia più grave e del peso che eleggierò io, e le figure strette e rotonde del medesimo peso e materia calano al fondo, il che non avreste creduto, però vi contenterete, Sig. Galileo, con vostra pace, darmi la quistion vinta, per quello che al nostro particolare aspetta.
Ma perchè le molte ragioni, e molto ingegnose, da voi addotte, potrebbon per avventura far credere altrui che la nostra sperienza patisse difetto e avesse qualche fallacia, per la quale apparisse la ragion dal nostro ma veramente fosse incontrario, come ancora dite voi medesimo a car. 27 [pag. 90. lin. 28-32] (intendo sempre della prima stampa e non dove son l'aggiunte), sarà ben fatto che discorriamo intorno a quelle, e fra tanto mostrar che Aristotile in ciò dice benissimo senza errore o fallacia alcuna, sì come ancor noi abbiamo seguitata la sua verità, concorde col senso e co' patti stabiliti fra voi e me: nè per ciò si persuade che il Sig. Galileo non sia quel valent'uomo che è, perchè egli resti vinto da altri in qualche cosa particulare. E qual maggior lode aspettare, che quella di sì belle osservazioni fatte nel Cielo? e imparticulare le macchie ritrovate nel sole, di cui pur testimonia un eccellente mattematico di Germania per sue lettere più d'un anno fa, ma non che elle siano propriamente nel corpo del sole.
Ora, acciò che noi siam men superflui che sia possibile, io avvertirò che la maggior parte dell'opera vostra, non appartenendo alla disputa, potrà tralasciarsi: imperò che tra noi solamente è in controversia, se le figure diverse ne' corpi operino diversi effetti, cioè se la figura aiuta la gravità e leggerezza de' solidi nel galleggiare e nel calare al fondo, e questo per accidente; ma non già di quello che sia cagione assoluta d'intorno alle cose che stanno su l'acqua o che in quella si muovono, come avete detto nell'intitolazion del libro e fattone le dimostrazioni, senza supporle per vere, secondo quel che n'ha detto Archimede, non sendo chi l'abbia messo in quistione fra di noi; imperò che più tosto per incidenza che principalmente si deve trattar delle dimostrazioni di esso Archimede.
Veggiamo secondo il vostro ordine adunque, se, dato che la materia non fosse stata in potestà mia, quanto all'elezione quella che eleggereste voi sarebbe più convenevolmente presa, per veder quello che operano le figure diverse, o quella che è stata eletta da me.
Di tre sorti materia si può nel caso nostro ritrovare. Leggiera in ispezie più dell'acqua (e avvertasi sempre che questi termini, che io ricevo da voi, se ben tengo che in parte sien difettosi, io, per accomodarmi all'intelligenza vostra, non voglio mutarli): questa materia più leggieri non è abile a far l'esperienza; imperciò che, non avendo gravezza che per sè sia bastante a vincer la resistenza dell'acqua per calare al fondo, tanto meno n'avrà per contraporsi alla figura spaziosa e larga e tirarla sott'acqua; la qual per la sua larghezza, eziandio che fosse in materia grave, non sempre è forzata a discender sott'acqua e andare a fondo: e perciò, se ogni sorte di figura in questa materia galleggia nell'acqua, voi medesimo la rifiutereste per non buona. Secondariamente, può esser grave in ispezie eguale all'acqua: nè tal materia, adunque, è atta a mostrar nelle figure diversità d'effetto. Conciosiachè, se ha tanta leggerezza che non ha azione alcuna circa il calare a fondo, come Archimede e voi ancora affermate, poi che poste nell'acqua si fermano dove posate sono, chi dirà che tal materia non sia inconvenevole come la prima? Che potrà il suo peso contro la resistenza della figura? Adunque, sotto qualunque figura indiferentemente opererà sempre il medesimo, quanto al sopranotare, perchè niun corpo di tal peso calerà mai al fondo per sè stesso. Pertanto la terza sorte di materia è quella che, essendo più grave dell'acqua in ispezie, sarà proporzionata per far prova se le figure diverse operino diversi effetti circa lo stare a galla o calare al fondo; e quanto più sarà grave, più sarà conveniente e più in favor vostro: perchè, contrapponendosi il peso non solo alla resistenza dell'acqua, ma della figura larga ancora, potrà far per esperienza vedere se abbia la figura facultà di non calare al fondo, se sarà spaziosa, contro le figure strette ritonde e lunghe, che calano al fondo e non hanno balia di superar la gravezza e farle resistenza. Anzi voi, Sig. Galileo, affermate a carte 59 [pag. 126, lin. 14-15] lo stesso, dicendo: «e veramente la figura, per sè stessa, senza la forza della gravità o leggerezza, non opererebbe niente». Dite benissimo, perchè in questa maniera escludete l'egualità di gravezza in ispezie, mostrando non esser materia atta quella così qualificata; se ben vi date sul piè della scure, non ven'accorgendo, poi che confessate la gravità e la leggerezza esser necessaria per veder l'operazion delle figure, quella contro lo stare a galla, e questa contro lo stare al fondo, se però nel fondo si potessero dare in atto le condizioni pari, sì come si vede avvenir quanto allo ascendere e descendere e come si dirà più avanti. Nè vorrei che argomentaste sofisticamente, dicendo che quella materia che leverà ogni sospezione di poter dubitare se porti aiuto o incomodo all'operazion della figura con la gravezza o leggerezza, quella sarà convenevole per far l'esperienza; e che tale è quella che è in ispezie eguale di peso all'acqua. Imperò che sarebbe vero questo, se l'opera della figura dovesse pender totalmente da lei, sì che le figure larghe avessero assolutamente facilità di galleggiare, e le lunghe e strette di calare al fondo: il che è falso, nè da noi si è affermato, se ben vorreste di sì, contraddicendo al luogo citato a carte 59 [pag. 126, lin. 14-15]; e a 27 [pag. 91, lin. 1-3] dite esser necessario applicar le figure a materie che non impediscano l'operazion varie di esse. E perciò, a voler che elle possan mostrar diversità di effetto, che è alcune galleggiare e alcune andare al fondo, non perchè elle operino effetto di moto, ma solo di più e men resistenza, donde si cagiona il più veloce e più tardi muoversi o non si muovere, di qui è che bisogna dare al corpo gravezza perchè possa calare, e non calando verrà dalla figura, e leggerezza perchè possa ascendere, e non ascendendo verrà dalla figura, sì come più tardi o più veloce, ascendendo o calando, verrà dalla figura; ma tutto per accidente, e non per sè nè assolutamente da essa figura. All'esempio del coltello, che adducete in pro nostro, non rispondete cosa che vaglia; atteso che l'argomentar dal più e meno atto a dividere, non fa che il più atto non sia buono perchè sia più atto del meno. Ma, che è peggio, voi medesimo non sapete che, se non deve la gravità della materia eleggersi per dividersi la crassizie, doverrà al meno per superare il peso dell'acqua in ispezie, acciò che possa il corpo calare al fondo? e non potendo, allora verrà dalla figura. Adunque si dee prender materia più grave dell'acqua, per veder se le figure larghe galleggiano e se le strette si sommergono, come l'esperienza ne mostra. Chi dirà, Sig. Galileo: «Perchè sotto questa materia le figure non mostrano diversità d'effetto, adunque la materia convenevole è questa, e non qualch'altra materia», fors'è buona maniera d'argomentare? Due errori sono in questo argomento: il primo è argomentar da una particolar materia, per concluder di tutte l'altre il medesimo: il secundo è l'argomentar per negazione, che non ha virtù di concludere; perchè il dir: «Questo effetto non si verifica qui, adunque non si verificherà altrove» è ridicoloso.
Ma io sento che voi pur fate instanza con certa sclamazione, dicendo: «O chi crederà mai che io non sapessi fin da bambino, che una crazia e un ago da cucire e simili cose di materia grave, posate con molta diligenza su l'acqua, galleggiano? E non dimeno l'una è di figura larga, e l'altro di figura lunga. E questo per che cagione, se non perche son posati amendue i corpi asciutti su l'acqua? Ma se l'uno e l'altro si bagnerà, subito caleranno al fondo, sì come non bagnati stanno a galla. Adunque non vien dalla diversità di materia o di figura, ma dall'essere o non esser bagnato, come dissi in quella seconda scrittura per dichiarazion del mio parere; e così si dee sanamente intender tutta la scrittura». A questo io rispondo, Sig. Galileo, che di qui è nata tutta la cagion del mal vostro. Imperocchè, per averne fatta esperienza in cose piccole, come dite a car. 62 [pag. 129, lin. 3-5], d'onde per mancanza di peso hanno galleggiato i corpi di natura gravi, di qualunque figura, vi siete creduto, senza pensar più là, che così facciano tutti indifferentemente, sotto ogni materia e figura, di qualsivoglia grandezza, come avete affermato a 6 [pag. 66, lin. 17-20], 31 [pag. 94, lin. 25-28], 41 [pag. 107, lin. 34 - pag. 108, lin. 3], 45 [pag. 111, lin. 29-37], 46 [pag. 112, lin. 25-26], 47 [pag. 114, linn. 1-4], e altrove: il che è falso. Però quando que' coni e l'ago e altre figure che nominate, saranno della grandezza e materia convenevole proposta da noi, e posati, come dite, asciutti su l'acqua, e come conviene, come s'è provato da' patti e dall'esperienza, sempre mostreranno esperimento a favor nostro.
Quanto alla sclamazione, io non so qual sia da considerar più, o la vostra o quella d'Aristotele, rispondendo egli: «O chi crederebbe mai, che voi aveste creduto da me affermarsi, le lamine di ferro e di piombo posarsi sotto l'acqua, e che ad ogni modo soprannotassero?» Volete voi che egli soggiaccia a quella menda, che non vorreste soggiacer voi? Chiara cosa è che il soprannotare, che dice egli, non vuol dir tornare a galla, come direbbe se importasse prima tuffarsi. E peggio è che non ci avete scusa alcuna; perchè quando vi dissi che Aristotele nel quarto del Cielo lo diceva, mi rispondeste sorridendo, che l'avevate ben caro, e che in questo particulare eravate di parer tutto contrario a lui, sì come affermate anche nel Discorso a carte 5 [pag, 65, lin. 11-18]. E perchè soggiugnete di più, nel medesimo luogo, che volete filosofar libero, e avete molto ben ragione, io vi prometto di filosofare ancor io con la medesima libertà, non vi adducendo mai autorità d'Aristotele nè d'altri, acciochè la ragione e 'l senso solamente prevagliano nella nostra quistione.
Tornando al proposito, dico: «Se le figure diverse nel corpo solido e di materia grave, posate sopra l'acqua asciutte, mostrano diversità d'effetto, e per lo contrario tutte calano indifferentemente, bagnate, al fondo senza varietà, perchè non si dovrà far l'esperienza in quella maniera che riesce?» Forse perchè non si è dichiarato? Questo mi basta: perchè, come io dissi disopra, non si dichiarando, sempre si intende, in quella maniera affermarsi una cosa, nella quale tal cosa può essere; come, v. g., io dirò che il coltello taglia il pane; e voi, per mostrar che non lo taglia, voleste che io lo tagliassi dalla costola del coltello e non dal taglio, perchè non ho dichiarato da qual parte lo taglia; chi mai vi darebbe ragione? Due sono gli effetti che le figure adoperano: l'uno è il dividere o non dividere l'acqua; l'altro è di calar più veloce o più tardi, poi che è divisa. Ora, se elle si mettessero sotto l'acqua, non vi arebbe luogo per isperimentare il primo effetto, ma solamente il secondo, poscia che l'acqua di già sarebbe per forza divisa, quanto al principio parlando, perchè e molto diversa la division superficiale dal rimaso di tutto il corpo, come più avanti si dirà, per cagion del concorso d'altri accidenti, che insieme convengono all'operazion della figura, i quali vorreste escludere a carte 24 [pag. 87. lin. 31-37] e 25 [pag. 88. lin. 17-28], come si disse disopra, con dir che la figura assolutamente e per sè sola, secondo le nostre convenzioni, debba produr cotali effetti; il che s'è provato esser falso. Adonque la vera, convenevole e propria materia per veder se le figure larghe hanno virtù di far soprannotare il solido nel quale elle si ritrovano, sarà la materia in ispezie più grave dell'acqua, e quanto più grave, più sarà proporzionata; poi che per lo suo peso le figure strette e rotonde subito discendono a basso, e le spaziose non solo non calan subito, ma non dividon l'acqua, sì che possan calare, e quando si pongon sotto di quella, tardissimamente discendono e ondeggianti e quasi per coltello.
Ma proviamo, digrazia, a darvi qualche soddisfazione, di veder se, presa la vostra materia, si conchiudesse qualche cosa di buono per voi.
Pigliam la cera da voi proposta, la qual veramente, per non esser corpo semplice e fatto dalla natura, sendo di cera e piombo insieme per arte, non si deve accettare in modo alcuno; e facciasene una falda larga e sottile, quando il composto è prima ridotto all'equilibrio di peso con l'acqua, secondo che voi dite: di poi posatela su l'acqua, e non sotto, come conviene per le ragion dette e che si diranno ancora; perchè altramente non occorrebbe pigliar la cera, poichè dovendosi tuffare, vi contentereste anche dell'assicella d'ebano senza far tante bagattellerie: e se così posta su l'acqua cala al fondo, eziandio che vi aggiungiate non dirò quel grano di piombo, ma anche tanto quanto pesa la stessa cera, io dirò che siete più valente d'Archimede; e così ancora se fate che la palla, col medesimo peso che darò all'assicella, nuoti. Ma voi, Sig. Galileo, per nascondere il vostro desiderio, che è tutto fondato nel bagnare i corpi che s'hanno da metter nell'acqua (non dico gli stretti e lunghi, che questo non vi dà una noia al mondo, ma le falde larghe), avete proposto che l'esperienza della cera si faccia con mettere i solidi prima nel fondo dell'acqua, acciò che, senza chieder che si bagnino, la natura faccia da sè; e questo dolce inganno avete tentato più volte: ma io credo che l'ingannatore rimarrà a' pie dell'ingannato. E dico maggior cosa. Piglisi, di più, la materia che avete ridotta al modo vostro, fatene falda larga e asciutta; noterà: fate poi di essa una palla e bagnatela; che mai non calerà, se non ci aggiungete peso, il che non conviene. Ed ecco che il bagnare o non bagnare non opera, secondo la vostra proposizione, anche nella vostra particolar materia, come dissi di sopra: parlo di quella materia che è quasi in equilibrio, cioè quella che usate voi per le vostre esperienze, pur che non vi si aggiunga altro peso; perchè altramente sarebbe mutata di gravità in ispezie la materia, e fatta più grave dell'acqua, dove prima era più leggieri, e perciò calerebbe al fondo. E che gridate voi mai altro contro di noi, se non questa mutazion di leggerezza e gravità in ispezie, mutata per cagion dell'aria? Vorrete che a voi sia lecito mutarla per causa del piombo aggiunto alla cera? Se adunque non vi è lecito non solo con l'altre materie, ma nè eziandio con la vostra, potrete mostrar che il vostro argomento si rivolge contro di voi, dicendo: Non ogni sorte di figura di qualsivoglia grandezza, bagnata va al fondo, e non bagnata resta a galla, perchè l'esperienza è incontrario. Veramente i vostri scritti son pieni di fallacie; e perciò non posso creder che non le conosciate, ma sia da voi fatto ad arte, come dissi in principio. Che dite, Sig. Galileo? le figure alterano i corpi solidi circa il descendere o non descendere, ascendere o non ascendere? Non fanno anche alterazione per entro lo stesso corpo dell'acqua, ben che bagnate, poi che operano effetto di più tardo e di più veloce ascendere o descendere, come voi concedete? Ma che direte, se di qui a poco vi farò veder che, anche bagnate, le figure staranno immobili nel fondo dell'acqua? Forse la ragion vi persuade, che la figura, che è cagion del più e men veloce, non possa, come dite a car. 6 [pag. 66. lin. 25-28] e altrove a 32 [pag. 95. lin. 29-32], esser causa della quiete ancora? Anzi contro la vostra ragione si oppon la ragione e l'esperienza. E poi che la materia non vi può dar più aiuto veruno, cerchiamo di mostrarvi il medesimo anche della figura, provando primieramente che male argomentate a dir che la medesima figura in numero non può esser cagion nella stessa acqua in numero ora di quiete ora di tardità di moto già mai, perchè dite esser necessario che ogni figura particolare, che discende al fondo, abbia una determinata tardità sua propria e naturale.
La ragione del male argomentare è, perchè non volete che una stessa cagione possa produr diverso effetto nel subbietto medesimo, contro ogni ragione; perchè rispetto diversi accidenti e mutazioni si posson dalla medesima causa produr diversi effetti, come pur concedete voi medesimo dicendo: «se qualche nuovo impedimento non se le arreca», a c. 32 [pag. 95. lin. 28-29], bastante a far la quiete, come in effetto si vede: il quale impedimento, perchè concorre e aiuta la tardità del suo muoversi, la riduce a tale, che più non si muove; e questo par che sia sutficiente a darci la vittoria, non negando nè avendo mai negato noi, nè Aristotele, che altre cagioni concorrano; e il negarlo sarebbe da uomini irragionevoli. L'impedimento, adunque, è quello che dice Aristotele, cioè le molte parti del corpo subbietto alla tavoletta così larga, con gli altri suoi accidenti, che alla sua inabilità del dividere e dissipare fanno tanta resistenza, che rimane in tutto immobile; sì come la forza d'un uomo potrà sommergere un navicello, che da un fanciullo non si tufferà mai: e così è manifesto, che quello che patisce più e meno resistenza a muoversi e operare, può averne tanta contro la sua virtù, che in tutto quieti dalla sua operazione. E per chiarezza maggior di questo, avvertasi che, sì come si debban comparar le gravità e leggerezze de' solidi con le gravità e leggierezze in ispezie del mezo per sapere se un solido ascenderà o discenderà o starà a galla, così si devon comparar le forze del dividente e del divisibile per causa delle qualità dell'uno e dell'altro, come è la figura e la siccità delle falde, la crassizie e continuità dell'acque, atte a cagionare la tardità del moto e la quiete, come attualmente si vede in queste cause per accidente. Qui adunque è la vostra fallacia; perchè parlate del mobile secondo sè, e non per accidente, nè in rispetto al mezzo e al subbietto in cui deve operare. Però, se volete che la virtù delle falde sia finita, per quanto aspetta alla tardità cagionata dalla minor gravezza, come e veramente, bisogna dire che possa a quella opporsi una virtù più possente, che impedisca in tutto il suo descendere e cagioni quiete: la qual virtù può esser non solo nel mezzo, ma anche nella figura; poi che anch'essa ha facultà di ritardare il moto, considerata però nel corpo e materia qualificata come naturale, di cui la siccità opera più e meno, secondo che più e meno spaziosa è la figura a cui repugna l'umidità dell'acqua. Chiunque ha principio di ben filosofare sa che ogni agente in tanto opera, in quanto il paziente è disposto a ricever l'operazione; e quel paziente che non è punto disposto, impedisce totalmente l'operazion dell'agente; che perciò non tutti gl'infermi di una medesima infirmità guarisce una medicina medesima, perchè ha virtù di sanar quel male. Ma a che vo io cercando esempli, s'io posso con la vostra dottrina medesima convincervi, sì come in tutti gli altri capi di questa materia? Con la medesima cera e piombo voi riducete la gravezza d'un corpo a tal segno e grado di tardità, che, se ben per sè medesimo non è in termine di quiete, la sua virtù di discendere è così ridotta debole e fiacca, che in comparazione alla resistenza dell'acqua per la sua gravità non può muoversi, non superando quella di peso. Ora supponete che ella fosse ridotta a tanta minima gravezza di più dell'acqua, che ella discendesse al fondo lentissimamente: chiara cosa è che, se quello che opera la figura di più tardi fosse aggiuntovi, con mutar quel corpo di rotondo in una falda larga, ella cesserebbe di più muoversi, cagionando per la sua tardanza l'equilibrio; nè voi il potete negare, concedendo che le figure sian cagione di più tardi o più veloce movimento ne' corpi. E avvertasi, che da questo si conchiude ancora necessariamente contro di voi, che, ben che si prendesse la materia eletta da voi e si sommergesse nell'acqua, ad ogni modo per virtù della figura non calerebbe al fondo. Adunque la figura è cagion della quiete, come del più tardi muoversi, ne' corpi, eziandio sotto l'acqua; nè conchiudono cosa alcuna i vostri sofistici e fallaci argomenti. Nè mi dite che, se ciò fosse vero, io lo mostrerei in isperienza e atto pratico: perchè io dirò a voi: Datemi in atto un corpo che stia sotto il livello dell'acqua senza calar punto o salire, sì che stia in equilibrio appunto; e io vi darò in atto la figura larga star sotto l'acqua senza moto, e la rotonda del medesimo peso e materia calare al fondo. Ma perchè mi risponderete, a car. 10 [pag. 70, lin. 30-31], che le conclusion sien vere e le cagioni sian difettose, e che perciò il fatto riesce altramente, io vi rispondo il medesimo; e in particolare una delle cagioni difettose, che impedisce l'effetto, è il mezo fluido co' suoi momenti.
Soggiugnete un'esperienza per mostrar che la figura, con la resistenza dell'acqua all'esser divisa, non hanno che far nulla nell'effetto del discendere o ascendere o fermarsi nell'acqua. L'esperienza è, che pigliate, per lo contrario di noi, una falda larga più leggier dell'acqua, e la ponete in fondo, e ad ogni modo, come è lasciata libera, se ne sale alla superficie dell'acqua senza difficultà veruna; e nulladimeno parrebbe che, se la figura con la sua larghezza e l'acqua con la sua resistenza alla divisione operassero, la falda non dovesse poter ascendere, ma si rimanesse in fondo, come la nostra rimane in superficie dell'acqua. Altra, per tanto, volete che sia, dico, la cagione perchè l'assicella nostra d'ebano non cali al fondo, fuor che l'impotenza a fender l'acqua per la sua larghezza.
A questo fallace argomento e non simile esperienza, senza riprovar le ragioni peripatetiche, affermanti l'acqua esser continova e tenace (avvertendovi che questa tenacità, che si chiamerà alle volte viscosità, non crediate che sia di quella efficacia che è la pania o la pece, e però vi paia duro il passarla), si risponde primieramente, che Aristotele non si è ristretto a voler che la resistenza nasca solamente dalla viscosità dell'acqua; anzi, non avendone parlato in questo luogo, si può dir che non l'affermi e non lo neghi: di maniera che, dicendo egli che il galleggiare e soprannotar delle figure larghe nasca dall'impotenza a divider il mezo, perchè molte parti di quello sotto sì larghe figure si comprendono, e che però non facilmente si dissipano e distraggono, potreste attribuirlo pur, come a voi piace, alla resistenza che fa la gravezza dell'acqua al calar delle falde, senza pregiudizio alcuno del detto d'Aristotele; essendo che alla distrazion delle parti del corpo, massimamente del corpo grave come è l'acqua, vi è resistenza, benchè l'acqua fosse come un monte di rena o di farina, cioè di parti divise e non continue, come affermaste innanzi a Sua Altezza Serenissima contro il Sig. Papazzone, e che perciò non vi fosse, quanto alla continuità, resistenza alcuna. Ma perchè la gravità dell'acqua non è sufficiente a resistere a un corpo più grave di lei, che non la penetri e divida, di qui è che altre cagioni bisogna che concorrano a far la total resistenza: tra le quali è principale la figura, delle cagioni estrinseche parlando, siccome intese Aristotele, che perciò a lei attribuì cotali accidenti, non escludendo l'altre cagioni. Ora, che la viscosità e tenacità del continuo dell'acqua adoperi resistenza alla divisione, chi mai potrà negarlo? Io, direte voi, il nego, perchè nego che ella sia continua; però bisogna provarlo.
Provasi, adunque, in questa maniera. Ogni corpo continovo è tale, perchè le parti di esso corpo sono unite di maniera, che attualmente una sola superficie lo circonda: ma l'acqua ha una sola superficie, parlo di qualche quantità che noi eleggessimo, posta in un vaso o altro luogo che la contenesse, acciò che non mi pigliaste in parole: adunque è corpo continovo. Secondo, tutti i corpi che si mescolano e son flussibili, massimamente quegli della stessa materia, come è l'acqua, si confondon le lor parti in modo che si fanno un corpo solo e continovo: l'acqua dunque è continova, e non divisa. Terzo, l'aria ha men virtù di resistere alla divisione che non ha l'acqua, e nondimeno è un corpo continovo: adunque la poca, resistenza alla divisione non argomenta che l'acqua non sia corpo continovo. Nè si può negar nell'aria la continuità; perchè altramente vi sarebbe il vòto, il che è impossibile: e se voi concedeste il vòto, provatelo e vi si risponderà mostrando che v'ingannate. Quarto, i corpi continovi son tali, che non si può muovere dì quegli una parte, che non se ne muovano molte o tutte, secondo la durezza o flussibilità del corpo; come, v. g., d'una trave non si può muovere una parte, che non si muovan tutte e nel medesimo tempo: ma dell'acqua, perchè è tenue e flussibile, se ne muovon molte quando il movimento è debole, e tutte quando è gagliardo, anche nel primo impeto. E che sia vero, gittisi un sasso nel mezo d'un vivaio; a quella caduta si farà un cerchio nell'acqua, e quello ne farà un altro, e così seguitando andrà fino alle sponde. L'ondeggiar di quegli arginetti bistondi intorno all'assicella senza rompersi in particelle, che altro lo cagiona che la corpulenza dell'acqua? Mostrate tale effetto ne' corpi che non son continui. E come farebbe l'acqua del mare quei cavalloni che paion montagne, se le parti non istessero attaccate e unite in un sol corpo continovo? Quando il vento leva la rena e la polvere in aria, perchè quel globo non è tutto un corpo continovo, non si veggono i grani di essa e i bruscoli distinti? Voi ne mostrate l'esperienza, dell'acqua essere il corpo continovo, quando mettete il cilindro, cioè una colonna, in un vivaio, per sommergerla dentrovi; perchè quando si parton dal luogo, dove entra la colonna, quelle parti che occupavan quello spazio, successivamente tutte l'altre parti si mutano, il che non fariano se il corpo non fosse continovo, ma disgregate le parti e divise dal tutto come la rena e la farina ammassata. Nè mi si dica che il medesimo farà anche la rena: perchè, acciò che si levi l'occasion di sottilizare, cavato che n'avrete la colonna, tutte le parti dell'acqua ritorneranno unite a riempiere il luogo, e resterà tutta la superficie piana; ma non già le parti della rena, anzi ne cadrà parte e non finirà di riempiervi, e anche si faranno delle aperture nella superficie: segno manifesto, da tutti gli effetti nominati, che l'acqua è corpo continovo, e non come la rena e come la farina. Non possono in modo alcuno i corpi flussibili, toccando altri corpi della natura loro, star separati come i corpi sodi, ma si mescolano e si uniscono, se non vi è qualità repugnanti per qualche accidente. Ma non si vede questo anche ne' misti, che son composti di nature contrarie? Il corpo umano e tutti gli altri corpi degli animali non son continovi? Domin, che voi diciate che sien le parti separate dal tutto? Se ciò fosse vero, le parti dell'uomo, che, essendo unite col tutto, fanno che è uomo (parlo della parte corporea), non sarebbono altramente parti di esso, ma ciascuna, un tutto da sè; e così l'uomo non sarebbe uomo, ma una massa di più corpi, sì come la rena ammassata non è un corpo, propriamente parlando, ma un monte di più corpi. Siate voi ancor chiaro, che l'acqua sia corpo continovo, e che le sue parti siano unite, e non separate e ammassate come la rena?
In conseguenza della continovità, non credo che neghiate la viscosità e corpulenza: perchè io vi domanderò, donde nasca che i corpi misti si tengono uniti e attaccati insieme. Non già dalla terra; perchè essendo arida e secca, non ha viscosità, nè unione, e perciò non può darla ad altri: adunque nasce dall'acqua, perchè, essendo umida e continova, s'imbevera nel terreo, e mescolasi bagnando la sua siccità, e con la sua viscosità ritien le parti della terra insieme, e la terra, come dura e arida, termina il fluente umido dell'acqua; che perciò si dice: Nullum corpus terminatum est sine terra et aqua. Quelle gocciole d'acqua che pendono dalle gronde de' tetti, se non fossero viscose, non calerebbono appoco appoco allungando; e non si staccano fin che il soverchio peso non vince la tenacità loro; che però il verno si veggono alle gronde alcuni ghiacciuoli così lunghi, che paion di cera. Aggiungo un esemplo vostro, per provar più chiaramente al senso la crassizie dell'acqua e insieme la continuità. Ricordatevi, a car. 56 [pag. 122, lin. 10-15], che voi fate abbassar la testa all'amico, e gli mostrate che, nel cavar l'assicella fuor dell'acqua, l'acqua seguita sopra il suo livello, per la grossezza d'una piastra, di stare attaccata alla superficie di sotto di detta assicella, e la abbandona mal volentieri; come anche dite a 39 [pag. 102, lin. 29-34], concedendo la violenza alla divisione per la resistenza del divisibile. Segno è che non solo è continova, ma viscosa ancora; il che non può fare nè la rena nè la farina. E la farina, per dare un esempio che lo sanno le donne, mescolata con l'acqua, non solo si unisce e si fa un corpo continovo, ma si fa, mediante l'acqua, viscosa e si attacca; e lo confessaste disputando dinanzi all'AA. SS., non sapendo scapparne. Or se la farina per l'acqua si fa viscosa, l'acqua sarà maggiormente tale, per la regola comune de' filosofi. Dove trovate mai che veruna cosa fosse tenace, se non le cose umide? L'aride e secche non posson mai attaccarsi e esser viscose, ma spolverano e non si tengono insieme. Nè sia chi dica, il pane fatto e cotto e poi biscottato benissimo, sì che a pesarlo si vegga che tutta l'acqua n'è uscita, ad ogni modo si tiene insieme, nè si dividan le sue parti benchè l'acqua non vi sia più, e che perciò non sia l'acqua altramente che lo faccia stare unito, e continovate le sue parti. Imperochè si risponde, che è l'umido ad ogni modo che lo tiene insieme, e che, sì come l'umido dell'acqua aggiuntavi, mentre che non fu cacciato, lo tenne unito e continovo, così con l'aiuto di quello, per forza del calor del fuoco, si venne a eccitar l'umido innato e radicale della stessa farina, il qual, venendo in superficie e in manifesto, si congiunse con l'umido estrano, e partito poi l'estrano umido, vi rimase egli, facendo l'officio medesimo di tener congiunte e unite le parti; il che non avrebbe potuto fare senza quell'umido esteriore, perchè il fuoco avrebbe abbruciata la farina, non avendo umido bastante a difendersi, per essere le parti separate e, per la piccolezza e poca quantità loro, non atte a difendersi dal fuoco e conservare il proprio umore, che non isvanisse. Esemplo chiarissimo ne sia il vedere che l'argento e l'oro, ridotti in polvere minutissima e posta nel fuoco a fondere, alcuna di quelle particelle e corpicciuoli non si posson fonder nè incenerire, perchè l'aria li refrigera molto più che un corpo o massa maggiore, si che l'umido radicale non si consuma e non viene in superficie, acciò che si possano attaccar le parti; ma mescolate molte parti insieme, il foco a poco a poco vi s'intensa, e intenerendole fa che elle si ammassano e conferisconsi l'umido, e finalmente si fondono, e fassi tutto un corpo unito; il quale, avanti fusse fuso affatto, se l'aveste cavato fuora raffreddato, avreste veduto essere un corpo o massa tutta spugnosa, ma però le parti in molti luoghi attaccate, perchè l'umido innato per lo fuoco fu cacciato dal profondo in superficie, e congiunse le parti. Ora vedete che, o per l'umido esterno o per l'umido radicale, le parti si uniscono, e che l'umido, avendo facultà, di unire e attaccare, per conseguenza è corpo unito e continovo, e viscoso ancora, e conseguentemente fa resistenza alla assicella d'ebano larga, che non cali al fondo. Aggiungo che tutti i corpi che si distendono e son flussibili, son continovi e viscosi; che perciò le parti, stando attaccate insieme, seguon tutte le prime che si muovono e si dilatano. Quelle bolle che i fanciulli chiaman sonagli, che vedete fare alle volte ne' rigagnoli per qualche grossa pioggia, come si farebbon se l'acqua non fosse continova e tenace? Il medesimo mostrano le spume che fanno l'acque cadenti da alto, perchè sono molte bolle attaccate insieme ripiene di aria. Questo non mostrerete voi nella rena o nella farina, perchè non son continovi. O se per la vostra virtù calamitica l'aria s'attacca e si unisce all'assicella d'ebano più fortemente che le mignatte alle gambe de' buoi, perchè non direte il medesimo delle parti dell'acqua unirsi insieme, poi che vi è più ragion di simiglianza? Adunque l'aria sarà corpo unito e continovo e viscoso, e tanto più l'acqua. Qual corpo giamai s'attacca a un altro, se non è viscoso? L'acqua immolla e s'attacca agli altri corpi; adunque è viscosa. In oltre, se l'acqua non fosse corpo continovo, quando ella ghiaccia non sarebbe tutto un corpo, ma si vedrebbe una massa di corpicciuoli come la rena, massimamente rarefacendosi nel ghiacciar, come credete voi. E chi non vede che, se quei corpiccioli d'acqua così molli e flussibili stanno disuniti, secondo il creder vostro, tanto più dovrebbono stare essendo ghiacciati, perchè non possono unir le superficie e mescolarsi per far tutto un corpo? Se quando gli stampatori componevano il vostro Discorso aveste osservato che davano acqua alle formette perchè i caratteri si attaccassero insieme e non si scomponessero, son certo che avreste dato bando totalmente a questo capriccio di dir che l'acqua non sia viscosa e continova, per non mostrar di saperne manco di loro. L'acqua adunque, come tale, può far resistenza alla divisione; e perciò l'assicella d'ebano di figura larga, impotente a dividere, sta a galla.
L'esperienza che fate per l'opposto, dissi non esser simile, ma fallace; perchè bisogna dar le condizion del pari e i termini abili, e vedrete l'effetto riuscire anche nelle falde di noce più leggieri dell'acqua, e starsene al fondo senza ritornare a galla, perchè saranno impotenti a divider l'acqua. Ma perchè poste nel fondo son bagnate, e quelle d'ebano poste di sopra all'acqua sono asciutte, sì che l'acqua nelle prime non ha a contrastar con la siccità, sua contraria, perchè son molli, si unisce facilmente, convenendo l'acqua con l'acqua; e perchè nel fondo l'assicella vien sotto, fra la terra e sè, penetrata dall'acqua, come più grave, non può esser ritenuta, e l'assicella d'ebano in superficie dell'acqua non può dall'acqua, come grave, esser cavalcata per propria inclinazione; e finalmente, perchè l'acqua, essendo più grave della falda di noce, ha facultà di scacciarla a galla, ma non ha già forza di premere e spinger l'assicella d'ebano al fondo, che non galleggi; per tutte queste ragioni, Sig. Galileo, potrà ella, e non gli avversari suoi, cessar di attribuire il soprannotar dell'ebano ad altra cagione che alla larghezza della figura e alla resistenza alla division dell'acqua. E quell'altra cagion non più stata fin ora osservata, crediate pur che, se fosse vera, non toccava a voi ad osservarla, perchè sareste venuto tardi, cioè che per nuovo accidente sia fatta più leggier dell'acqua la falda d'ebano: anzi dovreste assolutamente cessare e quietarvi, perchè io vi mostrerò che necessariamente l'argomento vostro si ritorce contro di voi. La detta assicella di noce, perchè è di figura larga, verrà a galla più tardi che non verrà in figura stretta, è vero? Di questa ritardanza che cosa n'è cagione? Non già la gravità dell'acqua; perchè la maggior gravità non opera se non per la parte di sotto all'assicella, spingendola in su, e quanto è più grave l'acqua dell'asse, tanto più velocemente la spinge, nè può ritardarla, perchè farebbe due effetti contrari nei medesimo tempo. L'acqua che è disopra all'altra superficie della tavoletta, non può con la sua gravezza ritardarla, perchè l'acqua nell'acqua non aggrava, atteso che, essendo tutte le parti congiunte, l'una sostien l'altra, e perciò non pesano: come si prova per esperienza, che un uomo sotto l'acqua non sente il peso di quella che gli è sopra; nè voi lo negate, anzi lo affermate a c. 36 [pag. 99, lin. 37 — pag. 100, lin. 2]; perchè altramente non avreste cagion di dubitare come possa star che, se la figura è cagion del galleggiar del solido, egli non galleggi anche posto sotto il livello dell'acqua; perchè da voi medesimo rispondereste che non galleggia e cala a fondo, perchè l'acqua, che ha cavalcato sopra, col suo peso lo facesse calare. Adunque il più tardi ascendere, non si cagionando dalla gravezza, poi che l'acqua di sopra non aggrava, è necessario dir che si cagioni dalla larghezza della figura, per la difficultà a dividere il continovo dell'acqua. Digrazia, cessate voi per tanto di più disputare; e se non volete cessar per grazia, cessate perchè la ragione e l'esperienza vi forzano.
L'aggiunta dell'esempio dell'oro in comparazion della cera, perchè sono svanite le vostre ragioni, non avrà che far nel proposito nostro; perchè è vero che a la falda della cera manca di quelle cagioni che non mancano all'assicella d'ebano nè alla falda d'oro, come si è provato, e perciò è la figura larga e spaziosa che ferma l'oro e l'ebano a galla. Nè si toglie per questo che non sia contraria la cagione de' diversi effetti, se aprirete gli occhi dell'intelletto, levandone la benda della troppa affezione.
L'esempio dell'acque torbide, che per molto spazio di tempo reggon la terra avanti che vada al fondo, non argomenta contro la resistenza: perchè se que' corpi. son piccoli, vedete bene che indugiano assai a dividere; e pure, per esser terra, dovrebbon calar subito, per esser molto più grave in ispezie, non si considerando appresso di voi la grandezza del corpo, ma solo la gravezza in ispezie. Però si ritorce l'argomento.
L'esperienza della trave o navicello tirato con un capello di donna, io negherei potersi ben fare, per molti accidenti, anche quando il capello fosse quel di Niso, che era fatato. Ma che volete inferir, quando l'esperienza sia vera? Non dite voi, che se ben nel moto veloce si cagiona resistenza, questo accade per cagion delle parti dell'acqua, che dovendo cedere il luogo al corpo della nave, è necessario che elle mutin luogo, e nel mutarlo scaccino l'altre parti contigue, il che non si può fare senza resistenza, facendosi questa mutazione successivamente per ispazio di tempo? E io domando se, quando la nave si tira dolcemente dal capello, essa spinge e scaccia le medesime parti del luogo loro, e quelle scaccian l'altre parti dell'acqua successivamente, come prima. Direte di sì: adunque si fa con resistenza, ma con minor violenza, perchè si fa con più tempo; però la resistenza non apparisce. O perchè non si potrà dire il medesimo della resistenza alla divisione? Che ragion c'è egli di differenza? Perchè non val per me, come per voi, la medesima ragione? Sarà, adunque, falso che la vostra esperienza conchiuda per mostrar che l'acqua non faccia resistenza alla divisione: nè sarà men lecito a me adoperar la medesima esperienza contro di voi, e dire che la resistenza delle parti non è vera nel cedere il luogo, perchè, se ella vi fosse, nel tirar la nave con un capello si strapperebbe, e non verrebbe dovunque io la tirassi, come ella viene senza resistenza alcuna. E se mi rispondete che vi è resistenza, ma non appare, perchè si tira tanto dolcemente e in sì lungo tempo che le parti si possono accomodare senza violenza sensibile a noi, io risponderò lo stesso per provar la resistenza alla divisione; ed è vero, perchè il più e men resistere non fa che non vi sia resistenza, benchè non appaia: sì come il rodere e consumar che fa l'acqua continovamente scorrendo e percotendo su la pietra, perchè si fa adagio e con lungo tempo, non appare, nè si vede la resistenza alla division del continovo della pietra, ancorchè vi sia e molto maggiore che quella dell'acqua contro la nave; adunque, perchè non apparisce, non sarà vero? Vedete, per tanto, quello che vagliono i vostri argomenti: non ad altro che a convincer voi medesimo.
L'aggiunta all'esempio dell'acque torbide non conchiude, perchè l'argomento è fallace. La ragion della fallacia consiste in voler che la resistenza alla divisione importi non si lasciar divider da forza alcuna, o vogliam dire, assolutamente resistere. Ma questo è falso, perchè, secondo le diverse forze del dividente, può il divisibile non esser diviso, ed esser più presto e più tardi diviso: come, per esempio, un coltello senza taglio non dividerà la carne cruda, e fattoli il taglio la dividerà, ma con fatica se l'adopera un fanciullo, dipoi facilmente se l'adopera un uomo; e se la carne sarà cotta, non resisterà che non si lasci punto dividere, ma solo alla presta divisione dalla man del fanciullo, e quasi niente dalla man dell'uomo in comparazione al fanciullo. Altramente, se intendeste della total resistenza, non solo non farebbe a proposito, come dico in risposta a car. 68 [pag. 135, lin. 31-33], ma sarebbe contro la vostra dottrina; imperochè affermate, dove è la resistenza assoluta, esservi anche la resistenza secondo il più e meno resistere alla divisione, come anche a 32 [pag. 96, lin. 1-5], e altrove.
Signori lettori, l'avversario mio comincia dolcemente a calar le vele e rendersi vinto; perchè nella aggiunta, che seguita la sopranominata, non istà più tanto resoluto nel parer suo, che nell'acqua non sia resistenza alla divisione, dicendo egli: «Ora, io non son ben risoluto se l'acqua e gli altri fluidi si devon chiamar di parti continue, o contigue solamente». Nè vi paia gran fatto che egli dica di inchinare a creder che sian contigue, perchè la ragion che lo muove, se ben è senza fondamento, non è stata conosciuta da lui per tale; come conoscerà per questi miei scritti, dove s'è provato efficacissimamente, l'acqua esser continova. Vedesi ancora che egli arrena nel sostener quella virtù calamitica, poi che egli si riduce a chiamarla un'altra virtù incomparabilmente maggior della union del continovo e del resistere a separar semplicemente le parti contigue del corpo, qualunque ella si sia: e così confessa ancora la resistenza alla division del continovo, oltre a quella della divisione e separazion delle parti contigue, ma vorrebbe darle un'altra cagione diversa dal parer comune, perchè gli piaccion le novità. Le ragion che adduce per provar che la resistenza alla division del continovo non ci sia, consistono nella fallacia tutte del più e del meno in rispetto al divisibile e 'l dividente, nè ci è niente di nuovo che non sia stato riprovato: anzi che egli concede che l'assicella galleggi e non divida l'acqua, ma non per causa della resistenza alla division del continovo. E a dirla in una parola, mille volte il dì vuole e disvuole.
È pur vero che anche dalla tavoletta in giù l'acqua non è però divisa, ed è la medesima, dice il Sig. Galileo, dalla superficie sino al fondo, di gravità e di spessezza e viscosità, se fosse viscosa; e nondimeno cala senza ritegno alcuno, che mai non si ferma. Si risponde a questo poco di dubbio, che la figura si deve considerar congiunta alla materia con tutte le sue passioni, come voi medesimo concedete a c. 27 [pag. 90, lin. 34-36]. Ora, mentre è sopra l'acqua, opera nella figura la siccità contraria, all'umidità e flussibilità dell'acqua, sì che quanto più larga e spaziosa sarà la figura, tanto maggiormente sparsa in quella si troverà la siccità del corpo, e, per conseguenza, maggiore impedimento avrà l'acqua alla sua divisione nella superficie che sotto l'acqua, benchè ve ne sia molta da dividere: però la siccità maggiore, accresciuta per l'ampiezza della figura, contrasta con l'acqua, e non lascia scorrerla e cavalcar la superficie di sopra e unirsi con tutte le sue parti con la stessa acqua; la qual, fino che non è unita e congiunta, fa resistenza al calar della tavoletta, che però fa quegli argini bistondi e gonfiati, come violentata dal peso della falda, la quale, per esser larga ancora, donde si cagiona compartimento del peso sopra molte più parti di acqua, non vince la resistenza: ma quando la vince, come è riunita l'acqua con l'acqua, allora cessa la resistenza assoluta, e in quell'impeto del congiungersi dà il crollo col suo momento alla tavoletta, la quale, come più grave dell'acqua, non avendo più resistenza alla total divisione, scacciando successivamente dal centro alla circonferenza di sè medesima le parti dell'acqua sottoposta, cala al fondo, ma lentamente, perchè ci vuole spazio di tempo, e più e meno secondo che la piazza della falda è larga, per dividerle e scacciarle tutte dal centro alla circonferenza, per occupare il luogo loro. Onde che maraviglia se, ben che l'altre parti dell'acqua non siano divise, la tavoletta cala al fondo ad ogni modo, quando avrà superata la difficultà di dividere il principio e la superficie? Nè si difende la superficie di sotto dell'assicella con la larghezza e siccità che non si sommerga, non solo perchè è subito tutta bagnata nel posar della tavoletta, ma ancora perchè il peso è maggior nel principio che quando è alquanto sommersa, perchè di già l'acqua col suo peso le fa resistenza e rendola meno atta ad aggravare, come dite anche voi a car. 35 [pag. 99, lin. 4-5]. E però non è debol refugio questa maggior gravezza, come stimate a car. 38 [pag. 101, lin. 26], perchè non l'argomentiamo in quel modo che dite voi; e perciò meglio contrasta dalla superficie di sopra al calare l'assicella, che dalla superficie di sotto: donde accade che alquanto cali sotto l'acqua, e non tutta; e molto più calerà se il corpo è più grosso, come si vede che avviene a quo' vostri conetti. Forse dirà chi che sia che, se ci interviene la siccità a questa resistenza, non sarà, adunque, la figura nè la continuità dell'acqua cagion dello stare a galla. Ma si risponde, ch'è da avvertire, come si è detto disopra, che non si è mai negato, nè si può negare, che a cotale effetto non concorrono più cagioni; però si fa menzione della figura, come principal causa fra tutte l'accidentali, benchè basterebbe quando ella cagionasse tale effetto ancora come causa secondaria, non ci essendo ristretti ad altro. E che ella sia principal cagione, è manifesto: perchè subito che si rimuove la figura, l'assicella cala al fondo, come convertendola, per esemplo, in una palla, dalla quale non è già rimossa la siccità, nè levata la qualità dell'acqua. E se bene a bagnarla si leva la siccità e cala al fondo, senza rimuover la figura nè altro, io risponderò, prima, quel che rispondete voi, se ben voi male e io bene rispondo; cioè che non è più un'assicella d'ebano, ma un composto d'acqua e d'ebano, e il corpo si dee prender semplice, con le qualità che gli ha date la natura, e non alterarlo. Secondo, dirò che nè l'acqua nè la tavoletta posson mostrar la virtù loro l'una contro l'altra, a bagnarla; perchè l'acqua trova acqua nella congiunzione e non legno, il quale è duro e non flussibile, è tenace e secco e non umido, donde deve nascere l'operazione come da qualità contrarie. Terzo, dirò che la superficie del legno non può operar nulla, non sendo in atto scoperta (e ogni filosofo sa che la virtù, che non si riduce all'atto, non opera): in atto veramente sarebbe la superficie dell'acqua con la quale fosse bagnata la tavoletta, e non la superficie dell'ebano. Adunque la figura è causa di far galleggiar la falda d'ebano, e causa principale tra le accidentali, e il bagnarla non è lecito, sì come nè anche il tuffarla. Perchè, a dirne il vero, se ella si tuffasse, essendo più grave dell'acqua, che mai la può far tornare a galla? Oltre che, dicendosi che elle sopranuotano, segno è che si devon posar sopra, e non sotto.
Rimane ormai, per le cose dette, in chiaro, che la figura inabile a divider l'acqua, perchè l'acqua è continova e viscosa, galleggi: e non è vero che l'acqua sia eguale nel fondo e in superficie, come poi si dirà. Ma perchè vi ritrovate, Sig. Galileo, ristretto fra l'uscio e 'l muro, veggo che volete far prova di quel vostro accidente che è sola cagion del galleggiare, non più stato avvertito, e cercar se fosse bastante a sollevarvi in alto; che però l'attribuite all'aria, volendo che ella abbia facultà di rendere i corpi a cui si accosta più leggieri in ispezie che non son per natura loro, e che questa sia la cagion che l'assicella d'ebano galleggia, stimando che l'aria sia rattenuta per entro quegli arginetti dell'acqua che si fa d'intorno la tavoletta. Imperocchè, o sia l'aria insieme con gli arginetti, o sia che altra cosa si voglia, basterà ad Aristotele e agli avversari vostri che non sia falso il detto loro, ma il vostro, cioè che la figura n'abbia che fare: anzi si prova che tutte l'altre cagioni accidentali della quiete e galleggiamento della falda larga e distesa abbian cagione dalla figura, come principale tra le dette cagioni. Questo non può negarsi; perchè, levata la figura, non operan più gli arginetti nè l'aria cotale effetto, come si disse disopra. Però, quando chiedete a' vostri avversari che levino l'aria dalla superficie disopra, che farete calare al fondo l'assicella, la domanda non è giusta; perchè si farebbe pregiudizio alle qualità naturali della falda, per le quali Aristotele affermò il ferro e il piombo soprannotare. Posso ben farvi piacere di levarvi questo scrupolo della testa, cioè mostrarvi chiaramente, per ragione e per esperienza, che l'aria in questo affare non opera cosa alcuna, come se non vi fosse; che perciò Aristotele volle che il soprannotare s'attribuisse all'ampiezza della figura impotente a dividere il mezo, perchè molto di quello comprende sotto di sè, aggiugnendo che si deve far comparazione ancora con la virtù della gravezza tra 'l dividente e 'l divisibile.
L'aria, adunque, si può considerare in tre maniere ritrovarsi con gli altri corpi, secondo il proposito nostro: o come locata, o come in misto, o come contigua. Nel primo modo si considera, quando, per esempio, è in un vaso di rame, il quale, se sarà messo sopra l'acqua, non calerà al fondo, non solo per l'ampiezza della figura, ma ancora perchè, per tal figura, l'aria che vi è dentro non può esser cacciata dal corpo dell'acqua che circonda e regge il vaso, perchè gli orli di esso vaso impediscono l'entrata dell'acqua, essendo sopra il livello di quella, sì che non può occupare il luogo dell'aria; la quale aria, per non dare il vòto abborrito dalla natura, cala sotto l'acqua per lo peso del vaso, contra la sua naturale inclinazione, che è di non potere star sotto l'acqua; e perchè si sente violentata, fa resistenza, e cagiona che il vaso, quasi da man sollevato, aggrava meno. Ma che dall'aria si cagioni tale accidente non si può dubitarne, perchè l'esperienza il dimostra, in particulare nelle trombe da cavare acqua e negli schizzatoi e strumenti simili, i quali tiran l'acqua fuor del luogo suo, non per altra ragione che per non dare il vòto nel luogo che occupava la mazza o pestone dentro quella canna.
Il secondo modo di considerar l'aria è come in mistion de' corpi; perchè quando ella vi si ritrova con tanto predominio che quel corpo sia più leggieri dell'acqua, egli soprannuota e non cala al fondo altresì, come nel primo modo; siavi l'aria formalmente o virtualmente, che al caso nostro niente rileva, poichè l'effetto è il medesimo. E avvertasi che l'aria che si ritrova ne' pori de' corpi attualmente distinta, e non come in misto in composizione, va sotto la medesima considerazione di quella che è in luogo; sì che se l'acqua potrà penetrar per entro quei pori, se prima per tal cagione il corpo galleggiava, come saranno ripieni quei pori dove era l'aria di già scacciata dall'acqua, calerà al fondo.
Nel terzo modo, quando si considera l'aria come contigua o vogliam dir congiunta, e che tocca solamente la piana e superior superficie d'un altro corpo, ella non ha facultà veruna di reggerlo sopra l'acqua, sì che l'assicella d'ebano, per esemplo, non possa calare al fondo, se per altro avesse podestà di farlo, come se l'aria non le fosse congiunta. La ragione è, perchè non vi è necessità alcuna che dia cagione all'aria di non lasciar libera la tavoletta; poi che l'acqua potrebbe scorrer su per la superficie di essa tavoletta liberamente e occupare il luogo che lascerebbe l'aria, come più gagliarda di essa aria e potente a vincer la resistenza che le facesse. E perciò, se non iscorre sopra di essa assicella, altra cagione è che la ritiene, cioè la mentovata di sopra e detta da Aristotele.
Direte che quegli arginetti che fa l'acqua d'intorno all'assicella operano il medesimo che se l'assicella fosse un vaso concavo con le sue sponde, se è vero che gli cagioni la siccità; e che però l'aria si racchiude là entro, o per non dare il vòto, come diciamo noi, o perchè l'aria, come volete voi, con una sua virtù calamitica stia unita con salda copula a quella superficie, e perciò non lasci scorrer l'acqua acciò faccia calare al fondo quella falda d'ebano: e questa virtù le donate voi per mostrar che possa adivenir l'unione dell'aria inseparabile per altra cagione che per quella di non dare il vacuo in natura; atteso che lo volete, come Democrito, sostener nel mondo senza incomodo alcuno, e che ad ogni modo stiano i corpi uniti. Ora gli arginetti, se si considerano nel primo modo, per non dare il vacuo, non possono, essendo di acqua labile e flussibile, fare argine alla stessa acqua che si continova con loro, sì che non possa scorrere e coprir l'assicella e cacciarne l'aria, che non può resistere alla forza dell'acqua, come più sottile, men grave e più flussibile di lei. Però, se l'asse avesse più forza dell'acqua, gli argini gonfierebbon tanto che la sua corpulenza si romperebbe e coprirebbe l'assicella, vincendo l'aria: ma perchè il peso dell'asse non isforza, di qui è che l'aria vi sta dolcemente e non violentata, e però non opera resistenza alcuna. Sì come ancora, se si dicesse che l'aria fosse cagion di quegli argini, perchè ritenesse l'acqua nel secondo modo che non potesse scorrere, cioè per essere ella attaccata all'assicella con la sua virtù calamitica, non potendo l'aria ritener l'acqua che non iscorra e insieme levi il pericol del vacuo. Oltre che, se questo fosse, non so io veder perchè gli argini non avessero più virtù, calamitica di congiungersi e riunirsi sopra la superficie della tavoletta, per esser di natura simili e più efficaci che non è l'aria a unirsi con la tavoletta, la quale, essendo di qualità più tosto contraria, non può amar l'unione come l'acqua con l'acqua: anzi perchè l'acqua convien con l'aria più che la tavoletta, non può l'aria farle resistenza sì che non si unisca. Adunque non è vero che l'aria operi cosa alcuna nel galleggiar della falda d'ebano.
Nè si può dir che, se ben gli argini non fossero cagionati dall'aria, basterebbe che vi fosse quella concavità, fatta da che altro si volesse, per far che l'aria vi stesse con violenza, per esser sotto l'acqua, benchè non molto: perchè si risponde che, non sentendo l'aria violentarsi per sì poco abbassamento, non può far resistenza alcuna. E che sia vero che non senta violenza, almeno bastevole a resistere che l'asse non cali, si vede manifesto; poichè, dovendo far forza di non calare, vincerebbe prima gli argini e gli tirerebbe sopra l'assicella per congiungerli, che ritener l'asse, la qual fa più forza per esser più grave e non cedente come l'acqua. Di più, si prova che l'aria non opera cosa alcuna al galleggiar della tavoletta, perchè a bagnar solamente quanto una corda intorno la superficie della falda d'ebano, e lasciar tutto il resto della sua piazza coperto dall'aria, ad ogni modo cala al fondo. Segno è che niente opera l'aria, ma la figura con la sua siccità, che non divide la resistenza del continovo dell'acqua. E che sia vero, facciasi per lo contrario, con darli pochissimo spazio per l'aria in comparazion del primo, e vedrassi ad ogni modo stare a galla, con tutto che nell'altra maniera non istesse. Il modo è lasciare asciutto intorno intorno quanto una corda, e bagnar tutto il rimaso della piazza dell'assicella; e se così qualificata non va a fondo, dicasi che non l'aria altramente n'è cagione, poi che la molta più non ebbe tal balía, ma le cagioni addotte da noi. Vana, adunque, è la credenza vostra nel giudicar che l'aria faccia tale effetto ne' corpi, dove ella si ritrova come contigua, e che ella operi con virtù calamitica: della qual virtù, perchè si è da me ragionato e disputato a lungo contro i seguaci del Copernico, che vuol che la terra si muova (e voi l'avete letto, e non ci rispondete cosa alcuna), però qui non ne dirò altro, poi che non l'avete pur provato, ma supposta per vera. L'esperienze che avete fatto per farla apparir vera non escludono le nostre cagioni; anzi provan più debolmente che le vostre altre ragioni, poi che mostran che questa aderenza calamitica non abbia virtù più che se ella non vi fosse. Imperocchè la palla di cera che prendete, è ridotta a tanta poca gravezza, che a pena cala al fondo; e perciò la piccolezza del suo peso è di così poca attività, che ogni poco che ne resti scoperta dall'acqua è cagion che ella non pesa più dell'acqua, e però galleggia, perchè quel poco d'argine che circonda quella parte scoperta la sostiene: onde l'aria che è nel bicchiere che voi tuffate rivolto su l'acqua, e lo spingete addosso alla palla, non fa altro effetto che di nuovo levarle dalla superficie l'acqua, la quale levata lascia che la palla torni sopra con quella superficie scoperta a galleggiar su all'aria, mentre così scoperta dal bicchiere si ricongiunge al piano di tutta l'acqua, tirandolo in su pian piano. Nè è di poca considerazione che la cera è corpo untuoso e subito si asciuga da l'umido, come è scoperta, e malamente convien seco. In oltre, perchè la resistenza della figura opera secondo il peso oppostole, di qui è che, fatta comparazione, tanto opererà la figura e piazza piccola contro il debol peso, quanto la molto larga contro il gran peso e potente. Questo effetto farà anche l'assicella d'ebano, se la scoprirete che sia asciutta. E per certificarvene, potrete, quando è sopra l'acqua, coprirla col medesimo bicchiere rivolto e far calar giù l'acqua e l'asse, spingendolo sotto, e poi ritirarlo in su; e l'assicella tornerà ancor ella. Che avete, adunque, provato di più con questa esperienza circa la virtù calamitica dell'aria? Non farete già tornar la falda d'ebano dal fondo col bicchiere, se sarà prima bagnata. Che efficacia, adunque, ha l'aria? E per rispondere a una tacita obbiezione, che è se altri dicesse: «A che fine pigliate le figure larghe per far galleggiare i corpi gravi più dell'acqua, se i medesimi corpi gravi si posson far galleggiare in ogni sorte di figura, e tanto stretta quanto larga o rotonda, purchè si riducano a certa piccolezza di corpo, che appena tuffati calino al fondo? adunque par che il tutto si debba riconoscer dalla gravità e leggerezza, come dice Archimede, e non da altro»; si dice che per questa cagione non si dee prender la vostra materia, come si disse disopra, nè della grandezza che dite voi le figure, poi che non mostrano diversità d'effetto; ma bisogna pigliar materia grave e in molta quantità, acciò che, avendo molta attività e peso, faccia tanta forza contro la resistenza delle figure, che si possa conoscer la varietà delli effetti, la qual non può vedersi per le dette ragioni in altra materia non così qualificata, non avendo le figure cagion di mostrarla: come le larghe, per causa delle quali, dilatandosi il peso, non vien superata la forza e resistenza dell'acqua, e galleggiano; e le strette son causa del discendere, perchè il peso è unito per causa loro, e contrasta con poche parti d'acqua, e così facilmente dividono il mezo cotali figure. Cessi, adunque, il Sig. Galileo di creder che le figure non operino diversità d'effetto: nè per questo resta che Archimede non dica il vero, che dalla gravità e leggerezza si cagioni l'andare al fondo e lo stare a galla, perchè egli intende delle cause per sè, e noi delle cause per accidente. Cessi ancora di creder che l'aria vi abbia parte in modo alcuno, sì come di attribuire a quella virtù calamitica, poi che si è provato esser falso.
L'esempio de' conii fatti di materia più leggier dell'acqua, per mostrar che l'acqua non faccia resistenza, a car. 30 [pag. 93, lin. 16-32], non conchiude cosa alcuna per le dette ragioni, e in particulare per lo vostre: poi che se volete, a car. 14, [pag. 76, lin. 6-9], che una falda piana più leggier dell'acqua si sommerga fin tanto che tanta acqua in mole quanta è la parte del solido sommersa pesi assolutamente quanto tutto il solido, come potrà mai un cono, che ha per virtù della piramide il peso più unito al centro, non calar con la sua base sotto l'acqua? Ma l'error vostro è nel creder che quando l'acqua è divisa in parte, non vi siano accidenti che impediscano il dividerla in tutto, come si è provato. Però non è vero che necessariamente, come dite, abbiamo creduto o dovessimo credere che la superficie inferiore del solido dovesse solamente baciar l'estremità della superficie dell'acqua e non sommergersi punto; ma necessariamente vi siate ingannato. L'esempio della cera e piombo, aggiuntovi il suvero, perchè è della natura di quegli dove aggiugnevate quel poco piombo per mutarli di spezie in gravità, non val niente; però potevate lasciarlo stare. L'acqua, adunque, fa resistenza alla divisione per le cagioni addotte, e non vi ha che far l'aria in modo veruno. Voi medesimo il conoscete, Sig. Galileo; poi che vedendo alcune falde non fare arginetti, dentro a' quali volevate racchiudersi l'aria, rifuggiste miseramente a dir che, dove l'acqua non faceva argini, l'aria stessa gli faceva a sè medesima, a car. 55 [pag. 121, lin. 19-22]. Potevasi dir cosa più sconcia di questa? Io torno di nuovo a mostrarvi che l'aria non cagiona quegli arginetti dell'acqua perchè la virtù calamitica la tenga in quella concavità attaccata, e che ella non vi fa resistenza alcuna. Empiasi un bicchier d'acqua, sì che ella trapassi l'altezza e l'estremità dell'orlo di esso bicchiere; e vedrete sopra di esso orlo l'arginetto bistondo e alto di maniera, che non è possibile che l'acqua non si rompesse a versare intorno intorno, se non vi fosse qualche accidente che l'impedisse. Ma non può dirsi che l'aria come contenuta ne sia cagione, come dite dell'assicella; perchè ella circonda solo di fuora, essendo l'argine a rovescio di quel dell'assicella. Adunque bisogna dire che, sì come qui si cagiona l'argine per altra cagione che per l'aria, male conchiudiate che nell'assicella gli cagioni l'aria; e perciò diremo che ella non v'abbia che far nulla altramente. Sig. Galileo, siate voi soddisfatto che l'aria non sia cagion del soprannotar dell'assicella? Sento che mi rispondete, come uomo prudente, che le ragioni e l'esperienze addotte e gli inconvenienti mostrati vi persuadon molto; ma che più restereste quieto, se io trovassi qualche modo di levare l'aria dalla superficie di quella falda d'ebano, acciò che ogni sospezione venisse levata di mezo. Io voglio tentar di compiacervi.
Ungete la falda, e così l'aria, non posando immediatamente su la superficie del legno, sarà levata; massimamente che essendo l'olio corpo tenue e sottile, l'aria non può attaccarvsi e far resistenza che la falda non cali: però se ella non cala, dite che l'aria non opera niente; poichè non vi essendo, l'assicella galleggia in ogni modo, come per esperienza ho veduto. Bene, rispondete voi; ma io ho dubbio che l'olio, essendo molto aereo, abbia certa convenienza e simpatia con la stessa aria, sì che facciano una certa union calamitica maggior che non sarebbe con la stessa assicella, e così, mediante il corpo dell'olio, venga l'aria a reggere ad ogni modo l'assicella. Sig. Galileo, mettete la stessa assicella così unta nell'olio, e subito la vedrete calare al fondo; e pur quando è asciutta, galleggia come nell'acqua: adunque, se l'aria avesse questa facultà di unirsi all'olio e attaccarsi maggiormente, ella non lascerebbe calar l'asse nell'olio ancora, sì come non cala nell'acqua: e per tanto si dee dire che l'aria non opera nulla. Voi pur tornerete a dire, che sapete chiaro che l'aria si leva a bagnar l'assicella con l'acqua, ma non con l'olio. Orsù, finiamola, perchè io vi voglio levar la strada a tutte l'obbiezioni; acciochè ognuno conosca che, se non v'acquieterete, si potrà dir che vogliate disputare, e non cercare il vero. L'assicella di già s'è detto che, posata su l'olio asciutta, galleggia come su l'acqua. E perchè direste che bisogna levar l'aria, bagnandola, e non galleggerà, io vi dico che l'assicella bagnata ad ogni modo galleggia e soprannuota nell'olio, benchè sia levata l'aria, bagnandosi con l'acqua la tavoletta. Che dite adesso? Ecco che era levata l'aria anche con l'olio: anzi che non operava, e non vi era, quanto alla operazione, anche quando la falda era asciutta. E di qui conoscete, che sì come unta l'asse, nell'olio va al fondo, e bagnata, nell'acqua fa il medesimo, non nasce questo dal levar l'aria, ma dall'essere levata la cagion della resistenza dell'una e dell'altra assicella; perchè l'acqua con l'acqua convengono insieme, sì come l'olio con l'olio, e si uniscono, e perciò si sommerge la falda, benchè larga, perchè è vinta la siccità di essa falda cagionata maggiore e atta a resistere per l'ampiezza della figura: e però non è maraviglia che dalla superficie in giù non si trovi resistenza assoluta dalla falda alla division dell'acqua, perchè son cessate le cagioni di tale effetto, per esser l'assicella bagnata. Cessate, dunque, di affermare, a car. 39 [pag. 103, lin. 16-19], che se l'acqua facesse resistenza alla divisione, farebbe la stessa alla tavoletta nel mezo e nel fondo come in superficie. E se mi domandate, perchè non cala al fondo nell'acqua la tavoletta unta, sì come non cala anche nell'olio bagnata, poi che non è cagion l'aria; rispondo che la cagion dell'uno e dell'altro effetto è il medesimo accidente, cioè l'antipatia e dissenso che è tra l'olio e l'acqua, che non convengono e non si uniscono, e però non affoga l'assicella e non cala al fondo. So che non direste, l'olio non esser mezo convenevole, sì perchè non se ne può addur cagione alcuna, sì ancora perchè la vostra regola è da voi applicata a qualunque mezo per infallibile; avendo detto a car. 16 [pag. 79, lin. 16-19]: «Parmi d'aver sin qui a bastanza dichiarato e aperta la strada alla contemplazion della vera, intrinseca e propria cagion de' diversi movimenti e della quiete de' diversi corpi solidi ne' diversi mezi e in particular nell'acqua». E certamente chi dubiterà del precipizio e rovina de' vostri fondamenti, se erano fabricati e appoggiati nell'aria?
Niuna cosa credo io che resti da dire intorno a questa materia, se noi non volessimo esser soverchi a sproposito. Dirò solamente, che le esperienze e demostrazioni d'Archimede son tali, che elle paion d'Archimede, ma che elle non hanno che far con la disputa nostra. E però, quando vi lasciaste intendere liberamente a piena bocca, che tre sorti di persone leggerebbono il vostro trattato, cioè i dotti, e questi direbbon come voi, gli ignoranti, e questi non l'intendendo non direbbon cosa alcuna, i poco intendenti, e questi direbbon contro di voi, perchè si darebbono a creder d'intenderlo e non l'intenderebbono, e che perciò direbbono a sproposito; rispondo, per quello che è d'Archimede, non aver altro che dire; ma circa quello che di vostro aggiugnete alla sua dottrina, forse si potrebbe dir che non è vero che quegli arginetti serbino la proporzion dell'altezza che dite, in rispetto alla grossezza del solido. Voi medesimo lo fate conoscere, poi che si riducono in alcuni corpi a tal piccolezza, che vi fanno pochissimo argine, e non punto ancora. E che sia vero che non si fanno alla proporzion della grossezza del solido, chi non sa che la medesima grossezza di due corpi può esser congiunta con maggior gravezza nell'uno che nell'altro, la qual farà tuffar maggiormente il solido, e conseguentemente l'argine sarà più alto? E che non fosse vero ancora, per la medesima ragione, che tanto si tuffi un corpo più leggier dell'acqua nella stessa acqua, senza varietà, quanto col suo peso assoluto avanza il peso in ispezie dell'acqua, o vogliam dire che tanto sia l'acqua in mole dove è sommerso, che agguagli il peso assoluto del solido: imperochè può esser che la medesima grandezza di mole del medesimo legno abbia più terra o più densità o più pori l'una che l'altra, e anche la medesima mole esser varia in sè stessa. Sì che in genere e in astratto la regola sendo vera, in pratica è fallace ne' particulari, come voi medesimo affermate a c. 10 [pag. 70, lin. 29-31]. Nè che totalmente penda dal momento l'alzar che fa la poca acqua del pozzo il gran peso del cilindro o colonna, ma dall'angustia delle sponde ancora; e da molti accidenti si varierà anche l'altezza dell'acqua disegnata per sollevar l'uno più che l'altro, e lo stesso ancora: e l'affermate nel luogo citato. Però Archimede non volle venire a questo tritume, come quegli che non lo stimò utile nè sicuro. E che forse la ragion de' momenti non sia quella che faccia quegli effetti in ogni esperienza particulare; come sarebbe quella del vaso grande, col canale stretto o collo sottile, fatto a cicognuola, che sopravanza gli orli del vaso, dove stimate che altri reputi maraviglioso che la molta acqua che è nel vaso, benchè non sia più su che a mezo, non ispinga col suo peso e momento più alta quella poca che è passata nel beccuccio sottile e lungo dal piè del vaso fino sopravanzando alla cima, ma stia in equilibrio e non trapassi il livello della molta acqua che è nel vaso: imperocchè altri farà più tosto maraviglia della cagione addotta da voi, che dell'effetto notissimo a ciascuno. Io crederei che il più veloce moto o momento della poca acqua della cicognuola, in comparazione del più tardo della molta del vaso, non operasse altro se non che, benchè il viaggio del primo sia più lungo, egli si finisse nel medesimo tempo del secondo, che è più tardo: e ne avete in pronto l'esempio che date delle braccia della bilancia, diseguali; perchè il braccio più lungo va nel medesimo tempo più viaggio che il più corto. Ma non fa già a proposito per voi; perchè il peso, che si compara nella bilancia, non può rispondere al peso dell'acqua, poichè non vi è differenza di peso. E però la cagion perchè l'una e l'altra parte dell'acqua di quel vaso stia al medesimo livello d'altezza, credo non potere esser cotesta, ma che sia la gravità, che nell'una e nell'altra è la medesima in ispezie; onde non può l'acqua del corpo del vaso spinger più su di sè medesima l'altra acqua, che veramente è la stessa, non avendo più azione un mar d'acqua contro una goccia, che la goccia contro a tutto il mare, perchè l'acqua nell'acqua non pesa, come provate voi medesimo contro il Buonamico per conto di quel vaso di legno pien d'acqua, mostrando che non perciò cala al fondo, come se pieno non fosse. E il medesimo farebbe se quella cicognuola o cannello fosse nel mezo del vaso circondato dall'acqua, e lo spazio dell'altezza del canaletto, essendo diritto, fosse alto quanto è il vaso dove si devon fare i momenti: chi non vede che l'acqua del canale e quella del vaso finirebbono il moto nel medesimo tempo, e per conseguenza sarebbon di pari velocità e di pari altezza di livelli? Adunque non è vero, in questo caso, che la molta acqua del corpo del vaso non prema e non iscacci in alto quella poca del canaletto per rispetto della tardità e velocità de' momenti, ma perchè l'acqua dell'uno e dell'altro luogo, che è continua, non opera contro a sè stessa, essendo egualmente gravi in ispezie e al medesimo livello, dove non può anche il peso assoluto operare. Provasi che la gravità equale in ispezie produca tale effetto: perchè se fosse altro liquor nella cicognuola più leggier dell'acqua, come per esempio olio, sì che ella fosse quasi piena, aggiungendosi acqua nel vaso, non solo rimarrebbe l'acqua più bassa col suo livello, rispetto a quel dell'olio, ma più tosto uscirebbe l'olio dalla bocca della cicognuola, che non avanzar con la sua altezza quella dell'acqua; ma l'acqua molta non può scacciar di quel collo la poca, perchè non ha più gravezza di lei, ma sì ben dell'olio, e perciò lo scaccia. Di più, si prova questo, perchè se aggiungete acqua dalla bocca della cicognuola, sempre calerà fin che il livello sia del pari; perchè quella che superasse peserebbe, essendo fuora e sopra l'altra acqua, perchè l'acqua nell'aria pesa, ma non già nell'acqua. Adunque non senza ragione si dubita che male applichiate a' particulari, la cagion de' momenti produr diversi effetti o simiglianti, se per quello che aspetta alla nostra disputa particulare nè voi nè io ne dobbiamo esser giudici: ma se pure a voi paresse di dir che io non avessi inteso il vostro discorso, perchè dico il contrario di voi, non so chi meriti più scusa; poi che vi siete messo per tal conto a ristamparlo e a levare e aggiugnere e dichiararvi, non vi essendo inteso, e per mutare in parte parere, come prudente, e parte per lasciarvi intendere, senza esserne da li avversari richiesto; che per questa cagione non ho stampato prima, acciò che io non avessi di nuovo anche a rispondere alle chiose. Sì che se non l'avrò inteso, con vostra buona grazia sarà pace.
Circa la disputa che aveste del ghiaccio, se da quella ebbe origine la nostra, non so io, perchè non l'aveste meco: però quegli che dite avere affermato, nel ghiaccio operar la figura quanto al galleggiare, non ha bisogno che altri la pigli per lui. So ben che, per quel che allora andava attorno, si disse che dubitativamente, per modo di discorso, fu detto: Forse il galleggiar verrà dalla figura. Non pare, adunque, che debbiate contro di lui nè d'altri farci fondamento veruno, se ben vi ho mostrato che non vi gioverebbe. Ma quanto al dir che il ghiaccio sia più tosto acqua rarefatta e non condensata, dirò qualche cosa in contrario, parendomi che il vostro parere sia un paradosso.
Il ghiaccio, secondo la ragione e la comun sentenza de' letterati e l'esperienza, non è altro che acqua congelata e condensata per virtù dell'aria fredda ambiente, che spremendo e constringendo l'acqua, ne scaccia le parti sottilissime; onde quel corpo ingrossa e resta più terreo, e perciò si congela. Ma perchè nel constringersi le parti grosse, alcune di quelle parti aeree e sottili rimangono là entro racchiuse tra i pori dell'acqua già congelata, non atte a congelarsi, però, se bene scema di mole e conseguentemente pesa più che tanta acqua della medesima mole, ad ogni modo, per quella aria racchiusa, galleggia e soprannuota nell'acqua.
Ma è bene, avanti che si passi più oltre, per fuggir la confusione, venire a dichiarar che cosa sia densità e rarità e porosità. Densità è quella quando i corpi hanno le parti unite e spesse, ristrette in poca mole; e quanto più son tali, tanto più meritano quei corpi il nome di densi: e questa regolarmente si suol ne' corpi cagionar dal freddo, parlando di quei corpi in particulare che per accidente dall'aria fredda si condensano. Rarità è quella quando i corpi hanno le parti loro sottili, attenuate e distese in ampiezza di mole; e quanto più son tali, tanto più conseguiscono quei corpi d'esser detti rari: e di cotal rarità per lo più n'è causa il calore. La porosità è una scontinovazion e division di parte del continovo, fatta da certi piccoli fori ne' corpi: e questa può cagionarsi dal caldo e dal freddo ne' medesimi corpi per accidente, perchè non è necessario che un corpo raro sia poroso nè che un denso non abbia pori, per domandarsi l'uno raro e l'altro denso, poi che veggiamola terra esser derisa e porosa, e l'aria esser rara senza pori; come che l'aria non appaia al senso se è porosa o no, ma la ragion lo persuade, poi che se fosse porosa vi sarebbe il vacuo.
Da questa distinzione e dichiarazione si viene a manifestare a molti che si credono che raro e poroso sian la medesima cosa, non è altramente vero, e che da questa equivocazione nascono molti errori e confusion di dottrina per la confusion de' termini. Ora, quando affermate, Sig. Galileo, che il ghiaccio sia più tosto acqua rarefatta, se intendete per poroso il rarefatto, dite bene, ma con equivocazion di parole e impropriamente; però n'avete suscitata quistione. Nè crederò che vogliate mantenere di non avere equivocato, per cadere in maggior inconveniente, di sostener che il ghiaccio sia acqua rarefatta, con dir che sia tale perchè non solo è cresciuto di mole, ma ancora è fatto più leggieri, perchè soprannuota nell'acqua come più leggier di lei. Imperocchè non è vero, primieramente, che il ghiaccio augumenti di mole, poi che per esperienza si vede che a mettere una conca d'acqua all'aria nel verno e farla ghiacciare, il ghiaccio si trova intorno intorno staccato da le sponde del vaso, e sotto tra l'acqua e 'l ghiaccio è molta distanza; e perciò bisogna dir che egli sia ristretto e diminuito di mole. Nè vi inganni il veder che forse alcune volte nello staccarsi dal vaso possa il ghiaccio essersi sollevato alquanto, e perciò vi paia cresciuto di mole; perchè il fatto sta altramente. Vedesi avvenire in tutte le cose che ghiacciano e si raffreddano il medesimo, cioè ristringimento di mole; e questo afferma l'esperienza degli artefici che vendono olio, i quali non voglion venderlo ghiacciato, perchè dicono, come è in verità, che il baril dell'olio ghiacciato, a distruggerlo, cresce più d'un fiasco. La vostra fante vi dirà che quando ha piena la pentola di lardo strutto, a lasciarlo freddare e congelare cala di maniera la mole, che fa nel mezo uno scodellino, dove prima era gonfiato. Il medesimo avvien nella cera, nel mele, e in ogni altra cosa simile. Non dico già che per accidente non possa accader che il ghiaccio alcuna volta faccia certe bolle e vesciche, donde ne sèguiti augumento di mole: ma questo sarà non per rarefazione, ma per porosità e cavità, cagionate oltre modo nel ghiaccio per accidente. Nè si neghi che il ghiaccio sia poroso tutto, perchè se ben se ne trova di quello che non manifesta al senso d'esser tale, donde vogliate argomentar la leggerezza in lui non si cagionar dall'aria che si ritrova racchiusa ne' pori, ma dalla rarefazione; perchè noi veggiamo pure alcuni corpi densissimi, e non mostrare al senso e all'occhio nostro, benchè acutissimo, d'esser porosi, e ad ogni modo son tali. Il diamante, se non fosse poroso, non gitterebbe odore; e nulladimeno scrivono i naturali, che il cane o altro simile animale lo ritrova all'odorato. L'argento, l'oro, che son tra i metalli i più densi, hanno le porosità; e pur non si veggono. E che sia vero, quando son caldi succiano il piombo; il che non può farsi dove non son pori, perchè un corpo non penetra l'altro. Adunque il ghiaccio non è leggieri per rarefazione, ma per causa dell'aria racchiusa ne' pori per accidente; perchè per sè egli è più grave dell'acqua, atteso che le sue parti son più ristrette e spessate e più terree, benchè sia poroso. La ragion pur troppo chiaramente persuade che il ghiaccio sia acqua condensata: imperochè se fosse rarefatto, chi non vede che egli sarebbe più corrente flussibile e terminabile che non è l'acqua stessa? e nulladimeno è sodo come pietra. Adunque è condensato, e non rarefatto. Per qual cagione non ghiaccia l'aria, se non perchè, oltre all'esser calda, è rara e sottile più dell'acqua? Perchè ghiaccia manco l'olio dell'acqua e non si indura tanto, se non perchè, essendo più aereo dell'acqua e di natura caldo, non può il freddo scacciarne tante parti sottili e ristringer tanto le parti grosse e terree, che possa indurar come l'acqua?
Direte che il ghiaccio è acqua rarefatta dal freddo, non perchè il freddo non abbia virtù di condensare, ma che questo accada nel ghiaccio per accidente, e non negli altri corpi, perchè l'acqua nel ghiacciarsi cresce di mole, e trovandosi in quello stato ghiacciata non può condensarsi. Ma io vi domanderò: Che cosa è cagione del crescer della mole nel ghiacciarsi? Se mi rispondete: «Le porosità che vi si fanno», io torno a dire che le porosità non son il medesimo che rarefazzione: di più, che elle regolarmente non ampliano la mole, ma solo si ritiran quivi alcune parti sottili e aeree, unendosi insieme quelle della stessa mole, senza che ven'entri di nuovo; e perciò non può la mole crescere per tal cagione, poi che quello che era sparso per più luoghi del corpo dell'acqua, non ha fatto altro che ridursi in manco luoghi, ma più unito. E a quelle che si partono, non è bisogno d'allargamento per farle luogo; poichè il luogo dove sono è tanto, che basta loro per iscappar anche fuora, al restringimento che fa il freddo nell'acqua (in quella guisa che fanno l'anguille nello sdrucciolar di mano a chi le stringe senza che si allarghi il luogo), massimamente che quelle parti sottili si ristringono e rintuzzano per conservarsi. Onde per causa de' pori la mole non è punto maggiore, come se non vi fossero; in quella guisa che non cresce un corpo denso il quale si sforacchiasse tutto con un punteruolo: altramente, se la mole si ampliasse, non sarebbe così duro, ma frangibilissimo, e più spugnoso che poroso; e voi medesimo dite che c'è del ghiaccio che non è poroso, tanto poco apparisce. Adunque per causa de' pori non cresce di mole regolarmente, ma forse per accidente; il che non farebbe per voi. Se mi rispondete che non le porosità, ma il rarefarsi veramente è cagione che la mole cresce, bisognerà che proviate che il freddo abbia possanza di rarefare il ghiaccio; il che non avete fatto. Il freddo ha virtù di spremere e ristringere ogni cosa, sì come il caldo, suo contrario, di assottigliare, dilatare e aprire, benchè per accidente possa accadere il contrario; il che non si prova da voi.
Il ghiaccio per tanto non cresce di mole nel ghiacciarsi. Anzi, quando esso o qualunque altro corpo per qualche accidente crescesse o scemasse di mole, si potrebbe negar che per tale ampliazione o diminuzione fosse divenuto più leggieri o più grave in ispezie dell'acqua, perchè la proposizione in universale è falsa; nè lo dice Archimede altramente, nè si cava da lui in modo alcuno, come vorreste nella vostra aggiunta per autorizar sì bella opinione. Provasi la sua fallacia per esperienza: e in particulare si prenda una spugna, inzuppisi d'acqua, e crescerà di mole gonfiando, ma calerà al fondo; la medesima, spugna spremuta, asciutta e diseccata, scemerà di mole, e nulladimeno galleggierà nell'acqua; adunque nell'ampliazione non divenne più leggieri, e nel ristringimento non si fece più grave. Non vi libererebbe già da questo argomento se rispondeste, che nel primo modo cagionasse l'acqua che quel corpo facesse tale effetto scacciandone l'aria, e nel secondo entrandovi l'aria, l'aria stessa ne fosse cagione; imperciocchè resterebbe pure in pie l'argomento, cioè che non l'ampliazion della mole o la diminuzion di quella producesse infallibilmente leggerezza o gravità maggiore in ispezie, come affermate constantissimamente adivenire: cosa che tanto più dimostra l'error vostro, quanto, per la vostra regola, l'aria e l'acqua, venendo in composizione, hanno facultà di mutare la gravità e leggerezza de' corpi, eziandio senza mutamento alcuno della mole, come andate esemplificando contra il Buonamico nel legno pien d'acqua e nella boccia piena d'aria. Piacciavi adunque confessare, il vostro difetto esser tutto di voi, e non ci aver parte alcuna Archimede, il qual non merita questo da chi ha tanto apparato da lui.
Sentite, Sig. Galileo, se per causa di rarefazione il ghiaccio galleggiasse, e impossibile che non galleggiasse anche l'olio ghiacciato nell'olio; il che per esperienza è falso, perchè non galleggia, ma cala al fondo. La ragion perchè galleggerebbe è che, la rarefazione cagionando leggerezza, sì come l'acqua ghiacciata galleggia per esser più leggier dell'acqua, come rarefatta, così l'olio ghiacciato per esser più leggier dell'olio, come rarefatto, dovrebbe secondo voi galleggiare. Ma perchè va al fondo, è falsissimo che il ghiaccio sia più leggier dell'acqua per causa di rarefazione. O perchè va l'olio al fondo, mi domanderete voi, quando è ghiacciato, e il ghiaccio nell'acqua sta a galla? Rispondo: Perchè l'olio è di natura tanto caldo e aereo che, benchè nel ghiacciato rimangano delle parti sottili più che nel ghiaccio dell'acqua, ad ogni modo son meno che quelle dell'olio non ghiacciato, e non son tante che abbiano facultà di reggere il ghiacciato a galla, perchè il non ghiacciato rimane molto più aereo e molto più leggiere; oltre che, per non esser molto duro, l'olio strutto vi penetra e apre la strada a quella aria che v'è racchiusa, e così, non vi stando violentata, lascia calare al fondo l'olio ghiacciato, come più grosso e più terreo; il che non può far l'acqua nel ghiaccio, essendo sì duro. L'argomento, adunque, si ritorce contro di voi così: Il ghiaccio non è acqua rarefatta, nè perciò più leggieri; perchè se fosse vero, sì come l'acqua ghiacciata nell'acqua galleggia, così l'olio ghiacciato galleggerebbe nell'olio: ma e' cala al fondo: adunque il ghiaccio non è acqua rarefatta. Di più, io posso farvi instanza e dirvi: Il ghiaccio non galleggia per causa di rarefazione, ma perchè vi è dentro l'aria. La quale instanza non può già farsi a me, quando affermo che l'olio cala a fondo per causa di densità: perchè se mi rispondeste, che non per la densità discende, ma perchè vi è l'aria, fareste più efficace la mia ragione; poichè l'aria essendovi, ad ogni modo non impedirebbe con la sua leggerezza la gravità cagionata dalla densità, che non tirasse il corpo ghiacciato dell'olio al fondo; e così maggiormente confermereste la densità. Il ghiaccio, adunque, per causa della figura galleggerebbe e calerebbe al fondo come gli altri corpi, diversamente secondo la diversità delle figure, se non li mancasse la condizion dell'esser asciutto; sì come non può anche eleggersi da voi, poichè le figure che hanno da galleggiare volete che non siano molli.
Io intendo che, dipoi stampato la vostra scrittura, avete fatta una esperienza per mostrar che il ghiaccio è nel ghiacciar cresciuto di mole, poichè nel dighiacciare scema in luogo di crescere. Pigliaste una guastada e vi poneste dentro alquanto di ghiaccio, e poi la finiste d'empier d'acqua; e di quivi a poco tempo osservaste che il ghiaccio era strutto, e l'acqua era calata buono spazio dalla sommità della guastada: adunque par che, scemando nello struggersi, il corpo del ghiaccio fosse ampliato, e non ristretto. Ma io vi dirò liberamente: Questa esperienza non l'ho voluta provare, perchè io rivolto l'esperienza contro di voi doppiamente.
E quanto al primo, è da avvertire che, sì come il ghiaccio è scemato nel ghiacciare, così non è inconveniente che nel dighiacciarsi scemi altresì, benchè il ghiaccio struggendosi alquanto si dilati nelle parti condensate, perchè molto più si ristringe nelle porose, e però scema. La ragione è, perchè le parti sottili, per esser men gravi dell'acqua, sono anche più rare; e perciò occupano anche più luogo, v. g., quelle che sono un'oncia, che non occupa una libra d'acqua: onde, ancor che l'acqua ghiacciando scemi poco di peso, ad ogni modo scema assai di mole, per la partenza delle parti sottili che piglian molto spazio. Ora, perchè a congelarsi l'acqua non si fa altro che unirsi le parti grosse e terree, per la separazion delle parti sottili e aeree, di qui è che le parti grosse non occupan manco luogo, se non quello che lasciaron le parti sottili, che vi erano quando era senza ghiacciare, o poco meno; sì che quasi tutto lo scemamento nasce dalla partenza delle parti sottili: altramente ne seguirebbe che un corpo entrasse e penetrasse un altro corpo, il che è impossibile; e quando fosse possibile che due corpi si penetrassero, sarebbe impossibile che occupassero manco luogo di prima; e però non è in considerazione lo scemar della mole per l'union delle parti grosse dell'acqua ghiacciando, rispetto allo sminuire che fa per la mancanza delle parti sottili. Se adunque nel ghiacciare scema assai la mole per la partenza delle parti sottili, e pochissimo per lo stringimento delle parti grosse e terree, necessariamente, per lo contrario, dighiacciandosi dovrà eziandio scemare: perchè poco o niente si dilateranno le parti grosse tra di loro, ma molto scemerà la mole, occupando esse il luogo delle molte parti aeree che dentro vi stavano racchiuse, alla partenza loro, nel distruggersi il ghiaccio; perchè non vi rimangon dentro, come prima quando erano compartite per l'acqua e che non erano tanto unite e in atto, ma sparse in particelle minime. E forse si potrebbe dire che erano aria più in potenza che in atto, o vero in grado tanto rimesso e imprigionate, che non potevano operare. Ma in particulare è da aggiugnere alla vostra esperienza un'altra cagione di scemamento: cioè che l'acqua, che vi mettete per empier la guastada, vapora, e molto più vaporan le parti sottili per la freddezza del ghiaccio aggiuntovi; e perciò scema maggiormente. Nè vi paia che io sia contrario a me medesimo, perchè ho detto che l'olio nel distruggersi cresce: perchè io rispondo che più importa nell'olio, struggendosi, la dilatazion delle parti grosse, che nella fuga delle sottili il restringimento, ghiacciandosi; ma nell'acqua fa il contrario: atteso che nell'olio non fuggon le parti aeree dighiacciando, anzi si dilatano e ritornano nello stato primiero, perchè elle son la parte principale dell'olio, quanto alle parti materiali, e perciò, amando la conservazion dell'esser dell'olio, e non sendo cacciate per violenza, nè essendo alterate nè mutate appena del luogo proprio, se non quanto a certo ristringimento, non evaporano, perchè son ancora parti dell'olio; massimamente che l'olio, come molto viscoso, perchè è più terreo e crasso dell'acqua, ha virtù di ritener le parti sottili più dell'acqua; sì come si vede anche nel ghiacciare, che ritien assai parti sottili contro la violenza del freddo. Aggiungo che, come caldo di natura, si dee credere che il freddo non l'alteri quasi niente; ma sì bene il ghiaccio dell'acqua, perchè, essendo fredda anch'ella, tosto è vinta e alterata dal freddo soverchio esteriore; onde le parti sottili che vengono alterate si risolvono in aria, e non son più parti dell'acqua; però da lor medesime si partono. Adunque si conchiude che l'acqua ghiacciata non sia altramente nel ghiacciarsi rarefatta, quantunque sia vero che dighiacciando scemi di mole.
Ora provo, di più, che l'esperienza dello scemare il ghiaccio distruggendosi non argomenta se non in favore di chi tiene che egli sia acqua condensata, e non rarefatta: ed è la seconda maniera. Prima, se è vero, secondo il creder vostro, che il freddo abbia virtù di rarefare almeno il ghiaccio, e massimamente quando ancora è acqua, poi che dite a car. 5 [pag. 65, lin. 85]: «l'acqua nel ghiacciarsi cresce di mole»; egli dovrebbe, per l'acqua aggiunta nella guastada, crescere e non iscemare: perchè quell'acqua, raffreddandosi grandemente, dovrebbe rarefarsi e ampliar la mole per la medesima cagion del ghiaccio, e con ragione; perchè, essendo più l'acqua che il ghiaccio, parrebbe che il crescer dell'acqua fosse più che lo scemar del ghiaccio. Ma per la vostra esperienza segue il contrario: adunque l'esperienza prova contro di voi, cioè che il ghiaccio non è acqua rarefatta. E se aveste difficultà del poco freddo, il che non credo, perchè quello che fa il molto, proporzionalmente fa il mediocre freddo, sì come il poco caldo, benchè rarefaccia poco, rarefà quanto può; nulladimeno, per levar questo dubbio, caccisi la detta guastada nel ghiaccio, sì che l'acqua venga freddissima, e vedrassi che non crescerà l'acqua di mole. Direte che nello stesso tempo che si introduce la forma del ghiaccio, in quel medesimo instante si rarefa l'acqua? Questo non può dirsi, perchè non solo si è mostrato che anche fatta ghiaccio scema, ma eziandio perchè le alterazioni preparatorie alla forma si fanno in tempo successivamente avanti che la forma s'introduca: ora la rarefazione per voi è preparatoria alla forma del ghiaccio, avendo detto: «l'acqua nel ghiacciarsi cresce di mole, e 'l ghiaccio già fatto è più leggier dell'acqua»: adunque si dee rarefar l'acqua avanti che riceva la forma del ghiaccio, il che si fa per l'introduzion del freddo a poco a poco; e perciò a poco a poco dee rarefarsi, e non in un istante. Tutto questo si pruova per esperienza, perchè il fuoco riscalda la mano a poco a poco e non immediatamente, benchè eccessivo sia il calore; il simile fa la neve raffreddando: nè io crederò che lo neghiate. Eccovi mostrato, Sig. Galileo, che il ghiaccio è acqua condensata, e che l'esperienza della guastada prova contro di voi, se è vero che scemi; e se non è vero, adunque resta fermo che il ghiaccio sia acqua condensata, per le ragioni dette di sopra.
Non posso tenermi che io non dica qualche cosa, per mostrar che a torto impugnate il Buonamico, uomo di tanto valore: se ben non dovrà parer maraviglia, poi che il medesimo fate ad Aristotele senza riguardo alcuno, tassandolo fin nella persona con darli d'ambizioso, dicendo a car. 65 [pag. 132, lin. 36 — pag. 133, lin. 1]: «mostra in Aristotele la voglia d'atterrar Democrito superiore all'esquisitezza del saldo filosofare: il qual desiderio in altre occasioni si scuopre»; e così volete che egli disputi co' grandi non perchè stimi di aver ragione, ma per ambizione, facendo apparir vero anche il falso, purchè rimanga superiore.
Il Buonamico, adunque, a cui fate sì gran romore in capo, per non essere stato inteso da voi, viene da voi senza ragione impugnato. Primieramente egli parla contro a Seneca, il qual referisce che in Siria è uno stagno dove i mattoni soprannuotano, e per lo contrario nello stagno Pistonio tutte le cose, che soglion notare, calano al fondo, e in Sicilia sono alcuni laghi che reggono a galla chi non sa notare; e ricercando Seneca la ragione di tante diversità, risponde, con la regola d'Archimede, che le cose più gravi dell'acqua vanno al fondo, le più leggieri galleggiano, e le eguali di peso con l'acqua stanno sotto il livello dell'acqua, dove son posate, senza scendere o salire. Ora, per tale occasione il Buonamico esamina la dottrina e regola d'Archimede, e finalmente conchiude che volentieri accetterebbe questa regola per buona, se tal regola non discordasse dalla dottrina d'Aristotele: la qual maniera di parlare non fa comparazion tra l'autorità d'Aristotele e quella d'Archimede, come vi credete, ma tra la dottrina dell'uno e dell'altro in cosa che più appartiene al filosofo naturale che alle matematiche; però con molta ragione poteva aver per sospetta la dottrina d'Archimede. Dice benissimo il Buonamico, che per la regola d'Archimede ne seguirebbe che l'acqua fosse più grave della terra, se il notar de' mattoni, messo in campo per dubbio da Seneca, si cagionasse da questo, che le cose che nuotano fossero più leggier dell'acqua, poichè i mattoni son di terra. Ma perchè avete più tosto fatto l'indovino che inteso il Buonamico, di qui nasce l'error vostro. Nè importa al Buonamico, per rispondere a Seneca, se il problema sia favoloso o vero; perchè a lui basta mostrar che la regola d'Archimede non solverebbe il dubbio. Ora, se stimate Seneca quanto Archimede, potrete a vostra posta lasciar tal dottrina come falsissima, secondo che avete promesso; perchè se la regola d'Archimede secondo Seneca solve il dubbio, l'acqua peserà più della terra, il che è inconveniente grandissimo. Lasciate, adunque, l'esemplo del vaso di terra, perchè non fa al proposito.
L'altra obiezion che fa il Buonamico, del legno che per altro galleggia, ma pregno e ripieno d'acqua nelle sue porosità cala al fondo, non è meno efficace della prima. La ragione è, perchè egli intende di mostrar che non sia vero che il legno galleggiasse come più leggier dell'acqua in ispezie, ma perchè, essendo l'aria nelle sue porosità come in luogo e in sua natura, come sarebbe se fosse in un vaso, non può mutar di spezie quel legno; e però galleggiava, non come più leggieri in ispezie, ma come sostenuto dall'aria più leggier dell'acqua; perchè se, cacciata l'aria, cala al fondo, bisogna dir che fosse in ispezie più grave dell'acqua, e che per accidente dell'aria inclusa ne' pori galleggiasse: che però attribuisce il Buonamico cotali effetti al dominio degli elementi e alla facultà del mezo, e con molta ragione, poi che questa regola sarà molto più lontana dall'eccezioni che quella d'Archimede, e conseguentemente sarà migliore; tanto più che voi dite che non vi è differenza tra l'una o l'altra regola, a car. 24 [pag. 86, lin. 36 - pag. 87, lin. 2], se non che vi par che la cagion più immediata, come cagionata dal predominio dell'elemento, sia la gravità e leggerezza in comparazion del solido e dell'acqua; oltrechè la cagione addotta da Archimede vi pare più nota al senso. Alle quali due cose si risponde così. Se bene è vero che la gravità e leggerezza nasce dal predominio dell'elemento, ma però come da causa strumentale della forma; nondimeno, procedendo da esso anche altre qualità, come sarebbe nel proposito nostro la siccità cagionante l'antipatia con l'acqua che è umida, e chiamandosi predominio dell'elemento ancora quando l'aria che è racchiusa e locata ne' corpi li sostien che non calino al fondo nell'acqua, benchè non siano più leggieri in ispezie, però miglior regola è questa che non è quella, che è tanto manchevole. Oltre acciò si sfugge quel modo improprio di parlare, cioè grave o leggieri in ispezie, attribuito all'intelligenza d'Archimede, che nuoce non poco alla sodezza della dottrina, come si mostrerà fuor di quel che sen' è detto, e imparticulare si vede nel patir tante eccezioni, le quali non vi sarebbono senza questo ristringimento di regola. Alla seconda cosa si risponde che non è meno occulta al senso la ragion dell'esser più grave o men grave in ispezie, ma molto più di quel che si sia quella del predominio degli elementi. Imperochè allora sapremo che una cosa sia più grave in ispezie dell'acqua, non subito che vi è posata dentro, ma dopo alquanto tempo, acciò che se aria o altro desse impedimento o aiuto, venga a rimuoversi, e lasciare il corpo in sua natura di gravezza o leggerezza, il che non può anche avvenir sempre. Ben può conoscersi nella bilancia questo errore, perchè l'aria su la bilancia non fa effetto di leggerezza, come fa nell'acqua. Anzi che il senso anche nella bilancia rimarrà smarrito, poichè quel che sarà più grave in ispezie dell'acqua, galleggerà (se non son favolosi i vostri esempli addotti), e il più leve calerà al fondo, come fa la spugna. Però, dovendosi ricorrere alla ragione, si debbe andare a quelle cause che hanno meno eccezioni, come è il dominio degli elementi e la facultà del mezo; sì come ricorrendosi al senso e più sicura questa che la vostra regola, benchè fosse più immediata ragione la gravità e leggerezza, procedendo dal predominio, cioè dal denso e dal raro come cause strumentali pendenti dalla materia.
L'esempio del vaso di legno, che dite esser per esperienza falso, il Buonamico se ne rimette; e crediamo al vero senza pregiudizio della sua dottrina, bastando che sia vero il primo esempio per confermarla: e ancorchè esso fosse falso, non però sarebbe men vera la dottrina; imperocchè è molto diverso dare esempio non vero circa vera dottrina, e render ragione d'esperienza falsa creduta per vera: sì come dicendo io: «Il sole ha virtù di liquefare», e per esempio n'adducessi i mattoni fatti allora così molli o il fango, conciosia che egli lo disecchi e non lo liquefaccia altramente, nondimeno la verità sarebbe che il sole ha virtù di liquefare, ma non ogni cosa, perchè si intende regolarmente in subbietti ben disposti. Non è, adunque, la gravezza o leggerezza in ispezie sempre causa del galleggiare e dell'andare al fondo, ma il predominio dell'elemento e la facultà del mezo, nel quale si comprende anche la regola d'Archimede, come in termine più amplo. Adunque disse bene il Buonamico, e vera e salda riman la dottrina peripatetica, contro il creder vostro.
Che questi termini di più grave o più leggieri in ispezie, allargati e distesi da voi a quelle cose ancora che non son tali propriamente, ma solo per virtù dell'aria o altro corpo aggiunto o levato, siano sconvenevoli a uomo scientifico e cagionino equivoci strani e conclusioni false, si conoscerà nel mostrar la vanità loro; nè gli avrebbe usati Archimede in modo alcuno: anzi sto in dubbio che quei matematici che hanno voluto intender, la sua regola della gravità o leggerezza in comparazione al mezo doversi ricevere con distinzione specifica, e non semplicemente come è profferita da lui, siano stati più zelosi che utili verso Archimede; poi che non piace anche al Buonamico, mostrando che patisce tante eccezzioni. Come volete mai, per quel che aspetta alla vostra ampliazione specifica, che l'aria contigua a un corpo, e anche come locata in quello, possa farlo differente di spezie da quel che era prima? O se cotali accidenti mutassero le cose di spezie, non sarebbon tante varietà e mutazioni di coloro nel camaleonte. Un vaso di rame o d'altra materia, pieno d'acqua, sarà mutato di spezie? e poi ripieno d'aria, quando non vi sarà più acqua, sarà d'un'altra spezie? e così di tutte le cose. Il medesimo accadrà ancora ne' corpi piani, secondo che la superficie loro sarà dall'acqua o dall'aria circondata? Così legno con ferro e ferro con pietra, quello che predominerà di peso o di leggerezza, secondo la mutazion del mezo, si muterà di spezie? E così la mutazion del luogo ancora cagionerà nella medesima cosa mutazion di spezie? Risponderete che non si muta la natura della cosa, sì che in sustanzia non sia la medesima, ma si muta quanto alla gravità o leggerezza, senza pregiudizio alcuno dell'essere specifico e naturale. E io torno a dire che nè anche quanto al peso si debbe usar questo termine specifico, atteso che il più o men grave o leggieri non muta la spezie della gravità o leggerezza, ma solamente la semplice gravità è differente dalla semplice leggerezza per ragion del subbietto in cui risiede, perchè sono i subbietti differenti di spezie fra di loro; ma se non si muta di spezie il subbietto, non si muterà mai la gravità. Oltre acciò, pesate un vaso d'argento pieno d'aria, e poi riducetelo in una massa, che non sia vòto nè incavato; e vedrete che peserà il medesimo, senza esser mutata la natura dell'argento: adunque l'aria non li aggiugneva leggerezza, poi che non vi essendo, pesa il medesimo. E se a metterlo nell'acqua appare che pesi manco pieno d'aria, non è veramente così; ma è che l'aria lo sostiene per non dare il vacuo, come dissi di sopra, non potendo ella ritornarsene al proprio luogo. Onde non solo non è scientifico il termine di più grave o più leggieri in ispezie, ma non è anche vero che sia più grave o più leggieri, se ben per la mutazion del luogo apparisce tale: e però benissimo il Buonamico attribuì tali effetti al dominio degli elementi, e non alla gravità. Domin, che voi vogliate che il semplice mutamento di luogo, che in vero non pon niente nella cosa locata, muti le cose di spezie? Non potete anche rispondere che, se ben questi termini sono impropri al filosofo, son però tali al matematico, che fanno chiara la dottrina e senza ambiguità più che in altra maniera; perchè si è mostrato il contrario e si mostrerà ancora. Io alzo e sollevo un peso di venti libbre; e così sollevato, l'aria non vien violentata da lui, e par che non pesi in essa: adunque per questo estrinseco reggimento, sarà doventato più leggier dell'aria in ispezie o sarà veramente più leggiero? Si dirà ben, che egli, per esser sostenuto, non aggrava tanto; ma che egli sia men grave, non già. Cessi per tanto il Sig. Galileo nel dir che l'aria congiunta, come contigua o come locata, a i corpi che si metton su l'acqua, li faccia più leggieri in ispezie; e confessi eziandio che nè anche impropriamente detto operi cosa veruna di buono in tal proposito, ma nuoca grandemente, e cagioni molti equivoci e stroppiamenti di dottrina e conseguenze false. E finalmente voi stesso, a car. 21 [pag. 84, lin. 9-15], volete che la gravità specifica del solido non venga mutata per aggiunta del corpo dell'acqua, e conseguentemente non sia vero che tali componimenti facciano i corpi più gravi in ispezie o meno; atteso che, parlando dell'acqua che riempie la boccia di vetro e i pori del legno, donde si scaccia l'aria che vi era locata, dite che si fa un composto d'acqua e di vetro, e d'acqua e di legno, che rende l'uno e l'altro tale in gravità quale era naturalmente, e non si fa più grave per l'aggiunta del corpo dell'acqua, perchè l'acqua non è più grave di sè stessa e però non aggiugne peso: e questo si intende rispetto all'acqua dove si deve posare il solido, perchè altramente non sarebbe vero che l'aggiunta dell'acqua non accrescesse gravezza, semplicemente considerata in composizione. Ma io osservo qui grandissima contrarietà circa i vostri fondamenti, e che, se ben si considera, avete rovinato totalmente la principal machina vostra, solo per rispondere al Buonamico, benchè male. State attento digrazia, Sig. Galileo. Se voi volete che l'acqua aggiunta in composizion del vaso e del legno non faccia altro effetto che scacciarne l'aria estranea, acciò che quel corpo rimanga della sua gravezza naturale e specifica, bisognerà dire, per lo contrario, il medesimo quando si aggiugne l'aria a' medesimi corpi, cioè che l'aria non aggiunga, entrando in composizione della boccia di vetro e del legno, leggerezza alcuna che li muti di spezie, ma solo siano da lei impediti che non possan calare al fondo, e non per causa di leggerezza che vi aggiunga l'aria, essendo che non è naturale nè della composizione speciale di quei corpi l'aria aggiunta; altramente, quando l'acqua la cacciò da loro, avrebbe mutata la leggerezza specifica, contro il vostro detto. Adunque se il legno e la boccia di vetro galleggiano per cagion della composizion dell'aria, avverrà non perchè essi in ispezie siano più leggieri, perchè son più gravi dell'acqua, come affermate voi medesimo: adunque malamente affermate che la composizione muti le gravità e leggerezze specifiche, e massimamente la composizion dell'aria. Pertanto avete contrariato a voi stesso, affermando e negando che l'aria per la sua congiunzione co i solidi muti la gravezza loro in ispezie. Anzi, come si è detto di sopra, non solo non la muta, ma non aggiugne nè leva di gravità in modo alcuno: ma perchè con la sua presenza regge, si dice aggiugner leggerezza, sì come per privazion di essa i corpi si dicono esser fatti più gravi; ma non è mutazion vera di gravezza, non che mutazione specifica. Siete voi chiaro adesso?
Quel vostro termine o distinzione di gravità assoluta, non è anche egli il miglior del mondo: perchè assoluto si domanda quello che non ha rispetto, nè si considera in comparazione ad altro; ora, questa gravità si considera respettivamente, adunque non è buona distinzione. Ma perchè ella, intesa al senso vostro, non nuoce, si potrà passare.
All'ultima obiezion che fate al Buonamico, per tornare a lui, cioè che egli stimi Archimede essere d'opinion che il leve non si ritrovi ne' corpi naturali, credo che vi inganniate indigrosso: conciosia che egli vuol rispondere a una tacita obiezione, quando afferma che Aristotele ha comfutato gli antichi e provato falso il creder loro, con mostrar che sì come ci è il grave bisogna dire che ci sia anche il leve assolutamente; e l'obiezione è che, se gli effetti del calare nell'acqua al fondo e 'l galleggiare si devono attribuire al dominio degli elementi, bisogna mostrar che sia falsa l'opinion di coloro che dicono non esser nel mondo il leggiere assolutamente, acciò che si possa ascrivere azione a tutti gli elementi quanto alla gravezza e leggerezza, secondo il predominio; perchè altramente ne seguirebbe che la sola gravezza avesse azione secondo il più grave verso il men grave: onde senza altra prova pareva bastante il dir che Aristotele avesse levata questa dubitazione. Ora, perchè l'esemplo de' venti non ci ha luogo, non accaderà che io mostri che non sarebbe a proposito. Ma se volete che io dica il mio pensiero, voi avete finto di creder così per mettere in campo la disputa della leggerezza, se si trovi o no: ma perchè n'ho detto il parer mio nel discorso citatovi, che vedeste, contro il Copernico, e non ci avete risposto, aspetterò che facciate maggior risentimento di questo che fate adesso; perchè, a dirne il vero, se l'altre ragioni che avete non son miglior di quelle che per ora io veggio in favor della vostra opinione, potrete, per onor vostro, non ne parlar mai più. È vero che l'aria ha, per la sua leggerezza, inchinazione a star sopra l'acqua; ma non già nel suo luogo si muoverà per andar più su nel luogo del fuoco, perchè rispetto al foco è grave; però non può ascender nel luogo di quello, e si ferma, uscita dell'acqua, quasi subito e secondo l'impeto con cui fu spinta. Nè è inconveniente alcuno il dir che i corpi levi, come, v. g., il fuoco, benchè per sua propria inclinazione abbia facuiltà d'ascendere verso il concavo della Luna, ascenda più tardo quando sia nell'aria che nell'acqua. Imperochè, oltre al suo moto naturale, avendo il moto dell'impulso dell'acqua, che è più efficace che non è quello dell'aria, che maraviglia se ascendesse più tardo nell'aria? il che si nega, nè voi mel farete vedere. Ma per questo sarà vero che non abbiano moto proprio e da causa intrinseca, perchè non andassero così veloci per l'aria come per l'acqua, se nell'aria manca quel maggiore impulso? Anzi si può negare, e con ragione, che l'esalazioni ignee nell'acqua ascendano più presto che nell'aria; perchè, se ben vi è di più accidentalmente il movimento dello scacciar che fa l'acqua tali esalazioni come più levi, a rincontro cotali esalazioni, come ammortite e rese dall'umido e freddo, che domina, più gravi e corpulente, non possono speditamente operare e mettere in atto la virtù loro d'ascendere in alto: e però si muoveranno più tardi nell'acqua che nell'aria, poichè nell'aria, per la simigliauza che hanno seco, si ravvivano e son più in atto e più al proprio luogo vicine; donde nasce che verso il fine del moto le cose e corpi naturali vanno più veloci. Ma che il fuoco sia assolutamente leggieri da principio intrinsico, veggasi per esperienza che un globo di fuoco maggiore ascende più velocemente per l'aria che non fa un minore; e pur se fosse grave dovrebbe far contrario effetto. Adunque non conchiude cosa alcuna il vostro argomento. È possibile, Dio immortale, che nè voi, nè chi vi consiglia, conosca queste fallacie? Chi volete che non conosca che voi il fate apposta?
Vengo ad Aristotele, circa l'intelligenza del testo: e dico che ella non consiste nell'accoppiamento e positura di quell'avverbio simpliciter però siavi concesso il locarlo dove piace a voi, perchè il senso non si muta in modo alcuno, se già la vostra grammatica non fosse diversa dalla nostra, come la filosofia. Io per tanto non so veder che la mutazion di quell'avverbio inferisca mai se non il medesimo, cioè che le figure non son causa del muoversi o non muoversi semplicemente in su o in giù, ma sì bene del muoversi più veloce o più tardo, come dite voi ancora; con questa intelligenza però, che la figura larga della tardità del moto è cagione perchè l'impedisce, e della velocità per la sua assenza. Ma non so già che da questo si possa cavare che quello che è causa di velocità e tardità nel moto per accidente, non possa esser cagione anche di quiete per accidente, sì come quel che è causa di moto per sè è causa di quiete per sè, come si è provato lungamente di sopra. Però, quando Aristotele esclude le figure dall'esser causa del moto assoluto e semplice, e conseguentemente dalla quiete, non l'esclude dalla quiete che si cagiona per accidente, sì come nè anche del tardi e veloce muoversi; nè io ho mai tenuto altramente. Supposto questa verità, vano e a sproposito è fatto intorno a ciò tutto il discorso vostro, per difetto di buona loica. E notisi che quelle parole del Buonamico, De causis adiuvantibus gravitatem et levitatem, non voglion dire che sian cause per sè, ma per accidente; nè si può intendere altramente, come egli medesimo dichiara nel medesimo capo citato da voi, dicendo causam gravitatis vel levitatis per se esse naturam elementorum, e così tutti gl'interpreti famosi d'Aristotele; nè altro vuol dire causa secundum quid, che causa per accidente. Ma, secondo ch'io veggo, questa distinzione per se et per accidens non quadra alla vostra dottrina; però fingete di non l'intendere. Vedete adunque che Aristotele, nel 4 della Fisica al testo 71, non contraria a questo del Cielo, come vi pareva; e così in niuna altra maniera vien censurato a proposito da voi.
E quando dite che, se le figure son causa di quiete per esser larghe, ne seguirà che le strette sian causa di moto, contro a quello che afferma Aristotele; si risponde, che è vero per accidente l'uno e l'altro: nè questo è contro Aristotele, che non vuol che sian cause per sè, ma cause solamente per accidente, nè è inconveniente alcuno; sì come io posso per accidente esser cagione che una trave legata al palco d'una casa si muova in giù, sciogliendo la fune che le faceva impedimento.
Circa il dir poi che Aristotele non abbia ben filosofato nell'investigare le soluzion de' dubbi che ei propone, veggiamo se è vero, e se egli ha ben soluto il dubbio dell'ago, che a voi è ancor dubbio.
È possibile che stimiate, Aristotile avere inteso che l'ago si ponga nell'acqua a giacere, perchè ha detto che le figure lunghe o ritonde, se saranno minori e men gravi delle falde larghe di ferro e di piombo, andranno al fondo? Qual è quel matematico che non sappia che le dimensioni del corpo son latitudine, longitudine e profondità? e che la latitudine, per esempio, dell'ago è quella che noi diremo grossezza, e d'una cosa lunga, nella grossezza non rotonda, s'intende quella parte che è più larga, e la longitudine dalla cruna alla punta, e la profondità dalla superficie al suo centro? Ora, se le piastre di ferro si devon mettere su l'acqua per la latitudine e larghezza, per lo contrario la lunghezza dell'ago è quella che dev'esser la prima a toccar la superficie dell'acqua, che è dalla punta o dalla cruna; altramente, non posereste su l'acqua l'ago per la lunghezza, ma per la larghezza. Posar per lo lungo vuol dire a perpendicolo e retto; ma per lo largo, si intende a giacere, come si direbbe a giacere una trave distesa in terra. Ma che più? A voler che l'ago e la piastra facciano effetto diverso, bisogna posarli diversamente. E, finalmente, le cose si debbono usar per fare un effetto in quella maniera che elle possono operare, e non altrimenti. Io dirò per esempio: «La sega recide il legno»; ma se voi diceste che non fosse vero, e perciò voleste che io lo recidessi dalla costa e non da i denti della sega, fareste ridere i circostanti, perchè di quivi non lo taglia. Dirassi per questo che abbiate ragione? Se io la volterò dal taglio e che non lo tagli, allora sì che avrò il torto. Così dico dell'ago: se a metterlo nell'acqua retto, che è quanto dir per lo lungo, non cala al fondo, avrete ragione contro di Aristotile; ma egli vi cala; adunque contentatevi di esser chiaro che dice il vero, e voi il falso. Nè so io vedere, perchè si debba pigliare un ago piccolo, il quale non abbia peso convenevole, acciò possa calare al fondo ogni volta che voleste pur metterlo a giacere; poi che, come dissi disopra, voi stesso volete che si pigli tanta quantità di materia, che possa operare. Direte che si debbe prender piccolo, perchè, avendo detto Aristotile che le cose rotonde minor della piastra calano al fondo, come sarebbe una palletta di piombo, se l'ago dovessi prendersi grande, come vogliono alcuni, avrebbe detto uno sproposito; imperò che chi non sa che se la palla così piccola va al fondo, vi andrà anche l'ago, che è un cumulo di molte palle? A questo rispondo, primieramente, che avendo Aristotile detto «come rotonde o ver lunghe», si può dir che intendesse d'un solo di detti corpi, al piacimento di chi volesse provarlo, e non dell'uno dopo l'altro, per rinforzar l'argomento. E meglio si dice, che Aristotile non faceva il dubbio circa il peso fra di loro, ma circa le figure principalmente; e perciò non ci ha luogo la vostra dificultà, nè potete in modo alcuno argomentare ch'egli intendesse differenza di peso tra la palla e l'ago. Onde si poteva con ragione, dopo la palla, dir dell'ago, perchè le figure rotonde son molto diverse dalle lunghe; onde si poteva dubitare anche fra di loro, Però sciocchezza è il creder che, dicendo minora et mìnus gravia, faccia comparazion del peso fra l'ago e la palla; ma sì bene fra le lamine grandi e questi corpi minori, ma non minimi, come dite voi nella aggiunta. Oltre acciò è da avvertire, che questi esempli son del vostro Democrito, e non d'Aristotile, il quale appo voi non è un balordo. Non è falso, adunque, che l'ago vada al fondo, sì come nè anche le palle di piombo o di ferro, pigliati però l'uno e l'altre di peso convenevole; perchè altramente egli medesimo afferma che per la picciolezza, ben che di materia gravissima come è l'oro, non solo tali corpi nuotano su l'acqua, ma vagano anche per l'aria. La polvere e il liso dell'oro, e non le foglie dell'oro battuto, nuotan nell'aria, quanto a quel vagamento che dite voi: nè intende altrimenti Aristotile, volendo mostrare che per la picciolezza quei corpicciuoli sono di sì poca attività, che lentissimamente discendono, come pochissimo abili a dividere il mezo; e questo, eziandio che non tiri vento, accade sempre, se ben molto maggiormente quando l'aria è agitata da' venti. E siavi ricordato che altro è dir notare nell'aria, altro è soprannotar nell'acqua: perchè quello che nuota nell'aria, perchè è nel corpo e non nella superficie dell'aria, è necessario che non istia fermo, ma cali al fondo più tardi, o più veloce, secondo la sua gravezza; ma quelle cose che soprannuotano, stanno sempre su la superficie senza discendere, se nuovo accidente non sopragiunge, come avviene alla polvere nell'acqua, che, inzuppandosi e bagnandosi, quindi a poco si vede calare; e voi stesso affermate che la minutissima polvere indugia le giornate intere a calare al fondo. E questo dice Aristotile, e non altro, in tal proposito.
Aristotile, bene inteso, comfuta Democrito nobilissimamente; ma non è da ogn'uno. Però quando volete che non possa accadere che quelle esalazioni ignee più velocemente asciendano nell'aria che nell'acqua, come in parte dite aver disopra dimostrato, si risponde, come in parte di sopra s'è risposto, che elle vi ascendono più veloci infallibilmente.
Sopponete adunque per vero, secondo Aristotile, che ci sia il leggieri, sì come il grave, da lui stato provato ne' medesimi libri del Cielo contro gli antichi; e se non volevate supporlo, era necessario confutar le sue ragioni, le quali ancora poteste vedere ne' libri della Generazione più ampiamente, e non passarvela alla magistrale, con bastar che si dica: «Pittagora l'ha detto». Supponete di più, per le sopra mentovate ragioni in difesa del Buonamico, che le esalazioni vadano più velocemente in su nell'aria che nell'acqua. Supponete ancora che Aristotele intenda che i corpi che hanno da esser retti nell'acqua e nell'aria da dette esalazioni, abbiano tutte le condizion pari, fuor che quella di che si disputa, cioè l'esalazioni: e troverete che infallibilmente sarebbon meglio tali corpi sostenuti nell'aria che nell'acqua per causa dell'esalazioni solamente; perchè Aristotile argomenta alla mente di Democrito, che leva in tal caso ogni facultà all'acqua, senza che facciamo comparazion delle gravità del mezo e del solido; se già a mente vostra non si facesse un corpo che nell'acqua appena calasse, e un altro che nell'aria facesse il simile, acciò fossero pari anche queste condizioni, e allora vedreste l'effetto se l'esalazioni operassero. La ragione è, perchè nell'acqua ne sono pochissime e fiacchissime, come si è provato; nell'aria ne sono infinite, sparte per ogni parte, e perciò non possono disgregarsi e sparpagliarsi mai tanto, che ad ogni modo sotto quel corpo non ne rimanesse e non ne sottentrassoro dell'altre, come veggiamo che fa il fumo alla carta e il vento all'altre cose che dall'impeto loro son levate in alto. Nè è vero che si sparpaglino quando l'impeto loro vince la resistenza del corpo sopraposto; perchè altramente il fumo e il vento non eleverebbono in alto que' corpi. Data adunque parità de' corpi larghi nell'aria come nell'acqua, pure che il mezzo non operasse cosa alcuna, se fosse vero che le esalazioni solamente dovessero sostenere, e non fosse l'acqua, come vuole Aristotele che sia, senza dubbio molto meglio si sosterrebbono nell'aria che nell'acqua. Oltre che il corpo dell'acqua, per esser contrario di qualità all'esalazioni, bisogna che le dissipi e travagli, sì che non possano rettamente e unite ascendere: altramente sarebbon più quelle nell'acqua che le stesse parti della stessa acqua; il che è incredibile, e voi medesimo provate contro Democrito non esser possibile. Male per tanto ha filosofato Democrito, e voi con esso lui, e non Aristotele.
L'esperienza che adducete del vaso di vetro pieno di acqua bollente, per mostrar che per tale maniera si possa far sostenere qualche cosa grave da i corpusculi ignei, se bene è vero il sostentamento, non è vera la cagione in modo alcuno. Come volete che i corpuscoli entrino nel corpo del vetro e lo penetrino? Non sapete che è impossibile che un corpo penetri l'altro? E se pur fosse possibile, non credete che l'acqua gli affogasse, e spegnesse la virtù loro? Sapete voi donde nasce quel sollevamento di quel corpo che è nell'acqua? Quella qualità calida del fuoco sottoposto al vaso di vetro si comunica, per lo contatto, alla sustanza del vetro, e dal vetro si comunica all'acqua: onde l'acqua, alterata e commossa da quella qualità sua contraria, si rarefà e gonfia, e circula in se medesima per refrigerarsi e conservarsi contro il suo distruttivo; nè potendo totalmente resistere, se ne risolve parte in vapore aereo e calido, il quale, facendo forza di evaporare all'aria, solleva quel corpo che è nell'acqua e gli soprastà, se però non è molto grave.
Aristotele, per tornare a lui, ha non solo impugnato benissimo Democrito, ma nel medesimo tempo ha resa la cagione di tutti gli accidenti da lui proposti, riducendola alla facile e difficil division del mezo e alla facultà del dividente, fatta comparazione ancora tra la gravezza degli uni e degli altri; come che voi neghiate, Aristotele avere avuto questa considerazione, solo perchè non l'avete veduto.
Digrazia, mostratemi quest'ambizioso desiderio d'Aristotele di vincere sempre, Signor Galileo; perchè se voi mi fate veder che sia vero, con provar che Democrito sia stato impugnato a torto, io dirò che in questa parte egli non sia men curioso di voi. Dice Aristotele, che se fosse vero, secondo Democrito, che il pieno fosse il grave, e il vacuo si domandasse leggeri non come leggerezza positiva, ma come causa dell'ascendere in alto, ne seguirebbe che una gran mole d'aria, avendo più terra che una piccola mole d'acqua, discenderebbe più velocemente a basso che la poca acqua; il che non si vede adivenire; adunque è falso. Fortissimo argomento e insolubile: e a voler conoscerlo, bisogna supporre, alla mente di Democrito, come argomenta Aristotele, che non si dia se non il grave assolutamente, e sia della terra, e altresì l'azione, e respettivamente de gli altri elementi, e per accidente; in quanto, per esempio, l'acqua è scacciata dalla terra sopra di sè, in tanto l'aria sia scacciata dall'acqua, come men grave, perchè ha meno della terra che l'acqua: secondo, che il vacuo, non sendo altro che un luogo vòto dove non è cosa alcuna, egli non sia ente positivo, e che perciò non abbia qualità, perchè non entis nullae sunt qualitates. Ora, da questi supposti benissimo si conchiude da Aristotele contro Democrito, che la molta terra nella molta aria sarebbe cagione che ella discenderebbe più presto a basso che la poca acqua, dove è manco terra. La ragione è impronto: perchè se la sola terra è quella che fa l'azione con la sua gravezza, dove è più terra ivi sarà maggiore azione; adunque più presto calerà l'aria che l'acqua nella proporzion detta. Nè si risponda che tanto è grave un grano di terra, quanto un numero infinito di grani, in ispezie parlando, cioè quando siano le parti egualmente compartite nella lor mole, sì che non siano più spesse in un corpo che nell'altro, benchè siano più in numero in un di quelli tra i quali si fa la comparazione; e che perciò saranno di pari velocità questi corpi per quanto aspetta alla terra: imperochè si replica che, supposto che la vostra distinzione speciale così intesa fosse vera, avrebbe luogo la risposta, dove gli altri elementi in composizion con la terra operano, come leggieri più di lei eziandio comparativamente, che il composto si faccia men grave; il che non può avvenire, secondo l'opinion di Democrito, massimamente dove il mezo è il vacuo, perchè non può compararsi la gravità o leggerezza di esso con quella de' corpi che si debbon muovere in quello, non essendo nè grave nè leggieri: e però la sola terra che è nell'aria, comparata con quella dell'acqua, perchè è molta più, farà il suo moto più veloce nel vacuo, secondo il parer di Democrito parlando, che vuole che nel vacuo si faccia il moto. E questa maggior velocità concedereste anche voi, almeno per causa della gravità assoluta, che è maggiore dove è maggior mole; e tanto più opererebbe l'effetto nel vacuo, per non vi essere rispetto nessuno col mezo, che possa ritardarla. Aggiungo, che se fosse vero, come tenete voi, che non ci fosse leggieri assolutamente, ma solo il men grave, che l'aria molta con la molta terra calerebbe più che l'acqua, al meno di gravità assoluta, alla quale non avrebbe rispetto alcuno la gravità del mezo, poichè sarebbe il vacuo, che non ha qualità nessuna: onde la gravità assoluta della maggior mole, per la quale voi dite il mobile più leggier del mezo profondarsi in esso fin che le forze sono equilibrate, non avendo contrasto col mezo, perchè è il vacuo, chi non vede che ella sarà cagion di maggior velocità nel corpo della molta aria, che in quello della poca acqua? Nè può il fuoco, che fosse nell'aria, cagionar leggerezza, perchè per voi non è leggieri; anzi è il vacuo, secondo Democrito. Da tal conchiusione e discorso vien manifesto, che contro l'argomento d'Aristotile contro Democrito non ha luogo la vostra distinzione specifica farsi dalla molta terra o poca ne i corpi della medesima grandezza di mole, poi che riesce fallace la maniera d'argomentar per questa via. Anzi lo provo anche nella disputa nostra, dove è il mezo pieno e non il vòto. Un grano di terra è in ispezie grave quanto una, zolla di venti libbre; e nondimeno la zolla cadrà più velocemente a terra che non farà quel grano, sia nell'aria o sia nell'acqua; e affermate ancor voi che nuotan nell'acqua e stanno i giorni quei grani di terra nell'acqua a calare. Forse risponderete che in un grano non è peso sensibile, che per ciò non può vincere il mezo? E io replico che, benchè il peso sia minimo, ad ogni modo il peso in ispezie è il medesimo in un grano che in un monte di terra, e che però non operando l'effetto, altra è la cagione. Direte forse che parlate del peso assoluto, e non dello speziale. E io rispondo di più, che questo sarebbe contrario alla vostra dottrina: oltre a ciò si verifica, come dice Aristotele, che un corpo più grande dell'altro, della medesima natura, cala a terra più velocemente; poichè sarebbe da voi conceduto, almeno per causa della gravezza assoluta. Non potete già dir che quel grano abbia nella sua composizion più aria della zolla; perchè io vi farò pigliare in quella vece dell'oro, acciò si levi l'occasion del gavillare; nè voi direste che, data proporzion di spessezza tra il grano e la zolla, il grano non fosse in gravità eguale alla zolla; e non di meno il grano cala più tardo. Ultimamente, ricorrerete voi alla figura, che per esser più larga, dove è più materia, opera cotale effetto? Signor no, perchè dovrebbe seguire il contrario più tosto; e bene ad ogni modo avrebbe detto Aristotele, purchè l'effetto sia vero come è. Ma bisogna far l'esperienze, quando pigliate il corpo, benchè minore, di qualche grandezza, in luoghi assai alti, acciò che la differenza sia sensibile; che però non si potendo far in grande altezza, si può in quella vece far grandissima differenza tra la mole e grandezza de' mobili: perchè, se la differenza di velocità è apparente in que' corpi che son molto differenti, chi dubita che ella non sia anche ne' corpi che son di grandezza poco differenti, ma men sensibile? Che dà maggior percossa, un sasso grosso o un piccolo? Il grosso: adunque aggrava più; e se aggrava più, vien più veloce. E se pur vi intestaste di voler che il fuoco, benchè sia il vacuo, abbia azione di far l'aria più leggiere dell'acqua per la multiplicazion di quello, ad ogni modo non potreste scappare; perchè sarebbe vero adunque, come dice Aristotele, che l'acqua in maggior quantità dell'aria ascendesse sopra la poca aria, essendovi più fuoco.
Diciamo adunque che Aristotele argomenta nobilissimamente contro Democrito; e che è vero, che la distinzione specifica non solo non ha luogo contro di lui, ma nè anche tra di noi; e che non pende detta distinzione sempre dalle molte parti e più spesse di terra in un corpo che in un altro; e che, conseguentemente, sia miglior regola di tutti questi effetti la considerazion del predominio degli elementi e la facultà del mezo.
E che dite voi dell'olio e altri corpi, che sono molto più terrei dell'acqua, data parità di mole, e nulla di meno galleggiano? E acciò che non attribuiate all'aria cotale effetto, non sapete che anche in bilancia pesati son più leggieri dell'acqua, e nella bilancia non ha che far l'aria? Direte: O questo è contro alla buona e peripatetica filosofia, che dalla più terra, e non da altro accidente, si cagioni maggior leggerezza. E io rispondo, che non dalla terra, ma da altro accidente che dall'aria, si cagiona ancora, e massimamente in questi e altri simili corpi. Perchè non si può dir che l'acqua sia per la sua freddezza più densa e di parti più spesse che l'umido dell'olio, e che per ciò pesi più l'acqua per la sua maggior porzione in rispetto all'olio, se bene è men terrea dell'olio? Non è egli chiaro, nell'ariento vivo esser più acqua e men terra che nel ferro e in altri simil metalli, e nulladimeno pesar più di essi di gran lunga? anzi, che Aristotile dice che l'ariento vivo è a predominio aereo, e ad ogni modo pesa tanto. Adunque non è necessario che dove è più terreo, quivi sia maggior gravità; perchè vi può esser tanto più acqua o aria in porzione e così densa, che avanzi la gravezza della terra del corpo a cui si compara, ancor che sia molta più. Vedete se anche l'aria può operar questo, oltre al detto d'Aristotile circa l'ariento vivo: imperciochè Aristotile, anzi voi medesimo, poichè a lui non credete, affermaste in voce, ed è vero, aver pesata l'aria, egli in un otro, e voi in una fiasca, col collo di cuoio, ben gonfiata; soggiungo io, non perchè l'aria nell'aria pesi, sì come nè anche l'acqua nell'acqua, ben che divisa dal tutto, mentre che non è più spessa e più densa l'una che l'altra, ma perchè l'aria cacciata per forza nell'otro e nel fiasco gonfiati si fa molto più densa e spessa di parti che non è l'altra aria naturalmente; di qui è che pesa l'aria nell'aria, perchè è più grave in ispezie, direste voi. E questa è la cagione perchè si può in tal modo pesar l'aria nell'aria e non l'acqua nell'acqua, perchè, a cacciarla in un pallone o altro corpo, non si può condensare come l'aria; ma sì bene ghiacciandosi si condensa ed è più grave, con tutto che nell'acqua non appaia, per cagion dell'aria racchiusavi, il che non può avvenir nel condensar l'aria. Mi piace che circa il luogo nel quale si dovrebbe far l'esperienza, voi beffiate Aristotile, perchè egli lo merita. o voi che avete invenzion da trovar cose maggiori, non sapete trovarlo? Non è egli attualmente sopra la terra, dove siamo noi? Domandatene Democrito, e vi dirà che è il vacuo. Ora, perchè l'effetto che dice Aristotile dovrebbe seguire nel vacuo, che sarebbe anche dove siamo noi, e seguendo, noi il vedremmo, però dal dire egli che l'effetto non si vede, si inferisce anche esser falso ciò che afferma Democrito, cioè che il pieno sia il grave, e il vacuo il leve. Sig. Galileo, chi cammina più freddamente adesso, Aristotile o Democrito?
Voi soggiugnete, a carte 68 [pag. 135, lin. 30-31], che noi non ci sappiamo staccar da gli equivoci; e veramente che il detto calza appunto nella persona vostra: imperò che di sopra s'è provato che quello che resiste alla divisione fatta con tanta e tanta velocità, può resistere anche assolutamente, e così cagionarsi la quiete, al moto. Equivocate ancora nel dir che l'aria e l'acqua non resistendo alla semplice divisione, non si possa dir che resista più l'acqua che l'aria; perchè, supposto che alla divisione assoluta non resistessero, se ben dell'acqua s'è provato il contrario, nondimeno, resistendo circa il più e men veloce muoversi, non è questa resistenza più nell'acqua che nell'aria? E questa velocità e tardità, è pur conceduta da voi. Anzi, che dove fosse la resistenza assoluta propriamente presa, non si potrebbe dir che vi fosse più e meno resistenza, non sendo in modo alcuno divisibile. Li esempli della penna, la canna, il sagginale, addotti per noi, provano benissimo la facile e difficil division dell'aria e dell'acqua, se voi farete capital delle vostre regole di gravità in ispezie e gravità assoluta; e così verranno soluti i vostri fallaci argomenti, per le cose dette anche disopra. E quanto al galleggiare e calare al fondo per sè, che è un altro punto, non è quello di che trattiamo noi, nè si disputa, se non che par che meglio sia attribuirlo al dominio dell'elemento e alla facultà del mezo. Può fare il mondo! che volete che faccia il sagginale e la cera quando è giunta su la superficie dell'acqua? Domili, che egli abbiano a cercar di salire in aria, se son più gravi di lei? Quella esperienza dell'uovo è del medesimo sapor dell'altre. Paionvi addirizzati come prima gli argomenti che avevate citati contro gli avversari? To' su, Aristotele: «a simili angustie conducono i falsi principii», dice il Sig. Galileo. O poveri Peripatetici, so che avete un valente maestro! o andate a impacciarvi con Aristotele!
L'error che voi stimate comune, di quella nave o altro legno che si crede galleggiar meglio in molta acqua che in poca, è error particulare, perchè è solamente vostro, sì come a car. 17 [pag. 79, lin. 30-35] dite contro Aristotele ancora; mostrando non saper che tali problemi non son d'Aristotele, come prova il famoso Patrizio, tomo I, lib. 4. La ragione è, perchè quel legno che deve scacciar le parti dell'acqua nel tuffarsi, se elle saranno in maggior copia e più profonde, maggiore ancora sarà la resistenza che nel cacciarne poche, non solo per le ragion dette di sopra a car. 23 [pag. 334, lin. 13-10], ma ancora perchè l'acqua che è sotto e da i lati, benchè non cali più giù il legno, quanto è più, più resiste di sotto e regge, e da i lati ancora ne' movimenti premendo maggiormente, perchè la virtù più unita è più efficace; sì come è più difficile a penetrare e dividere un gran monte di rena e alto, che un monticello piccolo, perchè manco parti hanno a cedere il luogo, se ben nell'acqua fanno men resistenza per esser fluida: ma non è vero che solo quelle operino che toccano il legno, poichè tutte si muovono. Non dico già che nella quiete non regga a galla una nave tanto la poca acqua quanto la molta, sì come un canapo grosso un dito, per esemplo, reggerebbe un peso di mille libbre come un canapo di 4 dita di grossezza: ma non sarebbe per questo che nella violenza e forza e lunghezza di tempo non fosse più atto a resistere il canapo grosso; sì che, dato che qualche forza potesse rompere il canapo sottile, non romperebbe già il grosso, perchè le molte fila e parti componenti il canapo si aiutano più fra di loro che le poche: e però, se ben ciascuno è abile a regger quietamente, quello che è più abile reggerà anche più contro al moto e violenza, e con più efficacia. Per esperienza si vede che un corpo più leggier dell'acqua, quanto si spinge più sotto, tanto più cresce la resistenza: adunque quanto sarà l'acqua più profonda, tanto sarà la forza maggiore nel resistere alla violenza; e questo, perchè nel profondo è più calcata dalle parti superiori, e perchè verso il fondo è più unita e ristretta, come avete in Archimede per la regola delle linee tirate dal centro alla superficie, che ristringon sempre verso il centro e fanno alle parti dell'acqua luogo più angusto, onde son meno atte a cedere il luogo loro. E, per lo contrario, si prova ancora che un corpo più grave dell'acqua, sollevato dal profondo con la mano, più facilmente si solleva disotto che verso la superficie, perchè, per la ragion detta, l'acqua del fondo aiuta più, e più efficacemente spinge, che quella della superficie. Nè dicasi che tanto disaiuta quella superiore, quanto aiuta la sottoposta; imperocchè l'acqua disopra non pesando, per esser nell'acqua, poco o niente disaiuta. Le navi, adunque, che non si metton nell'acqua del mare perchè stiano ferme e scariche, ma perchè solchino per l'onde, che fanno impeto e gran commozione, e alzano le navi di maniera sopra il letto del mare nelle tempeste e i cavalloni, che se, nel tornare a basso, l'acqua non fosse molta e profonda, le navi si fracasserebbono, e massimamente quando son molto cariche. E chi non sa che nella molta acqua più agili e più destramente notiamo, che in quella che appunto ci regge? E come volete caricar molto le navi, e che vadano veloci, dove non è più acqua che quella che basta per reggerle, e più solamente un mezo dito? Quella poca acqua che è sotto il cul della nave, non è egli vero che più facilmente ne' moti si distrae, che non fa la molta quantità? Adunque il vostro pronunziato non è assolutamente vero, ma solo nella quiete potrà essere.
Che l'acque siano più grosse in superficie, come tiene il Buonamico citato da voi, la ragion lo persuade molto, non solo nell'acqua del mare per la sua salsedine, che è maggiore in superficie, e perciò più terrea, ma anche nell'altre acque, se ben nelle correnti non è tanto sensibile come è nell'acque morte; e questo, perchè il sole in superficie attrae le parti sottili e lascia le grosse e terrestri, il che non può fare nel fondo.
Sig. Galileo, volete voi il giudizio di tutta questa opera vostra? Pigliatelo dall'ultimo argomento; il quale dovrebbe, per buona retorica, essere più forte di tutti, e nulladimeno chiunque il legge si maraviglia che l'abbiate fatto, non vi essendo proposito alcuno per argomentar contro Aristotele.
Volete provare ad Aristotele in questo ultimo argomento, che non altramente la larghezza della figura è causa del soprannotare, ma la grossezza del corpo, come dite anche a car. 45 [pag. 112, lin. 13-21], che è il medesimo che il peso, come avete dichiarato nell'aggiunta (e in vero cen'era bisogno, perchè è più difficile a intendersi che a solverlo); di più soggiungendo che, quando ben fosse vero che la resistenza alla divisione fosse la propria cagion del galleggiare, molto e molto meglio galleggerebbon le figure più strette e più corte che le più spaziose e larghe.
Ora si risponde, quanto al primo capo, che il vostro argomento è sofistico. Imperochè chi non conosce che la grossezza del solido e il peso si vanno accrescendo e diminuendo per causa della figura? Se quella cresce in larghezza, e questi scemano; se quella si diminuisce, e questi augumentano. Nè si è detto che la gravità non concorra all'operazione con la figura, ma la figura operar come principale. Che maniera d'argomentare è questa, a car. 45? Dite voi: Io scemo e accresco le figure larghe, e ad ogni modo galleggian come prima; di poi accresco alquanto la grossezza, e subito calano al fondo: adunque non la larghezza è cagione di varietà, ma la grossezza solamente. Prima, è sofisticheria il dir che le figure larghe, accresciute e scemate, galleggiano come prima; perchè, se bene è vero che l'une e l'altre galleggiano, le più larghe galleggian con più efficacia, poichè reggerebbono addosso maggior peso le più larghe che le più strette, senza calare al fondo. Secondariamente, chi non vede che aggiugnendo grossezza s'accresce il peso assoluto contro la resistenza del mezo, benchè fosse il medesimo corpo, senza aggiunta di materia? Che maraviglia, adunque, se il soverchio peso fa calar la figura, poichè è sparso per manco punti e parti dell'acqua che quando la figura è più larga? Se volete che sia ridotta prima la figura in tale stato col peso, che ogni minimo peso aggiunto la farebbe calare, niuno dubiterà che aggiungendovelo ella non possa reggersi più. Provate un poco se il peso che darete alla figura larga, in guisa che accrescendolo calerebbe al fondo, sia retto a galla dalla figura larga e rotonda, purchè sia peso considerabile? Certamente che no; e questo sostenghiamo noi. È fallacia grandissima il dir che la figura si accresca dilatandola, se abbiamo rispetto al peso, dovendosi mantener, come dite voi, la medesima grossezza: sì come è falso ancora che si scemino le figure facendo della assicella quadretti, non si scemando la grossezza nè accrescendola, come voi medesimo affermate, contrariando adesso a voi medesimo per contraddire ad Aristotele, come ora si proverà. Sentite, Signor Galileo.
Quanto al secondo capo, egli non è men fallace del primo. Atteso che, se volevate argomentare che proporzionabilmente le ligure grandi ridotte in quadretti piccoli e molti, uno di quei quadretti galleggerebbe più facilmente che quando era tutto un quadro e un sol corpo grande, non è chi ve lo neghi, considerando il quadro grande e il piccolo comparati insieme, il peso e la figura dell'uno e 'l peso e la figura dell'altro; perchè, come dite voi, il peso del quadretto, rispetto alla sua larghezza, è molto minore che il peso del quadro grande rispetto al suo perimetro o larghezza; e però resiste maggiormente sopra l'acqua il minore, avuto cotal rispetto, e non assolutamente considerati fra di loro. Ma questo non farebbe a proposito contro di Aristotele; perchè egli non parla secondo questo rispetto di proporzione, ma assolutamente dice che le figure larghe e piane soprannuotano, e le strette e rotonde no; e questo è vero. Però è vero anche che, fatta comparazione tra le figure più o meno larghe semplicemente, meglio galleggia la più larga che la più stretta, e maggiormente resiste, se ben cavata del medesimo legno e grossezza. E che sia vero, mettasi un peso, su la più stretta, di tal gravezza che la spinga appunto al fondo; dipoi si metta il medesimo peso su la più larga; e vedrassi reggerlo da quella, e non calare altramente. E questo è il concetto d'Aristotele, cioè considerar le figure, quanto all'operazion loro, l'una verso l'altra. Nè è inconvenevole che la medesima cosa, secondo diversi rispetti, si verifichi diversamente. Imperocchè può benissimo stare che un uomo con un sol braccio, proporzionalmente parlando, sia più gagliardo nell'alzare un peso, che un altro con due braccia; e nulladimeno, fatta semplice comparazione tra l'uno e l'altro, sia veramente men gagliardo di colui che ha due braccia. E questo è il proprio senso nel quale parla Aristotele, nè si deve intendere altramente. Però, volendo argomentar voi in questa maniera al suo vero sentimento, come par che cercaste di fare avanti la vostra dichiarazione per l'aggiunta, se però intendeste quello che dir volevate, dicendo che la resistenza del divider centosessanta palmi d'acqua è maggior che quella di venzei, non vedete che argomentaste a sproposito? Perchè questo non è altro che dire: «Aristotele, fa', di questo tuo corpo largo, di molte strisce e quadretti; e poi tienli uniti tutti insieme, a guisa d'uno di quei foderi di travi che si mettono in Arno; e vedrai che galleggerà meglio che quando era veramente tutto un corpo». Chi dirà che questo sia buon modo di provare contro Aristotele, che meglio galleggi un corpo di figura stretta che uno di figura larga? Son quegli più corpi, o un solo? E se fosse un solo, anche Aristotele direbbe che, per aver maggior perimetro, galleggerebbe meglio. Ma non provate già voi che il minor corpo abbia maggior perimetro del grande, con queste divisioni geometriche delle quali siate tanto intelligente. Fate a mio senno: attendeteci meglio, e poi non vi arrischiate ad ogni modo a fare il maestro ad Aristotele. E avvertite, che la resistenza non consiste solo nel taglio che si dee far nella circonferenza; perchè vi ingannereste di gran lunga a crederlo. Voi non mi negherete però, che la figura, quanto più è larga, più parti di acqua occupi con la sua piazza; e che a volere sottentrar nel luogo di quelle, bisogni scacciarle più tardamente che se fosse più stretta la piazza; e che dovendo far moto per cedere il luogo, si faccia con tempo, e conseguentemente vi sia resistenza non meno che allo stesso perimetro, poichè dal centro della figura alla circonferenza assai penan le parti dell'acqua a partirsi, per cedere il luogo loro al corpo che succede: adunque non si fa solo nel perimetro la resistenza, ma per tutta la larghezza della falda. Digrazia, riduciamla a oro, acciò che ogn'uno l'intenda. Io piglio una falda con dieci palmi di larghezza e una di due palmi, e le metto nell'acqua: qual di lor due avrà più resistenza alla divisione? Mi risponderete: Quella di dieci palmi. Benissimo. Or fate conto che quel di dieci palmi fosse dodici, e poi ne fosse spiccato quel di due, che tornerà nel vostro argomento de' tanti quadretti: e così vien chiaro che l'argomento non val cosa alcuna. I perimetri poi, che vengon da voi chiamati col nome di resistenza, non so io vedere perchè si debban domandar con tal nome; se già non lo faceste per generar maggior confusione, come degli altri termini. E questo tutto segue in dottrina del Sig. Galileo contro la sua medesima dottrina, e non d'Aristotele, come malamente egli si crede.
Risolviamo, adunque, che le ragioni dell'avversario, per esser troppo anguste e sottili, vanno al fondo senza speranza di ritornar mai in su; e quelle d'Aristotele, per esser di forma larga e quadrata, si piantano a galla nè possono affondare a patto veruno, benchè l'aria della sua autorità non le dia aiuto e non le regga in alcuna guisa: nè si trova scampo nè ordigno matematico o meccanico, il qual possa sostentare gli avversari, se non quel disperato che insegna Quintiliano nella sua Retorica, ed è che là dove non si possono scioglier le ragioni opposte, facciasi vista di non le stimare, e le dispregi o schernisca: Quae dicendo refutare non possumus, quasi fastidiendo calcemus.
Laus Deo.
Havendo rivista con diligenza la sopradetta opra del Sig. Lodovico delle Colombe, di controversia con il Sig. Galileo Galilei, sopra la figura de i corpi solidi intorno allo stare a galla o andare in fondo, non ci trovo cos'alcuna contra la fede catolica nè contro i buoni costumi, ma buona e solida dottrina filosofica e peripatetica.
Pad. Ottaviano Ancisa Min. Oss.
Veduta la sopascritta relazione del P. F. Ottaviano Ancisa, quale per ordine nostro ha considerato questo Discorso Apologetico, concediamo licenza si possa stampare, havuta che si harà in consenso del Molto R. P. Inquisitore.
A dì 24 d'Ottobre 1612.
Alessandro Arcivesc. di Firenze.
Al Pad. Emanuel Ximenes, che vegga per il S. Offizio et refferisca.
Dal S. Offitio di Firenze, li 25 d'Ottobre 1612.
F. Cornelio Inquisit.
Ho letto questo Discorso Apologetico del Sig. Lodovico delle Colombe, intorno al Discorso del Sig. Galileo Galilei circa le cose che stanno su l' acqua o che in quella si muovono; et non contiene cosa alcuna contro la fede cattolica o buoni costumi, anzi con molta acutezza discorre, et è opera degna che sia data alla stampa.
In Firenze, alli 26 d'Ottobre, dal nostro Collegio della Compagnia di Giesù.
Emanuel Ximenes.
F. Cornelio Inquisitore di Firenze. 29 d'Ottobre 1612.
Stampisi secondo gl'ordini, questo dì 29 d'Ottobre 1612.
Niccolò dell'Antella.