Perchè dalle cose notate di sopra intorno al Discorso Apologetico del Sig. Lodovico delle Colombe dipende la soluzione della maggior parte dell'instanze del Sig. Grazia, io, per non aver senza necessità e con tedio del lettore a replicar le cose medesime, terrò metodo diverso dal precedente; e senza esaminar tutti i particolari, ridurrò io sotto alcuni capi quei luoghi ne' quali mi è parso che questo Autore non abbia interamente sfuggito il potere esser notato e avvertito.
Anderò, dunque, prima considerando alcuni luoghi ne' quali mi par che egli declini da i buoni precetti logici.
Esaminerò secondariamente diversi suoi discorsi e ragioni alquanto frivole e, per mio parere, non ben concludenti.
Nel terzo luogo saranno riportate varie esperienze false o contrarianti all'intenzion dell'Autore.
Porrò nel quarto luogo non poche sue manifeste contradizioni.
Nel quinto luogo saranno registrati alcuni passi del testo del Sig. Galileo, alterati e non fedelmente prodotti dal Sig. Grazia.
E finalmente andrò considerando alcuni luoghi dell'Autore, i quali mi par che sieno senza senso o di senso contrario alla sua mente, ed insieme noterò alcune esorbitanze assai manifeste.
ERRORI IN LOGICA.
Che il Sig. Grazia non abbia perfettamente silogizato e concludentemente discorso, credo che facilmente si possa raccòrre da tutti quei luoghi, dove egli di suo proprio ingegno si mette a voler dimostrare alcuna cosa. Ma per additarne qualche particolare, cominciamo a considerare il primo argomento che egli scrive, che è nella prima faccia [pag. 379] del suo trattato, dove, volendo provare contro al Sig. Galileo che il ghiaccio sia acqua condensata per virtù del freddo, e non rarefatta, suppone per vero e notissimo nell'istessa prima proposizione quello di che si dubita, scrivendo [lin. 20-21]: Egli non è dubbio alcuno ch'e' semplici elementi si condensano dal freddo, e dal caldo si rarefanno. Ma questo è appunto quello che è in quistione: perchè che il ghiaccio si faccia d'acqua, che si faccia mediante il freddo, e che l'acqua sia uno de gli elementi semplici, è conceduto da ambe le parti, e solo si dubita se tale azzione si faccia condensando l'acqua o rarefacendola; la qual cosa vien presa dal Sig. Grazia per notissimo accadere per condensazione, ponendo per indubitato questa esser azzione del freddo. Aggiugne poi al primo il secondo mancamento, volendo confermar quest'assunto con un'esperienza molto più ignota, scrivendo ciò sensibilmente apparire nella generazion dell'acqua e dell'aria. Ma dove, come o quando si vede pur solamente la generazion dell'acqua o dell'aria, non che sensibilmente apparisca questa o quella farsi per condensazione o per rarefazione? In oltre egli medesimo da per sè stesso si condanna e scuopre 'l difetto del suo assunto, perchè, dovendo esser le proposizioni che si prendono per principii notissime ed universali, egli stesso doppiamente dubita circa a questa sua, ed è forzato a limitarla. Dubita prima delle saette, nelle quali, contro all'assioma supposto, pare che 'l freddo abbia virtù di generare 'l fuoco, che è 'l più sottil degli elementi. L'altra dubitatazione nasce dalla gragnuola, nella quale sembra che 'l calore abbia virtù di condensare. Ma se questo assunto deve in alcuni casi esser limitato, egli è mal buono per dimostrar nulla necessariamente, perchè altri può sempre dire che la questione particolare di cui si disputa è uno de' casi eccettuati, e che posto che molte cose si condensino dal freddo, il ghiaccio è di quelle che si fanno dal freddo per rarefazione; il che si vede venir detto non men ragionevolmente che l'altra proposizione posta dal Sig. Grazia, che la grandine si faccia dal caldo per condensazione. Dicasi, di più, che la sua medesima inconstanza manifesta quanto debilmente sia fondato il suo discorso; poichè nell'assegnar la cagione del convertirsi le esalazioni calde e secche in sottilissimo fuoco, egli l'attribuisce ad una gran condensazione ed unione di esse esalazioni, scrivendo in questo medesimo luogo [pag. 379, lin. 25-27]: Il freddo, condensando le nugole, di tal maniera unisce l'esalazioni calde e secche le quali per entro le nugole si ritrovano, che elle ne divengono sottilissimo fuoco. Ma se 'l fuoco è, come pur egli afferma, il più sottile degli elementi, ed in consequenza di tutti i misti ancora, dovrebbono l'esalazioni, nel convertirsi in fuoco, rarefarsi, e non grandemente unirsi. Nè più saldamente discorre mentre, per assegnar la ragione come dal caldo possa prodursi la grandine, ricorre all'antiperistasi, avendo in pronto, anzi in mano, altra cagione più facile ed intelligibile. Perciò che, scrivendo che il freddo condensa le nugole, e che le nugole uniscono l'esalazioni, sì che divengono fuoco, ben poteva più direttamente dire che le nugole condensate dal freddo divenivano grandine; anzi non solo più direttamente, ma senz'incorrer in contradizione, com'egli ha fatto, ponendo senza veruna necessità nell'istesso tempo e nel medesimo luogo il caldo e 'l freddo per produrre il medesimo effetto, dico 'l freddo per condensar le nugole, e 'l caldo per ridurle in grandine: la qual semplicità vien tanto più discoperta, quanto che noi veggiamo la medesima grandine scesa nell'aria bassa e calda in brevissimo tempo dissolversi; dove per salvar la dottrina del Sig. Grazia bisognerebbe trovar caldi che per lo circondamento congelassero l'acqua, ed altri caldi che la liquefacessero, ed in somma ricorrere a quelle distinzioni che sogliono far tacer altrui, perchè non sono intese nè da chi l'ascolta nè da chi lo dice.
Pecca gravemente in logica nel principio della facc. 10 [pag. 381, lin. 12-16], ed il peccato è di provare idem per idem, ponendo per noto e concesso quello che è in contesa. Il progresso è tale. Vuole il Sig. Grazia provare che il ghiaccio sia acqua condensata, e non rarefatta; e l'argomenta da un segno, che è che le cose nel condensarsi divengono molto più dure: ma che le cose nel condensarsi divenghino più dure, lo prova col senso, dicendo che ciò sensibilmente si vede nel ghiaccio.
Nè maggior intelligenza di logica mostra a facc. 11 [pag. 382, lin. 12-13], dove egli, scrivendo tutto l'opposito di quello che è vero, chiama dimostrazione universale quella che assegna la cagione de i movimenti e della quiete nell'acqua de i corpi semplici appartatamente, e particolar quella che ciò dimostrasse di tutti i corpi semplici e de' composti insieme. Ma chi dirà, altri che 'l Sig. Grazia, che meno universale sia quella dimostrazione che conclude un accidente di tutti i corpi naturali insieme, che quella che prova l'istesso degli elementi solamente?
Quanto sia fuori di proposito nella presente materia quello che il Sig. Grazia va notando intorno a i diversi modi di considerar e dimostrare del natural filosofo e del matematico, facilmente si potrà da quel che segue comprendere. Egli, alla facc. 15 [pag. 385, lin. 25-37], immaginandosi, per quanto io credo, di poter con un discorso generale atterrar tutto 'l trattato del Sig. Galileo, mette in considerazione, quanto s'ingannino coloro che vogliono dimostrar le cose naturali con ragioni matematiche, essendo queste due scienze tra di loro differentissime. Imperciochè lo scientifico naturale considera le cose naturate che hanno per propria affezione il movimento, dal quale il matematico astrae: il naturale considera la materia sensibile de' corpi naturali, e per quella rende molte ragioni de' naturali accidenti; e il matematico di quella niente si cura: similmente, trattandosi del luogo, il matematico suppone un semplice spazio, non curando se è ripieno di questo o di quell'altro corpo; ma 'l naturale grandemente diversifica uno spazio da un altro, mediante i corpi da che vien occupato, onde la velocità e tardità de movimenti naturali adiviene: e benchè 'l naturale tratti delle linee, delle superficie e de' punti, ne tratta come finimenti del corpo naturale e mobile; e 'l matematico, astraendo da ogni movimento, come passioni del solido, che ha tre dimensioni. Ora, posto per vero tutto questo che produce il Sig. Grazia, se ben molte difficoltà ci si trovano, ma vano sarebbe il promuoverle, perchè la confutazione di tali asserzioni sta nell'esser fuori di proposito in questo luogo, e non nell'esser false; tuttavia ammessele, come io dico, per vere, egli le lascia sospese in aria, nè punto le applica, come doveva fare, al trattato del Sig. Galileo, mostrando che egli pecchi nelle quattro soprascritte maniere: e veramente è stata sua disgrazia il non venire a tale applicazione, perchè venendovi si sarebbe accorto de' suoi errori, nè averebbe scritte sì gravi esorbitanze. Voi dite, Sig. Grazia, che 'l Sig. Galileo ha errato, trattando quistioni naturali con metodi non naturali, ma matematici; dichiarando poi in che differisca il naturale dal matematico, dite prima che 'l naturale considera le cose naturate che hanno per propria affezione il moto, dal quale 'l matematico astrae. Ma se voi considererete 'l Discorso del Sig. Galileo, voi troverete sempre trattarsi de' corpi naturali congiunti col moto in su o in giù, tardo o veloce. Secondariamente, voi non troverete che egli mai gli separi dalla materia sensibile, ma sempre gli considera esser o di legno o di ferro o d'oro o d'acqua o d'aria etc. Terzo, trattando egli del luogo, mai non lo considera come un semplice spazio, ma sempre ripieno o d'acqua o d'aria o d'altro corpo fluido, più o men denso, più o men grave, e quindi ne arguisce la tardità o velocità de' movimenti. E finalmente, egli non considera mai le linee e le superficie se non come termini de' corpi naturali, cioè dell'acqua, dell'aria, dell'ebano, del piombo, etc. Attalchè io non so vedere qnal cosa vi abbia indotto a voler riprendere il Sig. Galileo in quello dove egli punto non trasgredisce le vostre medesime prescrizioni, anzi puntualmente le osserva; ed entro in sospetto che voi veramente molto poco abbiate letto il suo libro, meno consideratolo, niente inteso, e che avendo voi sentito dire che il Sig. Galileo è matematico, vi siate persuaso che e' non possa avere scritto d'altro che di semplici linee o figure o numeri.
Séguita il Sig. Grazia nella seguente facc. 16 [pag. 386, lin. 2-29] di confermar nel lettore l'opinione dell'esser lui poco intendente di logica e di quello che sieno i metodi delle scienze, mentre egli agramente riprende alcune definizioni proposte dal Sig. Galileo, e si scuopre non sapere che nell'imposizioni de' nomi e nelle definizioni de' termini ciascheduno ha liberissima autorità, e che simili definizioni altro non sono che abbreviazioni di parlare: come, per essempio e per sua intelligenza, facendo di bisogno al Sig. Galileo frequentemente rappresentarci all'intelletto corpi affetti talmente di gravità, che prese di essi eguali moli si trovino essere anco eguali in peso, per fuggir questo circuito di parole, si dichiara da principio volergli chiamare corpi egualmente gravi in specie; ed era in arbitrio suo il chiamargli in qualsivoglia altro modo, senza meritar mai biasimo da professore alcuno di quella scienza, purchè nel servirsi di tal definizione egli non la prenda mai in altro significato. Ma quando pur sopra i nomi si avesse a suscitar contesa, non doveva il Sig. Grazia abbassar tanto la profession che e' fa di filosofo, ma lasciar tal lite a' grammatici. Ben è stata ventura di Archimede e d'Apollonio Pergeo, che il Sig. Grazia non si sia incontrato ne i nomi che loro imposero a tre delle sezzioni coniche, chiamando questa parabola, quella iperbole, e quell'altra ellipsi, perchè, avendo egli forse saputo che questi prima furon nomi di figure retoriche che di figure matematiche, ne arebbe loro conteso l'uso. Aggiungasi di più, che di queste definizioni veramente il Sig. Grazia non ne ha intese nissuna, e perciò forse le ha volute rimutare, ed aggiugnendo errore sopra errore gli è parso poi che il Sig. Galileo non ritrovi nè i veri sintomi ne le buone dimostrazioni; come accaderebbe a quello che prima dannasse Euclide del chiamar cerchio quel che egli vuol nominar triangolo, e triangolo quello che egli vuol chiamar cubo, e poi dicesse che le passioni dimostrate da Euclide ne' cerchi, ne' triangoli e ne' cubi fosser tutte false, e le dimostrazioni difettose, consistendo veramente tutto 'l male nella sua gravissima ignoranza, e non in Euclide.
Pecca non leggiermente in logica alla facc. 20 [pag. 388-389], dove, per destrugger tutte le dimostrazioni del Sig. Galileo in una volta, si mette a scoprir la falsità de' principii sopra i quali elleno si appoggiano: e benchè tali principii sieno ↑ dal Sig. Galileo posti ↓ due solamente, cioè che pesi eguali e mossi con eguali velocità siano di pari virtù nel loro operare, e l'altro che la maggior gravità d'un mobile possa esser contraccambiata dalla maggior velocità d'un altro men grave, il Sig. Grazia nondimeno ne confuta sei, tra i quali nè anco sono questi due. Scrive dunque così [pag. 388, lin. 38 – pag. 389, lin. 3]: Perchè tutte le dimostrazioni del Sig. Galileo son fondate sopra principii falsi, per non perder tempo in vano, ho giudicato esser bene il tralasciar questa fatica. Il che sarà facile il dimostrare. Il primo principio è, che egli non fa la sua dimostrazione universale: imperciochè egli dimostra il movimento degli elementi e de' misti sotto una medesima dimostrazione e per una medesima cagione; la qual cosa quanto sia falsa, abbiamo già detto. Ma io, Sig. Grazia, non solamente non so che alcuna dimostrazione del Sig. Galileo sia fondata su questo che voi numerate per il primo principio falso, ma non so che sia nè possa esser principio di dimostrazione alcuna. In oltre, non so qual logica insegni che manco universale sia una proposizione che dimostra una passione del corpo semplice e del misto insieme, che quelle che ciò provassero prima dell'uno e poi dell'altro separatamente. Numera il Sig. Grazia per il secondo principio falso, sopra il quale il Sig. Galileo fonda le sue dimostrazioni, il voler dimostrar le cose naturali con matematiche ragioni. Ma in ciò s'inganna il Sig. Grazia, perchè il Sig. Galileo mai non si serve in alcuna sua dimostrazione di tal principio; nè questo può chiamarsi principio, nè il Sig. Galileo ha punto errato nel dimostrar cose naturali con altre ragioni che naturali, come di sopra si è detto. Quanto al terzo principio, che il Sig. Galileo neghi la leggerezza positiva e solo affermi, le cose che ascendono esser mosse dallo scacciamento del mezzo più grave, credo io ancora che così sia: ma nego bene al Sig. Grazia che di tal proposizione si serva il Sig. Galileo per principio in alcuna delle sue dimostrazioni, sì che ella ne cadesse in terra quando ben tale assunto fusse distrutto; perchè trattandosi principalmente di corpi gravi, che tutti nell'aria descendono, e la maggior parte anco nell'acqua, è ben certo che non possono esser mossi in su da leggerezza. Quello che nel quarto luogo viene assegnato dal Sig. Grazia per principio supposto dal Sig. Galileo, cioè che nell'acqua non sia resistenza all'esser divisa, non è vero che sia supposto, anzi e' lo prova con molti mezzi: ma è bene equivocazione nel Sig. Grazia, non solo in questo luogo, ma in cent'altri in questo suo libro, non avend'egli mai potuto intendere che differenza sia tra il resistere all'esser diviso e 'l resistere all'esser mosso velocemente; e negando il Sig. Galileo solamente nell'acqua la resistenza all'esser divisa, il Sig. Grazia, credendo di confermar tal resistenza, sempre conclude di quella che ha l'acqua all'esser mossa con velocità, la qual resistenza non è mai stata negata dal Sig. Galileo. Nota nel quinto luogo, come principio supposto dal Sig. Galileo, la resistenza che fa l'acqua ad esser alzata sopra il proprio livello, e insieme nega la medesima resistenza, dicendo che non è nulla o cosa insensibile. Questo vien ben supposto per vero dal Sig. Galileo, ma non già nominatamente, essendo cosa tanto manifesta, che ben si poteva creder esser poco meno che impossibile che pur un uomo solo fosse per trovarsi al mondo che non la sapesse e intendesse. E veramente è cosa mirabile, che il Sig. Grazia non abbia tra mill'altre esperienze che di tal effetto si possono avere, incontrata quella di mettere un bicchiere sott'acqua, sì che si empia, e osservato come nel tirarlo in alto con la bocca all'in giù, mentre e' va per l'acqua non si sente peso nissuno, se non quel poco del vetro, ma ben comincia poi a sentirsi gravità come prima una parte dell'acqua contenuta nel bicchiere comincia a entrare nella region dell'aria, e tanto maggiore quanto maggior quantità d'acqua si inalza; dove si sente quell'istesso peso appunto, che se tal acqua fosse del tutto separata dal resto e pesata in aria. Registra per il sesto e ultimo principio falso, l'aver il Sig. Galileo mal definiti i termini de' quali si serve nelle sue dimostrazioni: la qual cosa primieramente è falsa, perchè le definizion de' termini, sendo arbitrarie, non possono mai esser cattive; ma poi è fuori di proposito, perchè le definizioni de' termini non posson depravar le dimostrazioni, se non quando essi termini fosser definiti in un modo e applicati poi alle dimostrazioni in un altro; la qual fallacia non so che sia stata commessa dal Sig. Galileo, nè il Sig. Grazia la nota.
Viene dal Sig. Grazia, alla facc. 37 [pag. 402], imputato il Sig. Galileo di mancamento di logica, poichè, volendo egli provare per induzione che nessuna sorte di figura poteva indur la quiete nei corpi mobili, non aveva dimostrato ciò accadere in ogni sorte di figura, ma nella cilindrica e piramidale solamente; e scrive così [lin. 24-29]: Ma noti 'l Sig. Galileo, che a voler provare per induzione una proposizione universale, bisogna pigliar tutti i particolari sotto di essa contenuti, e non, come egli fa, due o tre; imperciochè, quantunque la figura piramidale e la cilindrica non cagioni la quiete, non per questo si può dire che niuna figura la cagioni, ma bisogna ancora che 'l quadrangolo, il triangolo e 'l piano non lo cagioni. Lasciando di dichiarare quanto queste ultime parole manifestino il suo autore nudo di ogni minima cognizione di geometria, avvertirò solo quanto si dichiari cattivo logico, poichè egli non intende che l'induzione, quando avesse a passar per tutti i particolari, sarebbe impossibile o inutile: impossibile, quando i particolari fossero innumerabili; e quando e' fusser numerabili, il considerargli tutti renderebbe inutile o, per meglio dir, nullo il concluder per induzione; perchè, se, per esempio, gli uomini del mondo fossero tre solamente, il dir: «Perchè Andrea corre, e Iacopo corre, e Giovanni corre, adunque tutti gli uomini corrono», sarebbe una conclusione inutile e un replicar due volte il medesimo, come se si dicesse: «Perchè Andrea corre, Iacopo corre, e Giovanni corre, adunque Andrea, Iacopo e Giovanni corrono». Ed essendo che per lo più i particolari sono infiniti, come accade nel nostro caso delle figure differenti, assai forza si dà all'argumento per induzione quando l'affezzione da dimostrarsi si prova di quei particolari che massimamente apparivano men capaci di tale accidente, perchè poi, per la regola si de quo minus, si conclude l'intento. Onde il Sig. Galileo, che doveva dimostrare, contra l'opinione de' suoi avversari, che di tutte le figure fatte della materia medesima si sommergevano eguali porzioni, stimando quelli che delle più larghe minor parte se ne sommergesse, assai sufficientemente aveva provata l'intenzion sua ogni volta che egli avesse paragonate le più larghe con le sottilissime e acute, quali sono le piramidi o i rombi solidi, e mostrato tra loro non cader diversità alcuna, tuffandosi di ambedue le medesime porzioni.
Certo errore che si legge alla facc. 51 [pag. 413, lin. 2-4] è tanto materiale, che merita più tosto nome di errore di non saper parlare, che di error di logica. Le parole son queste: A questo s'aggiugne, che un mobile eguale di gravità o leggerezza ad un altro, ma diseguale di figura, si muove più velocemente nell'acqua che quell'altro non fa. E quale, Sig. Grazia, di questi due mobili è quello che si muove più velocemente dell'altro? Se più velocemente si muove, come dite voi, quello che è disegual di figura, bisogna che ambidue si muovino più velocemente l'uno che l'altro, perchè ambidue sono diseguali di figura l'uno dall'altro.
Il Sig. Grazia alla facc. 69 [pag. 426, lin. 7-10] riprende il Sig. Galileo del non sapere che cosa sieno le conclusioni, e scrive così: Io non so perchè il Sig. Galileo dica che Aristotile propone un'altra conclusione, se conclusione è quella che da argumento depende, non avend'egli fatto argomento alcuno: egli si doveva più tosto dire, da poi che si ha da trattare de termini fanciulleschi, una quistione, un problema, una proposizione etc. Perchè io so che il Sig. Grazia sa che sotto nome di conclusioni si comprendono non solo le proposizioni dimostrate, ma quelle ancora che si propongono per disputarsi o per dimostrarsi, e so che egli non è stato tanto poco per gli Studii, che non possa aver veduti i fogli e i libri interi pieni di problemi o proposizioni stampate con nome di conclusioni, non dopo l'essere state difese disputate e sostenute, ma molti giorni avanti, però non so immaginarmi qual cosa lo possa avere indotto a scrivere in tal maniera, altro che un desiderio più che ordinario di contradire. Vegga in tanto il Sig. Grazia chi è quello che pecca d'ignoranza ne' termini fanciulleschi.
discorsi e ragioni frivole e mal concludenti
Cascano sotto il genere delle ragioni molto frivole e di nissuna efficacia le infrascritte.
Dopo che il Sig. Grazia, a facc. 12 [pag. 382], concluse che gli elementi son quattro, ne inferisce [lin. 39-40] esser necessario che loro abbino quattro movimenti naturali distinti, sì come fra di loro son distinti nelle qualità. Questa conseguenza è tanto poco necessaria, che i medesimi che la deducono, nel ricercar poi quali sien questi quattro movimenti, non ne trovano se non due, cioè in su e in giù, e son costretti a ricorrere alle solite distinzioni di simpliciter e respective per fargli doventar quattro. Onde io stimo che molto meglio filosofi quello che dice, che dovendo gli elementi formar di loro una sfera, è necessario che tutti conspirino al medesimo centro, e abbino da natura tale inclinazione, che poi è stata nominata gravità, la quale, perchè non è in tutti eguale, fa che i più potenti più s'abbassano; e leverei in tutto l'inclinazione verso la circonferenza, come destruttrice della concorde conspirazione al formare una sfera quale è l'elementare. Ed all'argumento che pur in questo luogo produce il Sig. Grazia per confermar che di necessità il moto verso la circonferenza debba esser naturale di qualche corpo, dicendo che se ciò non fusse, tal movimento sarebbe fuor di natura d'ogni corpo naturale, non potendo il cielo muoversi di tal maniera, il che reputando egli per grand'assurdo, essaggera con ammirazione, scrivendo [pag. 383, lin. 16-19]: Ma chi direbbe già mai che un moto fosse contr'a natura a un mobile, se non fusse secondo la natura di un altro? essendo di necessità l'essenziale prima che l'accidentale, ed il naturale del non naturale, a tal argumento, dico, si risponderebbe negando che quel moto che è contra natura di un mobile, deva necessariamente esser secondo la natura di un altro, nè di ciò mancherebbon essempli: come, v. g., il desiderio della propria destruzzione è una inclinazione in maniera contraria alla natura di tutti i corpi naturali, che non è secondo la natura di nissuno; l'appetire il vacuo non è egli, in dottrina peripatetica, in guisa repugnante alla natura di tutti i corpi naturali, che da nissuno è seguito? Or faccia conto il Sig. Grazia, e gli altri che avanti di lui hanno in tal guisa filosofato, che 'l fuggire il centro sia un tendere alla dissoluzione del concatenamento dei corpi naturali ed un muoversi ad ampliar lo spazio, con rischio di dar nel vòto, e che però è un movimento aborrito da tutta la natura. E quanto all'assunto che un moto non possa esser nè dirsi contra natura di un mobile se e' non è secondo la natura di un altro, essendo di necessità l'essenziale prima che l'accidentale e 'l naturale del non naturale, credo che 'l suo primo prolatore vi abbia non leggiermente equivocato, e che per parlare conforme al vero convenga dire che un moto non può dirsi contro a natura d'un mobile se un altro moto non gli è secondo la natura, essendo di necessità l'essenziale prima che l'accidentale e 'l naturale del non naturale: e così si ha senso nelle parole, connessione tra l'assunto e la sua confirmazione, e corrispondenza nella natura; nella quale non ben si direbbe, il moto all'in su esser contr'a natura de' corpi gravi, se il moto all'in giù non fusse a loro naturale, essendo necessario che prima sia l'essenziale e naturale all'in giù, che l'accidentale e non naturale all'in su; così l'inclinare alla propria destruzzione è non naturale, essendo prima naturale l'appetire il conservarsi. Ma che un'inclinazione non possa dirsi contro a natura di alcuno se la medesima non è prima secondo la natura di un altro, a me par detto senza nessuna necessità di consequenza, nè so perchè non si possa dire che la vigilia continua sia accidentale e non naturale all'uomo, se ben non fusse naturale ed essenziale di nissuno altro animale.
Séguita poi di voler pur provar l'istesso con le tritissime ragioni confirmanti, esser necessario darsi in natura la gravità e la leggerezza assoluta; le quali ragioni non concludono veramente altro, chi ben le considera, se non che degli elementi altri son più e altri men gravi. È ben vero che il Sig. Grazia in ultimo soggiugne una ragione, la quale io stimo che non sia, come le altre, trascritta, ma di proprio ingegno ritrovata da lui; la quale, perchè supera in debolezza tutte le altre, mi muove a farne il suo autore avvertito. Volendo, dunque, il Sig. Grazia stabilire che anco il moto all'in su è fatto da causa intrinseca e positiva, e non per estrusione solamente, scrive alla facc. 14 [pag. 384, lin. 28-34] questo argomento: Se tutti gli elementi si movessino all'in su spinti dalla maggior gravità, ne seguirebbe che vicino al concavo della luna si desse il vacuo: imperò che se il fuoco e spinto dalla maggior gravità dell'aria, ed egli è grave, ne seguirà che quando ei sarà fuor dell'aria egli più non si muova all'in su, ma al centro, non essendovi la virtù della maggior gravità dell'aria, ma la sua natural gravità; adunque vicino al concavo della luna sarà del vacuo, non essendo chi vi spinga il fuoco. Se questo discorso più che puerile concludesse, io, ritorcendolo contro al suo inventore, gli dimostrerò che dato che il fuoco si muova all'in su da principio interno, e non per estrusione dell'aria, tra esso e l'aria rimarrà necessariamente il vacuo; perchè se nel fuoco doppo che egli ha trapassato l'aria, non però cessa la cagione di ascendere, ei seguiterà di alzarsi sino al concavo della luna, lasciando sotto, tra sè e l'aria, altrettanto spazio vacuo, quanto il Sig. Grazia temeva che di necessità dovesse rimanere tra 'l fuoco e 'l concavo della luna, caso che il fuoco fusse mosso per estrusione; e così il Sig. Grazia non potrà in modo alcuno sfuggire l'assurdo del vacuo. Ma perchè e' non abbia a restar con questo timore, è bene che sappia che la natura ha così esattamente aggiustata la capacità del concavo lunare con le moli degli elementi, che ella ne riman piena per l'appunto, sì che il fuoco, sormontato che è sopra l'aria, ha a capello ripieno ogni vacuo.
Ma qual più grossa considerazione potrà ritrovarsi di quella che il Sig. Grazia fa, a facc. 18 [pag. 387], intorno a due assiomi che il Sig. Galileo prende dalla scienza meccanica? Suppone per vero il Sig. Galileo che due pesi eguali, e mossi con velocità eguali, sieno di virtù e forza eguali nel loro operare; e ciò essemplifica nella bilancia di braccia eguali e che in esse pendino eguali pesi, li quali costituiscono l'equilibrio, non tanto per l'egualità de' pesi, quanto per l'egualità delle velocità con le quali si muovono, essendo eguali le braccia di essa bilancia. Il secondo principio è, che 'l momento e la forza della gravità venga accresciuta dalla velocità del moto. Ma il Sig. Grazia danna tali ipotesi per difettose, e dice [lin. 32-36] che se gli deve aggiugnere, volendole adattare alle cose naturali, che lo spazio per lo quale si devono muovere i mobili sia ripieno del medesimo corpo. Imperochè, se una bilancia si dovesse muover per l'aria e l'altra per l'acqua, è impossibile che elle si muovano nel medesimo tempo per spazii eguali, per la maggiore e minore resistenza del mezzo che occupa i sopradetti spazii. Or qui sono in piccolissimo spazio molte esorbitanze. E prima, dicendo il Sig. Galileo di suppor per vero che sieno eguali i momenti e la forza de' pesi eguali e mossi con eguale velocità, l'aggiunta del Sig. Grazia è molto fuor di proposito, perchè due pesi che semplicemente per lor natura fossero eguali, quando fosser posti in diversi mezzi, già cesserebbono di essere più eguali, talchè non sarebbono più di quelli dei quali parla il Sig. Galileo, perchè di mobili diseguali di peso egli non asserisce nè suppone che sien per esser di forze eguali. In oltre, mancamento di giudizio sarebbe stato quel del Sig. Galileo, se egli, come or vorrebbe il Sig. Grazia, ci avesse aggiunto che tali mobili, per riuscir di momenti eguali, devino non solo esser eguali in peso e velocità, ma esser di più nell'istesso mezzo: perchè quando due mobili fosser tali che anco in diversi mezzi si trovassero esser gravi egualmente e di velocità pari, le forze loro senz'altro sarebbono eguali nel loro operare; talchè, potendo l'assunto del Sig. Galileo esser generale e vero nell'uno e nell'altro caso, cioè tanto quando i mobili fossero in diversi mezzi quanto se fossero nell'istesso, non era bene, contro a' precetti logicali, ristringerlo e farlo meno universale. Di più, io non posso a bastanza meravigliarmi come il Sig. Grazia si sia potuto immaginare, che i mezzi diversi, come l'acqua e l'aria, possino causare che due pesi pendenti dalle braccia ↑ eguali ↓ di una bilancia si muovino con diseguali velocità, nè posso intendere che nel medesimo tempo che, v. g., quel peso che è in aria si abbassa un palmo, l'altro che è in acqua possa muoversi più o meno di tanto, anzi son sicuro che egli si moverà nè più nè meno. Io dubito che avendo osservato il Sig. Grazia che l'istesso peso libero con diseguali velocità si muove nell'aria e nell'acqua, si sia ora nel presente caso scordato che e' parla non di pesi liberi, ma legati alle braccia ↑ eguali ↓ della medesima bilancia, le quali braccia ↑ eguali ↓ gli costringono a passare nel tempo medesimo eguali distanze. E finalmente, quando gli assiomi del Sig. Galileo fossero nel proporgli, per sua inavvertenza, stati difettosi e inabili a prestarci ferma dottrina senza la cauzione aggiunta dal Sig. Grazia, doveva il medesimo Sig. Grazia essaminare i luoghi particolari dove il Sig. Galileo si serve di tali assiomi; e trovando che nell'applicazione quelli erano presi ben cautelati, non dovevano esser messe in sospetto le conclusioni dependentemente da quelli dimostrate, come egli fa e scrive a facc. 20 [pag. 388, lin. 38-39], dicendo: Ma perchè le dimostrazioni del Sig. Galileo son fondate sopra principii falsi etc.; e poco sotto [pag. 389, lin. 14-19], nel numerar tali principii, mette per il sesto l'aver male definiti i suoi termini, e di nuovo torna a nominar falsissime le dimostrazioni del Sig. Galileo, come dependenti da principii falsi. Ma forse il Sig. Grazia si è fermato su gli assiomi, nè si è curato d'internarsi nelle dimostrazioni del Sig. Galileo: del che ne dà ancor segno un'altra aggiunta ch'e' vuol fare in questo stesso luogo [pag. 387, lin. 40 – pag. 388, lin. 9] alla significazione che il Sig. Galileo dà al nome di momento, per quanto appartiene alla materia di che si tratta, dicendo che egli ha lasciata quella che più al suo Discorso faceva di mestiero; cioè che 'l momento denota non solamente quella forza che ha un corpo al muovere un altro, ma anco quella abilità naturale che hanno i mobili a esser mossi. Dove io non dirò che il Sig. Grazia, o chi si sia altri, non possa chiamar momento tutto quello che piace a lui, essendo i nomi in arbitrio di ciascheduno; ma dirò bene che grande sproposito sarebbe stato del Sig. Galileo il definirlo in tal maniera in questo luogo, non gli dovendo poi venir mai occasione di usarlo nel suo Discorso: e il Sig. Grazia, che per tal rispetto biasima il Sig. Galileo, doveva mostrar i luoghi particolari ne' quali il momento venga usurpato in questo senso non definito dal Sig. Galileo; altramente lo sproposito sarà tutto suo.
Censura non più ingegnosa delle precedenti è un'altra, che pur in questo stesso luogo, a facc. 19 [pag. 388], fa il Sig. Grazia sopra una proposizione del Sig. Galileo, doppo che egli prima falsamente l'ha portata. Egli attribuisce al Sig. Galileo l'aver detto, che un solido nel sommergersi nell'acqua ne alzi tanta, quanta è la propria mole, e che a tal movimento l'acqua, come corpo grave, resiste; segue poi scrivendo così [lin. 13-18]: Le quali cose pare che abbino bisogno di gran moderazione. Imperochè dice bene Aristotile che il mobile, profondandosi nell'acqua, deve alzare tant'acqua quanta è la sua mole; ma vi aggiugne: «se però l'acqua e quel mobile non si constiperanno insieme»: e quindi avviene che molti solidi nel sommergersi nell'acqua non alzeranno la ventesima parte di essi, altri più, altri meno, secondo che fra di loro si uniranno. Io non voglio ingaggiar lite con Aristotile, la cui autorità vien senza bisogno citata qui, dove l'esperienza manifesta può essere di mezzo, e 'l detto del Sig. Grazia di troppo s'allontana dal vero: perchè quanto a i corpi che si considerano demergersi nel presente Discorso, essendo o legni o metalli o simili solidi, è manifesto che questi non si costipano, onde, se vi accade costipazione alcuna, è necessario che sia tutta nelle parti dell'acqua, e che essa si costipi quelle venti volte tanto che vuole il Sig. Grazia; ma dubito che essa non voglia, anzi son sicuro che non solo un solido che si ponga nell'acqua, la quale liberamente possa cedergli e alzarsi, non la costiperà venti volte, nè dieci, nè due, ma nè anco un punto solo; anzi a riserrarla anco in un vaso, dove con immensa forza si possa comprimere, non si vedrà che ella sensibilmente ceda e si ristringa; il che ben si vede far all'aria, la quale con violenza si costipa due o tre volte più di quel che ella è libera. Onde l'inganno del Sig. Grazia resta infinito.
Séguita appresso, pur con la medesima semplicità, ad aggiugnere altri suoi giudizii dell'istesso genere, e dice così [pag. 388, lin. 18-20]: Quanto alla resistenza che fa l'acqua a quel movimento, quando si alza sopra il proprio livello, che ella fusse molta non torrei io già a sostenere. Imperciò che, se ben l'acqua al movimento all'in su, come corpo grave, è renitente, tutta volta in questa nostra azzione ella non muta in tutto e per tutto luogo, ma sì bene ne perde alquanto di sotto e altrettanto ne acquista per di sopra; ed essendo ella di sua natura corpo atto a esser grave e leggiero, quando è nel proprio luogo, come di sotto diremo, può da ogni minima forza esser mossa al centro e alla circonferenza: il perchè ella a questo movimento pochissimo resiste. Due ragioni adduce il Sig. Grazia, che lo muovono a creder che l'acqua da ogni minima forza possa esser alzata sopra 'l proprio livello. La prima è, il non mutar ella in tutto e per tutto luogo in questa nostra azzione, acquistandone ella altrettanto per di sopra quanto ne perde di sotto; tal che, secondo il discorso del Sig. Grazia, chi trovasse modo di fare che una colonna nell'esser tirata in su acquistasse altrettanto luogo per di sopra quanto ella ne perde di sotto, si alzerebbe senza fatica. Ma quali, Sig. Grazia, sono quei mobili che nel moto non perdino tanto di luogo per un verso, quanto ne acquistano per l'altro? L'altra ragione, che l'acqua nel proprio luogo, per esser atta a esser grave e leggieri, possa da ogni minima forza esser alzata, è vera, ma fuori del caso e contrariante a quello di che si parla; perchè qui si tratta d'alzar l'acqua sopra il suo proprio livello, che è muoverla per la region dell'aria, e non di muoverla nell'elemento suo stesso. L'acqua, dunque, a esser alzata sopra 'l suo livello resiste con tutto 'l peso che ella s'ha nella region dell'aria, come fanno tutti gli altri gravi.
L'esperienza, che soggiugne il Sig. Grazia, della cenere messa nell'acqua, è falsa e fuor di proposito: fuor di proposito, perchè quando ben la cenere e l'acqua si constipassero in maniera che una gran mole di cenere alzasse pochissima acqua o niente, ciò non accade nel piombo, nel legno, nella cera e nelli altri solidi che in diverse figure si sommergono nell'acqua, intorno a' quali si disputa; ma è poi falso del tutto che una gran massa di cenere nel sommergersi alzi poco o niente il livello dell'acqua, anzi ella fa l'istesso a capello che tutti gli altri corpi che si sommergono. Può ben essere che il Sig. Grazia s'inganni nel far l'esperienza, e che nel giudicare la grandezza della massa di cenere metta in conto la molt'aria che tra le sue particelle è mescolata, la quale, come nella semola accade, occupa la maggior parte del luogo, e che poi mettendola nell'acqua e' non tenga conto dell'aria che si parte, onde e' si creda di aver posta nell'acqua una massa grande quant'un pane, che poi non sia veramente stata quant'una noce. Trovi pur il Sig. Grazia modo di far che la massa resti tutta nell'acqua, che io l'assicuro che l'istesso accaderà, quanto all'alzare il livello, se ella sia di cenere, che se fusse di porfido.
Avendo il Sig. Grazia trapassate le dimostrazioni del Sig. Galileo, come false, si apparecchia egli stesso, a facc. 21 [pag. 389], a render le vere ragioni del problema, come possa essere che pochissima acqua sostenga e alzi un grandissimo peso, come, per esempio, che dieci libbre d'acqua possino sollevare una trave che ne pesi 500; e disprezzando non solo le dimostrazioni del Sig. Galileo intorno a ciò, ma l'istesso effetto proposto da quello come degno d'ammirazione, egli si meraviglia [lin. 27-29] come più tosto il Sig. Galileo non ammiri in che modo esser possa che la terra sostenga il peso degli altri tre elementi, che quasi in infinito l'eccedono. E io per terzo non so perchè il Sig. Grazia non si ammiri molto più, come il centro, che è assai meno che 'l globo terrestre, sostenga i medesimi tre elementi e la terra appresso. Ma se il Sig. Grazia reputa cosa assai triviale il problema del Sig. Galileo, con quali risa deve egli veder disputato da Aristotile, com'esser possa che i barbieri con agevolezza maggiore cavano i denti con le tanaglie che con le sole dita? e perchè con instrumenti simili più facilmente si schiacciano le noci, che con le sole dita? e perchè meglio ruzzolano le figure rotonde, che le triangolari o le quadre? o per qual cagione più comodamente si cammini per la piana che all'erta? Tuttavia, Sig. Grazia, non bisogna disprezzar gli uomini per la qualità delle conclusioni, che non sono di loro, ma della natura; ma bisogna misurare il lor valore dalle ragioni che n'apportano, le quali son opera del loro ingegno. Ma tornando alla materia nostra, sentiamo con qual sottigliezza renda il Sig. Grazia ragione del problema del Sig. Galileo.
Dico per tanto che avendo egli, con assai lungo discorso, concluso che i corpi misti ne' moti loro e nella quiete si regolano secondo l'elemento nella mistione loro predominante, da questo scrive [pag. 390, lin. 11-16] agevolmente dedursi la cagione perchè una trave di 500 libbre sarà sostenuta e sollevata da 10 libbre d'acqua: imperciochè essendo la trave a predominio aerea, e l'aria nell'acqua essendo leggieri, doverà la trave, come leggieri, sopra l'acqua di sua natura sollevarsi; solo arà bisogno di tant'acqua, che possa compensare il terreo de gli elementi gravi che nella trave si ritrovano. Qui, lasciando da parte che questo discorso non ha coerenza alcuna nè forza d'inferir nulla, due dubbii solamente propongo, i quali se non vengono soluti, mostrano in lui gran debolezza. Prima, se questo che dice il Sig. Grazia è vero, cioè che per sollevar la trave ci bisogni tant'acqua che possa compensare il terreo di essa, è forza che la porzione di questo terreo sia nella trave di quantitadi variate in infiniti modi; perchè, per sollevarla, alcuna volta bastano 10 libbre di acqua, altra volta non son tante 50, altra volta 6 libbre son di soverchio, altra volta mille botte non bastano, e tal ora son poche cento mila; ed in somma in tanti modi bisogna variar la quantità dell'acqua, in quanti si varia l'ampiezza del vaso nel quale si mette la trave, perchè ella non vien mai sollevata sin che l'acqua non se gli alza attorno sino a una determinata altezza, come, v. g., sino alli due terzi della sua grossezza, o più o meno secondo la maggiore o minore gravità del legno in relazione a quella dell'acqua: e ciascheduno mi cred'io che intenda che molto più acqua ci vuol per far, diremo, l'altezza d'un palmo in un vaso grande che in un piccolo, come in un lago che in un vivaio, e qui più che in una fossa stretta e corta. Or da qual di queste innumerabili misure di acqua determinerà il Sig. Grazia il terreo della mistione della trave? e qual sarà la quantità di questo terreo, che ora deve rispondere a dieci libbre d'acqua, ora a cento, ora a mille botte, ora a cento mila? È egli possibile che non abbia inteso o veduto la necessità del crescere la quantità dell'acqua secondo che si agumenta l'ampiezza del vaso? e se egli pur l'ha veduto, e ha osservato come tal effetto si diversifica secondo la detta ampiezza, come, nell'assegnare la causa, non ne ha fatta menzione? qual logica insegna che si possa in dimostrando trascurare, e non porre tra le cause della conclusione, un accidente alla cui mutazione sempre si varia l'effetto? Ma secondariamente, se per sollevar quella trave basta che si compensi il terreo di essa (essendo il suo aqueo indifferente nell'acqua, e l'aereo e l'igneo disposti all'innalzarsi), gran maraviglia sarà che, potendosi con poca acqua compensare il terreo d'una grandissima trave, non basti poi tutta l'acqua del mondo a compensare il terreo, non dirò d'una massa d'oro o di piombo nè di una trave o travicello d'ebano o d'avorio, ma di quanto facesse un manico a un coltello, il qual pezzetto, messo in qualsivoglia grandissimo vaso e infusavi qual si sia quantità d'acqua, mai non si solleverà. Ma passando un poco più adentro, mi par che altri potrebbe molto ragionevolmente desiderar dal Sig. Grazia, che egli avesse specificato il modo col quale l'acqua compensa quella gravità del terreo che è nella trave, essendo che una tal compensazione può esser fatta in due maniere molto tra sè differenti. Imperochè si può compensare una gravità con della leggerezza, o vero con un'altra gravità: con della leggerezza, come quando a una mole di piombo, che fosse in fondo dell'acqua, si aggiugnesse tanto sughero o tant'aria, che la facesse sormontare a galla; ma una gravità sarà compensata con un'altra gravità simile, come quando con l'aggiugnere un peso in una delle bilancie si contrapesa e solleva il peso che fosse prima stato messo nell'altra. Ora, qualunque di queste due maniere sarà eletta dal Sig. Grazia, credo che gli apporterà gran difficoltà nell'esplicarsi. Perchè se egli dirà che l'acqua operi in questo secondo modo, cioè che con la sua gravità compensi quella del terreo della trave, sì che ella ne venga sollevata come accade ne' pesi della bilancia, prima, egli dirà un impossibile nella sua propria dottrina; perchè, affermando egli in molti luoghi di queste sue Considerazioni che l'acqua non ha resistenza alcuna all'essere alzata sopra il proprio livello, conviene che egli insieme acconsenta che ella non abbia forza alcuna nell'abbassarsi sotto 'l livello medesimo, perchè quel corpo che non ha repugnanza a un movimento, non ha anco propensione e forza nel contrario; onde in virtù di tale operazione mai non sarà dall'acqua circonfusa sollevata la trave: in oltre, un tal moto accaderebbe alla trave per estrusion dell'acqua circonfusa, e non per leggerezza del legno; che in sua dottrina è assurdo gravissimo. Ma se egli intendesse, l'operazion dell'acqua verso la trave procedere nell'altra maniera, cioè che ella compensasse il suo terreo con apportargli nuova leggerezza, prima, ammessogli che ciò potesse accadere, benchè non s'intenda come, io dimando al Sig. Grazia, in che mezzo si ha da fare questo alzamento della trave. Certo che ella, quando si muove, si trova parte in acqua e parte in aria; di più, se egli non vorrà contrariare al vero e a se stesso, non mi negherà che l'acqua nell'aria è grave, e che nel suo elemento non è leggiera. Ma se queste cose son vere, come volete voi, Sig. Grazia, che si possa mai con nissuna quantità d'acqua compensare la gravità terrea della trave, che si trova costituita parte in acqua e parte in aria, dove l'acqua non ha leggerezza alcuna, ma sì ben anch'ella ha gravità? Finalmente, ditemi, Sig. Grazia: Quello che deve in tal modo compensare una gravità, non è egli tanto più atto a ciò, quant'egli è più leggieri? Credo che mi direte di sì, e che mi concederete anco che l'aria sia più leggiera dell'acqua. Ma la trave, avanti l'infusion dell'acqua, non era ella circondata tutta dall'aria? Certo sì: e pur l'aria circonfusa non bastava a compensare il terreo, sì che la sollevasse; e volete poi che ciò possa farsi da altrettant'acqua? Altra, dunque, bisogna dir che sia l'operazion dell'acqua intorno alla trave, che la compensazione del terreo; la quale operazione allora solamente intenderete, quando averete intese le dimostrazioni del Sig. Galileo, e non prima.
Apportata che ha il Sig. Grazia questa che egli stima vera cagione del problema, stimato da sè assai triviale, per mostrar, mi credo io, come sieno fatti i problemi sottili e ammirandi, segue scrivendo così alla facc. 22 [pag. 390, lin. 17-23]: Ma resta ben ora a me un più difficile problema, che, per non lasciar cosa alcuna indietro che alla nostra dubitazione s'appartenga, da me si spiegherà: e quest'è, perchè una trave di 100 libbre nell'aria è più grave di gravità in genere che un danaio di piombo, e nell'acqua il piombo divien grave e la trave leggieri. Segno ne sia di ciò, che la trave nell'aria si muove all'in giù più velocemente che 'l piombo, e nell'acqua il piombo conserva il medesimo movimento e la trave si muove all'in su. La soluzione del presente problema credo che dal Sig. Galileo sarebbe stata ridotta a pochissime parole, se però non l'avesse stimato tanto popolare, che non mettesse conto nè anco il proporlo o registrarlo fra le cose alquanto separate dalla capacità del vulgo: e credo che direbbe, che essendo il piombo e 'l legno amendue gravi nell'aria, in essa descendono, e che per esser l'acqua grave più del legno e manco del piombo, questo in lei descende, e non quello; e che se ben il piombo è in specie più grave del legno, niente dimeno che, sendo il legno ancora grave nell'aria, si può pigliare una mole di legno così grande, che pesi in aria più d'una piccola di piombo. Crederò bene che il Sig. Galileo, per non dire una bugia, non direbbe, ↑ come dice il Sig. Grazia, ↓ che un legno, benchè grandissimo, descendesse in aria più velocemente che una piccola quantità di piombo. E queste stimere' io le vere ed immediate cause e ragioni, atte, per la loro evidenza, a solvere il problema, e non quelle del Sig. Grazia (nomino il Sig. Grazia, non perchè io non sappia che egli trascrive questo e tutto il resto delle sue Considerazioni da altri, eccetto che alcune poche, le quali ben si conoscono esser suoi pensieri; ma lascio gli altri perchè ho che far con lui, e egli a questo, che trascrive, presta il consenso), le quali sono tanto più ignote delle conclusioni che si cercano, che, all'incontro, da queste prendono la cognizione o opinione che di loro si ha: perchè io non so, primieramente, ch'e' non si possa dubitare se ogni misto costi de' quattro elementi, e non d'altro; e posto anco che ciò fosse vero, non ho per cosa tanto facile il compassar ne' misti le participazioni de gli elementi semplici, che tale scandaglio si deva poter mettere per assioma manifesto, dal quale dependa la dimostrazione di conclusione ignota; e forse il Sig. Grazia medesimo non ritrova con miglior compasso il predominio nel misto, che con l'osservare come egli in questo e in quell'elemento si muova, e così venga provando poi in ultimo idem per idem o vero ignotum per ignotius.
Con poca, anzi nessuna efficacia, oppone, alla facc. 27 [pag. 394, lin. 21-23], il Sig. Grazia ad Archimede e al Sig. Galileo, che loro non possino render piena ragione, onde avvenga che un legno inzuppato d'acqua s'affondi, il quale asciutto galleggiava, atteso che e' negano all'acqua l'aver gravità nel proprio elemento; e stima che non basti il partirsi del legno l'aria leggiera contenuta dentro a' suoi pori, se anco quello che succede in luogo di quella non averà gravità nell'acqua; nè essendo quello che succede in luogo dell'aria altro che acqua, vuol di qui arguir, l'acqua nell'acqua aver gravità. Il qual discorso è fallacissimo: perchè se il legno non per altro galleggia che per la leggerezza che ha la sua aria nell'acqua, rimossa che sia tal leggerezza, non occorre che in suo luogo succeda un'altra materia che abbia gravità nell'acqua, ma basta, al più che possa pretender il Sig. Grazia, che ella non vi abbia leggerezza; se però il Sig. Grazia non dimostrasse che quel che resta del legno, partita che se n'è l'aria, sia ancora più leggiero dell'acqua, la qual cosa egli non ha fatta, nè, per mio credere, potrà mai fare.
Alla facc. 33 [pag. 399, lin. 19-22], non so con che ragione desideri il Sig. Grazia, che dal Sig. Galileo fusse assegnata la cagione, donde avvenga che le figure larghe ritardano il movimento in retto, e le strette lo fanno veloce, se, come egli dice, l'acqua e l'aria non hanno resistenza. Fuor di ragione, dico, fa il Sig. Grazia tal domanda; poichè il Sig. Galileo non ha mai negata nell'acqua la resistenza all'esser alzata e mossa, ma sì ben all'esser divisa, e ne ha dato per dichiarazione l'esempio della rena, la qual contrasta al moto che per entro lei si fa, e non perchè alcuna cosa s'abbia a dividere, ma solo a muovere: onde è forza dire che il Sig. Grazia con poca attenzione abbia solamente trascorso il trattato del Sig. Galileo.
Aveva notato il Sig. Galileo che l'esperienza di quello che operino le diverse figure fusse ben farla con la medesima materia in numero, la quale fusse trattabile e atta a ricever tutte le figure; e questo, acciò non si potesse dubitare se l'una e l'altra figura fossero di materie egualmente gravi in spezie, come accade se si farà una palla d'un pezzo d'ebano e un'assicella d'un altro. Ma il Sig. Grazia, redarguendo questa cautela del Sig. Galileo, scrive alla facc. 35 [pag. 400, lin. 27-30] così: Ma notisi che, sendo l'ebano d'una medesima spezie di gravità, non può cagionare diversità di movimento o di quiete, ma di velocità di movimento; e perciò tutte queste cavillazioni del Sig. Galileo vanno a terra. Nelle quali parole son molti errori. Prima, si vede che egli non diversifica le gravità fra di loro mediante l'esser più o men grave, ma mediante l'esser in questo o in quel suggetto; talchè se ben, per essempio, si trovasse che quattro palle di moli eguali di quattro legni differenti di spezie, come rovere, corgnolo, carpine e bossolo, fossero di peso eguali, egli tuttavia le vorrebbe dimandare gravità tra di loro differenti di specie, perchè quelle materie così differiscono; e all'incontro, due palle eguali in mole, benchè di gravità diseguali, purchè fussero della medesima spezie di legno, e' le vorrebbe nominare della medesima gravità in specie. Ma questo sarebbe errore comportabile, perchè ogn'uno può definire le sue intenzioni a suo modo; se non che nel servirsi poi di tali termini egli malamente gli applica alla natura, e si persuade che due solidi che sieno della medesima specie di gravità deffinita al modo suo, non possino non convenire nella medesima specie di movimento, sì che se una palla, v. g., di rovere va al fondo nell'acqua, tutte vi debbano andare: nel che s'inganna, perchè di ciascheduno dei detti legni si faranno palle, alcune delle quali galleggeranno e dal fondo dell'acqua ascenderanno, e altre descenderanno, e queste saranno quelle che si caveranno di parti vicine alla radice, e quelle di parti più lontane; anzi tal volta può accadere, che non solo l'esser parte del medesimo legno più alta o più bassa cagioni tal differenza, ma l'esser fatte l'una dalla parte dell'istesso tronco che riguardava il mezzo giorno, e l'altra la tramontana. Noto, finalmente, quanto l'ingegno del Sig. Grazia sia disposto a ammettere il falso e rifiutare il vero. Egli tien per fermo che la dilatazione della figura possa ritardar la velocità del moto, e ritardarla tanto, che finalmente induca la quiete nel mobile, il che è falsissimo; e nega poi che la maggior o minor gravità possa far l'istesso, purchè i mobili sien della medesima materia in specie, la qual cosa, contro all'opinion del Sig. Grazia, è verissima.
È forza dire che il Sig. Grazia nè abbia sperimentato cosa alcuna in questo proposito di che egli scrive, nè abbia osservato niente di quel che ha scritto il Sig. Galileo, già che egli persiste in dire, alla facc. 36 [pag. 401, lin. 35-37], che quelle falde d'ebano, d'oro o di piombo che si fermano su l'acqua, abbassano solamente la superficie di quella quanto comporta la lor gravità, ma non la dividono, perchè, sendo divisa, elleno subito se ne andrebbono in fondo. Ma se egli avesse pur una sol volta fatta questa esperienza, e preso una tavoletta d'ebano grossa mezzo dito o poco manco, e fermatola su l'acqua, togliendola poi via e guardando i suoi lati intorno intorno, gli averebbe veduti tutti bagnati; e se questo non gli bastasse per renderlo ben sicuro che i detti solidi quando si fermano hanno già divisa l'acqua, doveva apprendere dal Sig. Galileo l'esperienza di fare un cono d'ebano alto un dito, che messo nell'acqua con la punta in giù descende sin che tutto sia circondato dall'acqua, la quale anco avanza con gli suoi arginetti sopra la base del cono, il quale in tale stato si ferma senza profondarsi. Doveva anco apprender dal medesimo, come una palla di cera ingravita alquanto con un poco di piombo e messa con diligenza nell'acqua, si sommerge quasi tutta, e l'acqua sopra se li chiude quasi interamente, lasciando una piccola cherica discoperta e circondata da gli arginetti: nelle quali, esperienze dirà egli che la superficie dell'acqua non sia divisa, ma solamente abbassata? S'io credessi di poterlo rimuovere da un error tanto grosso, vorrei fargli vedere una picca messa col ferro in giù fermarsi perpendicolarmente doppo l'esser tutta sotto 'l livello dell'acqua, fermarsi, dico, in virtù dell'aria contenuta tra gli arginetti, e andar poi al fondo subito che gli arginetti si serrano: ma dubito ancora che tal vista non gli bastasse a persuaderlo che la picca così posta ha veramente divisa la superficie dell'acqua e qualche parte di più. Ma se le cose di materia più grave dell'acqua si sostengono, per opinione del Sig. Grazia, senza romper la sua superficie, che faranno i corpi men gravi? Certo meno la romperanno; onde le travi e le barche che galleggiano, bisogna che, alla vista del Sig. Grazia, vadino sdrucciolando sopra l'acqua come sopra 'l diaccio.
Con poca ragione riprende il Sig. Grazia, alla facc. 38 [pag. 403, lin. 6-8] il detto del Sig. Galileo, il qual vuole che, nel proposito di che si tratta, s'intenda delle figure poste sott'acqua, e non parte in acqua e parte in aria; perchè, se bene si concederà, il luogo esser proprio e comune, e che però tanto bene si possa dire, una torre e una nave esser nell'acqua, quanto un pescie o un sasso, se ben questi saranno o in fondo o tutti sott'acqua, e quelli parte in aria, nulladimeno nella presente quistione si ha da prendere il luogo nel proprio e stretto significato: perchè, volendo gli avversarii del Sig. Galileo che tanto il ritardamento del moto quanto la quiete dependino dalla dilatazione della figura, colà si deve intender indursi la quiete, dove s'induce il ritardamento, che è dentro l'acqua; perchè altramente s'incorrerebbe in quell'error di simplicità che commetterebbe colui, che promettendo di aver un artificio in virtù del quale gli uomini potesser viver nell'acqua, nello stringer il negozio volesse che gli uomini stesser solamente nell'acqua sino al ginocchio, perchè anco così stando si dice communemente loro esser nell'acqua. Ma questa contesa poco rileva, poichè 'l Sig. Galileo ha pienamente dimostrato che le falde di piombo e di altre materie gravi più dell'acqua, se ben si fermano nella superficie, non però galleggiano in virtù della figura, ma della leggerezza.
Pecca molto frequentemente il Sig. Grazia d'un error assai strano, ed è che egli adduce un'esperienza per confermare una conclusione, e accanto accanto soggiugne che se ben anche l'addotta esperienza non fusse vera, ad ogni modo la conclusione sarebbe vera lei. Ma se per la verità della conclusione niente importa che l'addotta esperienza sia falsa o vera, perchè addurla? Vuole, alla facc. 46 [pag. 409], confermar l'opinione d'Aristotile, che l'aria nel proprio luogo sia grave, e scrive così [lin. 12-15]: Alla contraria esperienza degli otri o de' palloni gonfiati, ho sperimentato io esser sì come dice Aristotile (cioè pesar più gonfiati che sgonfi); e quando non fusse, si deve avvertire, come dice Averroe, non per questo esser falsa la sentenza d'Aristotile, fondandosi ella sopra altre esperienze. Ma perdonimi Averroe e 'l Sig. Grazia, perchè se l'aria nell'aria avesse gravità, un utro assolutamente e necessariamente peserebbe più gonfiato che sgonfio. Ma s'io devo dire il vero, nè la conclusione d'Aristotile è vera, nè l'esperienza dell'utro o pallone gonfiato ha luogo in questo proposito; perchè l'aria nell'aria non è nè grave nè leggiera, e il pallone gonfiato pesa più che sgonfiato, ma ciò accade solamente quando con violenza vi si spignerà dentro maggior quantità d'aria di quella che naturalmente vi starebbe, la qual aria, perchè assolutamente e in sè stessa è grave, nel condensarsi nel pallone tanto più acquista gravità sopra lo stato dell'aria libera, quanto maggior mole se ne racchiude nell'istesso spazio: ma se l'aria contenuta nell'otre sarà non compressa, ma nella sua natural costituzione, tanto peserà gonfio quanto vòto; il che più esattamente si comprenderà, se si peserà una gran boccia di vetro serrandovi dentro l'aria naturale, senza comprimervene altra, perchè se poi si romperà la boccia e si peseranno i pezzi del vetro, si troverà l'istesso peso a capello.
Séguita appresso a questa un'altra falsità nell'istesso luogo, mentre il Sig. Grazia, per redarguir Temistio che, contrariando ad Aristotile, aveva con molta ragione detto, che se l'aria nell'aria o l'acqua nell'acqua fosse grave, ella descenderebbe, introduce due gravità, dicendo ch'altra è la sua gravità nel proprio luogo e altra fuori di esso, e che la gravità nel proprio luogo genera quiete, e fuori il movimento. Ma se dall'esser l'acqua grave nell'acqua depende il suo quietarvisi, che cosa accaderebbe se ella non vi fusse nè grave nè leggiera? è pur forza dir che la non vi si moverebbe nè in su nè in giù, e in conseguenza che la vi si quieterebbe. E se così è, perchè si deve introdurr'a sproposito questa gravità? anzi come non vi descenderebb'ella, se grave vi fosse?
Séguita, alla facc. 47 [pag. 409, lin. 37 – pag. 410, lin. 2], di accumulare fallacie sopra fallacie, e scrive: Non credo già io che un vaso di rame galleggi perchè l'aria inclusa lo renda più leggier dell'acqua, e perciò egli se ne stia sopra l'acqua, ma per la figura: potrebbe ben ciò adoperare, caso che l'aria fusse rinchiusa e serrata dentro al vaso con qualche coperchio, di modo che nel profondare 'l vaso ella facesse forza, per non esser nel proprio luogo e per esser leggieri, come si e detto. Vorrei pure, se mai fosse possibile, cavare il Sig. Grazia di qualche errore. Voi dite, Sig. Grazia, che 'l catino di rame galleggia, non per l'aria inclusa, ma per la figura: e io vi soggiungo che quel rame non solo con la figura di catino, ma con ogn'altra che voi gli darete, galleggerà sempre nell'istesso modo, purchè in lei si contenga altrettant'aria quanta nel catino, sia pur ella o cilindrica o conica o sferica o qualsivoglia altra; ed, all'incontro, tutte queste figure, rimossane l'aria, sì che nell'acqua non sia altro che 'l rame, subito andranno in fondo: se, dunque, congiunta l'aria con qualsivoglia figura tutte galleggiano, e rimossala tutte le medesime si sommergono, adunque la causa del galleggiare non è nella figura, che resta la medesima, ma in quello che si rimuove. Ma già che voi cominciate a comprendere che quando l'aria fusse racchiusa in un vaso di rame, sì che per nissuno spiracolo potesse scappar fuora, ella in tal caso potrebbe esser cagione del galleggiare, facendo ella forza per non esser nel proprio luogo e per esser leggiera, comincio a entrare in speranza di avervi a persuader qualche cosa. Talchè, Sig. Grazia, se l'aria contenuta in alcun vaso non avesse aperture da poter uscir fuora, voi acconsentireste che ella producesse il galleggiar di quello, con la repugnanza che ella fa all'andar sotto l'acqua mediante la sua leggerezza? Ma ditemi, di grazia, se la medesima aria fosse costretta a descender nè più nè meno sotto l'acqua insieme col vaso, ancorchè 'l vaso avesse qualche apertura, non credete voi che ella farebbe la medesima resistenza che quando era serrata? Credo pur che voi direte di sì: onde io tanto più volentieri passo a mostrarvi, che l'aria contenuta nel vaso lo segue, nell'esser egli spinto sott'acqua, nel medesimo modo per a punto tanto quando egli è senza spiracolo alcuno, quanto se egli averà qualche apertura, e non fa forza alcuna per uscir fuori, come voi mostrate di credere. Pigliate, dunque, una gran boccia di vetro, di quelle che noi chiamiamo buffoni, e serrategli a vostra sodisfazione la bocca, e provate poi qual forza ci vuole a spingerlo sott'acqua sin al collo; sturatelo di poi, e tornate a sperimentare qual resistenza e' faccia all'esser tuffato sin al medesimo segno; che sicuramente proverete la medesima, e non sentirete dalla bocca del vaso uscir un minimo alito d'aria. Del che se voi desideraste certezza maggiore, direi che voi pigliaste di una sottilissima membrana tanta parte, che bastasse a coprir la bocca del vaso, e copertala leggiermente, in modo però che non lasciasse dalle bande alcuno spiraglio, direi che voi tornaste a spinger con forza il vaso sott'acqua, sin presso alla total sommersione, e che voi in tanto poneste mente a quel che facesse la detta membrana; la quale, quando l'aria inclusa usasse violenza nessuna per uscire del vaso, veramente ella doverebbe sollevare la detta membrana; ma se ella non la solleverà, sì come assolutamente ella non ne darà anco un minimo segno (nè meno solleverebbe una foglia d'oro battuto o un di quei sottilissimi specchietti di acqua che spesso veggiamo farsi nel collo di simili vasi), potrete cominciare a credere che tanto è che 'l vaso sia serrato, quanto aperto, poichè l'aria nel medesimo modo appunto lo segue; ed in conseguenza potrete comprender come ella è cagione del suo galleggiare. Anzi, s'io credessi di potermi dichiarare a bastanza, vi aggiugnerei di più che questa sola esperienza ben osservata e considerata può bastare a farci toccar con mano che l'aria nell'acqua ascende, non per sua propria inclinazione o leggerezza che in lei risegga, ma per estrusione dell'ambiente; perchè quando l'aria avesse tal inclinazione, ella ne doverebbe dar segno col far impeto contro alla detta membrana, allor che la boccia è quasi tutta sott'acqua. Nè sia chi dica che la necessità di restar nella boccia per non ammetter il vòto togga all'aria il sollevarsi; perchè, essendo l'aria molto distraibile, e la forza che si sente fare alla boccia per inalzarsi grandissima, quando tal forza risedesse nell'aria, ella si distarrebbe in modo, che non solamente solleverebbe la detta membrana, ma sforzerebbe assai più gagliardi ritegni; ma perchè la virtù espultrice è nell'acqua, che dall'immersion della boccia venne scacciata, l'impeto vien fatto esteriormente contro a tutto 'l vaso insieme, e in tutto insieme si riconosce, e non nell'aria contenuta in quello.
Continua nell'istesso luogo il Sig. Grazia in voler provare che non è l'aria contigua all'assicella d'ebano quella che la fa galleggiare, e dice che rimovendosi ella, in ogni modo l'ebano galleggia; dichiarando poi il modo del rimuoverla, dice che si bagni sottilmente tutta la superior sua superficie, eccetto che un filetto intorno intorno al perimetro, il quale si lasci asciutto, e così sarà separata l'aria dall'assicella, e nulladimeno ella galleggierà. Veramente questa è troppo gran semplicità, onde non ci dovrebbe esser gran fatica per rimuoverla dal Sig. Grazia. Però noti Sua Signoria, che 'l Sig. Galileo ha detto, che l'aria contigua all'assicella, contenuta dentro a gli arginetti dell'acqua, fa insieme con l'ebano un composto non più grave di altrettant'acqua, e però non si profonda; sì come accade nel catino di rame, il quale, descendendo nell'acqua insieme con l'aria contenuta in esso, non si profonda, perchè, considerato il composto del rame e dell'aria che si trova sotto 'l livello dell'acqua, egli non pesa più di altrettant'acqua: e sì come sarebbe gran semplicità d'uno che si persuadesse d'aver rimossa l'aria dal catino, quando egli solamente con un pennello l'avesse bagnato dentro, così con l'istessa semplicità s'inganna chi crede che 'l bagnare in tal modo l'assicella faccia partir l'aria contenuta tra gli arginetti. Io credo pur che 'l Sig. Grazia, quando ha, conforme a questo suo pensiero, bagnata l'assicella, vegga in ogni modo rimaner gli argini e la cavità tra essi contenuta: nella qual cavità che cred'egli che ci si contenga? Forse il vacuo? certo no, ma indubitatamente aria, la quale, dove prima aderiva all'assicella, ora aderisce all'acqua che la bagna, e l'acqua aderisce all'ebano: sì che, in somma, con la tavoletta si trova ancora, come prima, una porzione d'aria sotto 'l livello dell'acqua tra gli arginetti; e chi la vuol rimuovere, e far che quello che si trova sotto 'l livello dell'acqua sia ebano schietto, bisogna riempier tutta quella cavità d'acqua, e non bagnar solamente la superficie dell'asse. Il metter poi in contesa, se l'acqua e l'aria possono unirsi con le cose terree e seguire il moto di quelle, è un voler dubitare di quello che 'l senso vede manifesto; poichè nell'abbassarsi l'assicella sotto 'l livello dell'acqua, l'aria la segue, e la seguirebbe mille braccia affondo, se gli argini si sostenessero tanto: onde io non posso in modo alcuno intendere o imaginarmi quello che il Sig. Grazia ha stimato che accaggia nell'abbassarsi un vaso concavo sotto 'l livello dell'acqua, poichè egli stima che l'aria non lo segua, come in molti luoghi afferma ed in particolare alla facc. 49 [pag. 411, lin. 23-33], ned è credibile che egli ammetta quella concavità vacua. Che dunque vi è dentro? e come sta questo negozio?
Come molte volte ho detto, il Sig. Galileo ha sempre conceduto nell'acqua la resistenza all'esser alzata e mossa, e negata ogni resistenza all'esser divisa; e perchè il Sig. Grazia non ha mai capita questa distinzione, quindi è che, volendo contrariare in tutto al Sig. Galileo, nel voler provar la resistenza all'esser divisa, sempre conclude, con equivocazione, di quella all'esser mossa. Accingendosi, dunque, alla facc. 50 [pag. 411, lin. 39 – pag. 412, lin. 20], a voler dimostrar, nell'acqua esser resistenza alla divisione, comincia ad argumentar dal sentirsi per esperienza muover più agevolmente una bacchetta per l'aria che per l'acqua, il che, per suo giudizio, accade dalla maggior resistenza dell'acqua all'esser divisa, e non all'esser mossa; imperochè tanto si hanno a muover le parti dell'aria, quanto quelle dell'acqua. Ma come 'l Sig. Grazia non aggiugn'altro a questa ragione, ella non concluderà nulla; perchè se egli dirà che tal difficultà non può derivare dalla resistenza dell'acqua all'esser mossa, perchè tanto si ha da muover l'aria quanto l'acqua, ed io con altrettanta ragione dirò che ella non deriva dalla resistenza all'esser divisa, perchè tanto si ha a divider l'aria quanto l'acqua. Se il Sig. Grazia voleva che il suo argomento concludesse, bisognava che dimostrasse prima che non più resistesse l'acqua all'esser mossa che l'aria, il che egli non ha fatto nè poteva fare; e sin che egli nol faccia, io reputerò per verissimo, il detto accidente dependere dalla maggior resistenza dell'acqua all'esser mossa.
Passando poi alle ragioni, propone, in questo medesimo luogo [pag. 412, lin. 20-39], la prima molto lunga e confusamente, la quale ridotta in chiaro è tale: Se l'aria e l'acqua non han resistenza alla divisione, il moto si farà in instante: perchè se noi intenderemo due spazii eguali, e l'uno ripieno d'un corpo che abbia resistenza e l'altro di corpo che non l'abbia, se un mobile si moverà nel mezzo resistente, v. g., in un'ora, nel non resistente non si moverà in un centesimo d'ora o in qualsivoglia altro piccol tempo, ma in instante; imperochè dovendo il tempo al tempo mantener la medesima proporzione che la resistenza del mezzo alla resistenza dell'altro mezzo, ed essendo che la proporzione che ha la resistenza alla nulla resistenza, la medesima ha il tempo al non tempo, il medesimo mobile per lo spazio di nulla resistenza si doverà muovere in non tempo, cioè in instante: ma l'acqua e l'aria, per detto del Sig. Galileo, son tali: adunque in esse si doverà fare il moto instantaneo.
Qui, primieramente, io potrei concedere al Sig. Grazia tutta questa dimostrazione per bella e buona, ed avvertirlo solamente che ella non conclude niente contro al Sig. Galileo, perchè egli non ha mai negato esser nell'aria e nell'acqua resistenza tale onde 'l moto ne venga ritardato, anzi l'ha molte volte affermato, e solo ha negato tal resistenza dependere dalla divisione; talchè tutta la demostrazione del Sig. Grazia è buttata via, e gli resta, nè più ne meno, come prima a provar che tal resistenza proceda dalla difficultà alla divisione. Ma non voglio lasciar il Sig. Grazia con sì poco guadagno, ma gli voglio mostrare come l'addotta dimostrazione è fallacissima, perchè si fonda sopra una supposizion falsa: la quale è che i tempi de' movimenti del medesimo mobile per eguali spazii di mezzi di diversa resistenza abbino fra di loro la medesima proporzione che le resistenze di essi mezzi; o se vogliam con Aristotile medesimo parlar in termini più chiari, diremo esser questa, che le velocitadi dell'istesso mobile in diversi mezzi abbino fra di loro la medesima proporzione che le sottilità di essi mezzi; come, per essempio, se l'aria è sei volte più sottile e men resistente dell'acqua, un medesimo mobile si moverà sei volte più velocemente nell'aria che nell'acqua: il quale assunto, preso e non dimostrato da Aristotile, è falso. E per far che voi, Sig. Grazia, restiate capace della sua falsità, mi sforzerò, quanto sarà possibile, di ridurla a chiarezza.
Se le velocitadi dei mobili per aria alle velocitadi dei medesimi nell'acqua avesser la medesima proporzione che la sottilità dell'aria alla sottilità dell'acqua, ne seguirebbe, per la proporzion permutata, che le velocità di due mobili per aria avesser fra di loro la medesima proporzione che le velocità dei medesimi nell'acqua. Ora, pigliate due palle eguali di mole, ma una di materia molto più grave dell'acqua, come sarebbe, v. g., di piombo, e l'altra di materia tanto poco più grave dell'acqua, che ella si muova in quella dieci volte più tarda del piombo; la quale di necessità sarà di una materia più grave di tutti i legni che galleggiano, dovendo ella descender nell'acqua, e però sarà, v. g., più grave dell'abeto. Se, dunque, una palla di piombo si muove in acqua dieci volte più velocemente d'una palla che sia di materia più grave dell'abeto, adunque bisognerà che una palla di piombo si muova anco per aria dieci e più volte più velocemente che una d'abeto; cioè che se una palla di piombo vien, per essempio, da un'altezza di 100 braccia in 6 battute di musica, bisognerà che una d'abeto consumi nella medesima altezza più di 60 battute: la qual cosa è falsissima; anzi, se voi ne farete la prova, troverete che, consumando quella 6 battute di tempo, questa non ne consumerà nè anco 7. Ma più vi voglio dire: se l'assunto d'Aristotile fusse vero, tutti i corpi che descendono per aria, descenderebbono ancora per l'acqua; perchè qualunque proporzione abbia la sottilità dell'aria a quella dell'acqua, la medesima averà ogni velocità d'un mobile per l'aria a qualche altra velocità, e questa sarà propria di quel tal mobile in acqua. E perciò, posto, v. g., che la sottilità dell'aria sia decupla alla sottilità dell'acqua, cioè che l'acqua abbia un grado di sottilità, e l'aria dieci, considerate, per esempio, che una palla di sughero descende per aria, diciamo, con venti gradi di velocità: ora io vi domando: Se il sughero per aria, la quale ha dieci gradi di sottigliezza, descende con 20 gradi di velocità, quanta sarebbe la sottigliezza di un mezzo, nel quale il medesimo sughero descendesse con due soli gradi di velocità? Bisogna necessariamente, se l'assunto d'Aristotile è vero, che voi rispondiate che ella sarebbe una sottigliezza d'un grado. Adunque il sughero descende per il mezzo che ha un grado di sottigliezza; ma tanta ne ha l'acqua; adunque, descendendo il sughero per l'aria, descenderà ancora per l'acqua: il che è falso e inconveniente. Vedete dunque, Sig. Grazia (se però voi avete capite queste ragioni, ↑ del che io grandemente dubito ↓) quanto bisogni andar cauto nell'ammettere le proposizioni anco d'Aristotile medesimo.
A stravaganti termini si lascia condurre il Sig. Grazia dal desiderio di contrariare al Sig. Galileo. Aveva il Sig. Galileo prodotta certa esperienza per provar che nell'acqua non è resistenza alcuna all'esser divisa: il Sig. Grazia dice che tale esperienza dimostra tutto l'opposito; e nel venire a far ciò manifesto, non prende più altramente l'esperienza del Sig. Galileo, ma una molto diversa, e, per accrescer l'errore, la prende tale, che nè anco conclude nulla contro al Sig. Galileo. L'esperienza si vede trascritta e confutata dal Sig. Grazia alla facc. 53 [pag. 414, lin. 29-35], dove egli così scrive: Ma venendo alla terza ragione del Sig. Galileo, fondata sopra l'esperienza d'una falda di cera che sia così eguale in gravità all'acqua che resti sotto la superficie di essa, la quale con un gran di piombo si fa profondare, ed essendo nel fondo, levatogli quel poco di peso se ne torna a galla; dico che questa esperienza prova agevolmente la resistenza dell'acqua. Imperochè, se piglieremo la medesima cera e la ridurremo in una palla, si vedrà quanto più veloce si muove la palla nel salire e nello scendere, che non farà la piastra. Ma, Sig. Grazia, l'esperienza d'una falda di cera, che con l'aggiugnergli un grano di piombo va al fondo e col detrarlo viene a galla, è molto diversa dal far d'un pezzo di cera ora una falda ed ora una palla, e mostrar che la palla si muove più velocemente: questa è vera, e conceduta e scritta dal Sig. Galileo, ma non ha che far con l'altra: bisogna, Sig. Grazia, che voi vi difendiate da quella (e arete fatto l'impossibile), e che voi dimostriate (volendo far manifesto che l'esperienza del Sig. Galileo sia contro di lui) che il divider l'acqua, che fa una falda larghissima con ogni minima alterazion di peso, tanto in su quanto in giù, arguisca nell'acqua resistenza alla divisione. Ma che, oltre a questo, la vostra esperienza sia lontana assai dal proposito di cui si tratta, è manifesto; perchè ella non conclude cosa alcuna contro al Sig. Galileo, il quale ha sempre conceduto nell'acqua una resistenza per la quale si ritardi il movimento delle figure spaziose, la quale è la resistenza all'esser mossa, e non all'esser divisa. Ma tale è la forza della verità, che bene spesso i suoi oppugnatori medesimi inavvedutamente la confessano e fanno palese; come appunto segue al Sig. Grazia in quello che e' soggiugne alle cose dette, scrivendo così [pag. 414, lin. 35-40]: Non è già meraviglia che quelle piastre di cera con un grano di piombo si facciano andar al fondo, e detrattolo ritornare a galla: imperciochè fra la gravità e la leggerezza vi è un mezzo, che è come un punto fra due linee, il quale come si passa, agevolmente si divien grave e leggieri; e però quel poco di piombo può cagionar questo effetto. Questo discorso è tutto vero, ma ↑ direttamente ↓ contrario all'intenzion dell'Autore, e favorevole alla dottrina del Sig. Galileo. Imperochè io primieramente domando al Sig. Grazia, in virtù di che cosa egli crede che quella falda di cera superi la resistenza che hanno le parti dell'acqua all'esser divise, tanto quando ella vi descende come quando ella vi ascende? Certo che egli dirà, la gravità superar tal resistenza nel descendere, e la leggerezza nell'ascendere, perchè così scrive qui e così dice Aristotile, e così bisognerebbe che seguisse di necessità, quando tal resistenza vi fosse. Domando secondariamente, quale egli stima che sia misura proporzionata per misurare la grandezza di una resistenza? Non credo che egli mi negherà, la quantità della forza che vi bisogna per superarla esser misura molto accomodata: onde grandissima diremo esser la resistenza di una catena di ferro all'essere strappata, perchè mille libbre di peso non la rompono; poca quella d'uno spago, perchè appena sostiene dieci libbre; piccolissima quella di un filo di ragnatelo, quando centomila di tali fili non reggesser mezz'oncia di peso. Passo alla terza interrogazione, e gli domando quanta egli crede che sia la gravità di quella falda quando ella descende nell'acqua, e quanta la sua leggerezza allor che ella vi sormonta? È forza rispondere che la gravità sua, dico accompagnata col piombo, sia minore che quella del grano di piombo solo, poichè levato via 'l piombo, ella non solo non resta grave, ma si mostra leggiera, movendosi in su; ma ben tal leggerezza è piccolissima, poichè non resiste al peso di un grano di piombo ↑ che la spinga in giù. ↓ La resistenza, dunque, Sig. Grazia, che hanno le parti dell'acqua all'esser divise è così poca, che cento milioni di esse parti, cioè tutte quelle sopra le quali calca la falda di cera, non bastano a resistere a tanta forza quanta depende dalla gravità di mezzo grano di piombo, ma cedono e si lasciano dividere tanto per l'in giù quanto per l'in su: ed accomodatevi pure a dire che ella sia non solamente poca, ma nulla; perchè fate pur, con l'ampliar la figura, che ella posi sopra parti innumerabili, e diminuite il grano del piombo quanto vi piace, sempre seguirà l'istesso effetto. Tanta è, dunque, la resistenza alla divisione in tutta la profondità dell'acqua. A voi ora toccherà di trovare il modo di accrescergliela tanto nelle parti superficiali, che elleno non si lascino dividere dalla medesima falda, aggravata non solo da quel grano di piombo, ma da dieci, da cento e da mille; che tanti e molti più se ne possono far sostenere a una falda di materia più grave dell'acqua, che galleggi come l'assicella d'ebano. E voglio, con questa occasione, tentar di cavarvi d'errore, col mostrarvi l'incompatibilità di due vostre proposizioni, le quali voi reputate amendue vere. Voi dite che l'acqua è un continuo, e che le sue parti resistono alla divisione: ma se questo fusse, la predetta falda, spinta da qualsivoglia gran peso, non sarebbe potente a dividerle, perchè, essendo le parti del continuo innumerabili, per piccola che fusse la resistenza in ciascheduna nel separarsi dall'altra, ad immensa forza potrebbono resistere; al che contraria l'esperienza. Onde mi par di mettervi in necessità di confessare, la resistenza delle parti dell'acqua alla divisione esser nulla: e se questo è, è forza che niente vi sia che a divider s'abbia; e se niente si ha da dividere, è manifesto non vi esser continuità alcuna, ed in ultima conseguenza l'acqua esser un contiguo, e non un continuo.
Io vengo tal volta in opinione che questi signori oppositori del Sig. Galileo si legassero, avanti che vedessero il suo trattato, con qualche saldo giuramento a dover contradire a tutto quello che egli avesse scritto, e che lettolo poi, per non divenire periuri, si sieno lasciati traportare a scrivere estremi spropositi, quali sin qui si son veduti esser questi del Sig. Grazia: dai quali non degenera punto questo che segue. Egli, raccontando, e poi confutando, la quarta ragione del Sig. Galileo, scrive così [pag. 414, lin. 40 – pag. 415, lin. 8]: Era la quarta ragione, che una trave molto grande si muove traversalmente per l'acqua tirata da un capello; onde non pare che l'acqua abbia alcuna resistenza, se non può resistere alla forza fattagli mediante un minimo capello. Alla quale esperienza si deve avvertire, che le cose che si trovano nella superficie dell'acqua, anzi che son mezze in aria e mezze in acqua, non occupando loro molta acqua, si possono muovere per il traverso agevolmente; e quelle che molto si profondano sotto il livello della superficie dell'acqua, si muovono meno agevolmente, per occupare molto di essa: onde avviene che ogni minima forza possa muovere queste, e non quelle. Questo, Sig. Grazia, è un discorso che cammina benissimo; ma come non vi accorgete voi che, a concluderlo ed applicarlo, egli è direttamente contro di voi? Voi dite che le cose che occupano manco acqua, più agevolmente si muovono che quelle che ne occupano molta; ma quella superficie d'una meza trave, che incontra l'acqua che ella ha da dividere, non è ella maggiore mille volte che la superficie della tavoletta d'ebano? e pur tal forza muoverà quella, che altra mille volte maggiore non caccierà in fondo questa. Vedete, dunque, che altra cosa è quella che ritien l'assicella sopra l'acqua, che la resistenza alla divisione. Se l'esser quella trave meza, e non tutta, sotto 'l livello dell'acqua vi pare che renda nulla la ragion del Sig. Galileo, caricatela tanto che ella stia sotto tutta, o vero faten' una di materia più grave, che voi troverete che il medesimo capello la moverà. Io ho gran sospetto che voi stimiate che ogni tutto sia maggiore non solamente d'una sua parte, ma d'ogni parte di qual si voglia altro tutto, e che una colonna intera sia maggiore d'una meza montagna.
Séguita nell'istesso luogo il Sig. Grazia di persister sempre nella medesima equivocazione, per non aver mai potuto capire che altra è la resistenza all'esser diviso ed altra all'esser mosso, e come quella è negata nell'acqua, e questa conceduta, dal Sig. Galileo, al quale egli vuole attribuire gli errori suoi; e dice, in questa medesima facc. 54 [pag. 415], che egli da per sè stesso s'impugna nel voler render la ragione perchè i navilii hanno bisogno di tanta forza all'esser spinti con velocità, se nell'acqua non è resistenza, e scrive così [lin. 16-28]: Onde a ragione il Sig. Galileo da per sè s'impugna, ricercando qual sia la cagione, se l'acqua non ha resistenza, che i navilii hanno di bisogno di tanta forza di vele e di remi a muoversi ne' laghi stagnanti e nel mar tranquillo: e rispondendo a questo dubbio, par che supponga una proposizione dimostrata da Aristotile, che tutto quello che si muove, si muove in tempo. Ma avvertisca il Sig. Galileo, che questa proposizione depende da quel principio che egli niega, cioè dalla resistenza de' mezzi: imperciochè se l'aria e l'acqua non avessero resistenza, seguiterebbe, in dottrina d'Aristotile, che tutto quello che si muove in esse, si dovesse muovere in uno instante; e perciò quando il Sig. Galileo dice, che non avendo l'acqua resistenza quello che si muove in essa, si muove in tempo, pare che da per se stesso destrugga le sue conclusioni, non avvertendo che piglia le proposizioni demostrate da Aristotile mediante i principii che egli niega. Sono in questo discorso molti errori. Prima, il Sig. Grazia, per mio parere, commette un'equivocazione nel convertire in mente sua una proposizione non convertibile; perchè, se bene è vero che le conclusioni delle quali si adduce buona e necessaria dimostrazione non possono essere se non vere, non per questo per il converso è necessario che d'ogni conclusion vera qualunque prova si arrechi sia buona e necessaria: e però, se bene il moto farsi in tempo è conclusion vera, non per questo ne séguita che la dimostrazione addottane da Aristotile debba esser necessaria e dependente da vere supposizioni. Anzi già si è dimostrato che le velocità dell'istesso mobile in diversi mezzi non seguono la proporzione delle resistenze di quelli; e come questo non è, resta senza efficacia l'illazione: «Qui non è resistenza alcuna, adunque ci sarà velocità infinita», perchè, oltre al già detto, quando tal progresso fosse concludente, io necessariamente concluderei che un corpo grave che si muova, v. g., per aria, non potrà mai in alcun mezzo quietare; perchè se la sua velocità decresce secondo che si accresce la resistenza del mezzo, bisognerà per indur l'infinita tardità (qual è la quiete) trovar infinita resistenza, la qual non si trovando, non si potrà parimente conseguir la quiete. Erra poi, secondariamente, il Sig. Grazia dicendo che il Sig. Galileo neghi la resistenza nell'acqua o nell'aria; anzi, come ormai cento volte si è detto, egli la concede, e la concede tale, che benissimo può ritardare il moto: ma questa non è resistenza alla divisione, ma sì bene all'esser mossa e alzata.
Passando il Sig. Grazia, nella facc. 55 [pag. 416], a voler dimostrar che l'acqua sia un continuo, e non un contiguo, fonda la sua prima ragione sopra una definizione, dicendo [lin. 4-5] quello chiamarsi un corpo continuo, che ha un medesimo movimento; soggiugne poi [lin. 9-15]: Onde se noi ritroveremo che le parti dell'acqua si muovino d'un istesso movimento nel medesimo tempo, sarà manifesto che l'acqua sia un corpo continuo. Ma questo si vede manifestamente: imperciochè cadendo una gocciola d'acqua in terra, veggiamo tutta d'un medesimo movimento unirsi in sè stessa: il che non segue dei corpi contigui; come, se noi gettassimo in terra un monticello di rena o di polvere, ella non solo si unirà insieme, ma si sparpaglierà. Io credo che questa prima ragione del Sig. Grazia sia per esser bisognosa di molte limitazioni e distinzioni, come interviene ai discorsi mal fondati. E prima, dicendo egli, continue essere le cose che si muovono del medesimo movimento nel medesimo tempo, cento mila cose sono in una nave, le quali si muovono del medesimo movimento nel medesimo tempo; adunque saranno continue, il che è falso: bisogna dunque venire a qualche distinzione. Secondariamente, quando questa dimostrazione concludesse assai, proverebbe solamente, le gocciole dell'acqua esser corpicelli continui, cadendo unite; ma se quello che nel moto si disunisce e sparpaglia non è un continuo, veggasi quel che fanno l'acque cadenti da grandi altezze e in gran quantità, e poi si determini quello che si ha da statuir di loro, conforme a questa dottrina. Ma se il Sig. Grazia si fosse abbattuto a veder un'acqua cadente da un'altissima rupe arrivar in terra la maggior parte dissoluta in minutissime stille, minori assai de' grani di rena, non arebbe nè anco delle gocciole così assertivamente pronunziato ↑ quello che ne afferma: ↓ qui, dunque, parimente bisognerà altra limitazione. Terzo, se continuo è quello le cui parti si muovono d'uno stesso movimento, quello necessariamente le cui parti non si moveranno dell'istesso movimento non sarà continuo. Ora considerinsi gli effetti dell'acque che noi comunemente veggiamo muoversi; che io fermamente credo che tutti contrarieranno al Sig. Grazia. Il quale primieramente afferma, alla facc. 82 [pag. 436, lin. 12-15], esser diversi laghi, come quel di Como, di Garda, etc., sopra dei quali passano varii fiumi senza mischiarsi; onde bisognerà dire, l'acqua superiore non si continuare con quella di sotto. Ma più: d'un istesso fiume corrente non si muovono più velocemente le parti di sopra che quelle di sotto? non ve ne sono altre che si torcono a destra, altre a sinistra, altre che ritornano in dietro, e altre che si volgono in giro? non ve ne son di quelle che s'alzano, mentre che altre se n'abbassano, e che in mille maniere si confondono? e in questi tanto varii rivolgimenti, e nel passar che fa un fiume corrente sopra un'acqua stagnante, non è egli necessario che le parti vadano in mille guise mutando accompagnature, ed ora sien con queste ed ora con quell'altre? e se questo è, non è necessario che continuamente si vadano mutando i toccamenti? Certo sì; perchè se le minime particelle dell'acqua facesser con le loro aderenti sempre gl'istessi contatti e nel medesimo modo, non seguirebbe alcuno delli accidenti narrati. Ma il mutar toccamenti è delle cose che si toccano, e le cose che si toccano son contigue; adunque, Sig. Grazia, poichè le parti dell'acqua, come voi sentite e concedete, non si muovono d'un istesso movimento, è forza che loro non sien continue, per la vostra medesima definizione.
Segue appresso la seconda ragione, e dice [pag. 416, lin. 15-22]: Anzi il Sig. Galileo dimostra per sensibile esperienza, che l'acqua s'attacca alle cose terree che di quella si traggano; il che non può seguire se l'acqua non è corpo continuo: imperciochè i corpi contigui, non essendo uniti, non possono reggersi l'un l'altro, come nella polvere si vede. Adunque se alla falda del piombo del Sig. Galileo s'attacca un'altra falda d'acqua, sarà necessario che l'acqua sia continua; non si vedendo la cagione perchè le parti indivisibili dell'acqua si possino unire insieme in quella falda, essendo contigue. Se io ben comprendo la mente del Sig. Grazia, egli concede che due corpi possino col solo contatto star congiunti e reggersi l'un con l'altro, purchè loro in sè stessi sieno continui, e non contigui solamente, come la polvere; e fors'a ciò ammettere l'induce l'aver veduto due marmi piani ben lisci, o vero due specchi sostenersi scambievolmente l'un con l'altro col solo toccamento. Ed io di tanto mi contento, perchè è vero, e come tale non può mai contrariare ad un altro vero; ma solamente, non bene inteso nè bene applicato, può eccitare, nella mente di chi l'usa male, opinioni fallaci, come parmi che sia accaduto al Sig. Grazia. Il quale doveva, primieramente, considerare che non ogni due corpi che si toccano rimangono attaccati in modo che possino sostenersi, ma solamente quelli che talmente adattono le lor superficie, che tra esse non resta corpo alcuno di parti sottili e fluide, quale massimamente è l'aria; onde non è meraviglia se le parti della polvere o dell'arena non si sostengono, poichè non fanno contatti esquisiti, e tra loro media molt'aria. Ma quando il contatto è esquisito, non solamente due corpi, ma dieci e cento si sosterranno; perchè se una piastra di marmo ben liscia ne sostien un'altra grossa, v. g., due dita, segandosi questa in cento sottilissime falde, e ciascuna di superficie esquisitamente pulita, non è dubbio che la superiore è bastante di sostener con il contatto tutto 'l peso delle cento, perchè l'istessa gravità sosteneva avanti che fussero segate; la seconda poi con un simil toccamento reggerà più facilmente il peso delle altre 99, e la terza molto meglio le rimanenti 98, e così di mano in mano ciascuna delle seguenti più agevolmente sosterrà il restante, sendo sempre manco in numero e, per conseguenza, in gravità. È anco, di più, manifesto, che chi dividesse la seconda falda in mille pezzetti, ciascheduno col suo contatto si attaccherà alla prima; e divise le altre similmente, ogni particella aderirà alla sua superiore, e tutte in somma rimarranno attaccate: ma, sì come due tali falde resiston al separarsi, così da pochissima forza si lascian muovere superficialmente l'una sopra l'altra, non trovando, per la lor pulitezza, intoppo alcuno che gli vieti lo sdrucciolare tra loro speditamente. In oltre è ben notare che, quando questi corpicelli fussero anco di figura rotonda o di molte faccette, ma tanto piccolini che gli spazii lasciati tra loro fossero, per la loro angustia, incapaci delle particelle minime dell'aria, eglino parimente, mediante il solo toccamento, resterebbon congiunti, ancorchè essi contatti fossero secondo minime superficie. Ora, se il Sig. Grazia intenderà che le particole minime dell'acqua sieno così piccole che non ammettino ne' lor meati le particole dell'aria, e sieno, di più, o rotonde, o della figura che piacque attribuirle a Platone, doverà in lui cessar la meraviglia, come tra loro possino, col semplice toccamento, sostenersi: se bene, quando egli avesse solamente considerato più attentamente la sua propria scrittura, arebbe veduto molto più chiaramente la soluzione del suo dubbio, che l'occasione del dubitare; perchè, se tanta mole di acqua col solo contatto aderisce e vien sostenuta da una falda di piombo, qual causa gli rest'egli di meravigliarsi che per simil toccamento le particelle minime dell'acqua si sostenghino fra di loro? Io non credo però che egli creda, che dell'acqua e del piombo si faccia un continuo, nè che le superficie loro faccino altro che toccarsi ↑| semplicemente. ↓ Vegga, dunque, l'inefficacia delle sue ragioni.
Adduce, alla medesima facc. 56 [pag. 416], un'altra ragione per prova della sua opinione, e scrive [lin. 26-32]: In oltre, il Sig. Galileo concede che la terra e le cose terree sieno corpi continui: ma deve avvertire che questo effetto dall'acqua depende; imperciochè se non fusse l'acqua, la terra, come fredda e secca, non starebbe unita, anzi resterebbe in guisa che si vede la cenere, e la sua gran mole si sparpaglierebbe. Il simile si vede nella cenere, nella farina, nella polvere e in molt'altre cose contigue, che mediante l'acqua, si fanno continue. E non doviàn dire che ella sia continua? Io non mi ricordo d'aver letto nel trattato del Sig. Galileo tal cosa, nè so qual sia la sua opinione: so ben che il Sig. Grazia è molto lontano dal sapere qual è l'operazione dell'acqua nel far che le parti della farina, del gesso e di altre polveri non coerenti, diventino, non dirò già continue, ma sì bene attaccate, potendo anco a ciò bastare l'esquisito toccamento. E per conoscer il nulla concludere del suo discorso, anzi del concluder più tosto il contrario, idonea coniettura poteva essergli il veder altrettanti o più corpi, stimati da lui continui, discontinuarsi e dissolversi con l'acqua e mentre si trovano congiunti con lei: dove che quelli ch'ei crede che di contigui si faccino, mediante l'acqua, continui, ciò non dimostrano se prima tutta l'acqua non si svapora e scaccia via; anzi ella medesima, rimessavi, gli discontinua e dissolve. E l'azzione, così propria dell'acqua, di astergere e mondare non depend'ella totalmente dal dividere separare e discontinuare l'immondizie? Tal che, se l'argomentar la costituzione delle parti dell'acqua da questi effetti è concludente, il Sig. Grazia da sè medesimo resta convinto.
Molto fuori di proposito viene accusato dal Sig. Grazia, nel fine della medesima facc. 56 [pag. 416, lin. 40 – pag. 417, lin. 6], il Sig. Galileo del non aver egli provato con sue dimostrazioni come 'l continuo si componga d'indivisibili, e risposto alle ragioni d'Aristotile in contrario; ed è tal accusa fuor del caso, avvegna che nel trattato del Sig. Galileo non cade mai questa occasione, se ben il Sig. Grazia ve la trova, scrivendo così: Non so già ritrovare, in che maniera il Sig. Galileo voglia che i metalli si dividino quasi in parti indivisibili da i sottilissimi aculei del fuoco, e quali sien questi aculei che in esso si ritrovano; se però egli non vuole che le cose si componghino di atomi e di parti indivisibili, il che non posso credere, come quel che repugna alle sue matematiche, le quali non concedano che la linea si componga di punti; oltre a che ci sono infinite ragioni d'Aristotile, alle quali il Sig. Galileo dovea rispondere. Non vedete voi, Sig. Grazia, la nullità della vostra conseguenza, e una quasi vostra contradizione? qual cagione avete voi di dire che non sapete trovare quali sieno gli aculei sottilissimi del fuoco, se già il Sig. Galileo non volesse che le cose si componessero d'atomi e di indivisibili? Gli aghi, Sig. Grazia, son corpi quanti, e però son aghi; ed essendo tali, non hanno che far niente nel suscitar quistione se la composizione delle linee o di altri continui sia di indivisibili. Dove poi avete voi trovato che repugni alle matematiche il compor le linee di punti? e appresso quali matematici avete voi veduta disputata simil quistione? Questa non avete voi sicuramente veduta, nè quello repugna alle matematiche.
Confutata che ha il Sig. Grazia, per quanto egli si persuade, la ragione addotta dal Sig. Galileo del galleggiar le falde gravi sopra l'acqua, e addottane la stimata vera da sè, si apparecchia, per non lasciar niente indeciso, a render ragione perchè le falde devono esser asciutte, e non bagnate; e dice che l'acqua, oltre alla resistenza alla divisione, ne ha anco un'altra, dependente dal desiderio della propria conservazione. La qual seconda resistenza mentre che io ricerco e aspetto di intendere qual ella sia, sento replicarmi la medesima prima già detta, e trovo scritto in tal guisa alla facc. 58 [pag. 417, lin. 36 – pag. 418, lin. 5]: Stando, dunque, questa proposizione (cioè che tutte le cose hanno desiderio della propria conservazione), avviene che tutti gli elementi devano resistere alla divisione, imperochè da quella depende il lor proprio distruggimento; conciosia che gli elementi e i composti di quelli, essendo composti di contrarie qualità, continuamente fra di loro si distruggono: onde passando l'assicella d'ebano per l'acqua, come quella che è un misto terreo, viene a corrompere qualche particella d'acqua, e perciò ella resta unita, non desiderando la divisione, perchè da quella ne nasce la corruzione; là dove, quando l'assicella è bagnata, si leva via questa resistenza, e perciò , non resistendo l'acqua, come quella che non sente il contrario, può l'assicella scorrere a suo piacere verso il fondo. Qui veramente doverebbe bastar l'aver registrato questa ragione trovata dal Sig. Grazia di proprio ingegno, lasciando campo al lettore di formar da questo solo il concetto che deve aversi di tal maniera di filosofare; ma perchè ciò passerebbe senza veruna utilità di questo autore, non resterò di avvertirlo di alcuni particolari. E prima, con qual fondamento dite voi, Sig. Grazia, che dalla divisione depende il distruggimento e la corruzzione de gli elementi, mostrandoci più presto l'esperienza tutto l'opposito, cioè che l'acque e l'aria tanto meno si corrompono quanto più si dividono commovono e agitano? Forse mi direte voi che nel corrompersi gli elementi e trasmutarsi l'uno nell'altro è forza che e' si dissolvino e in conseguenza si dividino, e che perciò, se bene ci è una agitazione e commozione nell'acqua, la quale conferisce alla sua conservazione, vi è anco una dissoluzione che apporta corruzzione. Io vi concederò tutto questo, ma vi dirò che quell'effetto che si fa con metter l'assicelle e altri solidi nell'acqua, è simile a quella divisione e commozzione che fa per il conservamento, e non per la corruzzione. Come dite voi che i misti terrei col solo contatto o semplice divisione repentinamente corrompono qualche parte dell'acqua? Male starebbe l'acqua nelle conserve, ne' pozzi, ne' fiumi, ne' laghi, nel mare, dove è credibile che ella continuamente sia toccata da corpi terrei. Come è possibile che voi abbiate scritto, che passando l'assicella per l'acqua, corrompa di lei qualche parte, onde ella faccia resistenza alla divisione; e poi soggiunto, che quando l'asse è bagnata tutta, l'acqua non sente più il suo contrario, e perciò non resiste alla divisione? Io non saprei trovar altro ripiego a così gravi essorbitanze, se non il dire che nel vostro arbitrio è riposto il far che l'acqua senta o non senta il suo contrario, quando piace a voi. Egli è forza che voi vi figuriate due acque fra di loro distinte, delle quali una, bagnando l'assicella, serva per difesa all'altra dalla contrarietà, sì come una pelle morta circondando una viva la difende dall'ingiurie esterne. È egli possibile scriverle maggiori? Sento rispondermi di sì, e invitarmi a legger quel che segue, che è questo [pag 418, lin. 5-10]: In oltre, egli non è dubbio che a voler generare questo accidente ci vogliono due continui, uno è l'assicella d'ebano, l'altro è l'acqua: ma non si avvede il Sig. Galileo, che bagnando l'assicella, di due continui se ne viene quasi a far uno, perchè la superficie dell'assicella, dove che di sua natura è arida, bagnandosi diviene umida sì come è l'acqua. Per le quali ragioni si deve credere, che la detta assicella galleggi sopra dell'acqua. A questo, Sig. Grazia, io non voglio replicar altro, ma solo scusare il Sig. Galileo se egli non s'è avveduto che, bagnando l'assicella, di due continui se ne faccia uno. Ma essendo non meno necessarii due continui, cioè l'acqua e l'assicella, per fare il ritardamento del moto in tutta la profondità dell'acqua che per farla quiete nella superficie, dovevi voi divisargli il modo che tenete, nel caso del ritardamento, per accorgervi che dell'assicella, benchè bagnata tutta, e dell'acqua non si faccia un continuo solo, come si fa nel caso del galleggiare, e dovevi assegnare la differenza tra questi due casi; sì come altresì sarebbe stato bene, che voi aveste dichiarato per qual cagione basti, per far un continuo dell'acqua e della tavoletta galleggiante, che la sua superficie di sotto solamente venga bagnata, e nell'altro caso non basti a far l'istessa continuità l'esser interamente circondata dall'acqua, ↑ Finalmente avvertite, Sig. Grazia, che quando dite che bagnando l'assicella, di due continui se ne viene quasi a far uno, quella particola quasi importa che non si fa un continuo; sì come chi dicesse: «Gilberto è quasi vivo», verrebbe senz'altro a significare che non è vivo, ma morto: talchè il vostro discorso resta tutto vano. ↓
Con pochissime parole si sbriga il Sig. Grazia, alla facc. 59 [pag. 418, lin. 35 – pag. 419, lin. 11], dall'obbligo di confutar tutte le dimostrazioni del Sig. Galileo, attenenti al provare come ogni figura può galleggiare in virtù dell'aria contenuta dentro agli arginetti: e la confutazione del Sig. Grazia sta nel negare due principii, come falsi, sopra i quali le dette dimostrazioni, ↑ a detto suo, ↓ si fondano; de' quali dice egli uno esser l'aria aderente alla falda con virtù calamitica, e l'altro che l'assicelle abbino già penetrata la superficie dell'acqua. Quanto al primo, io non mi io son accorto che il Sig. Galileo faccia tanto fundamento sopra l'aderir l'aria alle falde natanti per virtù calamitica, che annullata tal virtù restino le sue dimostrazioni senza forza; anzi ei non la nomina mai, se non una volta come cosa introdotta da altri, ed in maniera che non opera nulla circa le sue dimostrazioni: ma gli avversarii suoi, scarsissimi di partiti, s'apprendono ad ogni minima ombra di fallacia. Però se questo principio è falso, bisogna che il Sig. Grazia dimostri che dentro gli arginetti non descenda aria o altra cosa leggiera, seguendo le falde; che quanto alla virtù calamitica, il porla o negarla è una vanità sciocchissima. Quanto all'altro principio, ammesso che impossibil cosa sia che il Sig. Grazia vegga o intenda che le falde penetrano la superficie dell'acqua, non però è credibile che egli stimi l'istesso dei prismi e cilindri molto alti e dei coni e delle piramidi, e che a lui solo sembrino posarsi sopra la superficie dell'acqua con la punta in giù, come una trottola sopra un fondo di tamburo; ed essendo che le dimostrazioni del Sig. Galileo sono per la maggior parte intorno a tali figure, nelle quali non si può dubitare se l'assunto dell'aver divisa la superficie dell'acqua abbia luogo, non dovevano esser così tutte buttate a monte; nè credo veramente che 'l Sig. Grazia l'arebbe fatto, se si fosse accorto che le trattavano d'altre figure che delle piane.
Pur ora ho detto che gli avversarii del Sig. Galileo s'attaccano, per impugnarlo, sino alla non sua virtù calamitica; ed ora il Sig. Grazia, tratto dal medesimo desiderio, non si cura di peggiorar la sua condizione per opporre al Sig. Galileo l'aver usurpati gli arginetti dell'acqua come se stessero elevati ad angoli retti, se ben sono bistondi; nè si accorge che se le dimostrazioni del Sig. Galileo concludono il poter la poca aria contenuta tra gli arginetti, quando anco fossero angolari, sostener i solidi natanti, molto più ciò accaderà della maggior quantità d'aria compresa dentro a gli arginetti incurvati. Onde si fa manifesto che il Sig. Grazia, quanto più cerca di svilupparsi, più s'intriga.
Cominciando il Sig. Grazia a esporre il testo d'Aristotile, scrive a facc. 61 [pag. 420, lin, 16-17]: Ma le figure non son cause del muoversi semplicemente o in su o in giù, ma del più tardi o più veloce etc.; seguitando poi d'interpetrarlo, dice che la dizione semplicemente si può congiugnere con la dizione figure, e con la dizione cause, e con la dizione muoversi; tutte le quali esposizioni dice esser verissime, e niuna di esse repugnare ad Aristotile, nè alla natura di quel che si tratta: il che se sia vero o falso, e favorevole o pregiudiziale alla dottrina d'Aristotile, facilmente si può vedere. Imperochè se noi consideriamo la particola semplicemente e la particola ma, non è dubbio che quella ha natura di ampliare e, per così dire, d'universaleggiare, e questa di coartare e particolareggiare. Ora, se congiugnendo la dizione semplicemente con le figure si dirà: «Le figure semplicemente non son cause etc.», per coartare tal proposizione si doverà dire: «Non le figure semplicemente prese son cause etc., ma le figure in tale o tal modo condizionate, come, v. g., le globose e non le piane, le circolari e non le trilatere etc.», overo: «Non le figure, come figure semplicemente ed in astratto, ma le figure congiunte con materia sensibile»; ed in somma quel che segue dopo la limitazione della particola ma, deve aver riguardo a quello che dalla particola semplicemente era stato ampliato. E così se si congiugnesse la dizione semplicemente con le cause, sì che il senso della proposizione importasse: «Le figure non son cause semplicemente del muoversi etc.», ristrignendo il pronunziato si doveria dire in un tal modo: «Le figure non son cause semplicemente ed assolutamente etc., ma son cause per accidente o adiutrici etc.». Finalmente, quando la particola semplicemente si congiugnesse col muoversi, sì che la proposizione sonasse: «Le figure non son cause del muoversi semplicemente e assolutamente», per limitarla si soggiugnerebbe: «ma son cause del muoversi tardo o veloce etc.». Stanti queste cose, se il Sig. Grazia non sapeva per altro risolversi a quale dei termini figure, cause e moto si avesse a congiugner la particola semplicemente, doveva accorgersene da quello che segue dopo la limitazione ma, che è il più tardo o più veloce, i quali attributi non possono nel presente proposito adattarsi alle figure nè alle cause, ma solamente al muoversi, perchè nè le figure nè le cause, semplicemente prese, si coartano dal veloce e tardo, ma sì bene ciò al movimento conviene. Vegga, dunque, il Sig. Grazia quanto male egli interpreti Aristotile, e quanto meglio di lui l'intenda il Sig. Galileo. Altro sproposito maggiore addoss'egli ad Aristotile, pur in questo luogo, mentre, congiugnendo la particola semplicemente col muoversi, la prende come che ella distingua il moto semplice ed assoluto, quale dicono esser l'in giù della terra e l'in su del fuoco, dal moto secundum quid, che dicono convenirsi a gli elementi di mezzo, e su questo falso presupposto séguita lungamente di far dir ad Aristotile e a' suoi interpreti cose che mai non pensorno; come quando in questo proposito, a facc. 67 [pag. 424, lin. 23-30], egli conclude che delle tre esposizioni sopradette quella di congiugnere la dizione semplicemente con le figure è da esser più seguita, come quella che è de' migliori, cioè di Temistio, di Simplicio, d'Averroe, di San Tomaso, etc., dei quali nissuno ha detto mai tal cosa, nè l'averebbe pur pensata, sendo una somma sciocchezza. E chi direbbe mai, altri che 'l Sig. Grazia, che le figure semplicemente prese, che tanto è quanto a dire prese in astratto e separate dai corpi sensibili, sien cagione di velocità o di tardità? poichè intese in tal modo nulla possono operare, e niuna comunicanza hanno con movimenti o con le materie naturali?
Affaticasi il Sig. Grazia, ancora a facc. 68 [pag. 425, lin. 1-18], per salvare il testo d'Aristotile, come che il filosofare altro non sia che il solo procurar d'intender questo libro e sottilizar per difenderlo dalle sensate e manifeste esperienze e ragioni in contrario: e venendo al problema dell'ago, che pur si vede galleggiare contr'al detto del Filosofo, e non approvando l'interpretazion di chi ha detto che l'ago si deve intender esser messo per punta e non a giacere (non perchè e' non accettasse questa ancora, per mio credere, per un ultimo refugio, ma perchè gli par che ci sia di meglio), dice, prima, che si deve intender di un ago tanto grande che non stia a galla, e questo è forse il manco male che si possa dire; ma, non contento di questo, aggiugne che, quando bene le parole d'Aristotile non potessero ricever altro senso se non che parlasse di aghi sottili i quali galleggiassero, non per questo sarebbe difettoso; imperciochè e' mostra che qualsivoglia materia, benchè gravissima, e di qualsivoglia figura, riducendosi a tanta piccolezza che per la poca gravità non possa fender la continuità dell'acqua, sopranuota, e che perciò Aristotile non ha tralasciato tal problema, ma l'ha compreso sotto la conclusione universale delle cose gravi che galleggiano non per la figura ma per la piccolezza. La qual difesa non si deve ammettere in conto alcuno, come troppo pregiudiciale alla dignità d'Aristotile, il quale sicuramente non ha auto in animo di dir simile sciocchezza. E come volete voi, Sig. Grazia, che uomo sensato dica, che gli aghi che noi veggiamo galleggiare, galleggino non per la figura, ma per la piccolezza e minima gravità? non vedete voi che, se questo fusse, la medesima quantità di ferro dovrebbe ne più ne meno stare a galla ridotta in qualsivoglia altra figura? il che è falsissimo, perchè se voi del ferro di un tal ago ne farete un globetto o un dado o altre tali figure raccolte, tutte si affonderanno. Adunque l'ago non galleggia per la piccola quantità e per il poco peso, ma per la figura, come le falde medesime, conforme alla vostra opinione. Ma più vi voglio dire che se voi piglierete un'oncia di ferro e lo tirerete in un filo sottile com'è un ago comune, egli, disteso su l'acqua o tessuto in foggia d'una rete, starà a galla non meno che se fusse una falda; e non solo un'oncia, ma una libbra e cento, così accomodate, si reggeranno. Non può, dunque, Aristotile addur per causa di tal accidente la piccolezza, ma gli bisogna ricorrere alla figura. Ammettete, dunque, che Aristotile si è ingannato nel fatto, credendo che solo le figure larghe, ma non le lunghe e strette, possino esser causa del galleggiare; e non vi affaticate per liberarlo da questo lieve fallo, perchè al sicuro voi lo fareste incorrere in molto maggiori, se per caso le vostre interpretazioni venissero ricevute per conformi alla sua mente.
Trovandosi da diversi espositori d'Aristotile diversamente portato un termine nella quistione: «Onde avvenga che alcuni corpicelli minimi vanno notando anco per l'aria», dei quali alcuni, tra simili corpicelli pongono l'arena d'oro, e altri leggono non l'arena, ma le foglie d'oro battuto; il Sig. Galileo, per prender la parte più favorevole per Aristotile, aveva preso le foglie, e non l'arena, vedendosi quelle tutto 'l giorno andar vagando per l'aria, e questa non mai. Ma il Sig. Grazia, al quale non si può usar cortesia, per impugnar il Sig. Galileo, se ben prima erano di ciò colpevoli Averroe, Simplicio ed altri, vuol l'arena, e non le foglie. Ma quel che è più ridicoloso, vedendo come malamente si poteva sostener che l'arena o la limatura d'oro vadia notando per aria, dice che Aristotile ha detto per l'acqua, e non per aria, se ben tal cosa non si trova nel suo testo. Circa questo particolare si diffonde alla facc. 69 e 70 [pag. 426, lin. 3 –- pag. 427, lin. 16]; ma perchè questa è cosa che sta in fatto, e ciascuno se ne può chiarire, non ci dirò altro. Solo avvertirò il Sig. Grazia del particolare che desidera sapere dal Sig. Galileo, alla detta facc. 70, dove [pag. 427, lin. 12-16] egli scrive così: E notisi che il Sig. Galileo dice che i globetti del piombo e gli aghi soprannuotino nell'acqua, ed ora nega che la polvere sopra di quella galleggi: ora io desidererei sapere perchè quelli e non questa soprannuota, se quelli son più gravi che questa; onde pare che 'l Sig. Galileo fusse in obbligo di dimostrare perchè questa differenza in questi suggetti si ritrova. Ora sappia il Sig. Grazia, per suo avvertimento, che avendo il Sig. Galileo letto in Aristotile che la polvere di terra e le foglie dell'oro vanno notando per l'aria; ed avendo inteso che il dir per aria voglia dir per la profondità dell'aria, e non sopra la sua superficie, tanto remota da noi che veder non la possiamo, nè forse vi arriva la polvere; disse che tali cose non si sostengono non solamente nell'aria, ma nell'acqua, pigliando l'acqua nel modo stesso che si è presa l'aria, cioè per la profondità dell'acqua: talchè dicendo egli che gli aghi e i piccoli globetti di piombo galleggiano nella superficie dell'acqua, e che la minuta polvere non si sostiene per la profondità dell'aria nè per quella dell'acqua, ha parlato bene, ma è stato male inteso dal Sig. Grazia.
Stimò Democrito, che del non descendere al fondo per l'acqua alcune materie distese in falde sottili, che in figura più raccolta si sommergono, ne fosser cagione gli atomi ignei, che continuamente, conforme alla sua opinione, ascendono per l'acqua, li quali, urtando in gran copia in tali falde larghe, possono sospignerle in alto, il che non può far piccola quantità dei medesimi, che si oppongono alle figure più raccolte; ed alla obiezzione che alcuno gli averebbe potuto far contro, dicendo che tale effetto dovrebbe accader più nell'aria che nell'acqua, egli rispondeva, ciò non accadere perchè i detti atomi nell'acqua vanno più uniti, e nell'aria si sparpagliano. Fu dal Sig. Galileo anteposto tal discorso di Democrito, recitato da Aristotile nel fine del quarto del Cielo, a quello d'Aristotile medesimo in questo luogo, e fu opposto ai detti d'Aristotile, come nel trattato del Sig. Galileo si vede. Ora il Sig. Grazia, per opporsi al Sig. Galileo in questi particolari, scrive alla facc. 74 e 75 [pag. 430, lin. 22-38] così: Essendo l'instanza di Democrito, s'ingannerà Democrito, e non Aristotile: ma avverta il Sig. Galil eo, che nè l'uno nè l'altro s'inganna, dicendo che le piastre del ferro e del piombo più si doverebbono sostenere nell'aria che nell'acqua, stando l'opinione di Democrito. Imperochè il piombo e il ferro son gravi di gravità assoluta; e il Sig. Galileo argumenta dicendo, che tal corpo peserà cento libbre, che nell'acqua sarà leggieri: ma questi son di gravità respettiva: adunque l'argumento non conclude. Anzi le falde del ferro e del piombo, sendo gravissime, tanto saranno grave nell'aria che nell'acqua: il che per esperienza agevolmente si può provare. E per far ciò, piglisi tanto piombo che ne l'aria contrappesi due libbre; dico che nell'acqua lo contrappeserà: e questo addiviene perchè è grave di gravità assoluta. Ma se si metterà una bilancia nell'acqua e l'altra nell'aria, quella dell'aria peserà più per la resistenza: imperciochè la resistenza dell'acqua sostenendo quella bilancia che è in essa, viene a diminuire il peso; e quindi avviene che molte machine nell'acqua son sostenute da minor forza che nell'aria, trattando sempre della gravità non assoluta. Concludasi, dunque, che nel particolare del Sig. Galileo, se nessuno ha filosofato male, egli è stato Democrito, e non Aristotile, se bene io direi che in questa instanza niuno di loro avessi mal filosofato. Questo è di quei luoghi del Sig. Grazia, che per la multiplicità degli errori può sotto molte classi esser riposto; dal che mi asterrò, per non l'aver a trascrivere tante volte.
E prima, egli dice che l'instanza contro a Democrito non è fatta da Aristotile, ma dall'istesso Democrito: il che è falso; perchè, se ben Democrito mosse l'instanza, la risolvette ancora; ed Aristotile, reprovando la soluzione, tornò a farsi forte sopra la medesima instanza, ed a reputarla efficace, e l'usò contro a Democrito, come apertamente si vede nel testo.
Secondariamente, erra il Sig. Grazia con doppio errore nel dire che nè Aristotile nè Democrito s'ingannino, dicendo che le piastre del ferro e del piombo più si doverebbono sostener nell'aria che nell'acqua, stando l'opinione di Democrito: erra, dico, prima, per non intendere quello che dica Democrito, il quale non dice che tali piastre più si devino sostener in aria che nell'acqua, anzi dice tutto 'l contrario, e risponde a chi volesse dire in quel modo, che è Aristotile solo, e non Aristotile e Democrito: erra, secondariamente, nel credere che questo non fusse inganno, stante l'opinione di Democrito; perchè, sendo l'opinione di Democrito che gli atomi ignei per l'acqua si muovino uniti ed impetuosamente, e nell'aria si sparpaglino, è chiaro che tali falde meglio saranno sollevate nell'acqua che nell'aria.
Terzo, che il piombo e 'l ferro sien gravi di gravità assoluta (parlo conforme alla filosofia che professa il Sig. Grazia), non resta senza qualche scrupolo: perchè egli averà altre volte detto che la terra solamente è grave di gravità assoluta, ed il fuoco leggiero assolutamente, e gli altri elementi gravi e leggieri respettivamente; talchè, sendo il ferro e 'l piombo misti de' quattro elementi, ci vuol il decreto di persona di grand'autorità per determinar ciò che si deva dir di loro. Ma forse il Sig. Grazia gli vuol chiamare assolutamente gravi perchè descendono, a imitazion della terra, in tutti tre gli altri elementi: la qual cosa se è così, ogni misto che in tutti i medesimi elementi descenda, potrà dirsi assolutamente grave; il che liberamente concederò al Sig. Grazia, non facendo io difficultà nissuna nei nomi; ma ben dirò che egli in questo luogo gravemente pecca, adulterando la sentenza del Sig. Galileo, per disporla alle oppugnazioni d'un equivoco che gli vorrebbe addossare, qual sarebbe che trattandosi di misti di gravità assoluta, che anco nell'acqua per loro natura descendono, egli argumentasse prendendo corpi di gravità respettiva, quali son quelli che, pesando nell'aria, son poi leggieri nell'acqua. Ma, Sig. Grazia, voi sete quello che sagacemente commettete l'equivocazione, mentre scrivete che il Sig. Galileo argumenta dicendo, che tal corpo peserà 100 libbre, che nell'acqua sarà leggieri; la qual cosa non si trova nel testo del Sig. Galileo, il quale, parlando solo di materie che anco nell'acqua descendino, scrive così [pag. 131, lin. 21-25]: «S'inganna, secondariamente, Aristotile, mentr'e' vuole che detti corpi gravi più agevolmente fossero da calidi ascendenti sostenuti nell'aria che nell'acqua: non avvertendo che i medesimi corpi sono molto più gravi in quella che in questa, e che tal corpo peserà 10 libbre in aria, che nell'acqua non peserà mezz'oncia». Ma, Sig. Grazia, il non pesar mezz'oncia nell'acqua è molto differente dall'esservi leggieri, perchè quello è scender nell'acqua, e questo sormontarvi: adunque il Sig. Galileo parla di materie, secondo le vostre fantasie, gravi assolutamente, e l'argomento suo è concludente.
Quarto, molto notabilmente s'inganna in creder che 'l ferro e 'l piombo e l'altre materie gravissime tanto sien gravi nell'acqua quanto nell'aria, essendo vero e dimostrato che ogni mole di materia grave pesa manco nell'acqua che nell'aria, quant'è 'l peso in aria di altrettanta mole d'acqua. Ma perchè il Sig. Grazia fa meritamente più conto d'una sensata esperienza che di cento ragioni, io ancora ne farei volentieri l'esperienza che egli insegna a farne, se io sapessi ben raccòrre dalla sua descrizione come ella procede. Egli primieramente mi dice: Piglisi tanto piombo che nell'aria contrappesi due libbre: dove io desidererei sapere di che materia hanno ad esser queste due libbre contrappesate, cioè se di ferro, o di legno, o pur di piombo esse ancora; perchè soggiugnendo egli: dico che nell'acqua lo contrappeserà, perchè è grave di gravità assoluta, le due dette libbre di piombo non contrappeseranno (mettendosi nell'acqua amendue i pesi) altre due libbre d'altra materia che di piombo; perchè se tal contrappeso fusse, v. g, di legno, mal potrebbe nell'acqua contrappesar due libbre di piombo, sì come l'istesso Sig. Grazia benissimo intende. Che poi, messe dall'una e dall'altra banda della bilancia due libbre di piombo, faccino l'equilibrio tanto nell'acqua quanto nell'aria, è verissimo, ma non prova niente per il Sig. Grazia, l'intenzion del quale è di provare che il piombo tanto pesi nell'acqua quanto in aria: e questa esperienza così non prova tal cosa, ma solo che due piombi di peso eguale fra di loro in aria, saranno anco fra di loro egualmente gravi in acqua; ma non prova già che i lor pesi in aria sieno eguali a i lor pesi in acqua: e questo è un errore in logica, ed un'equivocazione non minore che se altri dicesse: «Questi son due cerchi eguali fra di loro, e quelli son due triangoli eguali fra di loro; adunque questi due cerchi sono eguali a quei due triangoli». Bisognerebbe, per verificar la proposizione del Sig. Grazia, che contrappesandosi in aria una mole di piombo con altrettanto peso, il medesimo peso, e niente manco, ritenuto in aria, contrappesasse la medesima mole di piombo messa in acqua; il che non seguirà mai, ed il Sig. Grazia medesimo lo scrive, dicendo che la lance che sarà in acqua peserà manco, per la resistenza maggiore nell'acqua che nell'aria, la qual resistenza dell'acqua, sostenendo la bilancia, diminuisce il suo peso. Ma se l'acqua diminuisce il peso al piombo che si trova in lei, come dite voi, Sig. Grazia, che 'l piombo tanto pesa in acqua quanto in aria? quali contradizioni son queste?
Quinto, qual altre esorbitanze e contradizioni soggiugnete voi, dicendo che di qui avviene che molte machine nell'acqua son sostenute da minor forza che nell'aria, trattando sempre della gravità non assoluta? Se voi chiamate gravità assoluta quella che descende nell'acqua, la non assoluta sarà quella che scende ben nell'aria, ma nell'acqua divien leggerezza; onde queste machine di gravità non assoluta saranno leggiere nell'acqua, nè ci vorrà forza alcuna per sostenerle: come, dunque, contrariando a voi stesso, dite che le saranno in acqua sostenute da minor forza?
Passa il Sig. Grazia, nella medesima facc. 75 [pag. 430, lin. 40 – pag. 431, lin. 6], a reprovar certa esperienza del Sig. Galileo, come non accomodata alla difesa di Democrito. L'esperienza era, che messi carboni accesi sotto un vaso di rame o di terra pieno d'acqua, nel fondo del qual fosse una falda larga e sottile, di materia poco più grave dell'acqua, essa veniva sospinta in su da i corpuscoli ignei che, uscendo dai carboni, penetrano il vaso e si muovono in su nell'acqua. Della qual esperienza, prima ammessa e poi revocata in dubbio, scrive il Sig. Grazia così [lin. 6-9]: Ma quando la esperienza fusse vera, avvertiscasi che ella non è per Democrito; perchè egli parlava delle falde di ferro e di piombo, e questa segue nelle materie poco più gravi dell'acqua; e perchè egli trattava del soprannotare, e non dello stare sotto dell'acqua, come segue. Il Sig. Galileo propose nell'esperienza materia poco più grave dell'acqua, per poterla più agevolmente fare, ma non che l'istesso non si possa vedere ancora nel ferro e nel piombo, ma questi bisogna assottigliargli assai più che altre materie men gravi: però, come il Sig. Grazia, per sua satisfazione, volesse veder l'effetto in queste ancora, potrà farne falde sottili come l'orpello, o tòr dell'orpello stesso, che egli ne vedrà l'effetto. Che poi Democrito parlasse del soprannotare in superficie, e non dell'ascender per acqua, è falso: prima, perchè le parole medesime scritte da Aristotile suonano che Democrito dicesse che gli atomi ignei ascendenti spingono in su le falde larghe; e l'istesso Sig. Grazia lo sa benissimo, e lo scrive alla facc. 76 [pag. 431, lin. 18-20], dicendo: Egli è Democrito che s'impugna, dicendo che se gli, atomi ignei sollevassero le falde nell'acqua, le dovrebbono sollevare ancora nell'aria: secondariamente, ciò si raccoglie dall'istanza che si fa, dicendo che ciò dovrebbe maggiormente seguire nell'aria; ma quello che noi possiamo veder nell'aria è se tali falde vi ascendono, e non se si quietano sopra la sua superficie; adunque Democrito parlò dell'innalzare sottil falde per la profondità, dell'acqua, e non del sostenerle sopra la superficie. Talchè, se pur ci è mancamento in alcuno, sarà in Aristotile, che, applicando le cose dette da Democrito a conclusioni differenti dall'intenzione di quello, si volge immeritamente a riprenderlo; potendo esser vero che le falde di pochissima gravità siano in acqua sospinte in su da gli atomi ascendenti, come stima Democrito, e falso che le falde del piombo e del ferro, assai gravi, sieno dai medesimi atomi sostenute nella superficie dell'acqua, la qual cosa non si vede esser stata detta da Democrito, ma solo imaginato da Aristotile che Democrito l'avesse creduto, per meglio confutarlo.
Fu opinione d'Aristotile, sì come in molti luoghi lasciò scritto, che due corpi della medesima materia e figura, ma diseguali di grandezza, si movessero di diseguali velocità, e che più velocemente si movesse il più grave ↑ e maggiore di mole, ↓ e tanto più velocemente dell'altro, quanto egli lo superava di gravità: cioè, che se una palla d'oro fusse maggior d'un'altra dieci volte, ella dieci volte più velocemente si moverebbe; sì che nel tempo che la minore si fusse mossa un braccio, questa ne avesse passati dieci. Ciò conobbe il Sig. Galileo esser falso, e io so che in più d'una maniera e' dimostra che tali mobili si muovono con la medesima velocità; non intendendo però che altri si riduca a voler comparare un minimo grano di arena con una pietra di dieci libbre, perchè quei minimi corpusculi, per la lor somma piccolezza e insensibile gravità, perdono l'efficacia del loro operare. Ora, ben che Aristotile abbia errato di tanto, che dove per sua opinione un pezzo di terra di cento libbre, che dovrebbe muoversi cento volte più veloce che un pezzetto d'una libra, si vede per esperienza muoversi nel tempo medesimo, nientedimeno il Sig. Grazia ricorre a i minimi insensibili di terra, quali sono quelli che intorbidano l'acqua, e trovando questi muoversi tardissimamente in comparazione di parti di terra di notabil grandezza, gli pare d'aver convinto il Sig. Galileo, e difeso pienamente Aristotile; ed ingegnandosi di mascherar l'esperienza dei mobili di notabil grandezza, dei quali veramente ha parlato Aristotile, scrive alla facc. 77 [pag. 432, lin. 21-25]: Ma perchè alcuna volta per la poca disaguaglianza e per il poco spazio non si scorge sensibil differenza, perciò Giovanni Grammatico, a cui acconsente il Pendasio, e di poi il Sig. Galileo, si pensò che due quantità di terra diseguali di mole avessino la medesima velocità nel movimento; la qual cosa, come si è di mostrato, è falsa. Ma, Sig. Grazia, il negozio non camina così. Io non voglio che si piglino corpi poco diseguali, nè piccole altezze: pigliate pur due pezzi di piombo, uno di cento oncie e l'altro d'una, e prendete un'altezza, che voi possiate credere che non sia minore di quella onde Aristotile vedde le sue esperienze, e lasciando da quella nel medesimo momento cader ambedue i mobili, considerate quello che faranno; perchè io vi assicuro che la differenza non sarà così piccola, che vi abbia a lasciar irresoluto: perchè, secondo il parer d'Aristotile, quando il maggior peso arriva in terra, l'altro non doverebbe a pena aver passata la centesima parte di tale altezza; ma secondo l'opinion del Sig. Galileo, eglino doveranno arrivare in terra nell'istesso tempo. Or vedete se è cosa insensibile, e da prendervi errore, il distinguer un braccio di spazio da cento braccia. A quest'esperienza bisogna, Sig. Grazia, che voi respondiate, che di simili corpi parla Aristotile, e non che voi ricorriate a un atomo impalpabile di terra. Essendo, dunque, vero quanto dice il Sig. Galileo, resta in piedi l'obbiezzione che fa ad Aristotile in difesa di Democrito, la quale vi pareva d'aver sciolta in questo luogo.
Il Sig. Grazia, non contento di questo, soggiugne, alla medesima facc. 77 [pag. 432, lin. 20-21], che non solamente è vero che de i pesi della medesima materia il maggiore si muove più velocemente del minore, ma anco seguirà che il più grande si moverà più velocemente, ancorchè l'altro fosse di materia assai più grave in genere; il qual accidente, dic'egli [lin. 30-31] che nel danaio del piombo e della trave di cento libbre nell'acqua, come abbiam detto, si vede. Io però non credo che nè il Sig. Grazia nè altri abbia mai veduto muoversi una trave nell'acqua più velocemente d'un danaio di piombo; perchè la trave non vi si muove punto, e 'l piombo vi descende con molta velocità. Ma forse egli ha equivocato da aria a acqua; il che diminuirebbe alquanto l'errore, ma non però lo toglie. Nè occorre che per difesa d'Aristotile egli si vadia ritirando ancora a corpicelli di piombo piccolissimi, conferendogli con moli grandissime di legno; perchè se le proposizioni d'Aristotile hanno ad esser salde, bisogna che un legno di cento libbre si muova così veloce quanto cento libbre di piombo, tuttavolta che ambidue sieno di figure simili. Imperciochè una delle proposizioni d'Aristotile afferma, che delle moli eguali in grandezza, ma diseguali in peso, la più grave si muove più velocemente dell'altra, secondo la proporzione del suo peso al peso di quella; l'altra proposizione è, che di due moli della medesima materia, ma diseguali in grandezza, ed in conseguenza in peso, la maggiore si muova parimente più veloce dell'altra, secondo la proporzione del suo peso al peso di quella: conforme alla qual dottrina segue, primieramente, che posto, v. g., che 'l piombo sia 20 volte più grave di alcun legno, e sieno di loro due palle eguali in mole, e sia il peso di quella di piombo 100 libbre, peserà quella di legno libbre 5, e quella di piombo si moverà 20 volte più veloce di quella di legno; ma in virtù dell'altra proposizione, una palla del medesimo legno 20 volte maggior della prima peserà libbre 100, e si moverà 20 volte più veloce della medesima; adunque con la medesima velocità si moverà una palla di legno di cento libbre o una di piombo pur di cento libbre, poichè ciascuna di esse si muove 20 volte più veloce che quella di legno di 5 libbre. Or vegga il Sig. Grazia quali conseguenze si deducono da questa dottrina, ch'egli tien per sicurissima.
Aristotile, impugnando Democrito, che aveva stimato che gli elementi medii fusser più o men gravi, secondo ch'e' participavan più della terra o del fuoco, dice che se ciò fusse vero, ne seguirebbe che si potesse pigliare una mole d'aria così grande, che contenesse più terra che una poca quantità d'acqua, per lo che ella doverebbe muoversi più velocemente; il che repugna all'esperienza, vedendosi qualsivoglia piccola quantità d'acqua muoversi più velocemente d'ogni gran mole d'aria. A questo rispose il Sig. Galileo, in difesa di Democrito, quel che si legge nel suo trattato alla facc. 67 ↑ della prima impressione e 71 della seconda ↓ [pag. 134, lin. 4-14], cioè: Notisi, nel secondo luogo, come, nel multiplicar la mole dell'aria, non si moltiplica solamente quello che vi è di terreo, ma il suo fuoco ancora: onde non meno se gli cresce la causa dell'andare in su, in virtù del fuoco, che quella del venire all'in giù, per conto della sua terra multiplicata. Bisogneria, nel crescer la grandezza dell'aria, multiplicar quello che ella ha di terreo solamente, lasciando il suo primo fuoco nel suo stato: che allora, superando 'l terreo dell'aria agumentata la parte terrea della piccola quantità dell'acqua, si sarebbe potuto più verisimilmente pretender che con impeto maggiore dovesse scender la molta quantità dell'aria che la poca acqua. La qual risposta volendo il Sig. Grazia impugnare, prima l'epiloga in questa sentenza, che si vede nel fine della facc. 77 [pag. 432, lin. 33-38]: E finalmente credo che voglia dire, che nell'aria è molto maggior porzione di fuoco, che nell'acqua di terra: e perciò, crescendo la quantità della terra nell'aria, per crescer la sua mole , si agumenta tanto maggiore 'l fuoco, che può compensare quella terra agumentata; onde già mai avviene che una gran quantità d'aria si muova più velocemente all'in giù che una piccola d'acqua. Qui, come è manifesto, il Sig. Grazia non solamente non ha inteso l'argomento del Sig. Galileo, benchè scritto molto chiaramente, ma non ha voluto che altri intenda lui: però credo che sia superfluo l'aggiugner altro in questo proposito. Solo dirò d'aver qualche dubbio che 'l Sig. Grazia si riduca tal volta a scriver discorsi senza senso (e massime quando egli non trova da poter contradire in modo alcuno a cose troppo manifeste del Sig. Galileo), per conservarsi 'l credito d'aver risposto appresso a quelli che, senza molta applicazion d'animo, dessero una scorsa alla sua scrittura; perchè se ciò non fusse, come si sarebb'egli mai ridotto a dar a un quesito del Sig. Galileo la risposta che si legge alla facc. 79 [pag. 434]? Dove, avendo Aristotile detto, in confutando Democrito, che se la posizion sua fusse vera, bisognerebbe che una gran mole d'aria si movesse più velocemente che una piccola d'acqua, soggiugneva appresso, che ciò non si vede mai in modo alcuno; onde pareva al Sig. Galileo che altri potesse restar con desiderio d'intender da Aristotile, in qual luogo doverebbe accader questo, e qual esperienza ci mostra ciò non accadervi: al che risponde il Sig. Grazia così [lin. 4-14]: Alla domanda del Sig. Galileo, dove si potrebbe fare l'esperienza che dimostrasse che una gran quantità d'aria si movesse più velocemente che una piccola d'acqua, gli rispondo che se fusse vera la posizion di Democrito, questo doverebbe seguire nel luogo dell'aria. Imperciochè se fusse vero che l'aria per l'aria e l'acqua per l'acqua non si movessino, il che è falso, veggendo noi molti fiumi soprannuotare sopra ai laghi, e l'aria grossa restar sotto la sottile, anzi sendo spinta all'in su ritornare al suo luogo; non dimeno, se una gran quantità d'aria, fusse più grave che una piccola d'acqua, si moverebbe per tutti i mezzi all'ingiù più veloce di quella: onde non bisogna domandare dove si potrebbe fare questa esperienza, e non dove Aristotile l'ha fatta. Qui, perchè non si può rispondere alle cose che non hanno senso, non credo che alcuno pretenda da me risposta al total discorso: e però noto solamente che il Sig. Grazia non solo non mi leva di dubbio, ma men'aggiugne un altro maggiore, nel dirmi, stante vera la posizion di Democrito, si vedrebbe una gran mole d'aria scender per l'aria più velocemente che una piccola quantità d'acqua; ma perchè nella posizion di Democrito non vi è supposto che l'aria si vegga nell'aria, doveva il Sig. Grazia mostrar il modo da potervela vedere, già che egli afferma di vederla, perchè io nè, per quel che io creda, il Sig. Galileo lo sappiamo: sì come nè anco so ciò che abbia che fare il soprannotar de' fiumi sopra i laghi col farci veder l'acqua descender o ascender per l'acqua.
Il Sig. Grazia sin qui ha trattato con gran resolutezza la parte sua, negando al Sig. Galileo tutte le cose, e redarguendo ogni suo detto: ora non so per qual cagione e' si vadia più presto ritirando, e con distinzioni moderando le sue conclusioni, ed in somma palliandole in maniera, che pare ch'e' capisca in qualche parte alcuna delle verità scritte dal Sig. Galileo, ma che gli dispiaccia ch'e' l'abbia scritte lui, e che l'abbino ad esser contro a quel che prima egli aveva reputato vero. Egli scrive dunque alla facc. 81 [pag. 435, lin. 12-21]; Ma notisi dal Sig. Galileo, che trattando Aristotile della quiete delle falde del ferro e del piombo, tratta della quiete accidentale, e il simile è la quiete della polvere nell'aria; e perciò, essendo le cose accidentali di lor natura non durabili, non è maraviglia se la polvere non sta sempre nell'aria, essendo che quando ella ha superato la resistenza dell'aria, ella si muove al suo centro; e perchè più resiste l'acqua che l'aria, perciò più si quieta la polvere e le falde del ferro e del piombo nell'acqua, che non fa nell'aria. E perchè le falde e la polvere, bagnate, nell'acqua calino al fondo, già si è detto: si possono bene collocar in quella se non in tutto prive dell'aria, almeno con sì poca, che ella non può cagionare questo effetto del sopranotare. Che la quiete delle falde di piombo sopra l'acqua, e della polvere per l'aria, sia accidentale o non accidentale, non ha che far niente col Sig. Galileo, il quale ve la lascia chiamar a vostro modo, e solo dice che quelle si fermano mediante l'aria contenuta tra gli arginetti, e che questa non si sostiene altramente nell'aria nè nell'acqua, ma che nell'un e nell'altro mezzo cala al fondo. Il dir che la polvere non si ferma sempre per aria, non è contro al Sig. Galileo, poichè egli dice che la non ci si ferma punto: contrariate ben voi a voi medesimo, avendo molte volte detto che la polvere non può superare la resistenza dell'aria; ed ora dite che quando ella l'ha superata, si muove al suo centro. Ma se ella non la può superare, quando l'averà ella mai superata? o se ella vi si ferma per qualche tempo, perchè non continuamente? Se la polvere si ferma nell'aria per l'impotenza al superar la resistenza di quella, certo che sin che la polvere sarà polvere, e l'aria sarà aria, ella si doverà fermare; ma se per qualche sopravegnente caso si altererà la scambievole relazione tra l'aria e la polvere, onde ne segua contrario effetto dal primo, nissuno doverà esser tassato, perchè sempre si parla con supposizione che la polvere sia tale, cioè di terra o d'oro, e che l'aria sia tale, cioè quieta, etc. Ora, stanti le ipotesi, e descendendo alcuna volta, per vostra concessione, la polvere al suo centro, è forza che ella vi descenda sempre, cioè non si quieti mai. L'istesso vi si dice delle falde di piombo galleggianti: cioè che, sia pur questa quiete accidentaria quanto vi piace, sin che quelle saran falde, e l'acqua acqua, e gli argini argini, etc., esse galleggeranno sempre; se poi nel successo del tempo segue alcuna alterazione tra questi particolari, già il Sig. Galileo resta disobbligato dal render ragione di ciò che sia per seguire, nè occorre che egli arrechi distinzione con dir che quella quiete era accidentaria e che però non poteva durare, perchè questa sarebbe una cosa interamente lontana dal proposito di che si tratta. Finalmente, avendo voi ben cento volte detto che l'aria non ha che far nulla circa l'effetto del galleggiar le dette falde, adesso non vi risolvete a dir che le si possino collocare nell'acqua ed ivi galleggiar senza punto d'aria, ma dite che, se ben le non si posson porr'in tutto prive d'aria, almeno con sì poca, che non può far l'effetto. Al che io vi rispondo, primieramente, che come voi non mostrate che anco senza punto d'aria elleno posson sostenersi, avrete sempre il torto; perchè, come l'aria non ha che fare in questa operazione, ella si potrà rimuover tutta, senza impedirla. In oltre, dall'esperienze che voi avete insegnate per rimuover l'aria, non si vede che se ne scacci la millesima parte di quella che si contien tra gli arginetti: ma, quel che più importa, ben che ci sieno modi più opportuni del vostro per rimuoverla, credo che il Sig. Galileo mostrerà, che ogni minima quantità che vi si lasci (rimovendo il resto nel modo proposto da altri), ella fa il medesimo che quando vi era tutta. Ma voi (forse perchè così conferiva all'ampliazione de' vostri discorsi) non avete mai voluto intender quel che ha detto il Sig. Galileo, quando ha scritto che si rimuova l'aria contenuta tra gli arginetti, che subito la falda si affonderà. Egli ha scritto: «Rimuovasi l'aria, in modo che quello che resta nell'acqua sia solo ebano o piombo etc.»: ma per far che quel che resta nell'acqua sia ebano solo (come convien fare, perchè di quello schietto si disputa), non si può riempier lo spazio tra gli arginetti d'altro che di acqua; perchè ogn'altra cosa che ci si metta non sarà più l'ebano solo nell'acqua, ma l'ebano con la nuova accompagnatura. Or vedete quanto voi sete lontano da star dentro ai convenuti, mentre volete solamente bagnar sottilissimamente parte della superficie dell'assicella, lasciandovi poi l'istessa aria di prima, e dir che così si è rimossa l'aria.
Séguita il Sig. Grazia, alla medesima facc. 81 [pag. 435], di voler pur adombrar quello che non gli par di poter negare, e scrive così [lin. 21-26]: Quanto alle opposizioni che il Sig. Galileo si fa contro, son tanto deboli e fievoli, che non pare che metta conto spender il tempo intorno di esse. E chi non sa che le cose leggieri galleggiano, non per non poter fendere la resistenza dell'acqua, ma per esser più leggieri di essa? e che sommerse dentro dell'acqua, elleno, rompendo la resistenza, ritornano sopra di quella? Ecco che il Sig. Grazia, non potendo opporsi alle instanze del Sig. Galileo col negarle, se ne burla come di cose notissime a ogn'uno; nè si accorge che quanto più elleno son chiare e manifeste, tanto maggiore è la forza loro nel concludere. Ma quello che ci è di peggio è che va nominando per cosa tritissima quella, della quale egli sin qui non può negare di avere stimato vero tutto 'l contrario. Imperochè se le cose leggieri galleggiano perchè son più leggieri dell'acqua, e non perchè non possino fender la resistenza di quella, adunque è necessario che voi stimiate che loro la possin fendere; e se così è, onde avviene che tal resistenza possa esser superata dalle cose più leggieri, e dalle più gravi no, dicendo voi che le falde di piombo galleggiano per non poter penetrar la resistenza dell'acqua?
Segue appresso [pag. 435, lin. 26-30] con simile sprezzatura, fingendo non saper chi sieno coloro che credono che un vuovo galleggi nell'acqua salsa, e non nella dolce, per la maggior resistenza; ma bene mi paiano poco esperti nelle cagioni delle cose e nella filosofia, venendo quest'accidente perchè l'vuovo è più leggier dell'acqua dolce, e più grave della salsa. Chiama ora il Sig. Grazia poco esperti nelle cagioni delle cose quelli che ricorrono alla maggior o minor resistenza dell'acqua salsa e della dolce etc., scordatosi che forse nissun altro di simili resistenze ha fatto maggior capitale di lui; ma ora, perchè non gli par d'averne di bisogno, le disprezza, e vuol il più e men grave in relazione all'acqua: i quali termini, in segno che gli sieno molto nuovi, egli usa al rovescio, stimando l'uovo esser più leggieri dell'acqua dolce e più grave della salsa, nè si accorge che, se ciò fusse, l'uovo dovrebbe galleggiar nella dolce e profondarsi nella salsa. Ma se ora voi intendete che la maggior gravità dell'acqua in relazion al mobile può esser cagione del suo galleggiarvi, perchè esclamasti voi tanto intorno al lago di Siria, non volendo in conto alcuno che per altro che per la sua viscosità sostenesse i mattoni?
Ma quel che passa tutti i ridicoli è che il Sig. Grazia, doppo aver attribuita la causa di questo effetto alla maggiore o minore gravità del mobile rispetto al mezo, gli par che ella sia doventata in maniera sua, che il Sig. Galileo non ci abbia dentro parte alcuna, se ben egli non ha mai accettata altra che questa, nè d'altra che di questa sola si è mai prevaluto. Séguita, dunque, nel medesimo luogo [pag. 435, lin. 30-40], di scrivere il Sig. Grazia: Ma mi sono molto meravigliato che il Sig. Galileo dica che a simili angustie deducano i principii falsi d'Aristotile, non sapendo vedere perchè molto meglio si possa rendere la cagione di questo effetto con i suoi principii che con i nostri; anzi molto meglio, perchè oltre al rendere ragione onde avvenga che un vuovo galleggia nell'acqua salsa e non nella dolce, si può ancora dimostrare perchè una gran mole di aria nell'acqua si moverà più velocemente che una piccola. Adunque a ragione si può dire al Sig. Galileo: «A queste angustie conducano i falsi principii»: imperciochè la maggior mole dell'aria ha maggior virtù che la piccola, e perciò si muove più velocemente di essa; là dove che il Sig. Galileo, che non concede virtù alcuna che produca il movimento all'in su, non può dimostrare tal accidente. Sig. Grazia, questi che voi chiamate vostri principii, son gli stessi del Sig. Galileo, nè deve dal vostro appopriarvegli esserne spogliato: egli ha detto avanti di voi che l'uovo galleggia nell'acqua salsa perchè è più leggier di lei, e descende nella dolce perchè è più grave di quella; onde è forza, o che voi non abbiate letto il suo trattato, o che voi ora cerchiate, come di sopra ho accennato, di diminuirgli il credito con palliamenti artifiziosi e poco convenienti al candor filosofico. Vi concederò bene che il Sig. Galileo non saprebbe con tal dottrina render ragione di effetti falsi, qual è che la molt'aria nell'acqua ascenda più velocemente che la minor quantità, non intendendo però di prender piccolissime minuzie; nè voi a queste dovete ridurvi, perchè, se la vostra ragione è buona, ella concluderà di grandissime moli d'aria e di ogn'altra minore di quelle: ma, per mio credere, ella non conclude nè di quelle nè di queste; perchè se voi attribuirete la causa dell'ascender l'aria alla leggerezza positiva, è ben vero che la maggior mole d'aria ha maggior virtù che la minore, ma è altrettanto vero che la molt'acqua, che secondo i vostri principii ha da esser divisa, resiste più che la poca; e se voi fate ascendere per estrusione, la molt'aria vien estrusa da molt'acqua, e la poca da poca: onde le ragioni delle velocità vengono ragguagliate.
esperienze false, stimate vere dal sig. grazia.
Il Sig. Grazia, alla facc. 23 [pag. 391], si leva contro 'l Sig. Galileo, per difesa dell'opinione d'Aristotile, circa 'l problema, onde avvenga che una nave più galleggi in alto mare che vicino al lido e in porto; il qual problema dal Sig. Galileo vien negato, ed affermato che una nave, ed ogn'altra cosa che galleggi, non più si demerge in una piccola quantità d'acqua che in quantità immensa: e perchè la verità della conclusione sta in fatto e nell'esperienza, prima egli accusa il Sig. Galileo ed ogn'uno che volesse dimostrar contra 'l senso, scrivendo così [lin. 15-20]: Devesi avvertire, che il voler dimostrar contr'al senso è debolezza d'ingegno, che delle cose sensibili è il vero compasso e 'l vero conoscitore; e perciò il Sig. Galileo doveva far l'esperienza, o addurre altri che l'avesse fatta, e non voler con ragioni mostrare il contrario. Imperochè quando io veggo una qualche cosa, se uno mi volesse con ragioni dimostrare altramente, io gli direi che egli vaneggiasse. Credo che questa dottrina molto liberamente sarà conceduta dal Sig. Galileo, e che egli si contenterà, purchè il Sig. Grazia non recusi il partito, che debole d'ingegno e vaneggiatore sia stimato quello di loro, che in questa e nell'altre esperienze più si sarà ingannato, o per non l'aver fatte o per averle male osservate o considerate. Ma perchè il far l'esperienza d'una nave in alto mare e in porto non è sempre in pronto, nè vi si può, per l'instabilità dell'acqua, distinguere ogni piccola differenza (se ben, quando la dottrina di chi tien questa opinione fosse vera, tal differenza doverebbe esser grandissima, come si dirà), però, per venire in sicurezza del fatto, proporrò altra esperienza esattissima: ma prima registrerò qui la ragione che il Sig. Grazia rende di questo effetto. Egli scrive così [pag. 391, lin. 21-28]: Essendo l'acqua un corpo continuo, che ha virtù al non esser diviso, come di sotto diremo, più agevolmente si dividerà un piccolo che un grande; anzi essendo, come vuole il Sig. Galileo, ancora contigua, più agevolmente si separerà un contiguo piccolo che un grande : conciosiachè un grande è composto di più parti, e volendo muovere, in dividendolo per il mezzo, le parti del mezzo, sarà necessario che quelle muovino le seguenti; onde, essendo più parti in un grande, ci vorrà maggior forza, ed egli arà maggior virtù, e perciò sosterrà più che un piccolo. Ho voluto trascriver questa ragione del Sig. Grazia per levargli ogni fuga nel veder, come temo, la sua opinione confutata, e acciochè e' non si possa ritirare a dir che egli non parla se non di una nave locata in alto mare e poi vicina al lido o in porto, e che tanto gli basta quando in tutti gli altri casi accadesse il contrario. Ma se 'l discorso del Sig. Grazia è retto, ogni corpo che galleggi, sia grande o sia piccolo, manco si sommergerà in una gran quantità d'acqua che in poca, perchè più parti si hanno a dividere e muovere nella molta che nella poca; anzi, se ciò fosse vero, la differenza del galleggiar il medesimo corpo in quattro libbre d'acqua o in mille botti doverebbe esser grandissima. Ora il Sig. Grazia prenda quel medesimo vaso di legno che e' nomina alla facc. 27 [pag. 394, lin. 14], e postolo in un altro vaso d'acqua poco maggior di lui, vi vadia appoco appoco aggiugnendo tanto piombo, che e' lo riduca così vicino al sommergersi, che con un grano di aggiunta e' si profondi: portilo poi nel mezzo di un altro vaso, cento e mille volte maggiore, come sarebbe in un gran vivaio pien d'acqua, e postovelo dentro con quell'istesso piombo, osservi quanti grani vi bisogneranno aggiugnere per farlo affondare; che doverebbono esser molti, secondo il discorso del Sig. Grazia, avendosi a dividere tanto di più; ma secondo la dottrina del Sig. Galileo, quel solo grano doverà bastare come prima a far l'effetto: or faccia il Sig. Grazia tale esperienza, e poi, conforme al successo, reputi per ingegno debole e vano quello che si sarà ingannato. Tra tanto io, che l'ho già fatta e son sicuro che il Sig. Grazia ha il torto, accennerò brevemente la fallacia della sua ragione: e posto per vero che l'aver a divider più, fosse causa del poter profondarsi meno, io non veggo che un solido abbi a divider più, posto nella molt'acqua che nella poca, non avend'egli a divider se non quell'acqua che e' tocca, e non sendo il toccamento maggiore in un caso che nell'altro; sì come la sega non trova maggior resistenza per aver dalle bande il marmo grosso, ma solo quando il taglio ha da esser più lungo. Se il Sig. Grazia avesse, insieme col Sig. Galileo, attribuita la causa del galleggiare non alla divisione, ma al moto ed alzamento delle parti dell'acqua, più del verisimile arebbe auto la sua ragione, perchè veramente più acqua si alza nel tuffar il medesimo corpo in un vaso grande di acqua che in un piccolo, come dalle dimostrazioni del Sig. Galileo si raccoglie; ma già che questa causa è reprovata dal Sig. Grazia, il quale non vuole che l'acqua resista all'esser alzata sopra 'l suo livello, io non voglio affaticarmi in esplicar come si deva solver tale instanza, e tanto meno, quanto che la soluzione è così sottile, che il Sig. Grazia la reputerebbe cosa matematica, e però forse la trapasserebbe senza leggerla.
Aveva il Sig. Galileo negato che un vaso di legno che per sua natura galleggiasse, andasse poi in fondo quando e' fosse pieno d'acqua; e stimando che forse in alcuno potesse essere invalsa contraria opinione per aver veduto talvolta una barca nell'empiersi di acqua profondarsi, aveva ciò attribuito alla copia del ferro che nella sua testura si ritrovava: ma il Sig. Grazia, volendo pur mantener per vero il primo detto, scrive alla facc. 27 [pag. 394, lin. 7-10], non creder altrimenti che tali ferramenti possino esser bastanti a cacciarla in fondo, imperochè il legno è tanto più leggieri dell'acqua, che può sostenere sopra di essa molto peso, come si dimostra ne' foderi, quali si servivano gli antichi in cambio di navi per tragettare le mercanzie da luogo a luogo; ed il medesimo conferma egli con l'esperienza di barche fatte senza ferramenti, le quali ripiene di acqua nel Danubio si profondano. Ma parmi che il Sig. Grazia s'inganni in molti capi. E prima, i legni de' quali si contessono i foderi, sono ordinariamente abeti e simili legni leggieri; de i quali non si fabricano barche, ma per lo più si fanno di pini, di roveri e di quercie, legnami tra gli altri molto gravi. In oltre, se si paragonerà il legname d'una barca e 'l peso che lei porta, col legname d'un fodero e col peso che vien portato da quello, si vedrà facilmente che cento travi conteste in un fodero non porteranno tanto peso quanto una barca fabricata del legname di dieci delle medesime travi; onde, rimossa l'aria della barca, cioè empiutala d'acqua, poco peso potrà reggere la sua poca quantità del legname; il quale, se di più sarà dei più gravi per natura, manco peso potrà sostenere: onde benissimo si può intendere che l'esempio de' foderi è per doppia ragione difettoso. Quanto poi alle barche del Danubio, non ci mancando de' legni così gravi che per lor natura vanno al fondo, sarà necessario (data la verità del fatto) che tali barche sieno di simil legni fabricate.
Séguita poi il Sig. Grazia, nell'istesso luogo [pag. 394, lin. 13-19], in confermazion del detto di sopra: Anzi ho sperimentato io, che preso un vaso di legno e messovi dentro tanto piombo che riduca il vaso all'equilibrio dell'acqua, che egli ripieno d'acqua sen'andrà affondo, e voto resterà a galla. Nè si può replicare che sia l'aria che lo tiene a galla: imperciochè dividendosi detto vaso, e a ciascuna parte dandogli egual porzione di piombo, tutte stanno a galla; onde apparisce che il vaso sta a galla per la sua leggerezza, e non per quella dell'aria. In questa esperienza io non ben comprendo quello che il Sig. Grazia si voglia dire o fare, nè ciò che egli intenda quando suppone un vaso di legno ridotto con del piombo all'equilibrio dell'acqua: cioè se egli intenda di aggiugnere al vaso di legno tanto piombo, che si faccia un composto di legno e piombo, il qual sia in specie egualmente grave come l'acqua; o pure che si riduca all'equilibrio, cioè al livello, dell'acqua, sì che stia per sommergersi con ogni minima aggiunta di peso. Ma qualunque si sia il concetto del Sig. Grazia, basta che egli conclude che tal vaso sta a galla per la sua leggerezza, e non per quella dell'aria: nella qual cosa egli s'inganna d'assai. E prima, se quanto e' dice fosse vero, ne seguirebbe che pigliandosi, per essempio, una mezza palla di legno che per sua leggerezza galleggiasse, sì che, essendo, v. g., il suo semidiametro un palmo, posta che fusse nell'acqua ne restasse fuori quattro dita, ne seguirebbe, dico, che incominciandola a incavare per formarne un catino, quanto più legno si togliesse via, tanto più ella si affonderebbe, perchè, togliendosi via parte del legno, se gli lieva cosa che, per esser leggiera, ha facoltà di galleggiare, e quello che succede nel luogo del legno tolto, essendo aria, non aiuta, per detto del Sig. Grazia, a galleggiare il vaso; onde quando il legno fusse ridotto alla sottigliezza del vetro d'una caraffa ordinaria, tal vaso a pena potrebbe stare a galla, essendo la sua leggerezza pochissima (perchè poco legno ha anco poca leggerezza), e non avendo la leggerezza dell'aria contenutavi azzione alcuna nel farlo galleggiare: ma perchè l'esperienza segue tutto all'opposito, come penso che 'l Sig. Grazia anco senza provarla crederà, cioè che quanto più legno si leva, tanto meno si affonda il vaso, è forza che egli intenda e conceda che il vaso non galleggia solo per la sua propria leggerezza, ma per quella dell'aria contenuta. In oltre, che direte voi, Sig. Grazia, d'un vaso di rame (parlo con voi, perchè non credo in questo caso aver bisogno di parlar con altri)? Direte forse che e' galleggi per la sua propria leggerezza, e non per quella dell'aria contenuta? Certo che no: perchè il rame non ha leggerezza tale, che possa galleggiare nell'acqua. Ricorrerete forse alla figura? Molto meno: perchè, date pure alla medesima quantità di rame qualunque forma, purchè ella contenga tant'aria quanto il catino, tutte galleggieranno nell'istesso modo. Adunque è forza che ricorriate alla leggerezza di quello che è contenuto nel vaso, che in queste esperienze è aria. Oltre a ciò, quando quello che voi credete fosse vero, cioè che l'aria contenuta nel vaso non fusse cagione del suo galleggiare, sarebbe senz'altre contese spedita contro voi la principial quistione di cui si tratta, perchè fra tutte le figure la piana e larga sarebbe inettissima al galleggiare; perchè una falda di piombo, che distesa nell'acqua galleggi a pena, incurvata in forma di un cucchiaio non solo galleggerà, ma potrà reggere molto peso; anzi una piastra di piombo larghissima, ma non così sottile che distesa sull'acqua possa stare a galla, vi starà poi benissimo, ridotta in qualsivoglia altra figura concava, sia questa o di porzion di sfera o di cilindro o di cono o qualunque altra, purchè dentro alla cavità si contenga non piccola porzione d'aria. E finalmente, molto v'ingannate a creder che un vaso di legno, ridotto con del piombo all'equilibrio dell'acqua, sì che pieno d'acqua vadia in fondo e vòto stia a galla, se poi si rompa ed ai pezzi si dia la sua parte del piombo, e' siano per galleggiare: anzi si affonderanno nell'istesso modo che 'l vaso 'ntero, e non so come abbiate potuto vedere esperienza d'un effetto falso.
Falsa non meno è l'altra esperienza che 'l Sig. Grazia produce in questo medesimo luogo [pag. 394, lin. 24-26], per provare che l'acqua aggiugne gravità alle cose che per entro lei si pongono, dicendo vedersi che, pigliandosi due moli di piombo eguali di peso, l'una delle quali assottigliandola se ne faccia un vaso, entro al quale si possa racchiudere dell'acqua, dico che più pesa quel vaso, che quella materia di che egli è composto: e l'istesso replica alla facc. 47 [pag. 409, lin. 33-34]. Ciò, com'ho detto, è falsissimo; e tanto pesa appunto un pezzo di piombo d'una libbra sott'acqua, quanto qualsivoglia vaso fatto d'una libbra di piombo, posto similmente sott'acqua e di quella ripieno. E queste sono di quelle esperienze prodotte dal Sig. Grazia, delle quali mi assicuro che quando e' ne verificasse pur una sola in fatto, il Sig. Galileo gli concederebbe tutto 'l resto.
Per dimostrare che la figura non opera niente circa 'l descendere semplicemente o ascendere nell'acqua, e che nell'acqua non è resistenza alcuna alla divisione, propose il Sig. Galileo tra le altre questa esperienza: che si riducesse una palla di cera, col mettervi limatura di piombo, a tal grado di gravità, che posta nel fondo dell'acqua, un sol grano di piombo bastasse a ritenervela, il quale rimosso, ella tornasse a galla; e disse che la medesima cera, ridotta poi in una falda quanto si voglia larga, col medesimo grano resta in fondo, e senza torna a galla: e questa aveva stimata esperienza chiarissima per mostrar il suo intento. Ma il Sig. Grazia, a facc. 34 [pag. 400, lin. 14-16], dice che questa esperienza non prova cosa alcuna: imperciochè si può dare in altre cose dove la figura operi, e perciò non bisogna da un particolare argomentare all'universale. Qui doveva il Sig. Grazia nominare almanco una delle materie nelle quali la figura operi diversamente da quello che accade nell'esperienza del Sig. Galileo; il che egli non ha fatto nè farà mai, perchè tutte le materie che, ridotte in figura sferica, con l'aggiunta di un grano di piombo si fermano in fondo, e rimossolo tornano a galla, faranno il medesimo ridotte in falda piana ed in ogn'altra figura. Ma il Sig. Grazia, avendo per avventura veduto che un'assicella d'ebano che sott'acqua descende, nella superficie poi si ferma, in modo che molti grani di piombo non bastano a farla affondare, ha preso a sospetto l'esperienza del Sig. Galileo, e stimatola non universale: ma se egli più sottilmente avesse considerato che quella stessa falda di cera che sott'acqua da un sol grano è spinta in fondo, posata asciutta in superficie non bastano cento a farla sommergere, si sarebbe accorto che altro che la larghezza e che la resistenza dell'acqua dovevano per necessità esser cagione del quietare in superficie.
Scorgesi da quel che scrive il Sig. Grazia alla facc. 37 [pag. 402, lin. 3-38] e nella precedente e nella seguente ed in molti altri luoghi del suo libro, che egli con tanta poca attenzione ha letto il trattato del Sig. Galileo, che non si è accorto della gran differenza ch'e' fa, e che veramente è, tra 'l ritardare il moto e 'l tòrlo via totalmente; avendo egli sempre conceduto che la dilatazion della figura accresce la tardità, e solo negato 'l potersi dilatar tanto, che s'induca per tal causa la nullità del moto; perchè nissuno potrà mai crescer tanto la figura, che altrettanto non si possa crescer la tardità, senza necessità di arrivare all'infinita tardità, che è la quiete, se prima non si fusse arrivato a una infinita dilatazione: la qual distinzione non essendo pervenuta alla capacità del Sig. Grazia, ha fatto che egli ne' suoi discorsi, non concludendo mai veramente altro se non che la figura ampliata accresce la tardità, ha creduto di concludere, contro al Sig. Galileo, l'istessa dilatazion di figura cagionar la quiete. Questo, com'ho detto, è un errore sparso in molti luoghi delle Considerazioni del Sig. Grazia; ma nel presente ci è di più un'esperienza proposta da lui in emenda di altra esperienza proposta dal Sig. Galileo. Il quale, per far toccar con mano che l'acqua non resiste punto alla semplice divisione, e che tanto vien penetrata da una figura larga quanto da una acuta, aveva proposto un cono di legno, del quale tanto se ne tuffa mettendolo in acqua per punta, quanto con la base in giù; overo che si facessero dell'istesso legno due cilindri, uno lungo e sottile, e l'altro basso e spazioso, li quali, messi nell'acqua, si profondano ambedue con la medesima proporzione: ma quando fusse vero il detto del Sig. Grazia, il cilindro più spazioso e 'l cono con la base in giù dovrebbono tuffarsi molto manco, appoggiandosi sopra maggior quantità d'acqua; il che non si vede accadere. Ma il Sig. Grazia, molto più acutamente penetrando, danna le dette esperienze, e scrive [pag. 402, lin. 11-14]: Ma chi vuol far l'esperienza, bisogna far d'un istesso legno una piramide e una figura piana e sottile; e chiaramente si vedrà che la figura piramidale se n'andrà per gran parte in fondo, e la figura piana resterà quasi tutta sopra l'acqua. La qual esperienza è falsissima; e se il Sig. Grazia la vorrà mai fare, troverà che di tutte le figure, pur che sieno della medesima materia, se ne profondano sempre l'istesse parti, cioè che se di una se ne tuffa li due terzi del tutto, di tutte le altre se ne tufferanno parimente li due terzi: e se al Sig. Grazia riuscisse difficile il misurar la parte demersa in un'assicella molto sottile, prendane una grossa un palmo e larga quanto gli piace, e di altrettanto legno formine una piramide altissima e sottile, e troverà al sicuro accader l'istesso. Averei ben desiderato che, per credito della sua dottrina, e' non si fusse dimostrato tanto alieno dalla cognizione delle matematiche, che e' non intendesse pure i nudi termini, e massime volendo scrivere contro a un matematico. Scrisse il Sig. Grazia, alla medesima facc. 37 [pag. 402, lin. 18-20], così: Il simile si può dire de' cilindri, che non essendo figure atte a far soprannotare, non si possono addur per prova, ma solo le figure piane cagionano questo effetto. Ma acciochè egli non abbia più a incorrere in tali errori, voglio che sappia che figura è il cilindro, e che egli è una figura contenuta tra due superficie piane, giusto come l'assicella d'ebano, ma, nel resto, dove questa è quadrilatera, quella è circolare: talchè la tavoletta d'ebano, fatta larga e sottile quanto gli piace, se sarà poi tagliata in tondo, come 'l fondo d'una scatola, sarà un cilindro; il quale, contro a quel che sin qui ha stimato il Sig. Grazia, farà gli stessi effetti che l'assicella piana e quadrilatera.
Molto si sono affaticati gli oppositori del Sig. Galileo per non si ridurre ad accettar per vera la cagione addotta da lui del galleggiar le falde di ferro di piombo e d'ebano etc; e perciò hanno introdotte varie imaginazioni, tra le quali questa, in che persiste il Sig. Grazia alla facc. 41 [pag. 405, lin. 14-21], è degna d'esser considerata: la quale in somma è la resistenza dell'acqua all'esser divisa, confermata in lui dal parergli che le falde e assicelle non solo non penetrino dentro l'acqua, ma nè pure intacchino la sua superficie, ma solo, comprimendola con la lor gravità, l'abbassino, facendo una cavità; non altramente che veggiamo farsi da un peso assai notabile posato sopra la tela di un letto a vento, il quale ancorchè abbassi la tela, non però la divide, nè si moverebbe abbasso se egli in tutto e per tutto non la dividesse. La quale esperienza in verità non conclude altro, se non che il Sig. Grazia, che la propone, non l'ha mai fatta, ma solamente si è imaginato che la sia vera, perchè così concernerebbe alla confirmazione della sua opinione; e forse ha stimato buon consiglio il non la fare, per non incontrare quello che e' non vorrebbe trovare: ma se egli la farà, troverà che la tavoletta d'ebano entra tutta sott'acqua, e bagna i suoi lati intorno intorno, e non la sola superficie di sotto. L'istesso vedrebbe nelle falde di piombo e d'oro, se forse la lor sottigliezza non gli apportasse difficoltà alla vista: ma, come altrove ho detto, se gli faranno ad ogni sua richiesta veder tavole grosse un palmo, anzi aste lunghe dieci braccia, e palle di ogni grandezza, e coni alti un braccio, messi con la base all'in giù o con la punta, come più gli aggradirà, e tutte queste figure abbracciate e toccate per tutto dall'acqua, eccetto che una piccola parte della lor superficie, cioè quella poca che resta scoperta tra gli arginetti, la quale come prima verrà bagnata, tutte descenderanno al fondo. Egli potrà poi metter tutti questi medesimi corpi sopra un letto a vento, e veder che effetti faranno sopra la tela, e quanto si assimiglieranno a quelli che prima avevan fatti nell'acqua.
Perchè un errore se ne tira dietro mille, quindi è che chi vuol persistere in sostenerne uno, è forzato ad ammetterne molti, e bene spesso ad affermar cose chiaramente repugnanti al senso; come ora accade al Sig. Grazia, qui alla facc. 46 [pag. 408, lin. 37-40], il quale, per fortificar certa impropria similitudine di Simplicio, cioè che le parti dell'acqua si sostenghino l'una l'altra come le parti di una muraglia; e che perciò non si sente il peso dell'acqua da chi vi è sotto, s'induce a scriver così [pag 409, lin. 1-2]: E quindi avviene che un'asta pesa manco ritta che a diacere, e le veste più nuove che vecchie, e particolarmente trattandosi di quelle di drappi d'oro: e come quello che non ha fatto alcuna di queste esperienze, le ha semplicemente credute a quei libri dai quali egli le ha trascritte. Ma qual vanità si può trovar maggiore che il credere che di un'asta ritta le parti di sotto regghino di mano in mano le superiori, onde ella così pesi manco che a diacere? Perchè sono più discrete le parti di sotto in sostener quelle di sopra, che indiscrete quelle di sopra in caricar addosso all'inferiori, onde l'asta, all'opposito, ne divenga più grave stando ritta che a diacere? Egli è forza che 'l Sig. Grazia si sia ridotto in mente, con quanta fatica si sostenga una picca abbassata e presa con una mano nell'estremità, e come poca forza ci voglia a reggerla quando si tiene eretta a perpendicolo, e che, non potendo intendere, per mancamento de' principii meccanici, la ragione di tale effetto, sia concorso a credere che ciò avvenga dallo scambievole sostentamento delle parti, mentre l'asta è eretta, le quali parti non si sostengono l'una sopra l'altra mentre ella diace; ma se egli avesse una volta esperimentato che l'asta diacente presa nel mezzo, e non nella punta, pesa quanto eretta, e non più, se bene nella diacente le parti fra di loro non stanno diversamente pigliandola nel mezzo che nell'estremità, non si sarebbe lasciato persuadere sì grave fallacia. L'aver parimente veduto che una veste di broccato sta ritta da per sè quando è nuova, che poi gualcita ricade, l'ha persuaso a credere che nuova pesi manco, per quello scambievole sostentamento di parti. Ma non occorrerebbe, per accertarsi di tal fatto, aspettar che la fosse vecchia; ma basterebbe pesarla, una volta posandola in piede su la bilancia, e un'altra mettendovela distesa, che al sicuro si troverà tanto pesare in un modo quanto nell'altro: avvertendo il Sig. Grazia, che se volesse aspettar che la veste fusse vecchia, sarebbe molto peggio per lui, perchè troverebbe, contro al suo detto, la veste vecchia assai più leggiera che quando era nuova.
Segue il Sig. Grazia nell'istesso luogo un'altra esperienza, non meno fuori del caso della passata, e dice [pag. 409, lin. 2-11]: Ma mi credo io, che se uno si mettesse in su la superficie della terra, e si facesse infonder sopra venti o venticinque barili d'acqua, sì che ella dovesse reggersi sopra di lui, al certo che sentirebbe grandissimo peso. La qual cosa sensibilmente apparisce dalle conserve dell'acqua, le quali quanto più son piene, tanto più gli zampilli di esse salgono verso 'l cielo; il che avviene perchè l'acqua gravitando sopra l'acqua viene con simil forza a spinger l'acqua che esce di detta conserva. Ancorchè questa esperienza non sia fattibile, non si potendo fare un vaso del quale un uomo sia il fondo (perchè così solamente verrebbe l'acqua infusa a reggersi sopra di lui), nulla dimeno io voglio conceder per vero il fatto, e che, v. g., l'acqua che empia un tino calchi con tutto 'l suo peso sopra 'l fondo di quello, e che per ciò bisogni farlo molto forte: ma questa cosa è assai lontana dal proposito di che si tratta. Prima, perchè non si cerca se l'acqua pesi sopra la terra o sopra 'l fondo del vaso che la contiene, ma se lei gravita nell'altr'acqua, per la cui cognizione niente ci serve questa esperienza; e se uno entrerà in un tino pien d'acqua, non si sentirà punto aggravar da quella, ma ben il fondo del tino sentirà il peso dell'acqua e dell'uomo appresso. Ma sproposito massimo è, che noi cerchiamo se l'acqua pesi nell'acqua, e 'l Sig. Grazia, per accertarci che sì, ci adduce due esperienze nelle quali ci mostra come ella assaissimo pesa nell'aria. So che al Sig. Grazia parrà che io sia quello che dica un grande sproposito; e pur non è così. Dicogli, dunque, che se il tino, o 'l vaso che avesse per fondo un uomo, e parimente se la conserva d'acqua, non si trovassero circondati dall'aria, nè 'l fondo del tino nè l'uomo sentirebbono punto l'aggravamento dell'acqua, nè gli zampilli della conserva con impeto getterebbono. Provi, dunque, il Sig. Grazia a far che tutti questi vasi sieno circondati da altr'acqua sino all'altezza della contenuta in loro; e vedrà che nè l'uomo nè 'l fondo del tino sentiranno gravezza alcuna, e gli zampilli della conserva non solo getteranno senza violenza, ma non getteranno punto. Adunque tal esperienza è fuor di proposito. Ma notisi, oltre a ciò, quanto sia necessario che il Sig. Grazia veramente non sappia egli stesso quello che egli si voglia; poichè, dopo aver detto l'acqua pesar nell'acqua, come dal peso che sentirebbe un uomo, sopra 'l quale se ne reggessero venticinque barili, si può comprendere, soggiugne immediatamente queste parole [pag. 409, lin. 11-12]: al che s'aggiugne, che l'acqua nel suo luogo, ha da natura di non gravitar molto, sì come al Buonamico è piaciuto. Ma, Sig. Grazia, quando venticinque barili d'acqua si reggessero sopra un uomo, egli sentirebbe un peso immenso; e se nel mare ne avesse sopra centomila, non sentirebbe nulla: come dunque concorderete tali discordanze? e che determinerete voi circa questo fatto, altro se non che, non capendo come egli stia, sete costretto a fluttuare in qua e in là?
Alla facc. 47 [pag. 409] si mostra veramente il Sig. Grazia troppo ansioso di contrariare ad ogni detto del Sig. Galileo, poichè egli si lascia traboccare a negare esperienze più chiare che 'l sole. Aveva scritto il Sig. Galileo che le cose gravi messe sott'acqua non solo, non acquistavano nuova gravità, ma ne perdevano assai della prima che avevano in aria; e che ciò manifestamente si conosceva nel voler tirar su dal fondo dell'acqua una gran pietra, la quale, mentre si solleva per l'acqua, pesa assai meno che quando si ha da alzar per aria: contro a che il Sig. Grazia scrive così [lin. 26-30]: All'esperienza di alzare qualche peso più agevolmente nell'acqua che fuori, ciò mi torna il medesimo; solo ci ho saputo cognoscer differenza quando una cosa si deve profondar nell'acqua, dove apparisce che più malagevolmente si profonda in essa che nell'aria; e questo addiviene per la maggior resistenza di essa. La sottigliezza del Sig. Grazia nel far esperienze è arrivata a saper conoscer che più malagevolmente si profonda una cosa nell'acqua che nell'aria. Desidererei ben sapere che materia ha tolto il Sig. Grazia, la quale si profondi ben con qualche difficoltà nell'aria, ma con molto maggiore nell'acqua; perchè lo sperimentar ciò con un pallon gonfiato o con un sughero o con un legno sarebbe grande sciocchezza, essendo che tali materie non solamente non ricercano violenza per farle profondar nell'aria, ma ci vuol fatica a far che le non si profondino. Che poi egli non senta maggior resistenza a alzare una pietra per aria che per acqua, non ardirei di negarglielo, perchè egli solo è conscio di sè stesso; ma gli dirò bene che egli è unico al mondo ad aver lena così gagliarda, che non senta una tal differenza, e che, se non altro, nell'attignere una secchia d'acqua non la senta pesargli più per aria, che per l'acqua non faceva. E tutte queste esorbitanze s'induce ad ammettere il Sig. Grazia, prima che lasciarsi persuadere che l'acqua aiuti o disaiuti i movimenti dei corpi in virtù della propria gravità in rispetto a quella di essi solidi; ma vuole che solo operi con la resistenza alla divisione.
contradizioni manifeste.
Per le contradizioni manifeste che sono in questo discorso del Sig. Grazia, veggasi ciò che egli scrive alla facc. 16 [pag. 386]. Egli afferma [lin. 4-6], potersi trovar un solido di terra eguale a un solido di qualche misto, che pesino egualmente; e nella faccia seguente [pag. 387, lin. 5-7] scrive così: essendo nel misto i quattro elementi, sempre quello che sarà a predominio terreo sarà men grave della terra, se ben fussino eguali di mole. La qual proposizione, come si vede, è diametralmente contraria alla precedente: perchè se un misto, benchè a predominio terreo, è men grave della terra pura, molto più ciò avverrà degli altri misti, che fussero a predominio aquei o aerei o ignei; talchè universalmente ogni misto è men grave di altrettanta terra pura. Volse il Sig. Grazia forse moderar questa contradizione, ma il temperamento fu inutile. Egli, dopo avere scritto che ogni misto era men grave di altrettanta terra, soggiunse che nell'oro e nel piombo altramente accadeva, ma per accidente, ricorrendo a quelle miserabili distinzioni che sono gli ultimi refugii di chi si trova involto in mille falsità. E chi sarà di senso e di mente così stupido, che si lasci persuadere che la terra, della quale l'oro è più grave cinque o 6 volte, possa ricever dalla mistion dell'acqua tanto di gravità, che costituisca il peso dell'oro, se l'oro stesso è più grave diciannove volte dell'acqua? e tanto meno avrà ciò del probabile, quanto i medesimi filosofi porranno nella sua mistione anco dell'aria e del fuoco.
Scrive a facc. 19 [pag. 388, lin. 23-25], che l'acqua, essendo corpo di sua natura atto ad esser grave e leggiero, quand'è nel proprio luogo può da ogni minima forza esser mossa al centro e alla circonferenza; e quattro versi più basso [lin. 29] afferma, non aver ella resistenza ad esser alzata anco sopra 'l suo livello; e a facc. 20 [pag. 389, lin. 12-14] replica l'istesso, scrivendo: Il Sig. Galileo fa grande stima della resistenza dell'acqua all'esser alzata sopra 'l suo livello, che non è nulla, e, se pur è, non è sensibile. Ma poi a facc. 27 [pag. 394, lin. 22-26] non più dice così, anzi afferma che un vaso di piombo che sia nell'acqua, e di acqua ripieno, pesa più che 'l semplice piombo; che tanto è quanto a dire che l'acqua nel proprio luogo resiste all'esser alzata: il che egli pur replica a facc. 43 [pag. 406, lin. 40 – pag. 407, lin. 4], scrivendo così: Noi veggiamo che l'acqua aggiugne gravità alle cose che si pongono nell'acqua: il che chiarissimamente si vede pigliando 2 moli eguali di piombo, l'una delle quali si assottigli assai e si riduca sì che per entro essa si possa racchiudere alquanta porzione d'acqua; dico che librandosi nell'acqua, pesa più quello dove è l'acqua, che l'altro: ed in somma questo medesimo vien replicato con le medesime parole alla facc. 47 [pag. 409, lin. 31-37]. Ma chi volesse metter insieme tutti i luoghi ne' quali egli si contradice in questo proposito solo, di negare e affermar che l'acqua abbia o non abbia resistenza all'esser alzata dentro o fuori del luogo suo, arebbe una fatica troppo grave e da non finirsi per fretta.
Vuole il Sig. Grazia destramente tassare 'l Sig. Galileo, come che ei fondi tal volta qualche sua proposizione sopra esperienze impossibili a farsi; onde alla facc. 30 [pag. 396, lin. 32-36] scrive così: Par ben che altri possa restar con desiderio di saper, quale esperienza ha potuto accertare 'l Sig. Galileo che tutti gli elementi si muovon più veloci nell'acqua che nell'aria, se il fuoco, che solo degli elementi si muove all'in su nell'aria, nell'acqua non si può ritrovare. Ma, Sig. Grazia, qual occasione avete voi di reputar il Sig. Galileo non atto a veder quello che pur voi affermate di vedere? Egli ha veduto muoversi il fuoco per l'acqua ↑ e per l'aria ↓ nel modo stesso che lo vedeste voi alla facc. 13 [pag. 383, lin. 25-28], dove scrivete: Ma che 'l fuoco sempre verso la circonferenza abbia 'l suo movimento, sensibilmente apparisce, veggendolo noi non solo per la terra e per l'acqua, ma ancora sormontar velocemente per l'aria. Voi, dunque, lo potete veder sormontar sin per la terra, che pur non è gran fatto trasparente; e vi parrà impossibile che altri lo vegga muover per l'acqua? Qual fede volete voi che si presti alle vostre esperienze, se queste che voi una volta adducete per di veduta, altra volta dite esser impossibili a vedersi?
Molto puerilmente si contradice in due soli versi alla facc. 35 [pag. 400, lin. 20-22], mentr'egli scrive che essendo la cera (proposta dal Sig. Galileo) poco più grave dell'acqua, sempre si potrà dubitare se la figura o la leggerezza sia cagione di quello accidente. Ma se tal cera si suppone esser più grave dell'acqua, chi sarà quello che possa dubitare che la leggerezza sia cagione del suo ascendere o galleggiar nell'acqua? chi la potrà stimar più grave e più leggiera dell'acqua nel medesimo tempo?
Alla facc. 41 e 42 [pag. 405, lin. 26 – pag. 406, lin. 14], si affatica con lungo discorso per provar che l'aria aderente alle falde di piombo o d'oro non può esser cagione del lor galleggiare, e questo, dic'egli, per molte ragioni. Prima, perchè gli elementi che per lo contatto si tirano, sono l'aria e l'acqua; il che procede dall'umidità comune, la quale facilmente s'unisce: il che non può seguire nella terra, per non aver ella qualità simili all'aria e all'acqua, e in particolare l'umidità. Ma 'l Sig. Grazia non deve aver osservato che la mazza dello schizzatoio, se ben non ha l'estrema sua superficie nè d'acqua nè d'aria, pur con grandissima forza tira l'uno e l'altro elemento, e lo tirerebbe sempre con la medesima violenza, se ben detta superficie fusse di ferro, d'oro, di terra e d'ogn'altra materia; nè meno deve aver veduto due vetri o due marmi ben puliti alzarsi scambievolmente col solo contatto esquisito, se bene non sono nè d'aria nè d'acqua; nè forse sa che la foglia di stagno sta attaccata a gli specchi mediante 'l solo toccamento. Ma qual osservazion vi muove, Sig. Grazia, a credere e dire che l'aria per il contatto aderente non può tirare la terra nè le cose terree? forse il veder voi la terra o le pietre non montar su per i sifoni come l'acqua, nè sollevarsi per l'attrazzione delle coppette, ed altre esperienze tali? Ma se così è, sappiate che questa non è minor semplicità, che se voi negaste l'attrazzione della calamita per veder ch'ella non cava i chiodi del muro o del legno di rovere. Ma perchè io so che accostando voi la calamita a un simil chiodo e sentendo la resistenza che ella fa nel separarsi da tal contatto, confessereste che ella ha virtù di tirar il ferro, se ben ella non muove effettivamente quel chiodo, e credereste, appresso, che ella lo attrarrebbe seco quando la sua virtù superasse la resistenza che lo ritiene; così vorrei che, tentando voi di attrarre il porfido, non che la terra, col sifone o con la coppetta, nel modo che si attrae l'acqua o la carne, e trovando per esperienza come ella non men saldamente si attacca a questo che alla carne, vorrei, dico, che vi contentaste di credere che l'aria attrae la terra e 'l porfido, se ben voi non vedeste ne la terra nè 'l porfido muoversi o rigonfiarsi come l'acqua e la carne. Anzi, se voi prenderete un marmo ben liscio, sì che l'orificio della coppetta, esso ancora ben pareggiato, possa esattamente toccar la superficie del marmo, senza che lasci spiracolo alcuno, e che, per meglio assicurarvi, tocchiate sottilmente con un poco di cera o pasta detto orificio, sì che, calcato sul marmo, resti ogni spiracolo serrato, dico che, facendo con la coppetta la solita attrazione, la sentirete in modo attaccarsi al marmo, che, prima che separarsi, l'alzerete da terra, se ben pesasse 20 libbre; ma non vedrete già sollevarsi la parte della pietra contenuta dentr'alla bocca della coppetta, non perch'ella non venga tirata dal contatto di quella poca aria che in quella si contiene, ma perchè per la sua durezza è immobile. Ma finalmente, perchè io non confido che 'l detto sin qui basti a levarvi ogni dubio, e che sin che voi non vedete montar su per i sifoni la terra le pietre e i metalli, non siate per deporre la falsa opinione, andate a trovar qualche valente fabbro di canne d'archibuso, che egli nelle canne esquisitamente lavorate, con la sola attrazione del fiato, alla vostra presenza farà montar una palla di piombo dal fondo della canna sino alla bocca; e se forse l'esser la palla di piombo vi lasciasse ancor qualche scrupolo, perchè 'l piombo, secondo i vostri principii, è molto aqueo ed umido, e però atto a unir la sua superficie con quella dell'aria, il medesimo maestro attrarrà, per vostra satisfazione, delle palle di ferro, di marmo, d'ebano, ed in somma di che materia più vi piacerà.
Ma ditemi una volta, Sig. Grazia, in cortesia: voi scrivete [pag. 405, lin. 36-38] che l'aria e l'acqua si attraggono, perchè, essendo simili nell'umidità, la qual facilmente si unisce, vengono tra di loro a confonder le superficie, e di due quasi farne una: dove io, lasciando da parte che l'umidità opera tutto il contrario di quello che voi dite, perchè le cose che più saldamente stanno attaccate sono le aride e dure, e tutte le colle e bitumi viscosi tanto più ritengono unito quanto più si riseccano, e umidi tengon pochissimo; vorrei solamente che mi diceste quello che voi credete che faccino le superficie dell'aria e di un marmo, quando, sigillando la bocca del sifone, o trombetta che voi dite, sopra detto marmo, si fa poi l'attrazzion dell'aria. Credete voi che tali superficie in parte alcuna si separino? certo no, perchè ammettereste il vacuo, tanto odiato da voi e, per vostro detto, dalla natura. E se elle seguitano di toccarsi, e l'aria viene attratta, come non volete voi che tirato parimente ne venga 'l marmo? Questo sarebbe un darsi ad intendere di poter tirare una corda senza far forza all'oncino ov'ella è attaccata. Conoscete, per tanto, una volta in qual selva di confusione e d'errori vi bisogna andar vagando, mentre volete sostener le falsità; e considerate come mai non vi succede il poter affermar proposizione alcuna resoluta, ma sempre andare titubando. Voi dite, prima [pag. 405, lin. 30-32], che l'aria solamente e l'acqua si attraggono; ma accanto accanto [lin. 32-33] dite che qualche volta segue anco l'istesso fra le cose aquee ed aeree (e già vi scordate che altri potrebbe dire che le falde di piombo e d'ebano fussero di questa sorte, e che però l'aria le segue tra gli arginetti). Dite, appresso [lin. 36-38], che le superficie dell'aria e dell'acqua si confondono, e che di 2 quasi se ne fa una; e vi mettete il quasi, come se tra l'uno e il non uno fusse qualche termine di mezzo: oltre che non so quello che intendiate per confondersi le superficie, e se intendete che questo confondersi sia qualche cosa di più del toccarsi. Fate, appresso [pag. 406, lin. 1-2], gran capitale, per la resistenza della terra all'attrazzione, dell'esser lei grave assolutamente; e poi non vi darà noia la gravità dell'argento vivo, 5 o 6 volte maggiore; e pur con la trombetta si attrarrà. Vedendo poi che la polvere si attrae, e pur è terra, dite [lin. 2-7] che ella è fatta leggiera per accidente: e se ben le premesse son tutte titubanti, non per questo restate di stabilir in ultimo la conclusion salda e resolutissima, scrivendo [lin. 8]: Adunque non è possibile che la terra e le cose terree attraghino l'aria. Venendo poi all'assicella d'ebano, confessate [lin. 10-13], contrariando a voi stesso, che l'aria la segue nella cavità che quella fa nell'acqua, e che ella la segue come grave e per non dar il vacuo, quasi che l'acqua segua l'aria nel sifone per altro che per non dar il vacuo; e scordatovi che l'aria nell'acqua è leggiera, dite che ella scende sotto 'l livello dell'acqua come grave; ed immediatamente dopo l'aver confessato che l'aria scende sotto 'l livello dell'acqua insieme con l'ebano, non vi spaventando per una subita e manifesta contradizione, concludete [lin. 13-14]: Adunque è solo ebano quello che si pone nell'acqua, e non un composto d'ebano e d'aria. E quali contradizioni son queste? e chi le potrebbe scriver maggiori? Sento uno che mi risponde, che voi, Sig. Grazia, ne avete potuto scriver delle maggiori; e mi addita alcuni altri vostri luoghi. Voi scrivete alla facc. 48 [pag. 410, lin. 30-35], che la calamita può per la simpatia attrarr' il ferro, sì come noi veggiamo che più agevolmente uomo si muove ad amar uno che un altro, anzi molte volte odiar senza cagione alcuno , e senza cagione ad amar altri: ma qual simpatia può esser fra l'aria e la terra, se son composti questi due elementi di qualità contrarie? questo è secco, e quello è umido; questi participa del calore, e quello della frigidità etc. Qui, primieramente, voi dite che altri si muove ad amar uno per la simpatia, ed accanto accanto dite che si muove ad amarlo senza cagione; ma l'amar per la simpatia, Sig. Grazia, contradice all'amar senza cagione. Ma, più, se voi concedete che altri si muova ad amar uno senza cagione, perchè non potete voi metter un tal caso tra l'aria e la terra, sì che la terra senza cagione aderisca all'aria? Ma passo queste contradizioni come leggiere, e torno a considerare come voi dite qui che l'aria e la terra, come composte di qualità contrarie, non posson aderir insieme, sì che ne segua l'attrazione: il che avete detto ancora alla facc. 42 [pag. 405, lin. 36-40], cioè che l'aria e l'acqua, sendo simili nell'umidità, si muovono l'una al movimento dell'altra, il che (dite) non può seguire nella terra, per non aver ella qualità simili all'aria: e questo dite, perchè così compliva in questi luoghi al vostro bisogno. Ma poi alla facc. 52 [pag. 413] avendo bisogno che un medesimo accidente competa all'aria, all'acqua ed alla terra, cioè il resistere alla divisione, non dite più che tali elementi sien composti di qualità contrarie o dissimili, ma scrivete così [lin. 15-19]: essendo la terra, come vuole il Sig. Galileo (ma però 'l Sig. Galileo non ha mai detto questo), resistente alla divisione, sarà necessario che sian ancora gli altri elementi: imperciochè eglino son composti della medesima materia e della medesima qualità; adunque non par possibile che la terra abbia ad avere un accidente ed una proprietà, e non la debba aver l'acqua etc. Ma poi tornandovi un'altra volta commodo tutto l'opposito, cioè che gli elementi non sien più composti della medesima materia e della medesima qualità, nè possino aver un accidente comune, scrivete alla facc. 58 [pag. 417, lin. 38-40] in questo modo: conciosiacosa che gli elementi ed i composti da quelli, essendo composti di contrarie qualità, continuamente fra di loro si distruggono; e poi alla facc. 60 [pag. 419, lin. 31-32] così: là dove l'aria e la terra, come composte di contrarie qualità, non posson aver alcuna convenienza. Or come si potrà dire che nel vostro filosofare si contenga altro che confusione?
Dopo aver il Sig. Grazia assai diffusamente, nelle facc. 43, 44 e 45 [pag. 406, lin. 29 – pag. 408, lin. 30], proposte le opinioni contrarie e le lor ragioni intorno alla questione, se l'aria e l'acqua nelle loro regioni sien gravi o no, si riduce egli stesso a terminar questo dubio in tal conclusione [pag. 408, lin. 24-30]: Dichiamo dunque che l'acqua e l'aria nel lor proprio luogo sien gravi, ma non della medesima gravità che elleno hanno quando son fuori di esso; e che in esso eglino sono gravi e leggieri in potenza, non altrimenti che sia il color verde, che al nero ed al bianco può ridursi; e fuora del proprio luogo sieno gravi e leggieri in atto: gravi, quando si ritrovano in quelli che gli stanno sotto; leggieri, in quelli a' quali eglino soprastanno, se però non son impediti. Io veramente trovo gran confusione in questa sentenza, dove ogni ambiguità doverebbe esser rimossa. E prima, io non so ciò che egli determini dell'aria e dell'acqua nel proprio luogo: perchè da principio mi afferma che elleno son gravi, ma di altra gravità che quando ne son fuori; poi immediatamente mi dice che le vi sono anco gravi e leggieri, ma in potenza. Dove io, oltr'all'altre esorbitanze, non saprei schivargli una contradizione assai chiara; perchè, avendo egli prima detto che le son gravi, e poi che le son gravi e leggieri in potenza, è forza che nel primo detto egli intenda, loro esser gravi in atto; ma dicendo poi, esservi gravi e leggieri in potenza, e venendo la gravità in atto esclusa dalla gravità in potenza, viene a negare ed affermare 'l medesimo accidente del medesimo subbietto nell'istesso tempo. Nè men gravemente contradice egli a se stesso ed al vero nell'altre parole, mentre afferma che l'aria e l'acqua fuori del proprio luogo sieno gravi e leggieri in atto; gravi, quando si trovano nell'elemento inferiore a loro, come sarebbe a dire quando l'aria si trova nell'acqua: ma questo è falsissimo e contro all'istesso Sig. Grazia, perchè l'aria nell'acqua è leggieri. Segue poi con un nuovo errore, e dice la medesima aria ed acqua esser leggieri quando si trovano nel luogo di quelli elementi a' quali elleno soprastanno; di modo che, soprastando l'aria all'acqua, l'aria nell'acqua doverà esser leggieri: ma un verso innanzi seguiva 'l contrario; talchè l'aria nell'acqua è grave e anco leggiera, in filosofia del Sig. Grazia. Crederò bene che egli abbia auto in animo di dire altro da quel che egli ha veramente scritto: ma chi volesse entrare a corregger tutto 'l suo testo, non finirebbe mai, perch'oltre a gli errori innumerabili che vi sono, li quali si potrebbon attribuire alla poca diligenza dello stampatore e di quello che ha fabbricato la tavola delle scorrezioni, nella quale ne mancano 99 per 100, gli altri che veramente sono dell'Autore, per difetto di memoria o per non saper serrare i periodi, son parimente tali e di sì gran numero, che non mi par di far poco a indovinar il senso, non che a notargli e castigargli. E chi ritroverebbe mai la costruzzione in quel che segue del Sig. Grazia nel fine di questa medesima facc. 45 [pag. 408, lin. 31 – pag. 409, lin. 1], mentre egli vuol rispondere a certe esperienze e ragioni di Tolommeo e di Temistio, dove egli scrive: E dalla prima esperienza incominciando, dico che, se è vero che coloro che si tuffano sott'acqua non sentino gravità, la qual cosa apparisce il contrario, vedendosi che coloro che si tuffano, quando tornano sopra dell'acqua, sono sgravati da una certa grandissima molestia, quasi che dalla gravità dell'acqua eglino venghino aggravati, non nego già che questo accidente non poss'esser cagionato da gli spiriti ritenuti: e perciò pare che si possa dire con Simplicio, che quelli che si tuffano nell'acqua non sentino la gravità, perchè le parti di essa fra di loro si sostenghino; non altrimenti che noi veggiamo fare a coloro che aprendo un muro si mettono dentro di esso, i quali non senton la gravità perchè le parti di quello si reggono tra di loro? Qui, oltr'al mancar la struttura delle parole, è anco molto difficile il determinar a qual parte si apprenda l'Autore, cioè se alla negativa o alla affirmativa: perchè prima mette in dubbio, se sia vero che coloro che si tuffano non sentino 'l peso dell'acqua; poi soggiugne, di ciò apparire 'l contrario, poichè quando tornano sopra l'acqua si sentono sgravati da una gran molestia, come se l'acqua gli avesse gravato sopra; ma poi dice che non nega, ciò poter venire dalla retenzion degli spiriti, e poi dice parergli che si possa dir con Simplicio, che color che si tuffano non sentino 'l peso dell'acqua. Poco più a basso [pag. 409, lin. 2-5] crede, che se uno si mettesse su la superficie della terra, e si facesse infonder sopra venticinque barili d'acqua, sì che dovesse reggersi sopra di lui, al certo sentirebbe grandissimo peso, perchè l'acqua gravita sopra l'acqua; pochi versi più a basso [pag. 409, lin. 11-12], contrariando a questo detto, dice che l'acqua nel suo luogo ha da natura di non gravitar molto: per lo che 'l lettore a gran ragione può restar in confusione. Parmi bene, aver occasione di meravigliarmi che 'l Sig. Grazia non abbia scorta la simplicità di Simplicio nel render la ragione perchè non si senta 'l peso dell'acqua da color che gli son sotto, dicend'egli ciò accadere perchè le parti dell'acqua si reggono l'una l'altra, come accaderebbe a chi facesse una buca in un muro e poi vi entrasse dentro, dove non sentirebbe 'l peso delle pietre, perchè tra di loro si sostengono; la qual similitudine è molto poco a proposito, avvenga che del sostenersi i sassi del muro tra di loro ne è apertissimo indizio il veder noi, che levatosi colui della buca fatta nel muro, ella resta aperta, nè vi caggion le pietre a serrarla; ma nell'acqua non sì tosto si muove l'uomo, che l'acqua scorre a riempier il luogo. A voler che la similitudine di Simplicio concludesse, bisognerebbe che uno fosse sotto un monte di sassi, li quali, partendosi egli, calassero nella buca che egli occupava.
Alla fine della facc. 52 [pag. 414, lin. 5-8], egli scrive che l'acqua torbida dura tanto tempo a rischiararsi, non perchè quelle particelle di terra non possino in tanto tempo penetrar la crassizie dell'acqua, ma perchè sono miste tra di loro la terra e l'acqua, onde ci vuol quel tempo sì grande a disfar quella mistura: ma poi, 6 versi più sotto, contradicendo a questo luogo, scrive così [pag. 414, lin. 14-18]: Se quello spazio che tanta terra quant'una veccia passa per un centesimo d'ora e forse meno, quelle particelle che son nell'acqua torbida vi spendono quattro o sei giorni, solo per non poter romper la crassizie dell'acqua, mi par che si possa dire che l'acqua abbi resistenza, se ella ritarda 'l movimento. Vedesi, dunque, che 'l Sig. Grazia qui attribuisce la causa della dimora nel rischiararsi l'acqua solo al non poter quelle particelle di terra che la intorbidano, romper la crassizie dell'acqua, se ben di sopra aveva detto che ella tardava tanto a rischiararsi non perchè le particelle della terra non possino penetrar la crassizie dell'acqua, ma per la mistione etc.
È forza confessare che il Sig. Grazia abbia grandissima pratica nel maneggiar le contradizioni, e che con quelle e' si liberi da grand'angustie. Egli, prima, non trovando miglior refugio per sostener che l'assicella d'ebano e le altre falde gravi galleggino per l'impotenza di divider la continuità dell'acqua, disse più volte resolutamente che loro non pure non dividevano, ma nè anco intaccavano, la superficie dell'acqua, ma solamente la calcavano alquanto, cedendo ella come la tela d'un letto a vento; e però scrisse alla facc. 36 [pag. 401, lin. 35-37]: Imperochè l'assicella d'ebano e le piastre dell'oro abbassano tanto la superficie dell'acqua, quanto comporta la lor gravità, ma non la dividono; perchè sendo divisa, elleno subito se ne andrebbono in fondo: ed alla facc. 41 [pag. 405, lin. 13-26] più diffusamente replica ed essemplifica 'l medesimo, scrivendo; Quindi si vedrà agevolmente, quant'è sodo 'l detto d'Aristotile, e debole quel del Sig. Galileo. Perchè non solo apparisce che la falda dell'oro non abbia penetrata la superficie all'acqua, ma che non ha ancora intaccata la superficie di essa, e solo l'ha, constipandola con la sua gravità, abbassata, e fatta quella poca di cavità; non altrimenti che si vegga operare qualche peso assai notabile posato sopra la tela d'un letto a vento, il quale, ancorchè abbassi la tela e vi faccia una gran cavità, entro la quale egli si nasconde, nondimeno egli non ha divisa la tela, anzi sino a che non l'ha divisa in tutto e per tutto, egli non si muove. Il dire ch'egli si trova sotto la superficie del panno, non par cosa conveniente, se bene egli apparisce sotto la superficie di esso, ma veramente non è. Quanto alla figura, ella non mostr'altro se non che l'assicella ha piegato tanto la superficie dell'acqua, che ella resta sotto 'l livello degli orli di detta superficie, come s'è detto; or veggasi, che l'assicella dell'ebano non va al fondo, perchè ella non ha rotto la superficie dell'acqua. Ma poi nel progresso dell'opera, sendogli venuta in mente un'altra più bella ragione attenente al medesimo effetto, ma però tale che non concluderebbe se le medesime falde ed assicelle non penetrassero dentro all'acqua, egli liberamente ciò afferma, e scrive alla facc. 58 [pag. 417, lin. 40 – pag. 418, lin. 2] molto ingegnosamente così: Onde passando l'assicella dell'ebano per l'acqua, come quella che è un misto terreo, viene a corromper qualche particella dell'acqua, e perciò ella resta unita, non desiderando la divisione, perchè da quella ne nasce la sua corruzione. Qui dunque pare che 'l Sig. Grazia ammetta, contr'a' luoghi detti di sopra, che l'assicella passi per l'acqua; il che non si può intender che possa seguir senza penetrarla. Nè contento di questa contradizione a i due luoghi sopraddetti assai remoti, ne soggiugne un'altra immediatamente, dicendo che l'acqua resta unita, non desiderando la divisione: ma se l'acqua resta unita, come può passar per lei l'assicella d'ebano? Contradice parimente ai medesimi due luoghi sopraddetti alla facc. 84 [pag. 437], dove avendo bisogno, per contradire a certo luogo del Sig. Galileo, che l'assicella d'ebano, quando galleggia, abbia già divisa tutta l'acqua che la circonda, prima dice esser manifesto che la falda vien sostenuta dall'acqua che gli è sotto, e non da quella che gli è attorno, e poi soggiugne [lin. 21-23]: Segno di ciò ne è, che sendo diviso tutto 'l perimetro dell'acqua, ad ogni modo la piastra si regge. Ma come può esser, Sig. Grazia, che sia divisa l'acqua di tutto 'l perimetro dell'assicella, e che insieme ella non abbia pur intaccata la sua superficie? Se i corpi gravi che si posano sopra le tele dei letti a vento dividessero la tela intorno al lor perimetro, non so quanto bene e' si reggessero sopra quella che gli restasse di sotto.
Aveva bisogno 'l Sig. Grazia, alla facc. 42 [pag. 405], che l'aria e l'acqua per attrazzione alternatamente si seguissero, ma che ciò non potesse accadere tra questi elementi e la terra. Di ambedue questi effetti parlò e ne rese ragione, scrivendo, quant'al primo, così [lin. 36-39]: Il che segue perchè, essendo questi due elementi simili nell'umidità, la quale facilmente si unisce, vengono tra di loro a confonder le superficie, e di due quasi farne una; imperciò vengono a muoversi al movimento altrui. Parlando poi del secondo accidente, segue di scriver così [pag. 405, lin. 39 – pag. 406, lin. 2]: Il che non può seguir nella terra, per non aver ella qualità simile all'aria e all'acqua, e particolarmente l'umidità, là onde le superficie non si possono unire; e per ciò non si può tirare nè dall'acqua nè dall'aria, essendo ella ancora, di sua natura, grave assolutamente. Ma sendogli poi, alla facc. 60 [pag. 419, lin. 13-37], sopraggiunto necessità che l'acqua benissimo s'attacchi e segua la terra e le cose terree, e ciò per contradire al Sig. Galileo, che aveva detto che sì come l'acqua, aderendo ad una falda di piombo, la segue per breve spazio mentr'ella vien sollevata dalla sua superficie, così nell'abbassarsi la medesima falda sotto 'l livello dell'acqua vien per simile spazio seguita dall'aria; per contradir, dico, a questo detto, scordandosi della facc. 42, concede che l'acqua possa ciò fare, ma non già l'aria; ed assegnandone la ragione, scrive così [pag. 419, lin. 26-33]: Imperciò che, sì come abbiamo detto, l'acqua ha una certa viscosità, con la quale ella si attacca alle cose e particolarmente alle terree, della quale è privata l'aria; onde adiviene che l'acqua si attacca alla piastra, e l'aria non si può attaccare. In oltre fra l'acqua e la terra può essere qualche simpatia, avendo fra di loro una qualità comune, qual è la frigidità, là dove l'aria e la terra, come composte di qualità contrarie, non posson aver alcuna convenienza. E per ciò io mi persuado che questo effetto possa accadere nell'acqua, e non nell'aria. Di qui e da tant'altri particolari veggasi con che saldezza e resoluzione di dottrina cammini quest'Autore.
Io mi son molte volte, nel disporre e ridurre alle lor classi gli errori del Sig. Grazia, trovato confuso in quale fusse conveniente ridurre alcuno di essi, peccand'egli in molte maniere; come appunto mi accade di questo che segue, il quale in esperienza è falso, nel caso di che si tratta non è a proposito, e contradice a quello che in altri luoghi ha scritto l'Autore: pure lo porrò tra le contradizioni, essendo gli altri suoi mancamenti tanto manifesti, che non occorre additargli più. Egli, dunque, alla facc. 73 [pag. 429], per contradire ad una dimostrazione del Sig. Galileo, scrive molto resolutamente che 'l fuoco e la terra con tanta velocità si muovono per l'aria, con quanta si muovono per l'acqua; e le parole son queste [lin. 18-22]: Trattandosi della terra e del fuoco, l'una delle quali è grave assolutamente e l'altro leggieri assoluto, che per tutti i luoghi sono egualmente gravi e leggieri, sarà impossibile che sien più e men veloci nell'acqua o nell'aria, ma in tutti a due i luoghi saranno veloci egualmente, e perciò non ci entra l'argomento del contrario. Ma nella faccia precedente [pag. 428, lin. 16-17] si legge tutto l'opposito, cioè che gli atomi ignei più veloci nell'aria che nell'acqua si muovono, come da me si è dimostrato; e nella seguente faccia, che è la 74 [pag. 430], pur si legge 'l contrario, scrivendo egli così [lin. 14-16]: Anzi l'instanza di Democrito contro a sè stesso, e non d'Aristotile, è in vigore, essendo manifesto che 'l movimento del fuoco è più veloce nell'aria che nell'acqua; ed alla facc. 31 [pag. 397, lin. 17-18], dopo un lungo discorso in provar la leggerezza positiva del fuoco, conclude con tali parole: Adunque non ci è elemento alcuno, che non si muova più veloce nell'aria che nell'acqua. Veggasi dunque l'inconstanza del Sig. Grazia.
luoghi del sig. galileo adulterati dal sig. grazia.
Quanto a' luoghi del trattato del Sig. Galileo non legittimamente citati dai Sig. Grazia, leggasi il primo ch'e' produce alla facc. 8 [pag. 380, lin. 12-17], scrivendo così: Diceva il Sig. Galileo che la condensazione partorisce diminuzion di mole e agumento di gravità, e la rarefazione maggior leggerezza e agumento di mole; al che s'aggiugne che le cose condensate maggiormente s'assodano, e le rarefatte si rendono più dissipabili : li quali accidenti nell'acqua non appariscono; adunque il ghiaccio non condensato, ma rarefatto, deve dirsi. Dove quell'aggiunta, che le cose condensate maggiormente s'assodano, e le rarefatte si rendono più dissipabili, sì come l'è cosa fuor d'ogni proposito in questo luogo, così non è stata nè scritta nè, per quel che io creda, pur pensata dal Sig. Galileo; e come che io stimi che nissuno la sapessi adattare al senso del presente luogo, così non si può dir altro se non che il Sig. Grazia ce l'aggiunga solamente per diminuire in ogni possibil modo la saldezza della dottrina di esso Sig. Galileo.
Alla facc. 19 [pag. 388, lin. 11-12] scrive il Sig. Grazia così: Dice il Sig. Galileo che il mobile, quando si muove per l'acqua verso 'l centro, dee scacciar tant'acqua quanto è la propria mole. Ma questo è falso: anzi egli non pur dice, ma dimostra, che qualsivoglia solido nel discender nell'acqua alza sempre manco acqua, che non è la parte del solido demersa; talchè la più modesta accusa che si possa dar al Sig. Grazia, è che egli non ha considerato quel che scrive il Sig. Galileo.
Con troppo aggravio vien imputato il Sig. Galileo dal Sig. Grazia d'aver creduto che tutti gli elementi più velocemente si muovino per l'acqua che per l'aria, sì come da quel che egli scrive alla facc. 30 [pag. 396, lin. 32-36] si raccoglie, dove si leggono queste parole: Par bene che altri possa restar con desiderio di saper, qual esperienza ha potuto accertare il Sig. Galileo che tutti gli elementi si muovono più veloci nell'acqua che nell'aria, se il fuoco, che solo degli elementi si muove all'in su nell'aria, nell'acqua non si può ritrovare. Ma quando e dove, Sig. Grazia, ha detto il Sig. Galileo d'esser certo che la terra, che è uno degli elementi, si muova più velocemente per l'acqua che per l'aria? Io non so che egli abbia mai scritto tali pazzie: so bene che egli ha detto tutto 'l contrario, cioè che più velocemente ella si muove per l'aria che per l'acqua; la quale è proposizione così trita e manifesta, ch'io credo che al mondo non ci sia chi non la sappia, altri che voi solo, che affermate la terra muoversi con egual velocità in questo mezzo e in quello, se io bene ho intese le vostre parole alla facc. 73 [pag. 429, lin. 18-21], che son queste: trattandosi della terra e del fuoco, l'una delle quali è grave assoluta e l'altro leggieri assoluto, che per tutti i luoghi sono egualmente gravi e leggieri, sarà impossibile che sien più e men veloci nell'acqua o nell'aria, ma in tutti dua luoghi saranno veloci egualmente.
A facc. 33 [pag. 399, lin. 12-14], referendo alcune parole del Sig. Galileo, scrive così: Può ben l'ampiezza della figura ritardare il movimento, tanto nello scendere quanto nel salire, ma non può già quietare mobile alcuno sopra l'acqua: dove l'ultime parole sopra dell'acqua non sono nel testo del Sig. Galileo, il quale è tale [pag. 88, lin. 1-5]: Può ben l'ampiezza della figura ritardar la velocità, tanto della scesa, quanto della salita, e più e più secondo che tal figura si ridurrà a maggior larghezza e sottigliezza: ma che ella possa ridursi a tale, che ella totalmente vieti il più muoversi quella stessa materia nella medesima acqua, ciò stimo essere impossibile. Dove io noto, che il Sig. Galileo non ha detto sopra dell'acqua, ma nella medesima acqua; e ciò noto io, non perchè l'ampiezza della figura sia forse causa del fermarsi sopra dell'acqua, perchè questo ancora è falso, come diffusamente dimostra il Sig. Galileo, ma perchè non conviene che il Sig. Grazia addossi uno sproposito suo al Sig. Galileo: perchè quando la maggior e maggior dilatazione non solo diminuisse la velocità del mobile, ma potesse anco estendersi a tale che totalmente togliesse il più muoversi, ogni retto giudizio dovrebbe intendere e dire, che là si facesse l'annullazione del moto, in virtù dell'ampiezza della figura, dove si fa la diminuzione della velocità; e facendosi tal diminuzione per tutta la profondità dell'acqua, in ogni luogo di essa dovrebbe potersi indur la quiete, e non nella superficie solamente, dove son forzati di ritirarsi gli avversarii del Sig. Galileo, dopo che l'esperienza gli ha insegnato, non esser possibile l'indur la quiete in virtù della figura là dove per la medesima s'induce la tardità: oltre che il veder loro, che le medesime falde che si fermano nella superficie dell'acqua, nella profondità poi velocemente descendono, gli doveva pur esser argomento bastante per fargli avvertiti che da altro principio dependeva la quiete in superficie, che da quello onde procede la diminuzion di velocità.
Ancorchè il Sig. Galileo abbia più volte detto, e ancor dimostrato, che nell'acqua non è resistenza alcuna alla semplice divisione, nulla dimeno il Sig. Grazia scrive in maniera, alla facc. 50 [pag. 412], che ogn'uno che vi leggerà, giudicherà che il Sig. Galileo abbia detto tutto l'opposito, cioè che ella totalmente repugna alla divisione; poichè quivi si leggono queste parole [lin. 2-4]: Ma si deve avvertire, che questa resistenza non è tale che repugni all'intera divisione, come il Sig. Galileo si crede, ma solo repugna alla divisione più facile e più difficile.
Alla facc. 52 [pag. 413, lin. 36-37] attribuisce al Sig. Galileo l'aver detto (per provar che l'acqua non ha resistenza alla semplice divisione) che se l'acqua avesse resistenza, si vedrebbe qualche corpicello sopra quella quietare etc.: la qual cosa non si trova nel trattato del Sig. Galileo; e il luogo stesso che il Sig. Grazia adduce, nel detto trattato sta così [pag. 103, lin. 20-25]: In oltre, qual resistenza si potrà porre nella continuazion dell'acqua, se noi veggiamo esser impossibil cosa il ritrovar corpo alcuno, di qualunque materia figura e grandezza, il quale, posto nell'acqua, resti, dalla tenacità delle parti tra di loro di essa acqua, impedito, sì che egli non si muova in su o in giù, secondo che porta la cagion del suo movimento? dove si vede che il Sig. Galileo parla dei corpi posti dentro all'acqua, e non sopra, poichè dice che si muovono in su o in giù etc. Ma il Sig. Grazia, per oppor (come egli fa) la minuta polvere che sopra l'acqua si ferma, corrompe il testo del Sig. Galileo, e l'aggiusta alla sua contradizione.
Con non dissimile arte procura, alla facc. 57 [pag. 417], di far apparire al lettore errori del Sig. Galileo quelli, che sono alcuni vanissimi refugii di altri suoi contradittori, scrivendo in cotal modo: [lin. 16-27]: Segue ora che ricerchiamo la cagione, perchè l'assicelle dell'ebano e le falde del ferro e del piombo, quando sono asciutte galleggiano sopra l'acqua, e quando sono bagnate se ne vanno al fondo; non tenendo per vere quelle che ne adduce il Sig. Galileo. Imperochè è falso che quella resistenza, che abbiam provato esser nell'acqua, sia più nelle parti superficiali che nelle interne, non apparendo il perchè e veggendosi per il senso altrimente. Similmente la seconda, che le falde abbin a cominciare il movimento nella superficie, il quale si comincia più difficilmente che egli non si séguita, non pare possa esserne la cagione; quantunque io non nieghi che egli possa adoperare qualche cosa, vedendo noi che se le cose gravi si muovano, si muovono più velocemente quando sono più vicine al centro, movendosi però d'un medesimo mezzo. Qui, dunque, si vede che il Sig. Grazia, su la speranza di poter oscurar in qualunque modo la chiarezza della dottrina del Sig. Galileo, si allontana dalla candidezza della vera filosofia: la qual nota egli avrebbe schivata, se dopo le parole: non tenendo per vere quelle che n'adduce il Sig. Galileo, egli avesse detto: «nè mi satisfacendo le cagioni addotte da altri suoi oppositori», o cosa tale; ma l'attaccar subito, con la particola imperciochè, il detto di sopra con quel che segue, è atto pregiudiziale al Sig. Galileo senza alcuna sua colpa.
Alla facc. 61 [pag. 420, lin. 22-23] scrive il Sig. Grazia: Notisi che nel testo d'Aristotile tre sono i termini, e non quattro come dice il Sig. Galileo, cioè movimento, più tardo, e più veloce etc. Ma il Sig. Galileo non ha mai detto questa cosa: ha bene scritto che in questa materia (ma non nel testo d'Aristotile) si devono considerar quattro termini; e 'l luogo si può vedere alla facc. 57 della prima impressione ↑ e 62 della seconda ↓ [pag. 124, lin. 5-6]. Però, Sig. Grazia, se non volete riguardare alla reputazioni del Sig. Galileo, riguardate almeno alla vostra.
Alla facc. 72 [pag. 428, lin. 22 e seg.] vuole il Sig. Grazia confutare una dimostrazione fatta dal Sig. Galileo per provare che i corpi che ascendono per l'acqua e per l'aria, più velocemente si muovono in quella che in questa: ma perchè egli non l'ha ben intesa, nel riferirla nel modo che l'ha capita la dilacera in guisa, che d'ogn'altra cosa ha sembianza che dell'originale; onde inutil perdimento di tempo sarebbe il porsi prima a dichiarargli il senso, benchè per sè chiarissimo, di quella del Sig. Galileo, e passar poi a emendar gli errori suoi: però voglio contentarmi di trascriver qui l'una e l'altra, lasciando poi al lettore il giudizio del resto. Scrive, dunque, il Sig. Galileo in tal maniera alla facc. 63 ↑ della prima impressione, 68 della seconda ↓ [pag. 130, lin. 10-24]: E qui non so scorger la cagione, per la quale Aristotile, vedendo che il moto all'in giù, dello stesso mobile, è più veloce nell'aria che nell'acqua, non ci abbia fatti cauti che del moto contrario deve accader l'opposito di necessità, cioè ch'ei sia più veloce nell'acqua che nell'aria: perchè, avvenga che il mobile, che descende, più velocemente si muove per l'aria che per l'acqua, se noi c'immagineremo che la sua gravità si vada gradatamente diminuendo, egli prima diverrà tale che, scendendo velocemente per l'aria, tardissimamente scenderà nell'acqua; di poi potrà esser tale che, scendendo pure ancora per l'aria, ascenda nell'acqua; e fatto ancora men grave, ascenderà velocemente per l'acqua, e pure descenderà ancora per l'aria; e in somma, avanti che ei cominci a poter ascendere, benchè tardissimamente, per l'aria, velocissimamente sormonterà per l'acqua. Come dunque è vero, che quel che si muove all'in su, più velocemente si muova per l'aria che per l'acqua? Ma il Sig. Grazia volendo referir la medesima cosa per venir poi a confutarla, scrive così alla facc. 72 [pag. 428, lin. 25-32]: Ed al primo (argomento del Sig. Galileo) rispondendo, il qual è che essendo il movimento all'in giù più veloce nell'aria che nell'acqua, doverà, per la contraria cagione, il movimento all'in su esser più veloce nell'acqua che nell'aria; imperochè i mobili che hanno gravità, quanto più s'accostano al termine proprio, tanto diminuiscono di gravità; e perciò si crede egli che i mobili gravi si muovono più velocemente nell'aria che nell'acqua, onde adiverrebbe che ancora i mobili che hanno leggerezza si dovessino muovere più velocemente nell'acqua che nell'aria. Or veggasi se qui è pur un minimo vestigio onde si possa arguire che il Sig. Grazia abbia capito niente della dimostrazione del Sig. Galileo: e senza che io m'affatichi in reprovar ciò che egli oppone in contrario, che sarebbe impresa immensa, ma vanissima, credo che ogn'uno molto bene intenderà, che a quello che altri non intende punto, non si può oppor cosa alcuna, se non lontanissima dal proposito. Lascierò parimente che altri giudichi da questo, quanto il Sig. Grazia abbia intese tante altre dimostrazioni del Sig. Galileo, che egli ha tralasciate, e che sono per lor natura molto più difficili ad essere intese che questa non è.
luoghi senza senso, o di senso contrario all'intenzion
del sig. grazia, o esorbitanze manifeste.
Tra i luoghi, che il Sig. Grazia scrive, che sono senza senso o l'hanno contrario all'intenzion sua, veggasi quello che egli scrive a facc. 9 [pag. 381], dove primamente egli forma questa deduzzione: Il ghiaccio soprannuota nell'acqua, perchè e' non è più leggieri della materia della quale egli si produce. Le parole precise son queste [lin. 2-5]: Chi considera a quella quantità d'aria che nel ghiaccio si racchiude, agevolmente si accorgerà, il ghiaccio non esser più leggieri della materia della quale egli si produce. Onde avviene che egli nell'acqua soprannuota. Ma se questa conseguenza del Sig. Grazia fosse buona, bisognerebbe che 'l piombo, l'oro e mill'altre cose gravissime galleggiassero, perchè io non credo che l'oro o 'l piombo sien più leggieri della materia della quale e' si producono. Segue poi dicendo [lin. 6-8] che chi vedesse l'aria e l'acqua che concorrono a compor il ghiaccio, si accorgerebbe che molto minor luogo dal ghiaccio che da quelle vien occupato. Ma se quest'acqua e quest'aria non si veggono, come ha potuto il Sig. Grazia accorgersi che il ghiaccio occupi minor luogo di quelle? e se si possono vedere, perchè non ci ha insegnato il modo di misurarle? il che era tanto più necessario, quanto par grand'assurdo che un corpo occupi minor spazio che le parti delle quali egli è composto.
Aggiugne nell'istesso luogo alcune altre parole, le quali o mancano di sentimento, o se pur lo hanno, par contrario all'intenzione dell'Autore, Le parole son queste [pag. 381, lin. 8-12]: Molto più si uniscono le cose umide che le aride; onde il ferro, benchè sia di più terrestre materia che 'l piombo, e perciò dovrebbe esser più grave, nondimeno, perchè le particelle del piombo essendo più umide e per questo più unite, in gravità da quello è superato; la qual cosa nel ghiaccio ancora potrebbe seguire. Qui non solo manca la costruzione gramaticale, come ciascuno che vi applichi la mente può conoscere, ma non vi è senso reale; e se nulla se ne può ritrarre, è che molto più s'uniscono le cose umide che le aride, la qual cosa nel ghiaccio ancora potrebbe seguire, cioè che egli molto più fosse unito quando era umido che mentre è arido; il che è poi direttamente contrario al Sig. Grazia e conforme al Sig. Galileo, se già il Sig. Grazia non volesse affermare che il ghiaccio sia più umido dell'acqua, e l'acqua più arida del ghiaccio. Nientedimeno da questi discorsi ne conclude il Sig. Grazia, esser manifesto che le ragioni del Sig. Galileo non a bastanza dimostrano, il ghiaccio esser acqua rarefatta.
Manca il senso e la costruzione in quello che egli scrive a facc. 16 [pag. 386, lin. 2-4], dicendo: Quanto alla prima descrizione, che due pesi di mole eguali, che egualmente pesino, sieno eguali di gravità in specie, cioè, mi credo io, che sieno d'una medesima specie di gravità; il che se così è, non è al tutto vero: imperochè etc.
Un comparativo senza il termine a cui si referisce si vede a facc. 18 [pag. 387, lin. 23-24], in quelle parole: una zolla di terra, essendo eguale di mole e di peso, sarà della medesima gravità di numero; dove non si vede a chi quella zolla di terra deva essere eguale di mole e peso. Forse volse dire: Due zolle di terra, essendo eguali di mole e di peso, saranno della medesima gravità in numero. Questo medesimo errore si legge alla facc. 50 [pag. 412, lin. 22-23], dove egli scrive così: Ponghiamo che un mobile, eguale di peso e di figura, si deva muovere etc., dove non si trova a chi detto mobile deva esser eguale di peso e figura, ed in conseguenza non ci è senso; se già il Sig. Grazia non avesse voluto intendere che il peso fusse eguale alla figura.
Con difficoltà si cava il senso da quel che si legge alla facc. 25 [pag. 392, lin. 33 – pag. 393, lin. 8], dalle parole: Queste sono le ragioni etc., sino a: però passo. Ma quello che più importa è il vedere il Sig. Grazia impugnare un autore, ed insieme dichiararsi di non l'aver mai veduto. Aveva scritto il Sig. Galileo che il Buonamico non aveva atterrate le supposizioni di Archimede: replica il Sig. Grazia, quelle essere assai atterrate mentr'egli adduce Aristotile, che tutti questi principii d'Archimede aveva atterrati: nel ricercar poi quali sieno questi principii d'Archimede atterrati da Aristotile, veggo esser attribuito ad Archimede, come suo principio, il voler che gli elementi superiori si movessero all'in su da gli elementi più gravi; il qual pronunziato, dice il Sig. Grazia essere inconveniente alla natura, essendo manifesto che si muovono dalla lor leggerezza. Ma, con pace del Sig. Grazia, Archimede non ha mai detto, non che supposto, che gli elementi superiori sien mossi all'in su da gli elementi più gravi, anzi egli non tratta mai nè di aria nè di fuoco, ma solo di corpi solidi che sien posti in acqua; ed il principio che Archimede suppone, è che la natura dell'acqua sia tale, che le parti di essa che fussero premute e aggravate più dell'altre, non restino ferme, ma si muovino e scaccino le manco premute; in confutazion del qual principio non si trova pur una parola nè in Aristotile nè nel Buonamico. È parimente falso quello che soggiugne il Sig. Grazia, che Archimede tolga dagli elementi la leggerezza positiva, della quale egli non parla, come cosa che non aveva che far nulla al suo proposito. Ben è vero che chi averà intesa la dottrina d'Archimede, intenderà poi ancora le ragioni intrinseche del muoversi in su e in giù tutti i corpi, e discorrendo potrà penetrare quanto vanamente s'introduca la leggerezza positiva, se ben al Sig. Grazia par cosa tanto fermamente dimostrata da Aristotile.
Quello che segue appresso e nella facc. 26 [pag. 393, lin. 8-38], è così pieno di esorbitanze, che a considerarle e confutarle tutte sarebbe impresa troppo lunga; però mi contenterò di resecar le parole, e di rimuover d'errore chi insieme col Sig. Grazia vi fusse incorso. Si va in questo luogo affaticando il Sig. Grazia per mantener per vera istoria, e non per cosa favolosa, che in Siria si trovi veramente un lago di acqua, e acqua del comune elemento, così viscosa, che i mattoni buttativi dentro non vi posson andar al fondo; e contende che questo effetto venga dalla viscosità, e non dalla gravità di tal acqua, come aveva detto Seneca e come bisognerebbe che fusse, conforme alla dottrina d'Archimede e del Sig. Galileo, quando l'effetto fusse vero. Ora io non vorrei altro se non che il Sig. Grazia con acqua e colla, che è delle più viscose materie che noi abbiamo, s'ingegnasse di fare una mistura così tenace, che un mattone gettatovi dentro non si affondasse; e succeduto che gli fosse il farla, vorrei che egli ben considerasse a qual grado di tenacità o viscosità gli fusse bisognato arrivare, acciò l'effetto ne seguisse: che certo io credo che muterebbe fantasia in chiamar acqua del comune elemento quella che in sè contenesse tal grado di viscosità, e nella quale i mattoni interi non possono affondarsi; dove, all'incontro, nell'acqua comune descendono le minuzie impalpabili della terra, come si vede nel rischiararsi le acque torbide. All'incontro vorrei che si rappresentasse alla mente, come non solo un mattone, ma un'ancudine, e un pezzo di piombo di 100 libbre, gettato nell'argento vivo galleggia; e pure se si tratterà con mano l'argento vivo, non credo che si sentirà molta viscosità, ma si troverà ben gravissimo più del ferro e del piombo. E quando ciò non bastasse a persuadergli, la gravità del mezzo esser causa che i corpi men gravi non descendono in esso, comincerei a diffidar del tutto della mia persuasiva. Che poi il Sig. Galileo abbia per favoloso, in Siria esser un tal lago, lo credo, e credo ancora che egli abbia molti compagni, e che sendovi forse un'acqua alquanto più grave della comune, dove qualche corpo poco più grave di quelli che galleggiano nell'acque nostre non descenda, la fama poi, secondo il suo stile, abbia accresciuto il fatto in maniera, che egli ne sia divenuto favoloso; segno di che ci può esser, che un moderno poeta, parlando del medesimo lago, dice che non solo i sassi, ma anco il ferro vi galleggia, volendo egli ancora far maggior la meraviglia.
Chi caverà senso dalle parole che si leggono alla facc. 73 [pag. 429, lin. 24-27], seguendo dopo un punto fermo in tal maniera: Onde temo che il Sig. Galileo non abbi d'una cosa in un'altra, cioè dalla gravità respettiva alla gravità assoluta, e dalla velocità che depende dalla resistenza a quella che della maggiore inclinazione, che non è altro se non far molti sofismi a simpliciter a quodammodo?
Il Fine.
Il Sig. Francesco Nori vegga per grazia la presente Opera, e referisca se in essa si contiene cosa che sia contro la Fede Catolica e contro i buoni costumi.
Orazio Quaratesi vic. sost. di Firenze.
Adì 11 d'Ottobre 1614.
Avendo veduta la presente Opera, mi pare che si possa conceder licenza che sia data in luce, e la giudico degna delle stampe.
Francesco Nori Canonico Fiorentino.
Attesa la premessa relazione, concediamo che la soprascritta Opera si possa stampare in Firenze, osservati gli ordini soliti. Il dì 13 Ottobre 1614.
Pietro Nicolini Vicario di Firenze.
Al P. M. Girolamo de' Servi, per il Santo Off. di Firenze. Il dì 15 Ottobre 1614.
F. Cornelio Inquisitore di Firenze.
Nella presente Opera da me rivista per il Santo Off., d'ordine del R. P. Inquisitor, non ho trovato cosa che repugni alla pietà Christiana nè alli buon costumi.
F. Girolamo de' Servi.
F. Cornelio Inquisitore di Firenze. 19 Ottobre 1614.
Si stampi secondo gli ordini, questo dì 25 d'Ottobre 1614.
Nicolò dell'Antella.
FINE DEL VOLUME QUARTO.