Considero finalmente la similitudine che voi producete, e quanto ella ben s'assesti al vostro proposito. Voi scrivete [pag. 334, lin. 35-40]: sì come il rodere e consumar che fa l'acqua continuamente scorrendo e percotendo su la pietra, perchè si fa adagio e con lungo tempo, non appare, nè si vede la resistenza alla divisione del continuo della pietra, ancor che vi sia e molto maggiore che quella dell'acqua contro alla nave; adunque, perchè non apparisce, non sarà vero? Vedete, per tanto, quello che vagliono i vostri argomenti: non ad altro che a convincer voi medesimo. L'esorbitanze che si contengono in queste poche parole son tante e sì diverse, che io mi confondo nel cominciare a farle palesi.
E prima, come è possibile che voi trapassiate, senza accorgervene, discordanze così grandi, qual è il dir che il roder dell'acqua, percotendo su la pietra, non appare, nè si vede la resistenza alla divisione nella pietra, ancor che ella vi sia? non vedete voi che il non apparire 'l roder dell'acqua è appunto un far vedere la resistenza grandissima della pietra? e che allora appunto non si vedrebbe la resistenza, quando il roder fosse manifesto? ↑ Come, dunque, accoppiate voi 'nsieme che 'l roder dell'acqua e 'l resister della pietra di pari non appariscono? ↓
Secondariamente, voi, Sig. Colombo, che in questo luogo non avete altro scopo che 'l mostrar, ritrovarsi nell'acqua resistenza all'esser divisa dalla falda d'ebano o di piombo, con qual avvedimento andate portando in campo che le pietre si lascino dividere e roder dall'acqua, e confessando la resistenza della pietra esser molto maggiore di quella dell'acqua? Chi volete che vi creda che l'acqua resista a quel che non resiston le pietre? Direte forse che per resistere non intendete una resistenza assoluta e totale, ma resistere per qualche tempo e non si lasciare penetrare se non con tardità? Tutto bene: ma una tal resistenza che utile arreca alla causa vostra? Non vedete voi che per fermar la falda di piombo bisogna una resistenza che non gli ceda mai? e che il cedere adagio non annulla, ma solamente ritarda, il moto?
Terzo, come vi sete voi così presto scordato de' luoghi da' quali cavavi gli argomenti per mostrar, l'acqua esser un continuo, tra' quali era il continuar le materie discontinuate, come la farina, etc.? Ma se ora voi conoscete che ella discontinua sino a' marmi, in che modo potrete voi dir che ella non sia discontinuatissima? e perchè non conglutin'ella le particelle del marmo più che prima? Bisogna, dunque, o che la vostra regola non sia vera, o che la vostra conclusione sia falsa. Direte poi che 'l Sig. Galileo si dà da per sè della scure sul piede.
Quarto, io vorrei, Sig. Colombo, che voi v'accorgeste che, mentre vi travagliate di provar che nell'acqua possa esser una resistenza, ancor che non apparisca esservi, vi affaticate in vano, tentando di far quello che è impossibile ad esser fatto, e vi abbagliate in un equivoco, immaginandovi che, sì come può esser che una cosa non resista a qualche azzione e niente dimeno apparisca resistere, com'accade nel marmo contro al roder dell'acqua, così possa accadere, alcuna cosa resister a qualche operazione, benchè sembri non resistere; il che è falso, essendo il non resistere movimento, e 'l resistere quiete. Però per vostra intelligenza dovete notare, che può bene accadere, e continuamente accade, che una cosa si muova e apparisca star ferma, come avviene nel raggio dell'orivolo o nella stella polare, che sembrano, a chiunque gli rimira, star fermi, mercè della lor tardità, se ben sono in continuo movimento; ma non può già accadere che una cosa che veramente stia ferma ci paia muoversi, il che dall'esperienza e dalla ragione ci vien dimostrato, imperochè se quello che veramente si muove, ma lentamente, ci appar fermo, qual ci apparirebb'egli se veramente stesse immobile? certo che non si può dire che egli apparisse muoversi, perchè se questo fusse, l'altro che lentamente si moveva, molto più ci apparirebbe muoversi. Ora, Sig. Colombo, il non resistere è moto, perchè quello che cede alla divisione o alla pulsione si muove; ma il resistere è quiete, perchè quello che non si lascia dividere o spingere resta in quiete: e però, essendo la non resistenza moto, può dissimularsi e apparir resistere, come avverrebbe quando la trave tirata dal capello andasse adagissimo, che apparirebbe star ferma, e in conseguenza la non resistenza dell'acqua sembrerebbe resistenza; ma perchè la resistenza è quiete, non può dissimularsi e apparir moto; e però una cosa che resista alla divisione o alla pulsione non ci può mai apparir non resistere, ↑ e il porfido che non sia roso dall'acqua non ci apparirà mai roso, e una pietra che non sia fessa non ci parrà mai fessa, ↓ È dunque impossibile che l'acqua resista alla divisione, e apparisca non resistere; ma è necessario che apparendo non resistere, in lei veramente non sia resistenza.
Quinto, io mi sono affaticato assai per ritrovar l'applicazione della vostra similitudine al proposito di che si tratta, e finalmente non la so trovare se non molto stravolta. Voi sete sul maneggio di voler mostrar, nell'acqua esser resistenza alla divisione, se ben non apparisce d'esservi; e dite ciò accader come il roder dell'acqua nella pietra, che per la tardità non appare, nè si vede la resistenza alla divisione di essa pietra, ben che grandissima e molto maggiore che quella dell'acqua contro alla nave. Questa similitudine ha due parti: l'una è il roder dell'acqua, non apparente per la tardità; l'altra è la resistenza della pietra, impercettibile essa ancora, ben che grandissima. Di queste due parti (perchè io non so ben intendere quale voi applichiate al vostro particolare) ho tentato di adattarvi or l'una or l'altra, nè d'alcuna m'è riuscito. Imperochè s'io voglio dire: «Sì come il roder che fa l'acqua le pietre è, se ben per la tardità non appare, così la resistenza dell'acqua contro alla divisione della trave è, se ben non apparisce», dico un grande sproposito; perchè il rodere, essendo moto, può non apparire per la sua tardità, ma la resistenza alla divisione, che è quiete, non può mai essere e non apparire; ↑ e sarebbe ben cosa più che stravagante, che la tavoletta non descendesse per l'acqua dividendola, e apparisse descendervi. ↓ Ma se io, pigliando l'altra parte, dirò: «Come la resistenza della pietra alla divisione, benchè grandissima, non si vede, e pur è, così la tanto minore resistenza dell'acqua alla divisione può ben non apparire, ed esservi», commetterò un paralogismo molto maggiore: perchè non essendo la resistenza assolutamente e per sè stessa comprensibile, ma solamente misurabile dall'effetto che in lei produce una violenza esterna, è manifesto che quanto essa resistenza sarà maggiore, tanto l'effetto prodotto in lei dalla forza esteriore sarà men cospicuo, e, all'incontro, più evidente e maggiore sarà quello che da cotal forza sarà prodotto in resistenza minore; e però quanto è maggiore la resistenza alla divisione nel marmo che nell'acqua, tanto meno apparente sarà l'operazione della violenza nel marmo che nell'acqua: onde chi dicesse: «Se la resistenza del marmo, che è grandissima, non si vede, e pur vi è, quella dell'acqua, che è tanto minore, potrà molto meno apparire, e esservi», discorrerebbe a rovescio, nè concluderebbe cosa veruna; perchè appunto per esser la resistenza del marmo grandissima, poco ha da apparire in lui il roder dell'acqua; ma ben la resistenza dell'acqua alla divisione, essendo debolissima in comparazion di quella della pietra, dovrà tosto manifestar l'effetto che fa in lei la violenza della trave. Vedete dunque, Sig. Colombo, come giudicando voi, come pur fate, la resistenza della pietra dal tardo effetto che in lei fa il perquoter dell'acqua, e misurando la resistenza dell'acqua dall'esser divisa dalla trave, quella può esser grandissima e non apparente, e questa tanto più cospicua quanto più piccola.
Facc. 24, v. 4 [pag. 335, lin. 1-4]: L'aggiunta all'esemplo dell'acque torbide non conchiude, perchè l'argomento è fallace. La ragion della fallacia consiste in voler che la resistenza alla divisione importi non si lasciar dividere da forza alcuna, o vogliàn dire, assolutamente resistere.
Continua il Sig. Colombo di frequentare il sesto artifizio, fingendo d'intendere il Sig. Galileo al contrario di quello che da lui è stato scritto; ed essendo egli solo a errare, impone al Sig. Galileo mancamenti tanto grandi, che mi necessitano a credere che l'istesso Sig. Colombo non gl'intenda, perchè s'ei conoscesse la lor somma esorbitanza, non ardirebbe d'attribuirgli al Sig. Galileo, con rischio manifesto che l'impostura fusse tosto conosciuta, essendo troppo inverisimile che egli o altri, che non fusse stolto affatto, gli potesse aver commessi.
Voi, Sig. Colombo, ascrivete al Sig. Galileo il voler che la resistenza alla divisione importi non si lasciar dividere da forza alcuna? quasi che egli pretenda di aver vinta la disputa tutta volta che o i suoi avversarii non mostrassero una tal resistenza esser nell'acqua, o egli provasse che ella non vi fusse? Ma, Sig. Colombo, una resistenza che non si lasci divider da forza alcuna, è una resistenza smisurata; e per provar che una simile non resiede nell'acqua, basta mostrar che ella si lascia dividere da colpi d'artiglieria e da una macine che vi cadesse dal concavo della luna. Or voi, che pur ancora avete per le mani le prove e esperienze prodotte dal Sig. Galileo, le quali si riducono all'insensibil forza de gl'impalpabili atomi di terra, alla minima robustezza di un capello traente per l'acqua una trave, a un minimo grano di piombo che, posto o tratto, caccia in fondo o lascia sormontare una larghissima falda; sopra qual verisimile potete pretender di fondarvi, per far credere che 'l Sig. Galileo abbia voluto che la resistenza alla divisione nell'acqua importi non si lasciar divider da forz'alcuna? Come non vedete voi che queste prove tendono a dimostrar, nell'acqua non essere resistenza tale, che non sia superata da ogni debolissima forza? Raddirizzando dunque 'l vostro equivoco, intendete che 'l Sig. Galileo ha preteso che chi vorrà persuader altrui, nell'acqua trovarsi resistenza alla divisione, sia in obligo di far vedere alcuna forza dalla quale l'acqua non si lasci dividere, e non, come dite voi, sia in obbligo di far veder che l'acqua non si lasci dividere da forz'alcuna; e ha, di più, preteso con gran ragione di poter affermar, nell'acqua non esser veramente resistenza alcuna alla semplice divisione, ogni volta che non si possa trovar forza nissuna, almeno debolissima, dalla quale tal resistenza non venga superata.
Passo a un'altra fallacia, nella quale in questo medesimo luogo vi avviluppate, o vero cercate di avviluppare il lettore: e questa è che voi proponete una distinzione di dividenti e divisibili, dicendo che, secondo le diverse forze del dividente, può il divisibile o non esser diviso o esser diviso più presto o più tardi; poi vi andate allargando in certo esempio di carne cruda e di carne cotta, e senza più tornare al principal proposito, lasciate il lettore nella nebbia, con speranza che egli, avendovi perso di vista, possa credere che voi siate camminato per buona strada, bench'e' non ne vegga la riuscita. Onde io, ripigliando la vostra incominciata distinzione, e concedendovi esser benissimo detto che i corpi veramente resistenti alla divisione, ad alcune forze posson resistere totalmente, ad altre maggiori cedere e lasciarsi divider lentamente, ad altre presto; concedute, dico, tutte queste cose, vi domando l'applicazione al vostro proposito, e che mi diciate come queste distinzioni s'adattino alla resistenza dell'acqua. Credo che voi non potrete sfuggir di concedere, che l'acqua si lascia prestamente dividere da i solidi molto gravi e di figura raccolta, più tardamente da i men gravi o di figura larga: ma questo lasciarsi divider presto o lentamente, credete voi che basti per la tavoletta d'ebano o per la falda di piombo, che galleggiano e si fermano senza discender mai? Non vedete voi che a tòr del tutto 'l moto a questi dividenti, ci vuol di quella prima resistenza, che vieta assolutamente la divisione? cioè ci bisogna, come dice il Sig. Galileo, mostrare che nell'acqua si ritrovi resistenza tale, che da qualche forza non si lasci dividere, e che una tal resistenza sia quella che si oppone alla tavoletta. Vedete ora se la fallacia è nel Sig. Galileo o in voi: la quale io ho voluta mostrare, non perchè io creda che non l'aveste benissimo conosciuta, anzi tanto meglio de gli altri quanto che ella è fabbricata da voi, ma per far avvisato tanto maggiormente il lettore di qual sorte di cose voi vi mettete a scrivere, per dar alle contradizioni numero, non se gli potendo dar valore.
A quello che in ultimo di questa considerazione soggiugnete, che se il Sig. Galileo intendesse della total resistenza non farebbe a proposito e sarebbe contro alla sua dottrina, che afferma, dov'è la resistenza assoluta esservi anco la rispettiva; vi rispondo (se ben veramente poca sustanza so cavar dalle proposte) che se voi per resistenza totale intendete una resistenza che non si lasci superar da forza nessuna, questa non si trovando, che io sappia, in corpo nessuno, al sicuro non può aver che fare nè in questo ne in altro proposito, nè mai, come si è detto, è stata pretesa dal Sig. Galileo come necessaria a gli avversarii per difesa e mantenimento della loro opinione: ma se per resistenza totale s'intenderà una che a qualche forza resista totalmente, questa è ben più che necessaria al proposito di chi vorrà sostenere che l'assicella d'ebano si fermi (dico si fermi, e non dico si muova lentamente) sopra l'acqua per la resistenza alla divisione. Che poi questa possa contrariare alla dottrina del Sig. Galileo, o che ella togga l'esser il rispettivo dove è l'assoluto, non so veder che sia punto vero; perchè la dottrina del Sig. Galileo insegna, nell'acqua non esser resistenza nessuna assolutamente, e però, mancandoci l'assoluto, non occorre ricercarci il respettivo.
Facc. 24, v. 20 [pag. 335, lin. 15-16]: Signori lettori, l'avversario mio comincia dolcemente a calar le vele e rendersi vinto etc., esclama il Sig. Colombo contro al Sig. Galileo: e perchè l'esclamazione è delle più veementi che abbia usate, è necessario che l'occasione di gridar per vinto il suo avversario sia delle maggiori che da esso sieno state incontrate; però sarà bene specificarla chiaramente, acciò dallo sproposito e vanità di questa possa ciascuno argomentar l'occasioni dell'altre, e tanto maggiormente assicurarsì come al Sig. Colombo basta farsi vivo con lo strepitare e col far volume.
Già il Sig. Galileo con molte e concludenti esperienze aveva provato, nell'acqua non si trovar alcuna sensibil resistenza alla divisione; e questo bastava di soverchio per il suo proposito, cioè per manifestar come all'assicella d'ebano non vien impedita la scesa da una tal resistenza, vedendosi massime, la virtù che la ferma esser non solamente molto sensibile, ma grande ancora, potendo ella, secondo la sua ampiezza e sottigliezza, regger molto peso che la calchi. Tanto, dico, bastava al Sig. Galileo, nè punto progiudicava o progiudica alla sua ragione, che l'acqua sia o non sia un corpo continuo o discontinuato: di maniera che il dir egli di poi d'inclinar a creder che l'acqua sia discontinuata, non solamente non debilita o snerva la sua prima determinazione, come vorrebbe persuader il Sig. Colombo, ma è un nuovo soprabbondante stabilimento; perchè, se quando ben l'acqua fusse continua, ciò niente nocerebbe alla causa principal del Sig. Galileo, poichè le sue esperienze mostrano come ella non resiste alla divisione, chi non vede che 'l dire, che egli fa, d'inclinare a creder ch'ella nè anco sia continua, non è un ritirarsi indietro, ma un maggiormente confermar il primo detto? Su che occasione, dunque, convocate voi, Sig. Colombo, i lettori a veder calar dolcemente le vele al vostro avversario, a vederlo cedere, a vederlo arrenare? termini che odorano più del Vecchio che del Nuovo Mercato. Ma se forse vi paresse freddezza biasimevole in uno studioso delle cagioni naturali l'andar tal ora dubitando, e vi gustasse più un'ardita resolutezza per la quale mai non si dubiti di nulla, potete ben di questo accusare il Sig. Galileo, il quale vi confesserà liberamente di stare i mesi e gli anni inrisoluto sopra un problema naturale, e di infiniti esser totalmente fuor di speranza d'esser per conseguirne scienza; e credo che senza invidia rimirerà quelli che volano, ed in un subito si credono d'internarsi sino a i più intimi segreti di natura. Dovreste bene almanco in questo particolare della costituzione de' fluidi scusar la sua irresolutezza, non havend'egli veduta dimostrata nè da Aristotile nè da altri filosofi: ma ora che (come voi medesimo scrivete in questo luogo, in difetto che non si trovasse altri che lo dicesse) egli da' vostri scritti, dove s'è provato efficacissimamente l'acqua esser continua, conoscerà la ragione che lo moveva a creder altramente esser senza fondamento, se ben non conosciuta da lui per tale, forse muterà opinione, e le vostre ragioni opereranno in lui quello che non hanno operato in me. Ma io ho più presto paura che voi senza necessità vi siate andato intrigando in voler provar, l'acqua esser un corpo continuo; perchè, quando vi fusse succeduto o vi potesse succedere il persuaderlo, non v'accorgete voi in quanto maggiori difficoltà vi trovereste immerso, mentre non potete poi in modo alcuno atterrar l'esperienze troppo manifeste che mostrano, nell'acqua non ritrovarsi resistenza alcuna alla divisione? ↑ L'intender che in un aggregato di particelle minime e divise non sia resistenza veruna alla divisione, è cosa più che agevolissima, poichè nulla vi è che a divider s'abbia; ma che in un corpo continuo si possa far la divisione senza trovarvi resistenza, è ben cosa inopinabile, e massime quando si abbia a far la divisione non con un coltello radente, ma con una trave, mossa anco per traverso. Ma voi, Sig. Colombo, vorreste, contro il retto discorso, che l'esperienze sensate e manifeste a tutti s'accomodassero alle vostre fantasie particolari; sì che, avendo voi tolto a mantener che l'acqua sia un continuo, e non si potendo in modo alcuno intender che un corpo continuo ceda senza resistenza alla divisione, volete, prima che rimuovervi d'opinione, negar l'esperienze chiare e affaticarvi in vano per mostrarle inefficaci e fuor del caso. ↓
Voi seguitate poi scrivendo [pag. 335, lin. 23-26]: Vedesi ancora che egli arrena nel sostener quella virtù calamitica, poichè egli si riduce a chiamarla un'altra virtù incomparabilmente maggiore dell'union del continuo e del resistere a separar semplicemente le parti contigue del corpo, qualunque ella si sia. Veramente è cosa inestimabile la vostra resoluzione nel ridursi a scriver cose tanto lontane dal vero, e delle quali la confutazione sta in fatto, nè ha bisogno di maggior sottigliezza del riscontrare i luoghi del Sig. Galileo da voi allegati: da' quali prima si può intendere che egli mai non fa fondamento su virtù calamitica; ed è falsissimo che egli nomini, come voi gl'imponete, virtù nessuna incomparabilmente maggiore dell'union del continuo; nè dice altro, se non che a dividere una massa d'argento in due parti, ci vuol forza incomparabilmente maggior di quella che basta poi a muoverle di luogo, divise che sieno; che tanto è quanto a dir che la resistenza alla division delle parti del continuo (posto per ora che una massa d'argento fusse un continuo) è incomparabilmente maggiore della resistenza delle medesime parti divise all'esser semplicemente mosse. Come, dunque, gl'imputate voi cosa tanto contraria? e come potrete asconder l'intenzion vostra di scriver solamente per quelli che non leggono più là del titolo de' libri? ↑ e se pure è vero che voi veramente non intendiate queste cose manifestissime, come potrete persuadere d'esser capace d'altre intelligenze? ↓
Seguitate poi di scrivere che in questo suo arrenare e' confessa la resistenza alla divisione del continuo, oltre a quella della separazione delle parti contigue solamente. Ma quando ha egli negata tal cosa? ↑ quando ha egli mai detto che un corpo continuo non resistesse all'esser diviso? ↓ e voi per ciò che volete inferire? Ma scusatemi, che ora m'accorgo dove tende la vostra mira. Voi vorreste che 'l lettore si formasse adesso questo concetto universale, che il Sig. Galileo ammette in questo luogo la resistenza alla divisione nelle parti del continuo, arrenando per la contradizione d'aver negata tal resistenza nel particolar dell'acqua. Ma voi supponete ben di parlare a gente tanto grossolana, che Dio voglia che se ne sia per trovar di così scempia ↑ quanto richiederebbe 'l vostro bisogno, ↓ sì che ella non si ricordi che il Sig. Galileo tien che l'acqua non sia un continuo, e che però la contradizione non abbia luogo in lui, ma sì bene i gavilli in voi. A i quali proccurate di aggiugnerne un altro, e far credere che il Sig. Galileo si renda anco vinto nel conceder che l'assicella d'ebano galleggi senza divider l'acqua, scrivendo voi in certa maniera confusetta, nella quale chiaramente si scorge che voi vorreste poter imprimer nel lettore concetto che il Sig. Galileo si fusse intrigato, e nell'istesso tempo vorreste salvarvi qualche ritirata, caso che l'artifizio non facesse colpo; e però dite: anzi che egli concede che l'assicella galleggi e non divida l'acqua, ma non per causa della resistenza alla divisione del continuo: dove quelle parole e non divida l'acqua vorreste che fossero prese come se importassero che ella non possa dividere l'acqua e che ella galleggi senza penetrarla, contr'a quello che il Sig. Galileo ha detto molt'altre volte e che veramente dice anco adesso, che è che l'assicella non divide l'acqua, non già che ella non la penetri e non ci si demerga tutta, ma non divide perchè tal effetto nell'acqua non si chiama dividere, non si dividendo in lei cosa alcuna, perchè è divisissima al possibile e discontinuatissima: e le parole del Sig. Galileo son tali: Muovono dunque solamente, e non dividono, i corpi solidi che si pongono nell'acqua, le cui parti già son divise sino a i minimi; talchè, Sig. Colombo, com'ho detto ancora, bisogna ben che quelli che hanno a esser persuasi da i vostri artifizii sien semplici a fatto, nè abbino pur letto il trattato del Sig. Galileo. Con tutti questi inverisimili, voi ad ogni modo non diffidate di concludere che egli mille volte il dì vuole e disvuole.
Facc. 24, v. 36 [pag. 335, lin. 28-29]: Perchè gli piacciono le novità etc.
Che al Sig. Galileo piaccinole novità, non lo nego, anzi lo tengo per verissimo, e credo che egli studi per ritrovarne, compiacendosi mirabilmente nelle invenzioni; e per ciò scrivendo, scrive solo il suo ritrovato, reputandosi a vergogna il copiare quel d'altri, essendo quello utile, e questo superfluo e vano.
Facc. 25, v. 3 [pag. 335, lin. 38-40]: Si risponde a questo poco di dubbio, che la figura si deve considerar congiunta alla materia con tutte le sue passioni, come voi medesimo concedete etc.
Ma si risponde molto male, mentre, rinovando gli errori contro la propria dottrina, induce di nuovo la siccità ↑ come ↓cagione del galleggiare; e per ciò voglio più minutamente considerare l'insufficienza di questa risposta.
E prima, il dire che si deve considerar la figura congiunta alla materia con tutte le sue passioni, è grande sproposito; perchè moltissime son le passioni della materia che non hanno che far nulla intorno all'effetto di che si tratta, come sarebbe l'esser nera ↑ o ↓ verde, dolce ↑ o ↓amara, e 'nfinite altre; anzi, di più, non solo è superfluo il prenderle tutte, ma il prenderne qualunque si sia che non fusse necessaria all'effetto di cui si cerca la cagione. In oltre io considero, che mentre il Sig. Colombo vuole che sipigli la materia congiunta con tutte le sue passioni, fa un errore grossissimo: ed è, che ricercando io da Aristotile qual sia la passione che congiunta con il piombo fa che ei galleggia, e avendomi egli detto che è la figura, e dopo avendomi il Sig. Galileo dimostrato non essere la figura, viene il Sig. Colombo e dico (pretendendo dichiarare e difendere Aristotile) che bisogna, per saper quel che si cerca, pigliar la materia con tutte le sue passioni. E chi è quell'ignorante che non sappia che, pigliandole tutte, si piglia ancoquella che è cagion dell'effetto? e chi non vede che da questa risposta chi desidera sapere non guadagna nulla? perchè era chiaro per avanti, senza che il Sig. Colombo ce ne facesse avvertiti, che il piombo preso con tutte le passioni che egli ha mentre galleggia, ha ben ancora quella che lo fa galleggiare. Vanissima, dunque, è questa risposta, perchè niuna cognizione arreca a gl'investigatori del vero. E mentre Aristotile ha assegnata una cagione del galleggiare delle falde gravi, che è l'esser congiunte con figura larga impotente alla divisione, è segno che non ne sapeva altra; e se avesse saputa quella della siccità, l'avrebbe senza dubbio nominata, perchè non era gran misterio nè fatica il farne menzione. Considero ancora, che avendo il Sig. Galileo ritrovata e mostrata la vera cagion di questo effetto, cioè l'aria rinchiusa tra gli arginetti e congiunta con le falde sotto 'l livello dell'acqua, il Sig. Colombo, non senza nota d'ingratitudine di questo insegnamento, tentando dichiarar il Sig. Galileo per ignorante, va e piglia la vera cagione ritrovata da quello, e mutandogli 'l nome la mischia con le sue, proccurando poi vendere mal condizionato e guasto quello che puro e sincero gli è stato conceduto in dono. Ma quello che maggiormente deve esser considerato, è che il Sig. Colombo domanda una cosa, e poi ne vuol un'altra molto diversa: anzi, fingendo di non voler in modo alcuno accettar quel che dice il Sig. Galileo, ricerca con istanza un'altra cosa; dico altra quanto al nome, ma in effetto vuol quello stesso che dal Sig. Galileo vien introdotto per vera cagione dell'effetto del galleggiare; e il Sig. Colombo, per non gli restar obbligato, gli vuol mutar il nome, e mascherandolo farlo parere un'altra cosa. Però acciochè l'artifizio si manifesti, quando il Sig. Colombo dimanda e vuole che la figura si prenda congiunta alla materia con tutte le sue passioni, io in nome del Sig. Galileo gliene voglio concedere; ma insieme voglio farlo consapevole che l'aria non è una passione o una qualità o accidente alcuno dell'ebano o del piombo, ma è una sustanza corporea: e però prenda pure il Sig. Colombo quante passioni e qualità egli si sa immaginare, e se non gli basta pigliar la tavoletta asciutta, tolgala arida e arsa, che tutto se gli concederà, pur che e' lasci star l'aria, che è un altro corpo; e se egli senza l'aria la farà galleggiare, abbia vinta la lite; ma s'e' non può far senza l'aria, non la dissimuli, ma ↑ liberamente la domandi, e ↓ confessi che in lei risiede la causa del galleggiare, come ha sempre detto il Sig. Galileo, e confessi insieme d'avere 'l torto. Ma quand'e' volesse pur persistere nella siccità, voglio, oltre al già detto, soggiugner qualche altro particolare, per veder di cavarlo d'errore.
E prima, perchè io conosco che la sola sua inconstanza è bastante a convincerlo, voglio in questo particolare parlar con lui. Voi dunque, Sig. Lodovico, vedendo come la figura larga ritarda 'l moto, credeste semplicemente su 'l principio che ella potesse dilatarsi tanto, che del tutto si levasse il movimento; e questo credeste accadere nelle materie più gravi dell'acqua descendenti, e non meno ancora nelle men gravi ascendenti; e perchè l'effetto che fa la dilatazione della figura, quanto al ritardamento, opera nell'istesso modo in tutti i luoghi dell'acqua, cioè tanto nelle parti superiori quanto nelle medie e nell'infime, non vi ha dubbio alcuno che aveste per fermo, la figura dilatata poter indifferentemente cagionar la quiete in tutti i luoghi: ora vedendo come è impossibile il fermar una falda di materia più grave dell'acqua altrove che nella superficie, non volete esser obbligato ad altro; ma che farete de i corpi men gravi dell'acqua, e dove gli costituirete in dilatate falde, acciò si possa al senso comprendere l'impedimento arrecatogli dalla figura, per il quale ellesi fermino? Non comprendete voi, che non potendo ciò esser fatto in luogo veruno, già avete perso la metà della lite, anzi, per meglio dire, i tre quarti? perchè arrecarsi quiete in virtù della dilatazione alle materie men gravi dell'acqua, non lo farete vedere in luogo veruno, nè verso la superficie nè circa il mezo; ne i corpi più gravi dell'acqua fate veder la quiete solo nella superficie superiore, ma nelle parti di mezo non mai: onde le conclusioni universali, comuni all'ascendere e al descendere de i leggieri e de i gravi, e in tutti i luoghi dell'acqua, che da principio furon proposte, le avete già ristrette a i corpi solopiù gravi dell'acqua, locati nella sua superficie ↑ solamente; ↓e qui dite, che dilatati in falde sono trattenutie impediti dal sommergersi. Ciò avete per un pezzo detto, con Aristotile, accader per l'impedimento delle molte parti dell'acqua che si devon divider dalsolido in larga superficie dilatato; vi è stato fatto vedere dal Sig. Galileo, ciò esser falso per molte ragioni, e in particolare perchè la medesima quantità di parti si ha da dividere per tutto, e pure non s'incontra impedimento alcuno, benchè nella superficie si trovi grandissimo: onde, stretto da grave necessità, avete cominciato a introdurre, oltre alla figura, la siccità del solido contrariante all'umidità dell'acqua, cosa non mai detta nè, per quanto si vede dal testo, pensata da Aristotile, nè da voi medesimo, se non da alcunigiorni in qua. Ma come quello che vi sete appreso al falso, quanto più parlerete, tanto maggior numerod'errori produrrete in campo. E prima, qual nuovo contrasto è questo che voi ponete tra le cose aride e l'acqua? Io non ho dubbio alcuno, che se per qualche vostro proposito voi aveste di bisogno di porre un immenso desiderio di unirsi le cose aride con le umide, affermereste niun'altra brama esser eguale a quella con la quale l'arida terra assorbe l'acqua, e quella abbraccia, e con lei avidamente si congiugne; e direste che per cotal desiderio l'acqua s'induce sino a muoversi contro a natura, come si vede mettendo il biscotto, o un panno, o anco un legno arido, parte nell'acqua, che in breve tempo si vede bagnato per grande spazio sopra 'l livello di essa acqua:talchè veramente nè voi nè altri potrà risolversi nel determinar qual delle due posizioni sia più vera,cioè che il secco appetisca l'umido e quello avidamente attragga, o pure se l'abborisca e lo fugga. In oltre, già sete ridotto a non vi poter più bastare il dire che la figura larga è causa del galleggiare, ma bisogna che ciò attribuiate alla figura larga e arida; e perchè il ritardamento del moto depende dalla figura larga senza bisogno di aridità, già si fa manifesto, la cagione della tardità e la cagione della quiete dependere da principii differentissimi, il che non areste creduto da principio così di leggieri. Ora, passando più avanti, io vi domando: Già che per fermar la falda più grave dell'acqua non basta la sola ampiezza della figura, se non se gli aggiugne la siccità ancora, tale effetto di quietare depend'egli tutto dalla siccità sola, tutto dalla figura larga sola, o pure parte dalla figura e parte dalla siccità? Se tutto dalla figura larga, a sproposito introducete la siccità, perchè tale effetto faranno le falde bagnate ancora, il che sapete esser falso: ↑ se tutto dalla siccità, grand'errore è stato d'Aristotile e d'altri il nominar la figura e tacer la siccità ↓: se parte dalla figura larga e parte dalla siccità, sete in obbligo di far vedere separatamente quello che opera la figura larga, per parte sua, senza la siccità; come sarebbe, per esempio, che un'oncia di piombo, se ben, dilatato in una falda d'un palmo quadro, non galleggia senza la siccità, egli però galleggi senza tale aiuto, disteso in due, in quattro, o in dieci palmi d'ampiezza; il che però non farete veder già mai. Ma ben per l'opposito farò io veder a voi tutte le figure galleggiare, pur che sien congiunte con questa che vi piace di chiamar siccità, anzi moltissim'altre figure galleggiar meglio che la piana; perchè se quella falda di piombo che distesa in piano galleggia, e sostien, per esempio, quattro grani di peso, voi l'incurverete in forma di mezza sfera o di superficie conica o cilindrica, ella galleggerà parimente e sosterrà molto maggior peso, nè però sarà cresciuta la sua siccità. Anzi, acciò che voi conosciate che nè l'ampiezza della figura nè la quantità della siccità hanno che far in questo negozio, io scemerò l'una e l'altra, e vi farò veder restar a galla la medesima quantità di piombo meglio che prima; perchè se si piglierà, per esempio, sei libbre di piombo e si ridurranno in una falda grossa quanto una veccia, ella non galleggerà; ma se io ne farò un catino più grosso e, in conseguenza, di minor superficie, egli galleggerà, benchè occupi manco parti d'acqua e abbia manco quantità di siccità, se però voi misurate la quantità della siccità dalla quantità della superficie asciutta, come mi par che abbiate fatto sin qui. Ma io mi aspetto che voi vogliate per l'avvenir introdur la siccità non solo della superficie del piombo, ma di tutta quell'aria che vien compresa dentro al vaso, se ben anco in altre occasioni voi vorrete che l'aria sia umida più dell'acqua stessa; e vi contenterete di dire che ci bisogni veramente quell'aria, ma non come aria, ma come ricetto di molta siccità; e in somma credo che vi ridurrete a dir tutte le cose prima che mutar opinione, come quello che, per quanto comprendo, stimate il filosofare non tendere ad altro che al non si lasciar persuader mai altra opinione che quella d'Aristotile, o che quella che fu la prima a caderci in mente.Di più, se voi osserverete quello che fa l'assicella d'ebano asciutta e quello che fa bagnata, circa l'apportar quiete, vedrete come, quando ella è asciutta, non solo si ferma, mentreè in superficie dell'acqua, ma sostien molti grani di piombo che ci si posino sopra, e potrà sostenere tal volta tanto quanto ella stessa pesa, e due e tre volte più; e all'incontro, come prima è bagnata, non solo non si ferma sostenendo tali pesi, ma descende senza quelli, anzi molti ritegni di materie leggierissime a pena basteranno a far che ella non descenda, e in somma non ci vorrà manco ritegno che se ella fosse una palla dell'istessa materia: talchè pur troppo chiaro si scorge, l'effetto del galleggiare depender tutto tutto da quell'aria congiunta sotto 'l livello dell'acqua, detta da voi siccità, e niente niente dalla figura; poi che posta questa siccità, segue l'effetto totale, e rimossa, totalmente si rimuove l'effetto. ↑ E questo particolare, che pur trae in parte origine dal vostro trovato della siccità, dovrebbe darvi chiaro argomento che il filosofare d'Aristotile non è sempre così saldo come credete: avvegna che delle due cagioniproposte da voi per far galleggiar le falde, si vede manifestamente e col senso che una, cioè la larghezza della figura, non opera sensibilmente cosa alcuna, nè voi, Sig. Colombo, potete dir altramente; l'altra poi, detta da voi siccità, opera assaissimo; con tutto ciò Aristotile, senza pur nominar questa cagione potente ed efficace, va filosofando con l'altra, vana e debolissima. ↓
E finalmente, come volete voi che l'acqua resista alla divisione dell'assicella mediante la sua umidità contrastante con la siccità di quella? Qual delle due superficie della falda deve far la divisione? non è ella la superficie di sotto? certo sì. Ma, Sig. Colombo, la superficie di sotto, quando la tavoletta galleggia, è di già bagnata; adunque tra essa e l'acqua non resta più contrasto. Direte voi forse, 'l contrasto nascer tra l'acqua e la superficie di sopra, che non si toccano? non sapete voi che senza contatto non si fa nessuna corporale operazione? E se pur voi solo fra tutti gli uomini del mondo voleste che la siccità della superior superficie contrastasse con l'umido dell'acqua ambiente senza toccarsi, perchè non séguita di calar la tavoletta ancor che l'acqua non se gli serri di sopra? o vero perchè non si ferma ella subito che pareggia 'l livello, ma si profonda quanto importa l'altezza de gli arginetti? Guardate a quanti assurdi vi convien trovar ripiego per sostenerne un solo, a favor della vostra sola immaginazione, e non perchè poss'alcun altro restar da simili fallacie persuaso.
↑ Non voglio con quest'occasione tacere una cosa assai ridicola, che segue da questa vostra dottrina. Voi dite che l'umidità dell'acqua, contrariante alla siccità dell'assicella, non la lascia sommergere come ella vorrebbe: ma quando si finisce l'abbattimento, chi resta vittorioso, Sig. Colombo, l'umido o 'l secco? è la siccità dell'ebano che vince l'umidità dell'acqua, o vero per l'opposito? Credo pure che voi porrete la vittoria dalla parte dell'umidità, poichè l'acqua bagna la falda, ma non già la falda secca l'acqua: niente dimeno voi concedete il trionfo al perditore, facendo che l'ebano, la cui siccità resta superata dall'acqua, conseguisca il penetrar l'acqua, e ottenga quello, perdente, che non potette conseguire mentre era in piede e vigoroso. Forse l'acqua, come d'animo molto generoso, dona nel mezo della vittoria all'inimico atterrato quello che egli non aveva combattendo potuto conseguire. ↓
Facc. 25, v. 14 [pag. 336, lin. 8-11]: Però fa quegli arginetti bistondi e gonfiati, come violentata dal peso della falda, la quale, per esser larga ancora, donde si cagiona compartimento di peso sopra molte più parti d'acqua, non vince la resistenza etc.
Vedesi da queste parole, e un poco più abbasso da quest'altre: Onde che meraviglia se, ben che l'altre parti dell'acqua non sien divise, la tavoletta cala al fondo ad ogni modo, quando averà superata la difficoltà di dividere il principio e la superficie? vedesi, dico, che il Sig. Colombo è di parere che la falda, quando galleggia, non abbia nè anco cominciato a dividere 'l principio e la superficie dell'acqua, ma solamente la calchi alquanto, cedendogli quella come farebbe una coltrice. Ma credo pure che dal poter, quando gli piaccia, veder una tavoletta grossa un palmo, e anco quattro, e venti, esser tutta sotto 'l livello dell'acqua, nè però profondarsi, ma sostenersi mercè dell'aria compresa tra gli arginetti, nè più nè meno che la falda del piombo, gli doverrà cessar questa fantasia, nè dovrà più persistere in voler attribuir la causa di quest'effetto all'impotenza di fender l'acqua. Anzi, s'e' volesse (siami lecito usar una sua frase) aprir gli occhi della mente, potrebbe accorgersi che la sua tavoletta d'ebano non fa mai nell'acqua maggior divisione che quando galleggia; perchè allora ha fatto nell'acqua una spaccatura larga quanto è lei, e profonda più di tutta la sua grossezza tanto quanto importa l'altezza de gli arginetti, dove che quand'ella descende non fa altra apertura che quanto basta a capir la sua mole solamente; la qual differenza importa tanto, che una falda d'oro galleggiante fa una fessura nell'acqua venti volte maggiore che quando cala in fondo. Però, Sig. Colombo, quando voi in questo luogo e altrove nominate total divisione quella che fa l'assicella descendente, e non totale anzi nè anco parziale quella che ella fa quando galleggia, dovreste dichiarar un poco più apertamente quello che in vostro linguaggio importi questa division totale, e qual misura o requisiti o termini abili voi gli assegnate; perchè di due divisioni e penetrazioni, per un ordinario si chiamerà più totale la maggiore che la minore; nè si vede ragione alcuna, se voi non l'assegnate, per la quale l'apertura fatta dalla falda mentre ella galleggia tra la profondità de gli argini si debba chiamare manco totale, che dopo che di lei ne sarà riserrata una parte, e bene spesso la maggiore, nel ricongiugnersi gli arginetti, togliendosi via tutta la cavità tra loro contenuta: e perchè non si deve credere che voi non abbiate pensato a tutte queste difficoltà, mi maraviglio che non l'abbiate risolute. Io poi, che in mille rincontri ho osservato che chi s'appiglia al falso è necessitato a dir tutte le cose non solamente non vere, ma diametralmente contrarie alla verità, credo che anco nel presente particulare quello che prima da Aristotile e poi da voi vien portato per cagione del galleggiar della falda di piombo, sia tanto falso, che per dir cosa più vicina al vero bisogni dir tutto l'opposito; perchè, sendo prima manifesto che la falda di piombo o d'oro, mentre galleggia, ha fatto nell'acqua una divisione e apertura venti volte maggiore che quando ella cala al fondo, e vedendosi appresso che ella non descende se prima non se gli serra sopra l'acqua, chi non vede che molto più conforme al vero filosoferà colui che dirà: «La falda non descende per la resistenza che fanno le parti dell'acqua al riunirsi e chiudersi dopo che sono state divise e aperte», che quello che produrrà la resistenza delle medesime parti alla divisione e penetrazione? Voi poi andate pian piano introducendo e accoppiando alcune parole e concetti de' quali io non saprei cavar la connessione e applicazione, nominando compartimenti di peso, e resistenze assolute, e crolli, e momenti, e divisioni totali, sin che entrate a scrivere alcune cose vere, ma prima scritte per l'appunto dal Sig. Galileo; e servendovi del secondo artifizio, andate innestando questi veri con le cose false e confusamente dette innanzi, acciò il lettore, restando con quest'ultimo buon sapore di verità, non torni a ruminare le fallacie di già inghiottite.
Facc. 25, v. ultimo [pag. 336, lin. 33-35]: Non si è mai negato, ne si può negare, che a cotal effetto non concorrono più cagioni: però si fa menzione della figura, come principale fra tutte l'accidentali.
Parmi che da queste parole del Sig. Colombo si possa raccòrre, che noi non siamo ancora alla metà delle cause concorrenti a produr l'effetto del galleggiare le falde di materia più grave dell'acqua; perchè dicendo egli che la figura è principale tra le accidentarie, ne séguita in conseguenza che ce ne sieno dell'altre pur accidentali, e che anco vi sien poi le essenziali, delle quali non sen'è ancora prodotta nessuna: tal che quando il Sig. Galileo si crederà d'aver finita la quistione col mostrar che la figura non ha che fare in questo negozio, il Sig. Colombo se gli farà incontro con parecchie altre cause accidentali, e poi anco, quando queste non bastassero, si verrà alle secondarie, alle istrumentali, e poi all'essenziali, mostrando come al vero e saldo filosofare bisogna aver copia grande di cause e di partiti, e non si fermar sopr'una cagion sola, come ha fatto il Sig. Galileo, mentre non ha introdotto altro che la minor gravità rispetto all'acqua.
Facc. 26, v. 7 [pag. 336, lin. 39 – pag. 337, lin. 1-3]: E se ben a bagnarla si leva la siccità e cala al fondo, senza rimuover la figura nè altro, io risponderò, prima, quel che rispondete voi, se ben voi male e io bene rispondo; cioè che non è più un'assicella d'ebano, ma un composto d'acqua e d'ebano, e il corpo si dee prender semplice, con le qualità che gli ha date la natura, e non alterarlo.
Veramente, Sig. Colombo, che questa vostra prima risposta è tanto ingegnosa, che m'ha quasi tirato dalla vostra. E per dir il vero, avete mille ragioni a non voler che 'l Sig. Galileo vi ponga legge in mano di bagnar o non bagnare l'assicella, già che a voi tocca, e non a lui, a far veder in esperienza come un solido che quanto alla gravità andrebbe in fondo, mercè della figura dilatata galleggia; e però, se ben il Sig. Galileo può ragionevolmente pretendere che si rimuova l'aria, perchè questa, per dir il vero, è una sustanza e un corpo leggiero potente a far galleggiare altro peso che un'oncia di piombo, e non è una qualità che la natura abbia data alle falde, egli non per ciò deve pretendere nel modo del levarla, nè voler che voi la leviate a modo suo, col bagnar l'assicella o con altra sua invenzione, ma deve contentarsi e bastargli che la sia levata in qualche maniera. Però, Sig. Colombo, per chiarirlo, levate pur via quell'aria che descende con la falda sotto 'l livello dell'acqua, e levatela a modo vostro, senza bagnar la tavoletta, e fategliela veder galleggiante; e poi anco, quando vi bisognasse far vedere andar al fondo alcun solido non alterato, ma semplice e con le sole qualità che la natura gli concede, non glielo lasciate già bagnare, e non gli lasciate metter le mani in quel che non gli tocca, ma fatelo veder voi congiunto con la sua natural siccità descendere sino al fondo senza immollarsi, acciò che non si possa dire che ei sia un composto d'ebano e d'acqua. Potete ben intanto, per questa volta scusarlo se egli volse pigliarsi briga di significarvi un modo assai spedito per far che l'aria non descendesse con la tavoletta sotto 'l livello dell'acqua, che fu col bagnarla; perchè io credo ch'e' lo facesse senza mira d'ingannucciare e senza pensare al disordine che ne poteva seguire, cioè che voi ancora potessi pretender, per l'opposito, che un simil solido s'avesse a mettere sott'acqua senza che ei si bagnasse.
La vostra seconda risposta non è meno ingegnosa della prima, mentre dite [pag. 337, lin. 4-7] che nè l'acqua nè la tavoletta posson mostrar la virtù loro l'una contr'all'altra, a bagnarla; perchè l'acqua trova acqua nella congiunzione, e non legno, il quale è duro e non flussibile, è tenace e secco e non umido, d'onde deve nascer l'operazione come da qualità contrarie. Queste, come dico, son acutissime considerazioni; e più concludenti ancora saranno dopo che avrete rimosse tutte le difficoltà che par che possino perturbarle, delle quali io ne andrò toccando alcuna di quelle che pur ora mi sovvengono: e già ch'e' si vede che a produr quest'effetto del galleggiare tutte le qualità contrarie che si trovino tra le falde e l'acqua fanno per voi, non vi mancheranno mai refugii dove ritirarvi per salvarvi dall'istanze dell'avversario; perchè quando egli vi destruggesse 'l contrasto tra l'umidità e la siccità, già si vede preparata la durezza della falda, contraria alla flussibilità dell'acqua; tolta questa, non sarà fuori di proposito l'addurre la trasparenza dell'acqua, contraria all'opacità dell'ebano, e cent'altre che io, come inesperto, non mi saprei mai immaginare. Ma fermandomi alquanto sopra le addotte sin qui, dirò alcuni pochi dubbii, per sentirne la soluzione.
E prima, Sig. Colombo, voi attribuite assai alla flussibilità dell'acqua, contrariante alla durezza dell'ebano, come che da tal contrarietà si cagioni meglio il galleggiare. Ma io averei creduto tutto l'opposito, cioè che quanto quel corpo che s'ha da penetrare fusse più tenue cedente e flussibile, e l'altro che deve far la divisione e penetrazione fusse più duro, tanto più agevolmente seguisse l'effetto; sì come anco averei stimato che la tavoletta più resistenza fusse per trovar nel divider i mezzi che fosser di mano in mano manco flussibili, come sarebbe che meno agevolmente ella avesse diviso, v. g., il mele che l'acqua, meno ancora la cera che il mele, assaissimo manco poi avrei creduto che ella avesse potuto penetrar un'altra mole d'ebano, ancor che di qualità similissima: tutta via, conforme a questa vostra dottrina, è forza che l'ebano penetri e divida l'altr'ebano senza una fatica al mondo, essendo tanto simili di qualità. Dubiterei, secondariamente, come, non potendo l'acqua mostrar la virtù sua (secondo che voi affermate) contro una falda bagnata, ella la possa mostrar contro alla falda descendente, ritardando grandemente il suo movimento, la quale è pur tutta circondata dall'acqua e, in consequenza, è bagnata. Terzo, come ho ancor detto di sopra, non potendo nascere operazion alcuna tra due corpi li quali prima non si tocchino, e perchè ho per difficile che l'acqua possa toccar l'ebano senza bagnarlo, avrei creduto che tra l'acqua e l'ebano non potesse nascer operazione alcuna dependente da contrarietà di secco e d'umido, poi che tal contrarietà si leva via subito che si fa il toccamento. Quarto, avrei ben creduto che incrostandosi di cera o di pece una tavola, e ponendola poi nell'acqua, l'acqua fusse per trovar cera o pece, e non legno; ma non avrei già mai immaginatomi, che un poco d'acqua che bagni la medesima tavola, fusse per difenderla in modo, che gettandola in altra acqua ella fusse per restarne intatta; ma più presto avrei stimato che la second'acqua avesse fatto lega con la prima, e si fussero accordate a toccarla, come se tutta fusse stata un'acqua sola; e tanto più quanto voi medesimo dite che i fluidi, e massime quelli che son similissimi, non si posson toccar senza mescolarsi e confonder le parti.
Producete la vostra terza instanza scrivendo [pag. 337, lin. 7-11] che la superficie del legno non può operar nulla, non essendo in atto scoperta (e ogni filosofo sa che la virtù, che non si riduce all'atto, non opera): in atto veramente sarebbe la superficie dell'acqua con la quale fusse bagnata la tavoletta, e non la superficie dell'ebano. Adunque la figura è causa di far galleggiare. Ma stante questa sottile specolazione, che la virtù che non è in atto non operi nulla, e che la superficie dell'assicella quando è bagnata non sia in atto, bisognerà che questa superficie o figura bagnata non possa nè anco ritardare 'l moto dell'asse che va al fondo; perchè questo sarebbe operar qualche cosa, ↑ e voi volete che la non possa operar nulla. ↓ Giugnemi anco molto nuovo, che una superficie non sia in atto se non quando è asciutta e scoperta, e molto mi rincresce de' pesci, li quali, essendo sempre bagnati e coperti dall'acqua, è forza che non abbiano mai la lor pelle e le loro squamme in atto, ↑ ma sempre in potenza solamente; ↓ e peggio è che i pescatori ancora non devon aver la pelle delle gambe in atto mentre stanno nell'acqua sin al ginocchio. Desidererei ben sapere che privilegio abbia l'acqua, più dell'aria o de' panni, di potere disattuar le cose che ella cuopre, e quelli no; ↑ onde si possa affermar, le superficie coperte dall'aria esser in atto, ma non già quelle che vengon ricoperte dall'acqua. ↓ Anzi maggior difficoltà mi fa un passo scritto da voi nella seguente facc. 27, v. 31 [pag. 338, lin. 17], dove attribuite all'aria l'operazione di far galleggiare quei corpi ne' quali ella si trova solo virtualmente o vero disseminata per i suoi pori; nè in tal caso vi dà fastidio se ella vi sia in atto o no, o vero che ella vi sia ↑ scoperta o pur rinchiusa e ↓ coperta, nè vi veggo punto ansioso che questo coprimento gli tolga l'esser in atto, ↑ Ma più vi dico, Sig. Colombo, che Aristotile attribuisce la causa del galleggiare le falde di piombo e l'assicella d'ebano, non alla superficie, ma alla figura dilatata; però, per ben applicare questa vostra considerazione, bisogna che voi diciate che 'l bagnar la tavoletta fa che ella perda l'esser dilatata in atto, e solamente resti spaziosa in potenza, che è quanto se si dicesse che tal figura sparsa, nel bagnarsi si raccoglie e diventa stretta. ↓ Sarà, dunque, necessario che voi con sottili distinzioni riordiniate questi vostri 'ngegnosi discorsi, ↑ acciò non si resti privo dell'utilità che ne possono arrecare. ↓ E questi, signori lettori, sono gli argumenti in vigor de' quali il Sig. Colombo conclude che la figura è causa del far galleggiare la falda d'ebano, e afferma che il Sig. Galileo si trova stretto fra l'uscio e 'l muro.
Facc. 26, v. 37 [pag. 337, lin. 25-28]: Imperochè, o sia l'aria insieme con gli arginetti, o sia che altra cosa si voglia, basterà ad Aristotile e a gli avversarii vostri che non sia falso 'l detto loro, ma il vostro, cioè che la figura v'abbia che fare.
Aristotile, nel voler assegnar la cagione del galleggiar delle falde, una sola ne assegna, resultante dallalarghezza impotente a dividere e dalla resistenza della tenacità dell'acqua: il Sig. Galileo una sola ne dimostra, cioè la leggerezza del corpo che se li congiugne sotto 'l livello dell'acqua, e ha escluso tutte le altre e in particolare quella posta da Aristotile: viene il Sig. Colombo, pretendendo aiutare Aristotile, e si riduce a dire che, ancor che fosse la cagione dal Sig. Galileo ben assegnata, tutta via Aristotile non ha detto male, perchè non ha esclusa l'aria, addotta dal Sig. Galileo, ma ben ha detto male il Sig. Galileo esi è ingannato, escludendo la figura, ↑ senza pur metterla a parte in questo fatto. ↓Nel qual discorso considerisi l'errore del Sig. Colombo, in voler che uno che ha tralasciata la vera cagione d'un effetto, abbia rettamente intorno a quello filosofato, pur che egli nominatamente non abbia esclusa quella tal cagion vera. Machi non vede che in questa maniera di filosofare, ancorchè uno pronunziasse grandi stravaganze per cagioni delli effetti che si cercano, filosoferebbe in eccellenza, pur che, conforme a questa ritirata del Sig. Colombo, tralasciasse di escludere qual si voglia altra cagione, tra le quali ↑ necessariamente ↓ si troverebbe ancora la vera? ↑ E così chi dicesse che 'l veleno del capo o della coda del dragone fa doventar livida e oscura la luna, quando se gli accosta, benissimo filosoferebbe, tuttavolta che nominatamente non escludesse l'interposizion della terra, vera cagione dell'ecclisse lunare. ↓Ma dico di più: che Aristotile ha fatto una cosa sola, cioè assegnata quella che egli stimava cagione, e non l'ha provata; e il Sig. Galileo non solo dimostra come ↑ la causa addotta da Aristotile, cioè ↓la figura, non può produr cotal effetto del galleggiare (il che bastava per convincere gli avversarii), ma ancora dimostra la vera cagion dell'effetto; e ne doveva esser ringraziato. E quando 'l Sig. Colombo argumenta alprincipio di questa faccia, e replica nel fine: «Quella è cagione, la quale posta si pon l'effetto, e levata si leva; adunque la larghezza della figura è cagione del galleggiare», dico che questo modo di argomentare, applicato come conviene, è per sè solo bastante a difinir questa controversia, mostrando tutto 'l torto esser dalla parte del Sig. Colombo. Si dubita, se sia la figura dilatata causa del galleggiar la falda di piombo, come vuole il Sig. Colombo, o pur l'aria congiuntagli, come vuole il Sig. Galileo: si accordano amendue, quella dover esser reputata vera cagione, la qual posta segue l'effetto, e rimossa non segue: bisogna ora trovar modo di far l'esperienza esattamente. Il modo esatto per il Sig. Colombo è il far vedere come un pezzo di piombo, quando gli sia applicata la figura larga, senz'aria galleggia, e che egli non galleggi rimossa tal figura, tenendo sempre rimossa l'aria ancora; perchè chi volesse applicargli la figura larga insieme con l'aria, e rimuovendo poi la figura rimuover l'aria ancora, e dir poi che la cagione della diversità d'effetto, che si vedesse seguire, derivasse dalla figura e non dall'aria, opererebbe e concluderebbe scioccamente, nè si potrebbe da cotale operazione concluder niente, ma resterebbe sempre dubbio se la diversità dell'effetto dependesse dalla figura o dall'aria. Il modo esquisito per il Sig. Galileo sarebbe applicare al piombo l'aria, rimuovendo ogni sorte di figura, e poi levar l'aria, tenendo pur sempre rimossa ogni figura: ma perchè non è possibile avere il piombo senza qualche figura, sì come è possibile averlo senz'aria, il Sig. Galileo trova rimedio a questa difficoltà; e questo fa egli mentre dimostra che quel pezzo di piombo il quale ridotto in una falda e congiunto con una quantità d'aria galleggia, fa l'istesso ridotto in ogn'altra figura, purchè gli resti la medesima quantità d'aria; e che il medesimo piombo, rimossa l'aria solamente, o lasciatogli qual si voglia figura, non galleggia mai. Ma il Sig. Colombo sin qui ha usato quel modo di esperimentare inutile e fallace, perchè quando egli ha posta la larghezza, vi ha voluto l'aria ancora, e rimovendo tal figura, ha levata l'aria parimente; e però non ha concluso niente in pro suo: ma ben ha necessariamente concluso e concludentemente maneggiata la regola e l'esperienza il Sig. Galileo, mentre ha dimostrato al senso e alla ragione, che congiunta tant'aria col piombo egli galleggia sotto tutte le figure egualmente, e che rimossa l'aria egli egualmente sotto nessuna figura sta a galla. Però, Sig. Colombo, sin che voi non mostrate che il piombo dilatato in falda galleggi rimuovendone l'aria o altro corpo leggiero che seco si accoppiasse, potete esser sicuro d'avere il torto. E se considererete queste cose, potrete conoscere quanto il vostro filosofare è inferiore a quel del Sig. Galileo; poichè egli, senza aver mai bisogno di ricorrere a tante cause primarie; secondarie, instrumentarie, per sè, per accidente, a figure, a siccità, a resistenze di continui, a viscosità, ↑ a flussibilità e durezze, a superficie in atto e scoperte, a dissensi e antipatie, a untuosità, ↓ a circostanze, a materie qualificate, a termini abili e a cent'altre chimere, ↑ che sono vostri refugii, ↓ con una sola, semplice e reale conclusione, esente da tutte le limitazioni e distinzioni, rende ragione d'ogni cosa; e questa è che tutti i corpi che si pongono nell'acqua e sono in specie men gravi di lei, galleggino, ma se saranno più gravi, di necessità vanno al fondo: e se nel por nell'acqua la falda di piombo voi non ci mettessi altro corpo leggieri in sua compagnia, ella se ne andrebbe senz'altro al fondo.
Quando poi il Sig. Colombo e altri con esso lui dicono che in ogni modo, ancorchè sia l'aria cagione del galleggiare, tutto è per benefizio della figura larga, che ammette sopra di sè gran quantità d'aria, non fanno altro in questa fuga che darmi occasione di dimostrare, che nel voler moderar la prima lor falsità incorrono in inconvenienti maggiori del primo; perchè, stante questo, io dimostrerò, la figura larga essere inettissima sopra le altre figure a fare quanto loro pretendevano in principio che ella sola potesse fare.E la ragione è manifesta: poi che si vede che una falda di piombo distesa sarà men atta a galleggiare della medesima falda ridotta in figura, v. g., di campana da stillare, che pur per loro è figura tra le più inette al galleggiare, essendo accomodata al fendere e penetrare; sì che non galleggia per altra cagione, che per esservi dentro più aria che nella falda. Se dunque vogliono ammettere e confessare l'aria come necessaria all'effetto del galleggiare, bisogna che confessino, la figura larga e piana essere sopra tutte inettissima a produr tale effetto; anzi, che è più importante, tutte le figure possono produrlo, onde il nominar la figura è superfluo: ma se non vogliono ammetter l'aria come necessaria, in questo caso sono in obbligo di mostrar una falda piana che galleggi senza l'aria.
Il Sig. Galileo ha diligentemente esaminata e esplicata la cagione per la quale le falde di piombo e altri simili corpi galleggiono, e mostrato esser la medesima in tutte le cose che stanno a galla: la quale è, che mentre che quel corpo che si mette nell'acqua si va tuffando a parte a parte sotto 'l livello dell'acqua, occupando in essa spazio, è forza che l'acqua gli ceda il luogo e si parta, e si sollevi all'in su, non avendo altro luogo dove ritirarsi, al qual sollevamento ella, come grave, va contrastando; e però bisogna paragonare la gravità dell'acqua con quella del corpo che in lei si va demergendo; e sin che 'l peso del corpo che descende è superiore al momento dell'acqua che viene scacciata, egli seguita di descendere; ma quando l'acqua scacciata contrappeserà la forza del corpo premente, allora si fa l'equilibrio e la quiete. Presa, dunque, la tavoletta d'ebano e posata su l'acqua, ella non si ferma, perchè si trova ancora nella region dell'aria, dove ella è grave e descende; però comincia a penetrar dentro all'acqua, discacciandola dal luogo dove ella va entrando, descende sin che è tutta dentro e con la sua superior superficie pareggia quella dell'acqua, ma non però si ferma ancora, perchè, essendo quel pezzo d'ebano più grave di altrettanta acqua, il peso e momento suo resta ancor superiore a quel dell'acqua discacciata, e però séguita ancora d'affondarsi, come più grave dell'acqua; e nel suo abbassarsi più del livello dell'acqua, si vede col senso della vista, l'acqua circunfusa al perimetro della tavola rimaner superiore, cioè più alta della superficie di essa tavola, e sostenersi formando alcuni arginetti, che descendono dalla superficie dell'acqua circonfusa sino a i termini della superficie della tavoletta. Questo spazio circondato da gli arginetti, che in lunghezza e larghezza è quanto la superficie dell'assicella, e in altezza, o vogliàn dir profondità, è quanto l'altezza de gli arginetti, il Sig. Galileo, e, credo, tutti gli altri uomini del mondo, stima che sia occupato da aria che va seguitando l'assicella; di maniera che nell'acqua si viene a ritrovare uno spazio occupato dalla tavoletta e da quell'aria che l'ha seguita sotto 'l livello, e l'acqua che si trova scacciata, non è più quella sola che fu scacciata dall'ebano solo, ma ci è di più quella che ha ceduto 'l luogo per l'aria compresa tra gli arginetti: ma perchè quest'aria insieme con la tavoletta già non sono più gravi di quella quantità d'acqua che andrebbe a riempiere lo spazio occupato nell'acqua da essa tavoletta e aria, però la tavoletta non descende più; perchè se ella avesse a descendere ancora, bisognerebbe (non si rompendo gli argini, anzi seguitando di sostenersi) che altra acqua si discacciasse e sollevasse, il che è impossibile, avendone di già la tavoletta sollevata tanta, quanta fu possibile al suo peso; per lo che la tavoletta si ferma, nè più descende.
Questo è il modo col quale la tavoletta penetra l'acqua, l'acqua scacciata gli contrasta, e l'aria aiuta a sostener la tavola: del quale perchè il Sig. Colombo non è mai potuto restar capace, però ha scritto tante vanità e stravaganze; e ora, benchè egli vegga col senso la falda più bassa del livello dell'acqua, vegga gli arginetti, intenda che tra essi è compresa aria, capisca che tutto questo spazio, contenente tal aria e la tavoletta insieme, è maggiore che la mole sola della tavoletta, intenda anco che dove succede l'aria è forza che si parta l'acqua, e sappia che l'acqua, come grave, repugna all'esser alzata sopra 'l suo livello, con tutto, dico, che egli capisca tutte queste cose a parte a parte, nell'accozzarle insieme e formarne il discorso e la ragion vera e reale del galleggiare della falda, egli mostra di confondersi e perder il filo, e in guisa tale si allontana dalle verità patenti e manifestissime, che egli in questo luogo va formando querele e processi per far condennar come impossibili le cose che il senso ci mette davanti; e dopo una sua inutil considerazione trimembre di modi diversi secondo i quali l'aria può ritrovarsi con altri corpi, non vuole in conto alcuno che quella che è tra gli arginetti e contigua all'assicella gli possa esser d'aiuto, per il suo galleggiare, più che se ella non vi fusse; e la ragione e (come egli scrive a facc. 28, v. 5 [pag. 338, lin. 30-34]), perchè non vi è necessità alcuna che dia cagione all'aria di non lasciar libera la tavoletta; poichè l'acqua potrebbe scorrer su per la superficie di essa tavoletta liberamente e occupare il luogo che lascierebbe l'aria, come più gagliarda di essa aria e potente a vincer la resistenza che le facesse. Sig. Colombo, volete voi dire che queste cose non sono, o pur volete dir che elle son mal fatte? Se voi voleste dir che le non fussero, già la falsità del detto è manifesta al senso; perchè nè l'aria lascia libera la tavoletta, ma la segue, nè l'acqua scorre su per la superficie di quella, nè occupa quel luogo che lascerebbe l'aria, nè si fa alcuna di queste cose che, ↑ secondo 'l parer vostro, ↓ si potrebbon fare. Ma se voi voleste dire che queste cose non stian bene ↑ e che a verun patto non dovrebbon seguir così, ↓ io son ben con voi, e dico che l'aria dovrebbe lasciar annegar la tavoletta, e che l'acqua non si dovrebbe lasciar ritener dentro ad argini o altro, ma farebbe bene a scorrer sopra la falda e non si lasciar con vergogna occupar il luogo dall'aria, poi che ella è più gagliarda e potente a vincer la battaglia, e l'aria gli cederebbe finalmente il campo: tutto questo è un ragionevolissimo discorso, e dovrebbe seguir così, e credo che anco il Sig. Galileo l'intenda per questo verso; ma egli non ci può far altro, e però non vi lamentate di lui, ma querelatene la natura che permette queste ingiustizie. Per qual cagion poi questi arginetti non si rompino e l'acqua non iscorra, e se l'aria si racchiuda là entro per non dar il vòto o per virtù calamitica o per altro, io per ora non mi ci voglio più affaticare: basta, Sig. Colombo, che questi atti sono e si veggono e producono l'effetto, nè ciò si può negare. Applaudo bene all'altra accusa che voi date a gli arginetti, li quali non devono (come voi accortamente considerate) sostenersi e far argine all'istess'acqua per non dar il vacuo, nè meno per virtù calamitica che tenesse l'aria attaccata alla tavoletta; e intendo benissimo, e son dalla vostra, che questa virtù calamitica dovrebbe più presto attrar l'acqua de gli stessi arginetti e farli riunire: tutti questi atti stanno male, ma, di grazia, non ne fate autore il Sig. Galileo, che mai non ha scritte o pensate simili sciocchezze; biasimate pure chi se l'ha immaginate, che a lui si pervengono le rampogne: ma quanto alla pratica dell'effetto, e' bisogna che noi ci accomodiamo a dir che gli è vero, poi che ci son tanti occhi che lo veggono. Vorranno poi questi signori accusar il Sig. Galileo, come che egli o non resti capace della dottrina d'Aristotile, o non ne faccia quel capitale che si converrebbe: ma io dubito del contrario, mentre veggo 'l Sig. Colombo affaticarsi di persuader, per via di discorso o di ragioni, il rovescio di quel che il senso ci manifesta, scordatosi o non reputando vera la sentenza d'Aristotile contro a quelli che lasciano 'l senso manifesto per seguir quello che il discorso gli detta.
Facc. 29, v. 3 [pag. 339, lin. 26-28]: Perchè si risponde che, non sentendo l'aria violentarsi, non può far resistenza alcuna.
La violenza che fa l'aria per non esser abbassata sotto il livello dell'acqua, non deve nè può misurarsi dall'esser abbassata ↑ molto o poco sotto il livello dell'acqua, ↓come si pensa e scrive il Sig. Colombo, perchè la medesima quantità d'aria da egual virtù sarà trattenuta sotto il livello tanto un mezo dito quanto cento braccia: sì che non dal poco abbassamento, ma sì bene dalla quantità dell'aria, si deve misurare la resistenza; la quale, perchè ha relazione in questo caso alla forza della falda, non si può dire assolutamente che ella sia nè poca nè molta, ma è appunto tanta, quanto basta per sostenere essa falda.
Facc. 29, v. 8. [pag. 339, lin. 31]: La quale fa più forza per esser più grave e non cedente come l' acqua.
Che l'aria sia sotto il livello dell'acqua nel caso dell'esperienza della tavoletta, non può essere nè dal Sig. Colombo nè da altri negato mai: il dir poi che ci stia senza violenza, è un dire che il leggieri stia sotto il grave, e che non abbia inclinazione di ridursi al proprio luogo. Ma quando il Sig. Colombo non voglia altro, io mi piglierò libertà di concedergli, senza repulsa del Sig. Galileo, che l'aria non riceva violenza alcuna nell'abbassarsi sotto il livello non solo quel brevissimo spazio che importa l'altezza de gli arginetti, ma un braccio e dieci e mille; sì che, abbassandosi la tavoletta e sostenendosi gli argini, l'aria l'andrà seguendo sempre, senza sentir violenza alcuna, giusto come accade quando si cava un pozzo, il quale se si profondasse ben sin al centro della terra, l'aria scenderebbe a riempierlo sempre, se l'acqua o altro corpo non vi andasse. Ma perchè il Sig. Colombo non ha mai potuto capire 'l modo col quale l'aria concorre al galleggiamento della falda, però ha fatti tanti discorsi vani e lontanissimi da questo proposito.
Figuratevi dunque, Sig. Colombo (per veder s'è possibile che voi restiate capace di questo punto), d'aver una tavola di piombo quadra, di un braccio per ogni verso, e grossa un palmo, e che gli arginetti dell'acqua si sostenghino sempre in qualunque altezza: intendete poi che ella sia posata su l'acqua; già, come gravissima, non si fermerà su la superficie, ma la penetrerà, e quando ella sarà entrata tutta nell'acqua, già avrà scacciata l'acqua che gli ha ceduto 'l luogo. Segue la tavola di calar sotto 'l livello, e non iscorrendo l'acqua, ma sostenendosi gli argini, fa come un pozzo nell'acqua, e l'acqua, che da quello viene scacciata, si ritira e s'alza, non avend'altro luogo dove ridursi: or quando la tavola avrà incavato nell'acqua una caverna, o volete dire un pozzo profondo, v. g., quattro braccia, e in consequenza avrà alzato ↑ circa ↓ quattro braccia cube d'acqua, le quali peseranno quanto essa tavola, che volete voi che ella faccia? Volete che ella séguiti ancora di profondarsi e di far la caverna maggiore, sollevando ancora dell'altra acqua? non vedete voi che ciò non può farsi, perchè quel piombo non può seguitar d'alzar altr'acqua, avendone alzata quant'il suo peso ha potuto? Si fermerà, dunque, nè più si profonderà, e il più profondarsi gli vien proibito dal peso dell'acqua già alzata e che ancor doverebbe alzarsi, nel farsi la caverna maggiore: e questa è la vera e immediata cagione del fermarsi la tavola senza scendere sino al fondo, la quale è stata, con quanta chiarezza si poteva maggiore, dichiarata dal Sig. Galileo; il quale ha anco, per maggiore intelligenza e per venire alle dimostrazioni di molti particolari che accaggiono in cotale effetto, considerato quel corpo che succede a riempiere quella cavità, il quale è il più delle volte aria, e l'ha paragonata con l'acqua, servendosene in molte demostrazioni, come nel suo trattato si vede. Ora il disputare se quest'aria va a occupar quel luogo con resistenza o senza, se per virtù calamitica o per non dar vacuo, e cercar perchè gli argini si sostenghino, è fatica inutile per quelli che volessero perturbar l'evidenza di questa ragione, la quale acquista tutto 'l suo vigore dall'esser vero che quella falda, insieme con quel corpo che la segue, occupa nell'acqua tanto luogo, che a riempierlo d'acqua ce ne vorrebbe tanta, che peserebbe appunto quanto tutto quel corpo che fa la cavità: che in fine è l'unica e vera causa del galleggiare di tutte le cose che galleggiano. E se mi sarà succeduto il far che voi restiate capace di questo discorso, so che intenderete, senza che io più mi affatichi, quanto inutilmente voi andiate proponendo di rimuovere quest'aria con bagnar la tavoletta eccetto che una corda intorno al perimetro, o veramente con l'ugnerla, che sono tutte cose troppo ridicole. Quando il Sig. Galileo dice a gli avversarii: Rimovete l'aria, non vuol dire: «Mettete tra l'aria e l'assicella un velo d'acqua o d'olio, sì che non la tocchi», ma vuol dire: «Rimovete l'aria dalla cavità compresa tra gli argini»; anzi se voi non troncaste i suoi periodi, ma gli portaste interi, avreste detto con lui: «Rimuovasi l'aria, sì che quel che si trova nell'acqua sia semplice ebano, e non un composto d'ebano e d'aria». Però ingegnatevi pure per l'avvenire di far vedere, la falda di piombo solo nell'acqua galleggiare; altramente bisogna cedere alla ragione e all'esperienza.
Facc. 29, v. 23 [pag. 340, lin. 4-6]: Della qual virtù calamitica, perchè si è da me ragionato e disputato allungo contro i seguaci del Copernico, che vuol che la terra si muova (e voi l' avete letto, e non ci rispondete cosa alcuna), però qui non ne dirò altro.
Il presente luogo, e il medesimo replicato a facc. 47 [pag. 356, lin. 18-20], e qui e là fuor di tutti i propositi, mi sforzano ad allontanarmialquanto da quei termini che da principio prefissi a questa scrittura, e considerar alcune cose vostre, pur lontane dal caso, intorno a questa virtù calamitica e a questo introdur che fate ora di vostri scritti contro al Copernico, veduti senza rispondervi dal Sig. Galileo.
E prima, sapendo io l'introduzion della virtù calamitica essere stata di uno di quei signori che dissentivano dal parer del Sig. Galileo (dico introdotta per un sol transito di parole; non che quel che l'introdusse ci facesse sopra tal reflessione, nè ci si fondasse in maniera, che trovandosi poi tal proposizione esser falsa, dovesse esserne fatto capitale alcuno contro il suo autore, se non da chi fosse, ↑ qual sete voi, più che ↓mendico di altri attacchi), mi son maravigliato non poco nel veder detta virtù calamitica tante e tante volte buttata in occhio al Sig. Galileo in questo vostro Discorso. Ma tra tutti i luoghi dove fuor d'ogni proposito l'introducete, questo è molto notabile, poichè la fate oncino d'attaccarvi uno sproposito maggior de gli altri, dicendo voi aver lungamente trattato della virtù calamitica in una vostra scrittura contro i seguaci del Copernico, ↑ che vuol che la terra si muova, ↓la quale scrittura dite appresso aver il Sig. Galileo veduta, e non gli aver risposto. Io non so intendere quel che abbia che fare in questo luogo, anzi in questo libro, l'aver voi scritto della calamita e contro al Copernico, e non vi essere stato risposto dal Sig. Galileo. Mosso da cotal meraviglia e, confesso, da qualche curiosità, mi ridussi, quando incontrai questo luogo, a passare alcune parole circa questo fatto col Sig. Galileo, dal quale ottenni anco, dopo alcune repulse, di veder la nominata vostra scrittura; e avanti che io la leggessi, anzi pur prima che io da lui mi partissi, gli dimandai per qual cagione, stimando egli il sistema Copernicano molto più conforme al vero che il Tolemmaico o Aristotelico, e' non avesse tentato di rispondere alle vostre obiezzioni. Di ciò mi addusse diverse ragioni; dicendo, prima, che non sapeva che voi scriveste più contro di lui che contro altri, non nominando nessuno, e che però non sentiva obbligo alcuno a dover rispondere; anzi, di più, non essendo la vostra scrittura publica, ma privata, diceva che ella non poteva obbligare altrui, e che troppo laboriosa impresa sarebbe il voler impugnar quante scritture private vanno in volta. Altra più forte ragione mi addusse, e fu che ritrovandosi (diceva egli) nella vostra scrittura molti errori da non poter di leggieri esser difesi, gli pareva impresa non totalmente lodevole il cercar di aggrandirgli col fargli maggiormente palesi e cospicui, e che tale azzione, non eligibile da alcuno, fosse poi totalmente biasimevole in uno della stessa patria; anzi mi soggiunse che volentieri, per sgravarne un gentiluomo della sua città, se ne sarebbe addossati una parte a sè medesimo, e che per tal rispetto, essendo anco veramente gli assunti falsi, gli argomenti fallaci e i paralogismi scritti da voi, non vostri, ma di Aristotile e di Tolommeo o da essi dependenti, voleva contro di quelli disputargli, e non contro di voi: in confermazione di che mi fece anco vedere nel suo libro i detti argomenti, insieme con tutte le instanze e repliche che per avventura far se li potrebbono, sciolti e resoluti senza ↑ pur ↓nominar voi, potendo far senz'aggravarvi di simili note. Io poi, dopo aver letto la vostra scrittura, m'accorsi, il Sig. Galileo, oltre alle cause dette da lui, mosso da cortese affetto, aver voluto dissimulare, anzi, giusto al suo potere, ascondere un'altra specie di errori molto più gravi, de' quali la detta vostra scrittura abonda; i quali (e sia detto con vostra pace e per vostro beneficio) troppo palesemente dichiarano il vostro gran desiderio di apparire, appresso l'universale, intendente anco di quelle professioni delle quali, essendo elleno, grandi e difficilissime, voi non ne avete veduti, non che intesi, i primi puri termini, i primi e semplici elementi. Io, essendo fuori de gli interessi del Sig. Galileo, voglio far prova di liberarvi da queste false immaginazioni, acciochè per l'avenire non vi ci immerghiate maggiormente; e già che voi ricercate la medicina con le stampe, in stampa ve la porgo.
Voi strepitate che il Sig. Galileo non risponda alla vostra scrittura contro al Copernico, il cui sistema vien da lui riputato per vero; ma per qual cagione si deve mettere il Sig. Galileo a difendere il Copernico da uno che punto non l'offende, poi che mai non l'ha veduto, mai non l'ha inteso? Voi, Sig. Colombo, avete creduto, con lo scrivere contro un tant'uomo, di far maggiormente credere di averlo letto, e avete fatto effetto contrario; perchè chi leggerà la vostra scrittura, toccherà con mano che voi non avete, non dirò intese le sue demostrazioni, ma nè capite le semplici ipotesi, nè anco i nudi termini dell'arte, nè intesa la prima dipintura che mette il Copernico nel principio nel suo libro. E d'onde avete voi cavato che il Copernico faccia muover la Terra in ventiquattro ore in sè medesima al moto del Primo Mobile, che seco rapisce tutti gli altri orbi? dove trovato che l'orbe magno della Terra sia l'epiciclo della Luna? e come immaginatovi, che ponendo il Copernico le conversioni di Venere e di Mercurio intorno al Sole, tanto si possa mettere per prima e più vicina a quello Venere, quanto Mercurio? nè sete ancor capace, che essendo le digressioni di Venere maggiori il doppio che quelle di Mercurio, è impossibile che l'orbe di Venere sia contenuto da quel di Mercurio, che è il medesimo che non intendere che un cerchio grande non può esser descritto dentro a un piccolo? Ma passo più avanti, e vi dico che chi leggerà quella vostra scrittura, non solo toccherà con mano che voi non intendete nulla delle cose del Copernico, ma, di più, che voi meno intendete quello che scrivete voi stesso, e che solo vi movete a scrivere e contradire per acquistarvi una vana opinione appresso le persone semplici; perchè se voi intendeste quello che vuol dire, essere l'epiciclo della Luna il medesimo che l'orbe magno della Terra, muoversi la Terra al moto del primo mobile in ventiquattro ore, esser l'orbe di Venere contenuto dentro ↑ di ↓quel di Mercurio, e l'altre stravaganze che voi mettete in quella scrittura, che son tante quante son le cose che voi scrivete di vostra immaginazione; se voi, dico, sapeste quali esorbitanze sien queste, già che voi le avete per cose del Copernico, sopra di queste fondereste le vostre più gagliarde impugnazioni, e non le passereste, come possibili ↑ e non repugnanti in natura, ↓senza impugnarle: perchè vi assicuro che una sola di queste pazzie, che fosse stata scritta dal Copernico, ↑ sì come tutte sono state immaginate da voi, ↓bastava a farlo conoscere, non solamente dal Sig. Galileo, ma da ogn'altro, ancor che manco chemediocremente intendente, per uno de' maggiori ignoranti che mai avessero aperto bocca in queste materie.
Or se volete ricevere un buon consiglio, desiderando voi d'intendere 'l Copernico per potergli contradire, mettetevi a studiar prima gli Elementi d'Euclide, cominciando dalla definizion del punto; proccurate poi d'intendere la Sfera e le Teoriche; e intese queste, passate all'Almagesto di Tolommeo, e usate ogni studio per impossessarvene bene; e guadagnata questa cognizione, applicatevi al libro delle Rivoluzioni del Copernico: e succedendovi il far acquisto di questa scienza verrete prima a chiarirvi che la cognizion delle matematiche non è da fanciulli, come dite in quella scrittura, mentre l'andate misurando con quella parte che ne possedete ↑ voi ↓adesso; ma misurandola con quello che ne seppe Tolommeo e 'l Copernico, e che allora ne intenderete voi ancora, la troverete essere studio da uomini di cent'anni; e, quello che vi sarà più maraviglioso, cangerete opinione intorno al Copernico, e vi accerterete come è impossibile l'intenderlo e non concorrer con la sua opinione.
Facc. 29, v. 27 [pag. 340, lin. 7-10]: L'esperienze che avete fatte per farl'apparir vera non escludono le nostre cagioni; anzi provan più debolmente che le vostre altre ragioni, poichè mostran che quest'aderenza calamitica non abbia virtù più che s'ella non vi fusse.
Di sopra un verso il Sig. Colombo dice che il Sig. Galileo ha supposta la virtù calamitica, e non provata; e ora, contradicendosi, dice che ha fatte esperienze per farla apparir vera, ↑ nè sa che l'esperienze son le migliori prove che usar si possino. ↓Poi non è vero che il Sig. Galileo abbia mai trattato tal materia; onde si vede che il Sig. Colombo si vale del quarto e sesto artificio. Ma quello che maggiormente noto, è che egli dice che l'esperienza del Sig. Galileo, della palla di cera che galleggia come la tavoletta, e che dal fondo dell'acqua, in virtù dell'aria compresa tra gli arginetti, si riduce a galla, prova più debolmente che le sue ragioni: e io voglio conceder questo al Sig. Lodovico, nè voglio ch'ella provi più di quel che egli stesso gli attribuisce, il che è poi in effetto tutto quel che il Sig. Galileo pretende; avvenga che egli dice che questa palla di cera, che, per esser più grave dell'acqua va al fondo, tuffata lentamente fa gli arginetti, dentro a i quali scende alquanto d'aria, la quale accoppiata con la palla, la rende men grave dell'acqua, ond'ella più non descende, come appunto accade della tavoletta d'ebano; e tutto questo vien ora ammesso e confessato dal Sig. Colombo, le cui parole son queste: Imperochè la palla di cera che prendete, è ridotta a tanta poca gravezza, che appena cala al fondo; e perciò la piccolezza del suo peso è di così poca attività, che ogni poco che ne resti scoperta dall'acqua è cagione che ella non pesa più dell'acqua, e però galleggia, perchè quel poco d'argine che circonda quella parte scoperta la sostiene. Ecco, dunque, qui conceduto il tutto dal Sig. Colombo; perchè, se quel poco che resta scoperto da l'acqua è cagione che la palla non pesi più dell'acqua, e se quel poco di argine che circonda la parte scoperta la sostiene, ciò avviene mediante l'aria compresa dentro all'arginetto, perchè quanto alla parte scoperta della palla, per se stessa peserebbe manco se fusse sott'acqua; però tal leggierezza non si può riconoscere se non dall'aria. Nè occorre che il Sig. Colombo dica che la cera sia ridotta a così poca gravità etc.; perchè di tali palle che galleggino se ne faranno d'ebano ancora, e d'altre materie sene faranno, che sosterranno quei medesimi grani di piombo che sostien la tavoletta. Io non voglio con questa occasione, che sarebbe grandissima, chiamar i lettori, come poco fa fece il Sig. Colombo senza causa nessuna, a veder calar dolcemente le vele all'avversario ed a vederl'arrenare, sì perchè non voglio metter mano negli altrui esercizii, sì perchè io non credo che la confessione del Sig. Colombo accresca tanto di credito alla causa del Sig. Galileo, che si deva farne un giubilo così grande: ↑ voglio ben mettergli in considerazione, che avend'egli scritto che tal esperienza prova più debolmente che l'altre ragioni del Sig. Galileo, bisogna che confessi l'altre ragioni esser efficacissime, poi che questa esperienza conclude, per confessione sua propria, tutto l'intento del Sig. Galileo. ↓
Segue poi 'l Sig. Colombo ad aggiugner altre verità alle già confessate, e dichiara benissimo 'l modo col quale, con il bicchier inverso, si riconduca la palla alla superficie dell'acqua, avvertendo che l'acqua si separa facilmente dalla cera per aver alquanto dell'untuoso, notando che quanto maggior piazza restasse scoperta, tanto maggior peso si potrebbe sostenere, e che la tavoletta medesima in cotal modo si ritirerebbe dal fondo: proposizioni tutte vere, ma portate dal Sig. Colombo francamente come se non fussero state scritte dal Sig. Galileo, o fussero contrarie alla sua dottrina; e in questo, conforme al suo secondo artifizio, fa benissimo, perchè appresso le persone semplici e che non aranno letto 'l trattato del Sig. Galileo, alle quali egli solamente scrive, si può vantaggiare in qualche cosa.
Facc. 30, v. 16 [pag. 340, lin. 86-86]: Si dice che per questa cagione non si deve prender la vostra materia etc.
Si dice che, ritornando il Sig. Colombo a' primi errori già ribattuti, non è necessario in questo luogo dir altro, ma basta rimettere il lettore a quanto si è già detto.
↑ Facc. 30, v. 34 ↓ [pag. 341, lin. 11-17]: l' esempio de' conii fatti di materia più leggier dell'acqua, per mostrar che l' acqua non faccia resistenza, a car. 30 [pag. 98, lin. 16-32], non conclude cosa alcuna per le dette ragioni, e in particolare per le vostre: poichè se volete, a car. 14 [pag. 76, lin. 6-9], che una falda piana più leggier dell'acqua si sommerga fin tanto che tant'acqua in mole quant'è la parte del solido sommersa pesi assolutamente quanto tutto 'l solido, come potrà mai un cono, che ha per virtù della piramide il peso più unito al centro, non calar con la sua base sotto l' acqua?
Io non'ho mai veduto il più bel modo d'impugnar esperienze e ragioni, di questo del Sig. Colombo. Egli prima risolutamente dice, l'esperienza dell'avversario non concluder cosa alcuna; poi, senz'addur il perchè, si mette a dichiarar solamente la causa perchè quell'effetto segua così, e se ne passa ad altro. Il Sig. Galileo, per dimostrar che l'acqua si lascia penetrar egualmente dalle figure larghe e dalle sottili, propon due esperienze: una di un cono di materia men grave dell'acqua, del quale tanta parte se ne sommerge posto nell'acqua con la base larga in giù, quanto con la punta; e pur se l'acqua resistesse alla penetrazione delle figure larghe, più se ne dovria demergere quando la punta va innanzi: l'altra esperienza è, che facendosi della medesima materia due cilindri, un grossissimo e l'altro sottile, ma tanto più lungo, posti nell'acqua, si sommergon pure egualmente tanta parte dell'uno quanta dell'altro. Di questa seconda esperienza il Sig. Colombo non ne parla niente, credo per parergli troppo evidente e necessariamente concludente: e pur non doverebbe lasciar niente irresoluto, perchè una ragione o esperienza sola basta a dargli il torto; niente di meno egli ne tralascia più che la metà, e sagacemente non si è obbligato a seguitare 'l filo del Sig. Galileo, perchè non così facilmente se gli possa riveder il conto. Ma all'esperienza del cono, egli, dopo aver detto che non conclude per le ragioni allegate (ma però non si trova cosa allegata che facci a questo proposito), si pone a render ragione che l'effetto deve veramente seguire come segue, anco in dottrina dell'istesso Sig. Galileo; quasi che il dichiarar la causa perchè quel cono fa quell'effetto conforme alla dottrina del Sig. Galileo, sia 'l medesimo che dimostrare che tal effetto non segua, come bisognerebbe a voler che la dottrina del Sig. Colombo fusse vera. È ben vero che, per parer di dir qualche cosa attenente alla professione, si riduce a ↑ metter insieme parole senza construtto e senza senso, e ↓ dire che i coni hanno, per virtù della piramide, il peso più unito al centro; nella qual proposta io sto a pensare come la virtù della piramide dia peso al cono unito al centro, non essendovi la piramide. Che ha che fare la piramide a dar peso al cono unito al centro? nel medesimo modo si potrà ↑ spropositatamente ↑ dire che per virtù del cilindro questo peso si disunisca. È dunque manifesto che il Sig. Colombo si serve del primo artifizio, e che, se bene egli in sè stesso sa di non dir nulla, ma di far un cumulo di parole senza senso nessuno, tutta via tanto gli basta, perchè quelli per i quali egli scrive, se ben non caveranno costrutto alcuno da queste parole, crederranno ad ogni modo che le l'abbino, ma da non esser penetrato se non da valenti geometri; ma se e' si risolvessero a imparar solamente il significato de' termini, l'artifizio del Sig. Colombo resterebbe scoperto e inutile.
Facc. 31, v. 5 [pag. 341, lin. 23]: L'esempio della cera etc.
Se questo esempio, che è di grandissima efficacia, fosse stato considerato e inteso dal Sig. Lodovico, bastava a levarlo d'errore nella presente disputa. Per intelligenza di che, basta solo ridurr'a memoria al lettore la detta esperienza.
Il Sig. Galileo, per provare che nell'acqua non si trova resistenza nessuna all'esser divisa, per la quale ella possa vietare il moto ad alcuno de i corpi che per essa, rispetto alla gravità o leggierezza, si muovono, insegna che si pigli una palla di cera (e questo acciò che prontamente altri la possa ridur sotto tutte le figure), alla quale si aggiungano molti pezzetti di piombo, sì che ella speditamente cali al fondo; se gli vadino poi attaccando altri pezzetti di sughero o d'altra materia leggiera, sin che i detti sugheri la ritirino lentissimamente ad alto, sì che dalla tardità del moto siamo sicuri che il momento che la ritira ad alto sia debolissimo e minimo; distesa poi la medesima cera in una amplissima falda, vedrassi che i medesimi sugheri la ritireranno a galla, nè potranno mai le molte parti dell'acqua che ella ha a penetrare, le quali saranno cento volte più che prima, vietargli il movimento: segno più che manifesto, nell'acqua non si poter ritrovare alcuna sensibile resistenza all'esser divisa. Con tutto ciò il Sig. Colombo, con la sua solita acutezza, confuta la forza di quest'esperienza con questa risposta: L'esempio della cera e piombo, aggiuntovi il suvero, perchè è della natura di quelli dove aggiugnevate quel poco piombo per mutargli di specie in gravità, non val niente; però potevate lasciarlo stare: quindi poi ne raccoglie la sua conclusione, soggiugnendo: L'acqua, adunque, fa resistenza alla divisione per le cagioni addotte, e non vi ha che fare l' aria in modo veruno. Ma perch'e' soggiugne cert'altre parole con una conclusione molto pungente, è forza registrarle e considerarle.
Segue per tanto: Voi medesimo il conoscete, Sig. Galileo; poichè vedendo alcune falde non far arginetti, dentro a i quali volevate racchiudersi l' aria, rifuggisti miseramente a dire che, dove l'acqua non faceva argini, l'aria stessa gli faceva a sè medesima, a car. 55 [pag. 121, lin. 19-22]. Potevasi dir cosa più sconcia di questa? Queste son le parole del Sig. Colombo: alle quali rispondendo, e facendo principio dalla sua conclusione, gli dico, una tal proposizione esser veramente cosa molto sconcia, e dar manifesto indizio, assai sconcio e stravolto esser il cervello di chi la pronunziasse; e però dispiacemi infinitamente che sin ora nissun altro l'abbia detta, se non il Sig. Colombo solo, perchè nel trattato del Sig. Galileo, nè, che io sappia, in altro luogo, non si legge tal cosa. Ma se si prenderà e considererà quel che veramente scrive il Sig. Galileo, dirò che moltissime cose più sconcie di quella si potevano dire, delle quali ne sono a centinaia in questo Discorso del Sig. Colombo, e tanto più sconcie di questa del Sig. Galileo, quanto le cose sconcissime son più sconcie dell'acconcissime, come credo che ogn'uomo sensato possa aver sin qui conosciuto; e questa stessa che ora aviamo per le mani, ne è una, nella quale, per non aver egli inteso punto quel che scrive il Sig. Galileo, gli attribuisce estreme pazzie e con audacia lo biasima, se ben il biasimo e le pazzie, se a nessuno convengono, convengono a chi senza ragione le produce. Ma acciò che si tocchi con mano lo sproposito del Sig. Colombo in questo particolare, basta, come in tutte le altre sue obbiezzioni, ridur a memoria quel che dice il Sig. Galileo, che tanto serve anco per la sua difesa.
Volendo il Sig. Galileo, nel luogo citato, dichiarar come l'aria è cagione di sostener la falda di piombo, sì che non si sommerga, dice che se si pigliasse una piastra di piombo che per sè stessa in modo alcuno non potesse galleggiare, ella pur galleggerebbe se intorno intorno se gli facessero le sponde come a una scatola, sì che, nel profondarsi la piastra, l'acqua per l'ostacolo di tali sponde non potesse scorrer a ingombrarla, ma si conservasse 'l vaso pien d'aria. È manifesto che tali sponde potrebbono alzarsi tanto, che dentro si conterrebbe tant'aria, che basterebbe a far che tutto questo vaso galleggiasse, benchè la piastra del fondo fusse molto grossa. Soggiugne poi e dice, che se tal piastra fusse tanto sottile, che piccolissima altezza di sponde bastasse per circondar tant'aria che fusse a bastanza per ritenerla a galla, non occorrerebbe nè anco fargli tali sponde, perchè nell'abbassarsi la sottil falda sotto 'l livello dell'acqua, per un piccolo spazio l'aria stessa, che la segue, si fa sponde, cioè ritegno e ostacolo contro l'ingombramento dell'acqua, vietandogli lo scorrer sopra la falda e 'l sommergerla. Ma il Sig. Colombo, non intendendo punto questo luogo, prima nomina, come prodotte dal Sig. Galileo, falde che non faccino argini; il che non è nè v'ero nè possibile, parlando 'l Sig. Galileo di falde di piombo, che di necessità, abbassandosi sotto il livello dell'acqua, non possono non far arginetti: ma egli ha scambiato gli arginetti con quelle sponde di legno fatte per ritegno dell'acqua intorno alla falda, e, seguendo poi quest'inganno, dice, il Sig. Galileo esser miseramente ricorso a dir che, dove l'acqua non fa argini, l'aria gli fa a se stessa; ma il Sig. Galileo non parla mai di argini in questo luogo, ma solo dice che l'aria contigua alla falda serve per sponde (e non che faccia arginetti in cambio dell'acqua) per piccolissimo spazio contr'alla scorsa dell'acqua. Vedete dunque, Sig. Colombo, quanto la vostra esposizione è più sconcia del testo del Sig. Galileo.
Facc. 31, v. 13 [pag. 341, lin. 30-32]; Io torno di nuovo a mostrarvi che l'aria non cagiona quegli arginetti dell'acqua perchè la virtù calamitica la tenga in quella concavità attaccata etc.
Se il Sig. Colombo lasciava questa prova, commetteva dua errori meno: uno, del dire cose fuori di proposito, conforme al primo artifizio, poi che non ci è chi dica di virtù calamitica; l'altro errore e di dire un falso, mentre dice che l'aria non trattien l'acqua sopra gli orli del bicchiere, perchè, ancorchè non la trattenga come contenuta, la trattiene però come ambiente, nel medesimo modo appunto che contiene le gocciole poste sopra una tavola.
Facc. 31, v. 27 [pag. 342, lin. 2-3]: Sento che mi rispondete, come uomo prudente etc.
Anzi dall'esser il Sig. Galileo uomo prudente, si conclude necessariamente che ↑ e' ↓non darebbe mai quelle risposte, quali vengono introdotte con il terzo artifizio.
Facc. 31, v. 37 [pag. 342, lin. 7-8]: Ugnete la falda, e così l'aria, non posando immediantemente su la superficie del legno, sarà levata etc.
In tutte queste esperienze che il Sig. Colombo produce, considerisi che ogni volta ch' ↑ e' ↓leverà gli arginetti, e in consequenza l'aria intrapostavi, sempre la tavoletta descende; e quando gli arginetti (qual sia la cagione della loro conservazione) sussisteranno con l'aria dentro, la falda non descenderà mai: talchè è manifesto che con queste esperienze non solo non si conclude nulla in favor del Sig. Colombo, anzi di ben in meglio si va confermando che è l'aria cagion vera di quest'effetto del galleggiar le falde. E in vero è cosa di meraviglia, che 'l Sig. Colombo non abbia mai potuto capire il modo con che l'aria cagiona il galleggiare della falda, il quale se egli avesse capito, intenderebbe che l'unger la falda, e l'altre vanità che egli scrive, non levano altramente l'aria, nè han che far col proposito di che si tratta. Ma tra l'altre cose ridicole, la cagione, che egli adduce, onde avvenga che la tavoletta unta non cali al fondo, benchè ne sia levata la siccità e l'aria (dico secondo il suo modo d'intendere), non deve esser passata senz'esser avvertita. Egli ciò ascrive [pag. 343, lin. 2-3] all'antipatia e dissenso che è tra l'olio e l'acqua, che non convengono e non s'uniscono, e però non affoga l'assicella e non cala al fondo. Qui, primieramente, io noto che già s'incomincia a introdur dell'altre qualità oltr'alla figura, che prima era sola; poi venne la siccità; ↑ seguì appresso la durezza, contrastante con la liquidezza; ↓ e ora si fa innanzi l'untuosità: e se aspettiamo un poco e separeremo l'aria con immelar la tavoletta, sentiremo introdurre la dolcezza del mele contrastante con la insipidezza dell'acqua. Ma fermandomi per ora su questa untuosità, vicaria della siccità, dico al Sig. Colombo che se questa antipatia tra l'olio e l'acqua è causa del galleggiare, sarà forza che, se non si leva tale untuosità, la tavoletta non si sommerga mai, sì come, ↑ quand'ell'era asciutta, ↓ non si sommergeva se non dopo che s'era levata la siccità: ma io gli voglio conceder che gli unga la tavoletta non solamente di sopra, ma di sotto e intorno intorno, e che e' l'unga non solamente con l'olio, ma col sego, acciò che l'acqua non possa mai rimuover l'untuosità, benchè la tavoletta stesse anco sott'acqua un mese; e nulla di meno io gli farò vedere che così unta, senza riguardo alcuno d'antipatia, ella se ne andrà in fondo con l'olio e col sego, pur che si rimuova l'aria. Ora staremo aspettando qualche ingegnosa distinzione che ci dichiari come è necessario, ↑ per far la sommersione, ↓ che la siccità si rimuova, ma non già l'untuosità, la quale, se ben resta sempre con la tavoletta, niente di meno opera quando piace al Sig. Colombo, e non opera secondo che egli vorrà che ella non operi. ↑ Io m'aspetto di sentire che l'olio non sia untuoso in atto quand'è coperto dall'acqua. ↓
Facc. 33, v. primo [pag. 343, lin. 13-14]: Dirò solamente che l'esperienze e dimostrazioni di Archimede etc.
In tutto Archimede non si trova pur una sola esperienza; onde mi si accresce il sospetto che il Sig. Colombo non l'abbia mai veduto: anzi son sicurissimo che s'e' l'avesse letto, non lo nominerebbe mai, perchè il vedersi tanto lontano dal potern'intender una sola dimostrazione, gli avrebbe troncato in tutto ↑ l'ardire di citarlo, sotto ↓ la speranza di poter dar a credere a chi che sia d'averlo inteso.
Facc. 33, v. 4 [pag. 343, lin. 16]: Tre sorti di persone etc.
Il detto del Sig. Galileo si è verificato in tutti questi che gli hanno scritto contro, ma più nel Sig. Lodovico che in alcun altro, ↑ perchè ha scritto più ↓: e quando non fusse altro passo nel suo Discorso che confermasse quanto dico, basterebbe a legger questo, dove entra a parlare di proporzioni geometriche; nel quale ogni mediocre intendente delle cose scritte dal Sig. Galileo potrà conoscere quanti e quali errori dal Sig. Colombo si sien commessi, non solo in non intendere, ma in addossare al Sig. Galileo cose tanto lontane da' suoi concetti quanto è il falso dal vero, come appresso con brevità andrò toccando. In tanto è degna di considerazione l'inconstanza del Sig. Lodovico, il quale, avendo detto non aver cosa contro Archimede, a v. 8 [lin. 20-21], poi si conduce a lacerar come falsa una sua conclusione: segno che egli non ha visto punto Archimede, nè inteso il Sig. Galileo, il quale con metodo più facile ha dimostrato la medesima conclusione.
Facc. 33, v. 9 [pag. 343, lin. 21-23]: Ma circa quello che di vostro aggiugnete alla sua dottrina, forse si potrebbe dire che non è vero che quegli arginetti serbino la proporzion dell'altezza che dite, in rispetto alla grossezza del solido.
I cumuli de gli errori ↑ del Sig. Colombo ↓, nati dal non intendere niente di quello che ha scritto il Sig. Galileo, son tanti e in tanti luoghi disseminati in questo suo Discorso, che chi volesse notargli e correggergli senza passarne la maggior parte, non verrebbe mai al fine dell'opera; però mi scuserà il lettore se, trapassandone gran parte, non mi distenderò se non in alcuni luoghi particolari: uno de' quali mi accomoderò che sia questo, massime che da qui avanti pare che il Sig. Colombo, lasciando stare la disputa se la figura dilatata faccia stare a galla o no, entri in quella del ghiaccio, scordatosi che a car. 10, v. 7 [pag. 322, lin. 7], astretto da un argomento del Sig. Galileo, per non gli avere a rispondere, disse che quella disputa non era sua, e che non voleva le liti d'altri, e che non gli era lecito.
Considerando, dunque, a parte a parte quanto dal Sig. Lodovico qui si produce, prima dico che non è vero che il Sig. Galileo abbia mai detto che gli arginetti serbino la proporzion dell'altezza in rispetto alla grossezza del solido; e acciò ↑ che ↓ ogn'un vegga che questa conclusione non ha che fare con la vera e dimostrata dal Sig. Galileo, io scriverò qui di parola in parola quella del Sig. Galileo, che è questa [pag. 110, lin. 11-14]: Ogni volta che l'eccesso della gravità del solido sopra la gravità dell'acqua, alla gravità dell'acqua arà la medesima proporzione che l'altezza dell'arginetto alla grossezza del solido, tal solido non andrà mai al fondo. Or veggasi che il Sig. Lodovico mostra non intendere nè anco che cosa sia proporzione, poi che, mutando i termini della analogia del Sig. Galileo, forma una proposizione stravagantissima e falsa. Questo si conosce benissimo, perchè i quattro termini, tra' quali il Sig. Galileo mette la analogia, son questi: il primo, eccesso di gravità del solido sopra la gravità dell'acqua; il secondo, gravità dell'acqua; il terzo, altezza de gli arginetti; il quarto, grossezza del solido. Ma il Sig. Colombo, senza far menzione di eccessi di gravità del solido nè di gravità d'acqua, pronunzia una proposizione di sua testa, e l'addossa al Sig. Galileo, nel Discorso del quale non è pur una minima occasione di pensare che tal conclusione vi sia, nè si può mai da quello dedurre; onde io credo che il Sig. Colombo la proponga senza saper quello che si dica, ma solo per far volume.
Maggior errore è quel che séguita; e per manifestarlo più scoperto, replicherò una proposizione dal Sig. Galileo dimostrata, contro della quale il Sig. Colombo aveva animo. La proposizione è questa [pag. 76, lin. 6-9]: I solidi men gravi in specie dell'acqua si sommergono solamente sin tanto, che tant'acqua in mole, quanta è la parte sommersa, pesi assolutamente quanto tutto 'l solido: come, per esempio, una nave che galleggi, posta in mare carica di modo che ella con tutte le merci, uomini, vele, etc., che vi fossero sopra, pesasse cinquantamila pesi, si tufferà solo sin tanto che una mole d'acqua eguale alla mole sommersa della nave pesi ancor ella cinquantamila pesi, senz'errore di un minimo grano; la qual mole d'acqua sarebbe appunto quella che riempierebbe la buca fatta dalla nave nel mare. Questa proposizione è la stessa con la quinta d'Archimede nel libro Delle cose che si muovono nell'acqua, ma da lui dimostrata con altra maniera. Ora, volendo 'l Sig. Lodovico contrariar a tutto quello ch'e' nota nel Sig. Galileo, e non avend'inteso nè quel che ha detto Archimede nè quel che ha detto il Sig. Galileo ↑ stesso ↓, prima, con un poco di paura, dice di non aver che dire d'Archimede e loda le sue proposizioni, poi si mette a biasimar quelle del Sig. Galileo, non sapendo che son le medesime a capello con quelle di Archimede: segno che non ha letto niente questo, sì come non ha inteso punto quell'altro. Ma se 'l male del Sig. Colombo non andasse più oltre, sarebbe quasi che sopportabile: poi che di quegli uomini che non hanno letto Archimede, nè inteso il Sig. Galileo, ce ne è una infinità, nè meritano per questo biasimo alcuno; solo meriterebbe un poco di reprensione chi, essendo di questa sorte, volesse parlar della dottrina di quest'uomini. Ma il punto sta che 'l Sig. Colombo mostra ↑ di ↓ non intendere nè anche sè stesso: perchè avendo voluto referire la nominata conclusione, dopo averla referita male e guasta, anzi con termini tra sè repugnanti, di modo che non ha che fare con quella del Sig. Galileo o d'Archimede, ne soggiugne un'altra in esposizion sua molto più strana, e non solo diversa dalla vera del Sig. Galileo, ma dalla sua medesima. Io le registrerò amendue, acciò si conosca esser vero quanto dico.
La prima proposizione del Sig. Colombo, proposta da lui come che sia del Sig. Galileo, è che tanto si tuffi un corpo più leggieri dell'acqua nella stessa acqua, senza varietà, quanto col suo peso assoluto avanza il peso in spezie dell'acqua; o vogliàn dire (ed è la seconda proposizione, che egli soggiunge in esposizione della prima) che tanto sia l'acqua in mole dove è sommerso, che agguagli il peso assoluto del solido [pag. 343, lin. 29-32]. Notisi nella prima proposizione, primieramente, la comparazione del peso assoluto col peso in spezie, proposta dal Sig. Colombo, ancorchè sia impossibile per essere i termini di quella tali che non si possono comparare tra di loro in eccesso o difetto o egualità, non potendosi mai dire il peso assoluto essere maggiore o minore o eguale al peso in spezie, sì come è impossibile il comparar la linea con la superficie, e il suono con i colori. Di più, notisi che in quelle parole: un corpo più leggieri dell'acqua, ei propone un corpo più leggieri dell'acqua; e poi in quell'altre: avanza il peso dell'acqua, vuole che ecceda il peso dell'acqua: repugnanza tale, che in questo proposito non si può, a mio credere, dir maggiore. Se, dunque, il Sig. Lodovico delle Colombe intendesse quello che egli stesso dice, già che pensa che il Sig. Galileo lo dica, lo dovrebbe ributtare per questa sorte di errori che contiene il suo dire, e non metterlo in dubbio con ragioni lontane dall'esser mai conosciute, come sono quelle che ei produce, cioè perchè può essere che la medesima grandezza di mole del medesimo legno abbia più terra o più densità o più pori, o perchè sia varia in sè stessa etc. Perchè, oltre che queste condizioni son tali che è impossibile il poterle mai riconoscere, non fanno altro, nel corpo dove sono, che introdur varia gravità in specie, quale concorre poi all'effetto dello stare o non stare a galla, conforme a quanto ha dimostrato il Sig. Galileo: come (per stare nell'essempio della nave) quando ella pesasse tutta, con le robbe che vi sono dentro, cinquantamila pesi, si tufferebbedi lei tanta parte, che una mole d'acqua eguale alla parte della nave che è sotto il livello dell'acqua, peserebbe appunto cinquantamila pesi; nè questo effetto si varierebbc già mai, ancorchè la nave fosse carica o tutta di piombo o tutta di grano o tutta di lana o tutta di queste cose insieme, pur che il peso assoluto della medesima nave fosse sempre il medesimo. E questo sia detto della prima proposizione del Sig. Colombo.
Quanto a quella ch' ↑ ei ↓soggiugne in esposizione della prima, cioè che tanto sia l'acqua in mole dove è sommerso, che agguagli il peso assoluto del solido, non dirò altro, solo che desidero che il Sig. Colombo dichiari come egli intende che un corpo più leggieri dell'acqua si tuffi in quella sin che tanto sia l'acqua in mole dove è sommerso, che agguagli il peso assoluto del solido; perchè questo suo dire, inteso conforme alsuono delle parole, non viene a dire altro se non che un legno, per esempio, di venti libbre, buttato in un lago, tanto si tufferebbe sin che tutta l'acqua del lago, dove è sommerso, pesasse quanto esso legno, ↑ cioè venti libbre. ↓
Da i quali modi di parlare pur troppo chiaro si scorge, che questo signore non ha inteso pur una parola di quel che ha scritto il Sig. Galileo, e massime dove niente niente si tocca qualche termine di geometria o si tratta alcuna dimostrazione con metodo matematico; e quand'io credeva che egli, con l'occasione d'aver in mille propositi sentite replicar le medesime cose, dovesse aver capite almeno le difinizion de' nomi, e intendesse quello che importi gravità assoluta, più o men grave in specie, quello che significhi momento, e molt'altri termini dichiarati e usati dal Sig. Galileo, io mi trovo fortemente ingannato: il che mi toglie anco ogni speranza di potere arrecargli giovamento alcuno ↑ con queste mie fatiche. ↓ Egli in questo luogo, e nel resto che scrive sino a dove comincia a trattar del ghiaccio, volendo dar a credere d'aver letto e inteso almeno parte delle dimostrazioni del Sig. Galileo, scrive tali e tante esorbitanze, che a redarguirle tutte e ridrizzarle ci vorrebbe un lungo trattato, che sarebbe fatica gettata via, perchè per gl'intendenti non ce n'è di bisogno, e i non intendenti resterebbono nel medesimo stato, mancando loro della cognizione sin de' puri termini dell'arte: però me la passerò brevemente, e solo (acciò che il Sig. Colombo non potesse dir che questa mia scusa fusse un'invenzione per liberarmi dal rispondere alle sue ragioni) toccherò qualche luogo di quei più cospicui e atti a confermar com'egli ha voluto por bocca in materie lontanissime da quella cognizione, che gli altri suoi studii gli hanno ↑ sin qui ↓ apportata.
Ripigliando, dunque, quello che avevamo per le mani, vuol il Sig. Colombo in mente sua mostrar, non esser vera la proposizione che i solidi men gravi dell'acqua si tuffino sin tanto che tant'acqua in mole quant'è la parte del solido demersa, pesi assolutamente quanto tutto quel solido; e se ben poco sopra e' concedette per vera la dottrina d'Archimede, ora danna per falsa questa proposizione, perchè, non avendo egli veduto che ella è d'Archimede, ha creduto che la sia del Sig. Galileo solamente, ↑ e tanto basta intender a lui per giudicarla degna d,'esser tassata. ↓ Nel condennarla poi e assegnar la ragione del suo difetto, scrive [pag. 343, lin. 32-35]: imperochè può esser che la medesima grandezza di mole del medesimo legno abbia più terra o più densità o più pori l'una che l'altra, e anche la medesima mole esser varia in se stessa. Ma poi, che séguita, Sig. Colombo, da queste cose, le quali io vi concedo tutte? perchè non fate la vostra illazione? Ma già che voi non la fate, la farò io per voi: «Adunque quella mole di legno che avrà più terra o densità dell'altra, sarà più grave, e però di lei si tufferà parte maggiore; quella che sarà più porosa, sarà men grave, e se ne tufferà minor parte; e quella che fusse diversa in sè stessa, si fermerebbe nell'acqua con la parte più densa all'in giù, e con la più porosa all'in su»: consequenze tutte vere, e conformi alla dottrina di Archimede e del Sig. Galileo, contrarie alla vostra, e sopra tutto aliene dal proposito e dall'intenzion vostra, se non in quanto i non intendenti, leggendo queste parole, vedranno crescere il volume delle vostre risposte. Soggiugnete poi a questo un altro sproposito maggiore, scrivendo [pag. 343, lin. 35-36]: Sì che in genere e in astratto la regola sendo vera, in pratica è fallace ne' particolari, come voi medesimo affermate a car. 10 [pag. 70, lin. 29-31]. Dove, prima, non si troverà mai che il Sig. Galileo abbia nè scritto, nè creduto, questo che voi gli attribuite; nè ha mai veduto regola alcuna, che sia vera in astratto e fallace ne' particolari: ha ben veduto molti restar ingannati ne' particolari, per non vi saper applicar le regole universali e vere. Secondariamente, quel che scrive il Sig. Galileo, a car. 10, è che una tal conclusione è vera, se bene una apparente ragione, che par buona, è poi in effetto falsa: ma che ha che far il dir; «Questa conclusione è vera, se ben la tal ragione, che di lei par che si possa assegnare, è falsa», col dir: «Questa regola in genere è vera, ma ne' particolari è fallace»? Non vedete voi che questi son due concetti tra di sè differenti come il cielo dalla terra? e voi gli prendete come se fossero una cosa medesima.
Seguite appresso in voler tassar la dimostrazione esattissima del Sig. Galileo, nella quale egli prova come un grandissimo peso poss'esser alzato da pochissima quantità d'acqua; nè avendo voi inteso punto tal dimostrazione, accozzate venti parole senza senso, dicendo [pag. 343, lin. 37 – pag. 344, lin. 2] che tale effetto non depende dal momento, ma dall'angustia delle sponde, e da molti accidenti che variano l'altezza dell'acqua disegnata per sollevare l'un più dell'altro, e lo stesso ancora; e dite che il Sig. Galileo l'afferma parimente: il che se sia vero o no, non posso dir io, perchè non ↑ intendo ciò che voi scrivete, nè ↓ so cavar costrutto nessuno da le vostre parole. Concludete poi, che Archimede non volle venire a questo tritume, come quegli che non lo stimò nè utile nè sicuro. Ma da qual luogo d'Archimede cavate voi che egli non abbia stimata tal notizia nè utile nè sicura? o dove trovate voi che egli abbia mai auto occasione di venire a questi particolari, se egli da i primi elementi in poi rivoltò il suo trattato a materie lontanissime da questa?
Nel redarguir che voi fate alla facc. 33 e 34 [pag. 343-344] il discorso del Sig. Galileo, in mostrar come la velocità d'un mobile poco grave può compensare un gravissimo che si muova lentamente, il che egli fa con l'esempio delle due acque comunicanti insieme, ma una in grandissima quantità e contenuta in vaso grande, e l'altra poca e contenuta in un vaso angusto, oltr'al dichiararvi di non aver capito quello che scrive il Sig. Galileo, avete alcuni particolari notabili, come sarebbe che vi par cosa ridicola che altri si meravigli de gli effetti che son notissimi: di modo che voi, Sig. Colombo, non dovete prender ammirazion veruna nel veder il flusso e reflusso del mare, nel vedere un pezzo di calamita di dieci libbre sostener ↑ più di ↓ trenta libbre di ferro, nel veder un fascio di legne convertirsi in una materia lucida calda e mobile, e risolversi prestamente quasi che in nulla. Ma se voi non vi meravigliate di tali effetti, perchè son notissimi, e se egli è vero che il filosofare trae principio da cotali meraviglie, voi non dovete aver mai filosofato.
È ben bellissima e sottilissima osservazione quella che voi fate nel principio della facc. 34 [pag. 344, lin. 10-13], dove voi dite che credete che il muoversi una cosa più velocemente d'un'altra non operi altro, se non che, se bene il viaggio della più veloce è più lungo del viaggio della più tarda, elleno niente dimeno lo finiscono nell'istesso tempo: acutissima considerazione, e ben degna d'altra meraviglia che qual si voglia de gli effetti nominati, poichè ella c'insegna onde avvenga che un che corra faccia nel medesimo tempo più cammino che un che passeggi.
Reputata che voi avete per falsa la ragione che adduce il Sig. Galileo, dite [pag. 344, lin. 17-20] che stimate, la causa vera perchè la poca acqua contrapesi la molta, esser perchè le sono della medesima gravità in specie. Ma come questo è, nè voi avete altro che considerarci, bisognerà che un bicchier d'acqua, posto in bilancie di braccia eguali, ne contrapesi un barile, sendo della medesima gravità in specie; il che però è falso: però, oltr'all'esser egualmente gravi in specie, ci vogliono l'altre considerazioni del Sig. Galileo. E per assicurarci meglio che voi non avete inteso l'effetto di questa esperienza, non che la ragione, dite [pag. 344, lin. 25-30] che il medesimo accaderebbe se quel cannello sottile fusse nel mezzo del vaso grande, perchè l'acqua del cannello e quella del vaso finirebbono il moto nel medesimo tempo, e per consequenza sarebbono di pari velocità e di pari altezza di livelli; le quali parole o non fanno nulla al proposito di che si tratta, o contengono più d'una falsità: perchè per applicarle al proposito, bisogna intender che l'acqua del vaso grande si abbassi e faccia salir quella del cannello, nel qual caso per un dito che si abbassi quella del vaso, l'altra monterà quattro braccia (se tal sarà la proporzione delle larghezze del cannello e del vaso), e così sarà falso quel che voi dite del conservarsi pari altezza di livello ed esser pari le velocità. Ma forse appresso di voi le velocità si chiamano pari ogni volta che i moti si finiscon nel medesimo tempo, benchè gli spazii passati fossero poi diseguali.
La chiusa che voi fate a questa disputa nel principio della facc. 35 [pag. 345, lin. 8-14] è un mescuglio senza senso di cose parte false e parte vere. Falso è che il Sig. Galileo si sia messo a ristampare 'l suo trattato per levarne alcuna cosa, non n'essendo levato pur una sillaba; nè so qual confidenza vi possa aver indotto a stampar, come vera, cosa della quale una semplice vista del trattato del Sig. Galileo può dimostrare il contrario. Falso è che egli abbia mutato parere in nessuna cosa: non che egli non fusse per mutarlo, sempre che si accorgesse d'aver mal detto, ma in quest'occasione non ha auto tal bisogno. Che egli si sia dichiarato per non si esser da sè medesimo inteso, come voi dite, è tanto falso, quanto è vero che voi non avete inteso delle venti parti una del suo trattato, ↑ benchè egli molto bene si sia dichiarato. ↓ Falso è che egli per nessuno di questi rispetti l'abbia ristampato; ma ben lo ristampò il libraio, per essere in un mese rimasto senza nessuno di quei della prima stampa. Quel che ci è di vero è la vostra medesima confessione di non l'avere inteso; e io sarò sempre pronto a far ampia fede che voi di tutte le cose essenziali non avete intesa parola: ma è ben falsissima l'aggiunta che voi ci fate, d'essere del pari col Sig. Galileo in non intender l'opera sua; e il confessar voi di non l'intendere v'esclude dal poter giudicare se egli o altri l'abbiano intesa; sì come l'intenderla molti, ed io in particolare, senza che mi manchi da desiderar nulla in tale intelligenza, ci rende sicuri che tanto maggiormente l'intenda il suo autore.
Facc. 35, v. 11 [pag. 345, lin. 15-16]: Circa la disputa che avesti del diacio, se da quella ebbe origine la nostra, non so io, perchè non l'aveste meco etc.
Di sopra il Sig. Colombo, quand'era tempo di rispondere all'istanza che il Sig. Galileo faceva a gli avversarii che non vogliono che la falda o assicella si bagni, dicendo loro che questa è una lor fuga nuovamente introdotta, poichè la disputa ebbe principio sopra 'l galleggiare delle falde di ghiaccio, le quali, benchè sien bagnate, galleggiano; il Sig. Colombo, dico, si liberò con dire che egli non fu presente a tal disputa, e che quanto al ghiaccio non ne voleva saper altro, e così veramente non ne ha mai trattato. Con tutto ciò ora non solamente s'ingolfa nel disputar se 'l ghiaccio sia acqua rarefatta o no, materia della quale il Sig. Galileo non ha mai discorso, come lontanissima dall'instituto del suo trattato; ma quello che più mi fa stupire è, che egli scrive d'aver mostrato al Sig. Galileo che niente gli gioverebbe il far fondamento su l'aver detto gli avversarii che le falde di ghiaccio galleggiono per la figura: e pur egli (dico il Sig. Colombo) di ciò non ha mai parlato, anzi ha scritto non esser suo obbligo nè volerne trattare. Ma s'e' trapassa con silenzio, in materia del ghiaccio, quei particolari che più sarebbon necessarii al principale scopo della presente disputa, ben poss'io lasciar di più affaticarmi nella questione se si faccia per condensazione o per rarefazione, che nulla appartiene al caso, e che per ben definirla ci sarebbe necessario particolare e lungo trattato, tirandos'ella dietro molt'altre questioni naturali, e massime disputandola col Sig. Colombo, che suppon molte cose per vere che son molto più dubbie di questa, sì che ciascuna ricercherebbe un altro particolar trattato; e io, che sono stanco nello scrivere in reprovar tante vanità, volentieri mi apprenderò al riposo, e solo toccherò qualche passo di breve esplicazione.
Comincia il Sig. Colombo, secondo che la sua filosofia gl'insegna, ad accomodar le cose com'e' bisognerebbe che elle stessero per il bisogno suo, supponendo al primo tratto per vero quell'appunto che è in quistione; e dice a facc. 35, v. 22 [pag. 345, lin. 24-27]: Il diaccio, secondo la ragione e la comun sentenza de' litterati e l'esperienza, non è altro che acqua congelata e condensata per virtù dell'aria fredda ambiente, che spremendo e costringendo l'acqua ne scaccia le parti sottilissime, onde quel corpo ingrossa e resta più terreo, e per ciò si congela etc.
Ma, Sig. Colombo, come la cosa sta così, la disputa è bell'e finita, e voi avete tutte le ragioni del mondo. Ma di tutte queste cose, che voi supponete per vere e note, io non son sicuro se non d'una, e questa è che il ghiaccio sia acqua congelata; ma che la sia condensata non lo so, anzi questo è 'l punto della controversia. Non m'insegnate manco che tal condensazione si faccia per virtù dell'aria fredda ambiente; anzi, se si deve stare su' principii della vostra filosofia, questo è un impossibile e una gran contrarietà, che l'acqua, la quale voi ponete fredda per natura, poss'esser congelata per virtù dell'aria, che per natura è calda e umida, condizioni amendue contrarie e dissolutrici del ghiaccio; anzi è anco direttamente contrario a voi medesimo, che alla seguente car. 37, v. 13 [pag. 347, lin. 10-11], scrivete così: Per qual cagione non ghiaccia l'aria, se non perchè, oltre all'esser calda, è rara e sottile più dell'acqua? Come dunque dite ora che il freddo dell'aria fa ghiacciar l'acqua? Voi sicuramente non vi sete accorto di questa contradizione; niente dimeno m'aspetto che venghiate con un per accidens, come se voi ci aveste pensato cento volte: ma perchè non l'avete voi già prodotto, se senz'esso non si poteva far bene? Parimente, che quest'aria fredda sprema e costringal'acqua e ne scacci le parti sottilissime, ond'ella resti più grossa e terrea, è detto, ma non provato, benchè tutto sia molto bisognoso di prova per molti rispetti; anzi di alcune cose l'esperienza e la vostra filosofia ne persuadono più presto 'l contrario; perchè conceduto che ne' primi elementi sia diversità di parti grosse e sottili, che pur repugna alla filosofia, bisogna provar che 'l freddo abbia virtù di spremer le parti sottili; poichè altra volta, contrariando a voi stesso, direte che 'l caldo cava dall'acqua le parti più sottili e lascia le più grosse, come si vede per le distillazioni ↑ e nell'acque marine. ↓ Parimente, il conceder le parti sottilissime nell'acqua e le terree, è un farla un misto, e non un primo elemento. E finalmente, qual ragione vi persuade che l'ingrossarsi l'acqua, e il restar più terrea, la faccia congelare? non vedete voi che, se ciò fosse, l'acque torbide e le salse dovrebbon, come molto terree, esser le prime a congelarsi? nulla di meno accade tutto 'l contrario.
Voi seguite a facc. 35, v. 26 [pag. 345, lin. 27-32]: Ma perchè nel co stringersi le parti grosse, alcune di quelle parti aeree e sottili rimangono là entro racchiuse tra i pori dell'acqua già congelata, non atte a congelarsi, però se bene sciema di mole e conseguentemente pesa più che tant'acqua della medesima mole, ad ogni modo, per quell'aria racchiusa, galleggia e sopranuota nell'acqua.
Io veggo, Sig. Colombo, che nè la lettura del trattato del Sig. Galileo, nè l'aver almanco vedute scritte in diversi luoghi alcune proposizioni di Archimede, non hanno profittato punto nella vostra intelligenza, e restate ancora in opinione che una mole, che pesi più d'altrettant'acqua, possa galleggiare. O se voi avete tante volte ammessa per vera la dottrina d'Archimede, nella quale si trova dimostrato, e ben nella prima fronte, che i solidi più gravi di altrettanta mole d'acqua di necessità vanno al fondo, come ora dite che galleggiano? Voi direte, ciò avvenire solamente di quei solidi che contengono in loro molt'aria. No, Sig. Colombo, tutti i solidi del mondo, che pesan più d'altrettanta mole d'acqua, vanno al fondo, abbin pur in loro quant'aria vi piace, che ella non gli porgerà aiuto nessuno. Ma voi non avete mai potuto intender questa cosa, e io mi diffido interamente di potervene far restar capace.
Immaginatevi una palla di vetro sottilissimo, la quale piena di cera pesi, v. g., dieci libbre e una dramma, ma che tanta mole d'acqua pesasse solamente dieci libbre; quella palla, come più grave una dramma d'altrettant' acqua, andrà senz'altro affondo. Togliete via la cera e lasciate la palla piena d'aria, e solo mettetevi dentro tant'oro che, tra esso e 'l vetro, s'abbia il peso di libbre dieci e una dramma; che credete voi che questa sia per fare nell'acqua, ↑ contenend'in se tanta gran quantità d'aria? ↑, Andrà nè più nè meno in fondo, benchè dello venti parti di tal mole ve ne sien più di diciotto d'aria (e intanto notate dove vanno i vostri predominî). E perchè andrà in fondo? perchè pesand' altrettanta mole d'acqua dieci libbre, questa mole di vetro d'aria e d'oro pesa una sola dramma di più. Però, quando voi dite, un pezzo di ghiaccio pesar più d'altrettanta mole d'acqua, ma non dimeno galleggiar mediante l'aria in esso racchiusa, dite una gran falsità: la qual vien poi raddoppiata a sette doppi, mentre che, nel farsi il ghiaccio, dite che non se gli accrescono porosità sopra quelle che si trovano prima nell'acqua, ripiene di quelle parti sottili che, spremute dal freddo, scappano via come l'anguille di mano a chi le stringe; anzi ch'elle si scemano per la partenza di queste parti sottili e per il ristringimento delle più grosse che restano, e solo dite che quella parte di porosità che resta nel ghiaccio, occupata da aria o da altra cosa che siano queste parti sottili che avanzano dopo l'espressione dell'altre, dite, dico, che questo residuo di porosità non fa altro che, dove prima erano disseminate per l'acqua in grandissimo numero, si riducono a minor numero, facendosi, come dir, di quattro o sei una sola. Ecco le vostre parole alla facc. 37, v. 25 [pag. 347, lin. 21-25], dove, parlando di queste porosità, dite che elle regolarmente non ampliano la mole, ma solo si ritiran quivi alcune parti sottili e aeree, unendosi insieme quelle della stessa mole, senza che ven'entri di nuovo, e per ciò non può la mole crescer per tal cagione, poichè quello che era sparso per più luoghi del corpo dell'acqua non ha fatto altro che ridursi in manco luoghi, ma più unito. Talchè chiaramente si vede che voi credete che non solo le parti più grosse dell'acqua si constipino e condensino, ma che molte dell'aeree si partino, riserrandosi le porosità dentro le quali erano contenute, e che le porosità che restano si riduchino in manco luoghi, senza farsen'altre di nuovo; e così veramente il ghiaccio non è dubbio che sarà più denso, men poroso e, in conseguenza, più grave dell'acqua: se non fusse che, ↑ oltre al non provar voi nulla di quanto scrivete, ↓ l'impossibilità del trovar ripiego al suo galleggiare tronca tutto questo vostro discorso, perchè, quando il ghiaccio non diminuisse punto di mole, nè si partissero le parti più leggieri, nè si scemassero le porosità, egli ad ogni modo non potrebbe galleggiare com'egli fa. E voi potete persuadervi ch'e' si ristringa, che partano le parti aeree, che vi resti meno di porosità, e che in somma si faccia più grave d'altrettanta mole d'acqua, e che ad ogni modo galleggi? Sig. Colombo, voi avete un ingegno molto docile e facile a capir ogni sorte di dottrina. Egli è forza che voi crediate che dieci di quelle porosità sparse sostenghin assai meno che le medesime ridotte in una sola, o vero che voi non abbiate ancora fornito di produr tutte le vostre distinzioni, regole e limitazioni, che bisognano per capir queste sottilità; però aspetterò di sentirle.
Voi passate [pag. 345, lin. 33 – pag. 346, lin. 7] alle dichiarazioni del raro e del denso e del poroso. Nelle due prime non ho che dirvi altro, se non che vi ho una grand'invidia, che con tanta resolutezza ponghiate quel che elle sono, e vi persuadiate d'intender senz'alcuna difficoltà come, senz'ammetter vacuo, le parti di un corpo possin estendersi in maggior mole e rarefarsi, e, all'incontro, senza penetrazion di corpi restringersi e condensarsi. A me, e credo anco al Sig. Galileo, queste posizioni, che voi come notissime supponete, sono delle più astruse cose di tutta la natura; e a voi non solamente son facilissime, ma ve l'andate di più aggiustando in maniera (ma però con parole solamente ↑ e senza veruna prova ↓), che al bisogno poi quadrano a capello all'intenzion vostra: e però supponete, senza punto titubare, che la condensazione regolarmente si suol ne' corpi cagionar dal freddo, parlando di quei corpi in particolare che per accidente dall'aria fredda si condensano. Non si poteva già aggiustarla più puntualmente per il ghiaccio. E non v'accorgete, Sig. Colombo, che voi andate continuamente supponendo quel che è in quistione? Quanto alla porosità, se ella è quel che voi dite, cioè una scontinuazione e divisione di parti del continuo, bisogna che tutti i corpi porosi sien discontinui: e perchè voi mettete la porosità in tutti i corpi, sino ne' diamanti, adunque non si troverà corpo alcuno continuo; il che è poi contro alla vostra propria dottrina e opinione. Ho detto che voi mettete la porosità in tutti i corpi; ma dovevo eccettuarne l'aria, la quale voi dite esser senza pori, benchè la terra, l'argento, l'oro, i diamanti e altri, corpi densissimi sieno, come voi stesso affermate, porosi. Che poi l'aria si deva stimare senza pori, mi par che molto languidamente venga da voi dimostrato, mentre non dite altro se non che, s'ella fosse porosa, vi sarebbe il vacuo. Ma se la terra e l'oro etc. son porosi senza ammetter il vacuo, perchè non può l'aria ancora essere tale? Di che son ripieni i pori della terra? se non volete mettergli vacui, bisogna dir che son ripieni d'acqua, o d'aria, o di fuoco? e così, ponendo voi l'acqua ancora porosa, parmi che facciate i suoi pori pieni d'aria; or perchè non si potrà con altrettanta ragione dir che l'aria sia porosa, e abbia i pori ripieni di fuoco? Bisogna che voi assegniate le cause che vi muovono ad affermar queste proposizioni, perchè l'attendere, come voi fate, a metter di molte cose in campo senza provar mai nulla, è un perder tempo per voi e per gli altri.
Voi producete in questo medesimo luogo [pag. 346, lin. 17-21] un'esperienza per provar che l'acqua nel diacciarsi si ristringa e diminuisca di mole, e dite ciò farsi manifesto perchè a metter una conca d'acqua all'aria di verno e farla ghiacciare, il ghiaccio si trova intorno intorno staccato dalle sponde del vaso, e sotto tra l'acqua e 'l ghiaccio molta distanza, e per ciò bisogna dire che egli si sia ristretto e diminuito di mole. Ma da tal esperienza, se si considererà attentamente, credo che si possa così ben raccòrre 'l contrario, come quello che ne vorreste dedur voi. Imperò che, se ben voi dite che 'l ghiaccio si trova staccato dalle sponde della conca, è però forza che egli le tocchi, perchè s'e' ne fusse lontano (trovandosi, come voi dite, molto lontano anco dall'acqua di sotto), bisognerebbe ch'e' si reggesse in aria, che sarebbe molto più che galleggiar nell'acqua; in oltre, la figura di cotal vaso è tale, che verso le parti superiori si viene allargando. Ora, stanti queste cose che 'l senso ci dimostra, io dirò che quella parte d'acqua che s'è fatta ghiaccio, nel congelarsi non s'è altramente ristretta, perchè se questo fusse, il ghiaccio si troverebbe separato dalle sponde della conca e appoggiato su l'acqua di sotto; dove che il ritrovarsi, per l'opposito, molto lontano dall'acqua (come voi stesso affermate) e contiguo alle sponde del vaso, ci dà indizio che la dilatazione e accrescimento della sua mole l'abbia sforzato a sollevarsi in alto, dove lo spazio e la capacità della conca è maggiore.
Aveva il Sig. Colombo veduta una simile instanza che gli poteva esser fatta contro, e però la promuove e acutamente la risolve. Nel promuoverla dice [pag. 346, lin. 21-23]: Non vi inganni il veder che forse alcune volte nello staccarsi dal , vaso possa il ghiaccio essersi sollevato alquanto, e per ciò vi paia cresciuto di mole. Questa è l'istanza. La risposta e soluzione ch'e' n'apporta è questa: perchè 'l fatto sta altramente; e niente più. Ma, Sig. Colombo, questo non è modo di rimuover l'obbiezzioni; però sen' attenderà più distinta esplicazione.
Voi, in questo luogo [pag. 346, lin. 27-29], mandate il Sig. Galileo a imparar dalla fante, la quale dite che gli mostrerà che quando ha piena la pentola di lardo strutto, a lasciarlo freddare e congelare cala di maniera di mole, che fa nel mezo uno scodellino, dove prima era gonfiato. Veramente, Sig. Colombo, credo che da poco miglior maestro voi abbiate appresa cotal dottrina, anzi da tanto men dotto, quanto che la fante del Sig. Galileo, domandata di cotal problema, scoppiò in un gran riso, e poi, stimando che fusse pensiero di qualche altra quoca, disse: «E chi è cotesta tanto balorda, che crede e dice che 'l lardo rappreso sia ghiacciato? Io vi farò vedere il lardo far quella fossetta nel freddarsi anco di mezza state, anzi avanti ch'e' sia finito di raffreddarsi; e voi vi lasciate dar ad intendere ch'e' sia ghiacciato?» Presa poi, per nostro maggiore avvertimento, una caraffa col collo assai lungo, e empiutala d'acqua sino a mezo 'l collo, e messala al fuoco, ci mostrò come nello scaldarsi ella andava ricrescendo, sì che avanti che levasse 'l bollore era ricresciuta più di tre dita; rimossala poi dal fuoco, nell'intepidirsi andava decrescendo e riducendosi al primiero stato; ond'io compresi che 'l fuoco aveva ben fatto rigonfiar l'acqua sopra la sua natural costituzione, e che così accadeva del lardo della cera e del mele, alla qual costituzione ritornavano nell'intepidirsi e freddarsi, nè quella passavano per qualunque sopravvegnente freddo. Veduto con quanta facilità e evidenza ella discorreva, gli facemmo proposta anco dell'altra esperienza presa da gli oliandoli, dicendogli che veramente quant'all'olio pareva che si potesse chiamar diacciato, non facend'egli tal effetto d'assodarsi, se non per gran freddo; e ella di nuovo ridendo, dopo aver intesa l'occasione per la quale gli facevamo simili quesiti; disse: «Adunque non sapete rispondere che l'olio nel ghiacciarsi si condensa, ma che l'acqua si rarefà?» Sì che, Sig. Colombo, quando voi vogliate chiamar tutte le nominate materie ghiacciate, il Sig. Galileo vi concederà facilmente che queste nel ghiacciarsi si condensano, ma dirà che l'acqua si rarefà, non avend'ella che far nè con l'olio nè con la cera nè col lardo. Anzi, come non vi accorgete che tutto questo vostro discorso è contro di voi, e necessariamente conclude l'opposito di quel che voi ne raccogliete? Ecco che io ve lo dimostro. Perchè io veggo, Sig. Colombo, che l'olio nel ghiacciarsi scema di mole e si ristrigne, e che gettato nell'olio non ghiacciato va in fondo, però dico che egli è condensato e ingravito: e perchè 'l lardo la cera e 'l mele essi ancora nel ghiacciarsi si ristringono, poi che il senso ci mostra che gli scemano di mole e vanno in fondo ne' medesimi liquefatti, però affermo essi ancora esser fatti densi e più gravi: e seguendo questo ottimo e sicurissimo modo di discorrere, perchè io veggo l'acqua nel ghiacciarsi far tutto l'opposito, cioè crescer di mole e 'l ghiaccio galleggiar sempre nell'acqua, fo di essa contrario giudizio, e dico che ella si rarefà e divien men grave. E argomento bene, e voi pessimamente; pessimamente, dico, perchè dite: «L'olio, la cera, il lardo nel ghiacciarsi si condensano, perchè scemano di mole e vanno in fondo; adunque l'acqua ancora nel ghiacciarsi si condensa e ingravisce, se ben cresce di mole e galleggia», e vi lasciate muover più dall'identità d'un nome imposto da gli uomini, che dalla contrarietà degli effetti che dalla natura son prodotti e l'esperienza vi mostra; e vedendo che l'olio, quando si chiama ghiacciato, scema di mole e in consequenza cresce di peso, volete che l'acqua congelata, perchè si chiama ghiacciata, essa ancora, in virtù di questo nome, ottenga per necessità quelle condizioni medesime. Ma se 'l nome vi dà fastidio, mutateglielo, e accomodatevi una volta a filosofar sopra le cose e non sopra le parole.
L'affaticarsi che voi fate [pag. 346, lin. 37 – pag. 347, lin. 3], per persuader al Sig. Galileo che 'l ghiaccio, l'argento, l'oro e sino a i diamanti durissimi sien corpi porosi, è spesa superflua, perchè egli vi concederà che, oltr'a questi, tutti gli altri ancora sien tali; ma non l'argomenterà già tanto dalla lontana, come fate voi del diamante, che, per provarlo poroso, avete bisogno di dir che e' getta odore, e per mostrarci ch'e' getta odore, sottoscrivete a quel che scrivono i naturali, cioè che i cani gli trovano all'odorato: ↑ ragione tanto debole, quanto potrebbe per avventura esser ch'ella non avesse altro fondamento, se non che una volta un cane trovasse un diamante perso dal suo padrone, e lo trovasse per l'odor lasciatogli dalla mano del padrone, e non per sito proprio, che venga dalla pietra. ↓ Talchè se voi non producete altri fondamenti per la vostra filosofia, credo che persuaderete molto poco; perchè chi sentisse ordinar il discorso, che da tal ipotesi si deduce, dicendo: «È fama che i cani trovino i diamanti, adunque gli trovano all'odorato, adunque bisogna che 'l diamante getti odore, adunque bisogna ch'e' sia poroso, perchè i corpi che non son porosi non rendon odore; adunque, se il diamante è poroso, molto più sarà poroso 'l ghiaccio, e però il ghiaccio galleggia medianti i pori, e però è acqua condensata», chi sentisse, dico, questa gradazione, nella quale sono di gran salti mortali, credo che si sentirebbe tirar molto più al ridere che al prestar l'assenso alla forza del discorso. Nè mi diciate che il porgerlo così nudo e arido gli tolga l'enfasi del persuadere; perchè, Sig. Colombo, gli ornamenti o i colori rettorici son buoni a persuader il probabile, e anco alle persone facili solamente; ma le cose della natura e le necessarie richieggono altri termini di dimostrazioni. Nulla dimeno il Sig. Galileo concederà che il ghiaccio sia poroso, dico anco quello che al senso par senza pori (benchè voi, a facc. 37, v. 39 [pag. 347, lin. 33-34], scrivete che egli medesimo dice che c'è del ghiaccio che non è poroso, tanto poco apparisce, il che non si trova nel libro del Sig. Galileo, massime con quell'ultima particola da stolto; chè ben altri che un simile non direbbe: «Nel ghiaccio non son porosità, perchè appariscon poco», poichè non solamente è necessario che le vi sieno, apparendo un poco, ma vi potrebbon essere e non apparir punto): vi si concederà, dunque, che egli sia poroso; ma bisogna che voi altresì concediate che simili porosità fussero anco nell'acqua, benchè non si vedessero, e in consequenza non bastano per far galleggiare il ghiaccio: vi si concederà bene che quelle bolle visibili e grandi faccino, quando vi sono, galleggiar molto più gagliardamente; ma che le porosità invisibili dell'acqua, delle quali anco molte si riserrano, come voi affermate, nel congelarsi, e come la diminuzion di mole, creduta da voi, necessariamente conclude, possin esser causa di galleggiare, sin che voi non lo dimostrate in altra maniera, non vi si ammetterà.
Alla facc. 37, v. 9 [pag. 347, lin. 7-9], producete un altro argomento per provar il ghiaccio farsi per condensazione, e lo cavate dalla flussibilità. dicendo che se ei fusse rarefatto, egli sarebbe più corrente, flussibile e terminabile che non è l' acqua stessa, e non dimeno è sodo come pietra. Ma, Sig. Colombo, voi non concluderete nulla, se voi non provate prima che la flussibilità con la rarità, e la sodezza con la densità sempre scambievolmente si conseguitino; nel che credo che averete che far assai, già che si veggono molti corpi durissimi esser più rari assai d'altri che son flussibili o men duri. E chi dirà che l'acciaio non sia più raro del piombo e dell'oro? e pur è tanto più duro. E l'argento vivo non è egli flussibilissimo, e terminabile più del legno o della pietra? e pur credo che egli sia molto più denso. Ma voi forse vi ritirerete a dire che intendete del corpo comparato seco medesimo, e non con altri, stimando che nel condensarsi deva anco di necessità indurirsi, e farsi fluido nel rarefarsi. Ed io vi dirò, che questo ancora ha bisogno di prova, non n'avendo voi addotto ragion alcuna, e essendo altrettante esperienze contro di voi, quante per avventura ne potrebbono esser in favore. Ma quel che più importa è, che se la sodezza si andasse agumentando conforme alla densità, bisognerebbe che una botte d'acqua nel farsi ghiaccio si riducesse ad assai minor mole d'un vuovo, perchè non è dubbio alcuno che molto maggior proporzione ha la flussibilità dell'acqua a quella del ghiaccio, che la mole d'una botte a quella d'un vuovo. Voglio inferire, che se la durezza del ghiaccio in comparazion di quella dell'acqua non avesse a crescere più di quel che la sua mole diminuisce dalla mole dell'acqua (concedutovi anco che il ghiaccio scemi di mole, il che è falso), egli doverebbe essere pochissimo men fluido dell'acqua; niente di meno egli è più di cento millioni di volte più duro; ond'è necessario che tal durezza dependa da altro principio che dalla condensazione.
Considerate, dunque, la debolezza de' vostri discorsi, e quanto rare volte vi succeda il poter fondar un assioma resoluto e chiaro, sì che non sia immediatamente bisognoso di qualche limitazione: onde senza allontanarsi dalla materia, si legge nel vostro Discorso a facc. 38, v. 3 [pag. 347, lin. 38-40]: Il freddo ha virtù di spremere e restrignere ogni cosa, sì come il caldo, suo contrario, di assottigliare, dilatare e aprire; ma subito vi bisogna soggiugnere, acciò vi troviate in utrumque paratus: «benchè per accidente possa accadere 'l contrario, il che non si prova da voi. Ma, Sig. Colombo, queste ultime parole, come anco alcun'altre un verso di sopra, che son queste: bisogna che proviate che il freddo abbia possanza di rarefare 'l ghiaccio, il che non avete fatto; queste parole, dico, son molto fuori di proposito, perchè a voi tocca a provar ogni cosa, essendovi messo a trattar diffusamente del ghiaccio, e non al Sig. Galileo, che non si è mai posto a cotal impresa, come nulla rilevante alla sua principal intenzione. Quanto poi alla limitazion del per accidente, che voi aggiugnete alla regola assegnata, che sapete voi che la congelazione dell'acqua non sia appunto un de' casi eccettuati dalla limitazione? e se lo sapete, perchè non l'avete specificato? Sin che voi non trovate modo di persuadere il contrario, io, Sig. Colombo, crederrò che voi vi siate fatto lecito in filosofia di attribuire alle cause il nome di per sè e per accidente ad arbitrio vostro, e che voi ponghiate nome di per sè a quella che fa più per voi o che è la prima a venirvi in fantasia, lasciando il per accidens a quella che farebbe per l'avversario o che è la seconda a sovvenirvi: e così crederò che voi abbiate detto che 'l caldo per sè ammollisce, e indura per accidens; perchè prima vi abbattesti a vedergli liquefar la cera che indurir l'uova; e però, sendovi in questa occasione del ghiaccio composto le vostre regole, concludete, nel fine di questa facc. 37 [pag. 347, lin. 34-35]: Adunque il ghiaccio per causa de' pori non cresce di mole regolarmente, ma forse per accidente, il che non farebbe per voi. Ma, Sig. Colombo, voi sete troppo scarso de' misteri della vostra filosofia, poi che tanto frequentemente ne destate il desiderio al lettore, e il più delle volte lo lasciate digiuno, anzi in maggior brama che prima; e nel presente proposito io credo che il Sig. Galileo volentieri arebbe inteso, prima, che cosa sia appresso di voi il crescer di mole per causa de' pori regolarmente, e il crescer per accidente; poi, qual differenza sia tra questo crescere e quello, e per qual cagione il crescer per accidente non farebbe per lui; avvenga che io non credo che nè egli nè altri intenda quel che voi vi vogliate dire, ma che abbiate, col vostro primo artifizio, scritto più per far volume che per lasciarvi intendere. Con tutto ciò in virtù de' vostri discorsi vi persuadete aver dimostrato, contro a quel che porge 'l senso e l'esperienza, il ghìaccio non crescer di mole nel ghiacciarsi: e però lo scrivete alla facc. 38, v. 7 [pag. 348, lin. 1]. Ma già che l'esperienza della conca, proposta di sopra da voi, non vi par che mostri il contrario, ve ne additerò un'altra. Pigliate un bicchier di questi fatti a colonna, cioè largo per tutto egualmente, o vero, per fuggire il pericolo dello scoppiare, pigliate un simil cannone di banda stagnata, e empietelo d'acqua sin presso all'orlo a mezzo dito, e ponetelo a ghiacciare; che certo voi troverete che ella, ghiacciata che sia, sopravanzerà l'orlo del vaso: e tanto vi mostrerà l'esperienza, e questo si domanda crescer di mole. Voi poi potrete farci avvertiti con altri discorsi, che questo non si deve chiamar crescer di mole, o che egli è un crescer non regolarmente, ma per accidente, o che egli non dovrebbe far così, o che questo non fa per il Sig. Galileo, anzi che è direttamente contro di lui, o qualche altra cosa a me inopinabile.
Quanto poi a quel che in questo luogo medesimo [pag. 348, lin. 1-6] scrivete, cioè che quando bene il ghiaccio o qualunque altro corpo per qualche accidente crescesse o scemasse di mole, si potrebbe negare che per tal ampliazione o diminuzione fosse divenuto più leggieri o più grave in specie dell'acqua, perchè la proposizione in universale è falsa, ne lo dice Archimede altramente, nè si cava da lui in modo alcuno, come vendeste nella vostra aggiunta per autorizar sì bella opinione; qui, prima che io vada più avanti, son alcune cose da notarsi. E prima, questa che voi domandate proposizion falsa, non è una proposizione, ma è una difinizione, o volete dire esplicazione di termini: secondariamente, non è falsa, perchè tali difinizioni non son mai false, poi che è lecito a ciascheduno il porle ad arbitrio suo. Che voi non l'abbiate letta in Archimede, nè cavata da lui in modo alcuno, ne son sicuro, ma non per ciò ne séguita che ella non vi sia, ↑ o che da lui non si cavi; ↓ anzi, avendo egli compreso non si poter trattar di questa materia senza paragonar il peso del solido col peso d'altrettanta mole d'acqua, cominciando a dimostrar la prima passione, il che fa nella terza proposizione del primo libro, propose così: I solidi, che essendo eguali in mole con l' acqua, pesano quanto lei, posti nell'acqua si tuffano tutti, sì che parte alcuna non resti fuori, ma non però vanno in fondo etc.; e seguendo poi l'altre sue proposizioni, sempre paragona 'l peso del solido col peso d'altrettanta mole d'acqua, senza 'l quale assunto è impossibile, per quelli che 'ntendono che cosa è dimostrare, il concluder accidente nessuno in tal proposito. Ora, paragonandosi 'l peso d'un solido col peso d'altrettanta mole d'acqua, è ben necessario, o che pesino egualmente, o uno più dell'altro; che son appunto l' egualmente grave in specie e il più grave in specie del Sig. Galileo. E però, stanti queste definizioni, darebbe indizio d'intender poco chi credesse di poter negare che per l'ampliazione o diminuzion di mole il ghiaccio divenisse più leggieri o più grave in specie dell'acqua; perchè se, v. g., dieci libbre d'acqua, facendosi ghiaccio, si diminuisce di mole e resta dieci libbre di peso come prima, è chiaro che, conforme alla difinizione, il ghiaccio sarà più grave dell'acqua, poi che minor mole di esso pesa quanto una maggior mole d'acqua; e all'incontro, se nel farsi ghiaccio la mole dell'acqua s'accresce, il ghiaccio sarà men grave dell'acqua, poichè maggior mole di esso pesa tanto quanto una minor mole d'acqua. E sappiate, Sig. Colombo, che quelli che metton difficoltà sopra questi puri termini posson lasciar andare il filosofare a lor posta, come mestiero lontanissimo dalla capacità del lor cervello; perchè, com'altre volte v'ho detto, nelle definizioni de' termini non può mai cader fallacia che alteri punto le verità filosofiche, se non quando nell'applicargli e usargli altri gli prendesse diversamente da quello che da principio aveva stabilito, sì come più abbasso con qualche esempio vi dichiarerò meglio.
Voi nulla dimeno vi immaginate che si possa negare che il ghiaccio, quantunque egli cresca o scemi nel farsi, divegna più o men grave in specie dell'acqua; e il simile dite accader de gli altri corpi: la qual proposizione voi andate provando con un'esperienza, e dite: Prendasi una spugna, inzuppisi d'acqua, e crescerà di mole gonfiando, ma calerà al fondo; la medesima spremuta, asciutta e diseccata, scemerà di mole, e nulla di meno galleggerà nell'acqua; adunque nell'ampliazione non divenne più leggieri, e nel ristringimento non si fece più grave. Dalla quale esperienza io vo comprendendo che voi non avete ancor capito ciò che voglia dire ampliazione o diminuzione di mole, nè meno quel che significhi esser più o men grave in specie dell'acqua. Ampliarsi un corpo, Sig. Colombo, o crescer di mole, è quando la medesima materia, senz'altra che sopraggiunga, si dilata e distrae in maggior quantità; come se avendo voi uno schizzatoio con dell'aria entrovi sino a mezo, e che, serrato il foro del suo cannello, con forza tiraste in dietro la mazza ancora quattro o sei dita di più, quell'aria compresa, senza che altro corpo entrasse nello spazio fatto più grande, si distrarrebbe ed amplierebbe di mole, a occupar tutto quel luogo: e questo, Sig. Colombo, si domanda crescer un corpo di mole. Che se, all'incontro, in cambio di tirar la mazza in dietro voi la calcherete sopra la prima aria, quella cedendo si ristrignerà in luogo più angusto assai, senza che niente se ne parta: e questo si dimanda condensarsi e ristrignersi e diminuirsi di mole. Le quali operazioni non alterano il peso assoluto del corpo distratto o compresso, ma sì bene la gravità in specie, in relazione a qualche altro corpo: e per ciò un pezzo di ghiaccio fatto di dieci libbre d'acqua, pesa ancora l'istesso assolutamente, e senza referirlo ad altro corpo; ma se nel ghiacciarsi la mole sarà cresciuta, la sua gravità in specie sarà diminuita, comparandosi con tant'acqua quant'è la nuova mole acquistata, perchè altrettanta acqua in mole, sì come è manifesto, peserà più di dieci libbre. Ma voi, con modo più ingegnoso, crescete la mole d'una spugna ed insieme la sua gravità, col metter di molt'acqua nelle sue porosità e caverne, e, quel che è più ridicoloso, dite che tale ampliazione è fatta per qualche accidente. Ma a farla per qualche sustanza, di che cosa riempiereste quelle cavità? Io mi meraviglio, che, per far l'esperienza più sensata ed apparente, voi non abbiate ordinato che nelle dette cavernosità si vadano stivando quattro o cinquecento lagrime di piombo; perchè così la mole si amplierebbe ancor più, e molto più si accrescerebbe il peso. Questo, Sig. Colombo, non si domanda ampliar la mole d'un corpo, ma congiugner due corpi insieme, o volete dir rimuovere un corpo da un altro e, in vece del tolto, sostituirglien'un maggiore e più grave; la quale operazione io non so come voi possiate far che ella faccia punto al vostro proposito ; che è di provare come l'ampliazione di mole si può far senza scemar la gravità in specie, come anco la diminuzion della mole senza accrescimento pur della gravità in specie; la qual cosa è pur tanto facile a capirsi, che basta l'aver intesa solamente la difinizione del più e men grave in specie. Quello poi che voi soggiugnete per tanto maggiormente aggravar l'errore del Sig. Galileo, è tanto lontano dal proposito, che non ricerca risposta nessuna, ma basta considerar quel che dite e l'occasione perchè lo producete. Quel che voi producete è l'aver il Sig. Galileo affermato, che se le porosità d'un legno saranno piene d'acqua, egli si farà più grave, senza crescer o diminuir la sua mole, che se le medesime saranno piene d'aria; il che è verissimo, ma non contraria punto nè pregiudica alla verità dell'altra proposizione, cioè che un corpo che si condensi, senza aggiugnerli o scemargli la materia, diventi più grave in specie in comparazion dell'acqua o d'altro corpo. Queste son proposizioni tutte vere, diversissime fra loro, nè punto repugnanti l'un'all'altra, ma, per quel ch'io scorgo, nessuna di loro 'ntesa da voi.
Facc. 38, v. 32 [pag. 348, lin. 23-24]: Sentite, Sig. Galileo, se per causa di rarefazzione il ghiaccio galleggiasse, è impossibile che non galleggiasse anco l' olio ghiacciato nell'olio.
Io, Sig. Colombo, non posso a bastanza meravigliarmi delle strane consequenze che v'andate formando. Il Sig. Galileo dice che 'l ghiaccio galleggia perchè è acqua rarefatta, e voi ne deducete in consequenza che se questo fusse vero, anco l'olio ghiacciato galleggerebbe nell'olio. Ma il Sig. Galileo vi spedirà in una parola, e dirà che se l'olio nel ghiacciarsi si rarefacesse, come fa l'acqua, esso parimente galleggerebbe; ma perchè quello non si rarefà, ma si condensa, però va in fondo: ed è risposta facilissima e vera. Anzi voi medesimo, nella seguente car. 40, v. 27 [pag. 350, lin. 12], avendo bisogno, ↑ per certo vostro proposito, ↓ che queste vostre espressioni di parti sottili e questo ristrignimento di parti terree, dalle quali fate depender la congelazione, proceda nell'olio diversamente da quel che accade nell'acqua, scrivete alcune distinzioni, ed in ultimo concludete che nell'acqua si fa 'l contrario che nell'olio; scordatovi che adesso volete che ne' medesimi liquori gli accidenti vadino tanto del pari, che cominciando voi una dimostrazione circa l'olio, ne cavate poi la conclusione applicata all'acqua, come che tali corpi in niente fussero differenti, dicendo [pag. 348, lin. 28-30]: Perchè l' olio ghiacciato va al fondo, è falsissimo che 'l ghiaccio sia più leggier dell'acqua per causa di rarefazione; e poco più abbasso, alla facc. 39, v. 9 [pag. 348, lin. 39 – pag. 349, lin. 2], dite, parlando al Sig. Galileo: L'argomento, dunque, si ritorce contro di voi così: Il ghiaccio non è acqua rarefatta, nè perciò più leggieri: perchè se fosse vero, sì come l'acqua ghiacciata nell'acqua galleggia, così l' olio ghiacciato galleggerebbe nell'olio; ma ei cala al fondo; adunque 'l ghiaccio non è acqua rarefatta: consequenze dedotte veramente con gran sottilità. Ci manca solamente che voi mostriate la ragione per la quale gli atti dell'acqua si devon regolar da quei dell'olio, e non, per l'opposito, quei dell'olio da quei dell'acqua; perchè se voi non producete altro, io molto meglio ritorcerò l'argomento contro di voi, provandovi con la regola dell'acqua che l'olio ghiacciato non sia condensato, ma rarefatto, formando 'l discorso sopra le vostre pedate in questo modo: L'olio ghiacciato non è condensato, nè per ciò più grave del non ghiacciato: perchè se ciò fusse vero, sì come l'olio ghiacciato nell'olio va al fondo, così l'acqua ghiacciata andrebbe in fondo nell'acqua; ma ella galleggia; adunque l'olio ghiacciato non è condensato.
Io non ammiro meno di quest'altri vostri discorsi l'avvedimento grande col quale voi tagliate la strada al Sig. Galileo, ributtandogli un'istanza che forse vi arebbe potuta fare, mentre dite [pag. 349, lin. 2-4] di poter far instanza a lui, e dirgli che 'l ghiaccio galleggi non per rarefazione, ma per l' aria che vi è dentro; e soggiugnete [lin. 4-6] che tal istanza non può già far egli a voi, quando affermate che l' olio cala al fondo per causa di densità, perchè se ei vi rispondesse che l' olio descende non per la densità, ma perchè vi è dentro l' aria, farebbe più efficace la vostra ragione etc. Adunque, Sig. Colombo, voi avete conosciuto il Sig. Galileo dal suo trattato così poco intendente della natura di questi gravi e leggieri e di questi movimenti, che voi aviate a credere ch'e' vi facesse di queste instanze da stolti? non vedete voi che simili spropositi non posson cadere in mente se non a gente costituita nell'ultimo grado d'ignoranza? Del Sig. Galileo, adunque, che non fa altro mai che replicare che sin le falde di piombo e d'oro galleggiano mediante l'aria, voi avete a credere che ei fusse per dirvi che l'olio andasse in fondo per causa dell'aria inclusa? In somma voi mi andate tutta via maggiormente assicurando, non esser al mondo esorbitanza sì estrema, che non trovi ricetto in una mente alterata; e massime mentre veggo che alle già dette ne aggiugnete un'altra peggior assai, mentre scrivete, come in consequenza e conclusion delle cose dette: Il ghiaccio, adunque, per causa della figura galleggerebbe e calerebbe al fondo come gli altri corpi, diversamente secondo la diversità delle figure, se non gli mancasse la condizione dell'esser asciutto. Ma io, Sig. Colombo, vi domando, quel che fanno gli altri corpi secondo la diversità delle figure, a i quali non manca la condizione dell'esser asciutto? Credo pur che voi mi confermerete quello che cento volte avete affermato, cioè che l'ebano, il piombo, l'oro e gli altri corpi più gravi dell'acqua, in virtù della figura dilatata e dell'esser asciutti galleggiano, ma che i medesimi bagnati calano al fondo: tal che due sono le diversità d'effetti, che ne' corpi più gravi dell'acqua, tra i quali voi annumerate il ghiaccio, si scorgono; l'una è il calar al fondo quando son bagnati, e l'altra il galleggiare quando sono asciutti (intendendo sempre che sieno ridotti in falde sottili): e queste diversità dite che si vedrebbono anco nel ghiaccio, tutta volta che non gli mancasse la condizione dell'esser asciutto. Ma, Sig. Colombo, essendo che di questi due effetti uno vien fatto dal corpo quando è bagnato, cioè l'andare in fondo, fateci pur veder questo nel ghiaccio, il quale si può aver bagnato a vostro beneplacito, che dell'altro ve ne mandiamo assoluto: ma per quanto sin qui si è veduto, il ghiaccio bagnato galleggia, e non va in fondo. Tal che egli è forza, già che voi stimate che queste diversità d'effetti si vedrebbono nel ghiaccio come ne gli altri corpi, chi lo potesse aver asciutto, è forza, dico, che voi vogliate dire che le falde di ghiaccio asciutte andrebbono in fondo, già che bagnate galleggiano: e io molto volentieri vi concederei questa stravaganza, s'io vedessi di potervi sollevar dall'imputazione d'un altro errore non men grave; avvenga che questo non sarebbe un accader nel ghiaccio (come voi scrivete) il medesimo che ne gli altri corpi più gravi dell'acqua, ma tutto 'l contrario, poichè le falde di quelli galleggiano asciutte e vanno in fondo bagnate, e il ghiaccio bagnato galleggia e andrebbe in fondo se fusse asciutto. Or pigliate, Sig. Colombo, il vostro libro, e alla facc. 31, v. 13 [pag. 341, lin. 30], dove, nel sentenziar un detto del Sig. Galileo, vero, ma non inteso da voi, scrivete: Potevasi dir cosa più sconcia di questa? scrivete nel margine: Leggasi per tutto il mio Discorso Apologetico, che è pieno di sconciature, ciascuna per sè senza comparazione maggiori di questa. Nulladimeno questa vi è parsa una sottigliezza tanto bella, che non avete voluto lasciarla in dietro, se bene vi eri già esentato dall'obbligo del trattar del galleggiar del ghiaccio. In somma, Sig. Lodovico, non credo che ci sia più rimedio di poter ascondere l'esservi talmente lasciato traportar da un soverchio desiderio di contradire ad ogni detto del Sig. Galileo, che, pur che vi resti speranza di rimaner in concetto a quattro o a sei persone, ignude totalmente dell'intelligenza di queste cose, d'aver risposto a un tale avversario, voi non curate il sinistro giudizio di mille intendenti. Su questa resoluzione voi seguitate in questo medesimo luogo di scrivere, e dite [pag. 349, lin. 12-13] che il Sig. Galileo non può eleggere il ghiaccio per far questa esperienza, poi che egli vuole che le figure, che hanno da galleggiar, non sieno molli. Ecco che questa falsità non può essere ammessa da nessuno che abbia letto il trattato del Sig. Galileo, nel quale non si trova mai tal cosa, anzi più presto 'l contrario, e voi medesimo l'affermate in altri luoghi, de' quali per ora me ne sovviene uno alla facc. 15, v. 3 [pag. 326, lin. 30-31], dove voi dite, il desiderio del Sig. Galileo esser tutto fondato nel bagnar le falde larghe, le quali si hanno a metter nell'acqua etc.
Passate poi, prima, a raccontare un'esperienza che dite essere stata fatta dal Sig. Galileo per dimostrar come l'acqua nel ghiacciarsi cresce di mole, e poi vi mettete a ritorcerla contro di lui. Ma perchè tale esperienza non si trova nel trattato del Sig. Galileo, il quale ho preso a difendere, non ci starò a replicar altro; e massime che basta per sua difesa veder quel che voi gli apponete in contrario, dove voi proponete molte cose, e, conforme al vostro solito, l'andate fingendo secondo 'l vostro bisogno, senza mai provar nulla. Dirò bene, esser stata buona fortuna del Sig. Galileo il non aver nè detto nè fatto cosa alcuna a' suoi giorni che non possa star, come si dice, a martello, perchè voi, come diligente ministro della fama, l'avereste con le stampe publicata a tutto 'l mondo. Dovevi almanco dire, che quest'esperienza fu proposta dal Sig. Galileo a queste Altezze Serenissime per poter vedere anco di mezza state la verità di quest'effetto, e come il didiacciarsi si fa con diminuzione di mole, rispondendo al congelarsi che si fa con agumento pari.
La vostra confutazione è, come 'l resto dell'opera, ripiena di molte falliacie, patenti a chiunque la leggerà, e, per quanto ho sin qui scritto, credibili da ogn'uno. E per darne pur un poco di saggio di qualcuna così alla spezzata, veggasi come alla facc. 40, v. 9 [pag. 349, lin. 36-37], voi mostrate di non intendere ciò che significhi penetrazione di corpi, poi che scrivete che quando fosse possibile che due corpi si penetrassero, sarebbe impossibile che occupassero manco luogo di prima. La penetrazione, Sig. Colombo, di due corpi, che vien reputata comunemente impossibile da' filosofi, è che un corpo penetri per la sustanza d'un altro senza accrescer la mole di quello, sì che, fatta la penetrazione, il penetrato e 'l penetrante insieme non occupino spazio maggiore di quel che occupava 'l primo per sè solo; che è quanto dicessimo, che nell'istesso primo luogo stessero e fosser contenuti due corpi, che è quello che ha dell'impossibile. Ma se voi volete intender che un corpo penetri per un altro con dilatarlo o ampliar la sua mole, in guisa che il luogo occupato da i due corpi dopo la penetrazione divenga eguale a i due luoghi occupati da i medesimi mentre erano separati, tal penetrazione non solamente non è impossibile, ma tutto 'l giorno si fa infinite volte; e così una caraffa d'acqua penetra per una di vino mentre si confondono insieme, ma confusi e penetratisi occupano lo spazio di due caraffe.
Le contradizioni, che voi scrivete in poche righe, son molte. Prima [pag. 349, lin. 29-30] voi volete che 'l ghiaccio messo nell'acqua faccia evaporar le parti sottili; altra volta vorrete che questo sia effetto del caldo. Volete, appresso, che l'aria sia la parte principal dell'olio, poi lo fate più terreo e crasso dell'acqua: e se ben l'esser terreo importa esser freddo, sendo questa la qualità primaria della terra, voi, due versi più di sotto, lo fate di natura caldo; e come caldo, dite che 'l freddo non l'altera quasi niente nel farlo ghiacciare, ma che ben altera assai l'acqua, perchè è fredda. Ma chi sarà così semplice che reputi minima alterazione quella che si fa dal freddo in un corpo di natura caldo, e grande quella che il medesimo freddo può fare in un corpo di natura freddo? ↑ chi si deve alterar più per diacciarsi, un corpo di natura caldo o un freddo? Credo che ogn'uno, eccetto voi, dirà il caldo, anzi, fuori di questo luogo particolare, voi stesso ancora, ↑ che avete messo contrasto grandissimo tra 'l secco e l'umido, per esser qualità contrarie; e ora volete tutto 'l rovescio. Volete, appresso, che le parti più sottili dell'acqua, alterate dal freddo, si risolvino in aria, che è quanto a dire che elle si rarefaccino sommamente, se ben poi volete che l'azzion del freddo sia condensar tutte le cose. Attribuite poi al Sig. Galileo l'aver egli detto e creduto che il freddo abbia virtù di rarefare, cosa che non si trova nel suo libro, nè anco nel suo pensiero; tuttavia su questo falso fondamento vi andate fabbricando varie conclusioni strane. Vi fingete poi certe risposte e discorsi del Sig. Galileo, lontanissimi dal suo modo di filosofare, dicendo che egli forse dirà che nell'istante medesimo che s'introduce la forma del ghiaccio, si fa la rarefazione etc.: e io vi dico che egli non vi dirà queste cose, ma ben che e' butterà a terra tutti i vostri vani discorsi col dirvi, come anco di sopra vi ho accennato, che se voi metterete un vaso quasi pieno d'acqua all'aria freddissima, ella prima comincerà a rassodarsi, divenendo simile alla neve mescolata con acqua, e già sarà ricresciuta di mole non poco; poi ricrescerà ancora, nel finir d'indurirsi; di più, facendo dighiacciare il medesimo ghiaccio, l'acqua tornerà di nuovo al suo primo segno; e se di nuovo la farete ghiacciare, come prima crescerà ne più nè meno, e scemerà dissolvendosi, sempre all'istessa misura; e quest'effetto sarà così, senza aver punto di riguardo al contrariare a' vostri filosofamenti; dal che potrete conoscere la vanità di tutti i vostri discorsi, e come e' non hanno maggior esistenza che le chimere che altri si va fingendo. Come poi quest'accrescimento si faccia, e come procedino tutte l'altre particolarità attenenti alla congelazione, il Sig. Galileo non l'ha, che io sappia, scritto: ma son ben sicuro che se egli lo farà, e voi vogliate contradirgli, avrete campo e occasione di accumulare altrettanti e più errori di questi che avete scritti nella presente materia.
Facc. 42, v. 8 [pag. 351, lin. 29-30]: Il Buonamico, dunque, a cui fate sì gran romore in capo, per non essere stato inteso da voi, viene da voi senza ragione impugnato;
e nella medesima facc., v. 30 [pag. 352, lin. 7-8]: Ma perchè avete più tosto fatto l' indovino che inteso il Buonamico, di qui nasce l' error vostro.
Benchè da mille esperienze io sia stato reso certo che voi, Sig. Colombo, senza nessun riserbo e (come dite voi del Sig. Galileo) senza pensar più là, attendete a scriver tutto quel che vi viene in mente, per abbassar non solo la dottrina, ma la reputazione insieme di quello, tuttavia il sentirvi qui ancora così resolutamente dire che egli non ha inteso il Buonamico, m'ha fatto con un poco più di diligenza ricercare quali cose di quell'autore sieno state mal intese dal Sig. Galileo: e in somma non trovo nulla che non venga puntualmente portato e interpetrato; e voi, che l'aggravate di cotal nota, dovevi, e anco molto specificatamente, produr i luoghi che egli ha male intesi: perchè l'offendere con scritture pubbliche uno che non abbia mai offeso voi, e, quel ch'è più, offenderlo non solo senza occasione, ma anco senza ragione, è cosa molto brutta, anzi è mancamento tanto grande, ch'è forza la sua grandezza avervi dato speranza che quelli a' quali voi scrivete non sien per persuadersi mai che voi l'aveste commesso, con tassar di poca intelligenza il Sig. Galileo, se ciò non fusse, al manco in questo particolare, più che vero: però sarà necessario che voi emendiate con altra più distinta scrittura questi falli, già che, come vedete, il vostro libro è letto ancora, contro alla vostra opinione, da qualcuno che intende e voi e il Sig. Galileo. Intanto veggiamo un poco chi apporti maggior progiudizio al Buonamico, o 'l Sig. Galileo con l'impugnarlo, o voi col difenderlo: e già che voi applaudete alla sua dottrina, e sete vivo, parlerò con voi, lasciando lui nel suo riposo.
Aveva Archimede dimostrato, i solidi che nell'acqua galleggiano esser per necessità men gravi dell'acqua nella quale restano a galla; voi col Buonamico riprovate cotal regola, e in particolare con una ragione fondata sopra certa istoria naturale, la quale procede così: Dicesi in Siria essere un lago, nel quale i mattoni di terra gettativi dentro non vanno in fondo, anzi soprannuotano; ora, se i solidi che soprannuotano dovessero, conforme alla dottrina d'Archimede, esser men gravi dell'acqua, bisognerebbe che i mattoni e 'n consequenza la terra fosse men grave dell'acqua, il che è grand'assurdo; adunque è forza confessare, la regola d'Archimede non esser vera, ma poter galleggiare i solidi ancora assai più gravi dell'acqua. In questa maniera d'argumentare son molte fallacie. La prima delle quali è il dedurre una consequenza universale da un particolar solo, mentre dite, dover ogni sorte di terra esser più leggiera di tutte l'acque, quando fosse vero che i mattoni siriani galleggiassero nel lago di Siria mediante l'essere loro men gravi di quell'acqua; la qual consequenza è inettissima, potend'esser quell'acqua e quei mattoni molto differenti dall'altre acque e da gli altri mattoni. Onde, per mostrarvi la seconda fallacia, io vi domando, se la terra de' mattoni di Siria e l'acqua di quel lago son della medesima natura dell'acque nostre e della nostra terra. Se mi direte di no, adunque non potete da quelli inferir cosa alcuna nelle nostre acque e nella nostra terra: ma se direte, loro essere dell'istessa natura, potrete, senza mandarci in Siria, farci veder qui i nostri mattoni galleggiar nelle nostre acque; ma perchè questo non farete voi veder mai, adunque sin qui non avete esperienza alcuna che repugni alla regola d'Archimede, il quale parla dell'acque comuni. Terzo, se voi ben penetrerete questo vostro discorso, v'accorgerete che egli direttamente contraria all'intenzion vostra; perchè, se per mostrarci che anco i solidi più gravi dell'acqua galleggiano, avete di bisogno di mandarci in Siria, quest'è un confessare che in tutte l'altre acque, o al meno in tutte le più vicine di quella, i solidi più gravi di esse vanno al fondo, perchè se anco nelle nostrali e' galleggiassero, troppo grande sproposito sarebbe il mandarci in sì remote regioni per veder quello che anco in casa nostra potreste farci vedere: là onde, concedutovi anco che l'acqua di quel lago e quei mattoni fusser come l'altr'acque e l'altra terra, e che fusse vero che in Soria e' galleggiassero, ad ogni modo la dottrina del Buonamico e vostra sarebbe tanto inferiore a quella d'Archimede e del Sig. Galileo, quanto quel piccol lago di Siria è inferiore in grandezza a tutte l'altr'acque conosciute comunemente da gli uomini. Or pensate ciò che tal vostra dottrina rimane, se v'aggiugnete il poter esser tutta l'istoria favolosa, o, se pur vera, l'esser necessario o che quell'acqua o quella terra sieno differentissime dalla nostra di cui si parla. Aveva il Sig. Galileo proccurato di sollevare in qualche maniera il Buonamico da sì gravi esorbitanze, come si vede nel suo trattato; ma voi non volete conoscer la cortesia. Sig. Colombo, voi attendete a filosofare sopra i nomi, e sentendo nominar quello un lago, e quelli mattoni, e sapendo che comunemente i laghi son pieni d'acqua, e che i mattoni si fanno di terra, non vi curate di pensar più là, e massime trovandovi disposto e resoluto ad ammetter per vera e certa ogni stravaganza, prima che confessar vera alcuna, benchè evidente, dimostrazione del Sig. Galileo: dalla qual resoluzione vi lasciate traportar sino a scrivere [pag. 352, lin. 9-11] che alla dottrina del Buonamico non importa nulla se il problema del lago di Siria sia favoloso o vero, perchè a lui basta mostrar che la regola d'Archimede non solverebbe il dubbio, e che però il Sig. Galileo la può lasciare come falsissima. Adunque, Sig. Colombo, il vostro discorso vi persuade, che a voler che una regola sia sicura e buona, bisogni che ella sia tale che s'accomodi a render ragione e solvere non solamente i problemi veri, ma i falsi e favolosi ancora? Ora sì che io vi concederò che 'l Sig. Galileo non abbia inteso in questo luogo il Buonamico, da gli scritti del qual egli non arebbe mai saputo ritrar così solenne pazzia! Veramente che quel dotto uomo v'ha da restar molto obbligato, che sì ben lo difendete, e così acutamente l'interpretate! Nè io posso a bastanza meravigliarmi del vostro ingegno, il quale sa raccòr da una istoria favolosa una regola buona e sicura, la quale un altro non saprebbe dedur dalla medesima istoria quand'ella ben fusse vera. Comincio anco a intendere per qual cagione abbiate all'istoria del lago di Siria accoppiata l'altra più ridicolosa dello stagno Pistonio, ammettendo che in esso calino al fondo tutte le cose che nell'altr'acque sogliono notare, come sarebbono i sugheri, le galle, le penne, le vesciche gonfiate e ogn'altro corpo leggierissimo, onde bisogni per necessità concedere o che tale stagno sia pieno di nebbia, o che la sua acqua non ceda punto in leggierezza e sottilità all'aria stessa; intendo, dico, che voi ammettete queste cose, perchè, quantunque fosser false, ad ogni modo le vostre regole son tanto buone loro, che ne apportano accomodatamente ragioni. Vi dirò bene che sarebbe stato necessario che voi aveste insegnato l'applicazione della regola, perchè forse altri che voi non la saprà trovare; perchè, accomodandosi la regola a mostrar che i corpi quattro o sei volte più gravi dell'acqua galleggiano, ↑ com'affermate de' mattoni nel lago di Siria, ↑ ci vorran, per mio parere, grandi acconcimi per aggiustarla all'altro problema delle cose mille volte più leggieri dell'acqua, che vanno in fondo nel lago Pistonio. Ed entro fortemente in sospetto, che sì come per lo stabilimento delle vostre regole filosofiche niente importa che le sieno appoggiate sopra esperienze e istorie vere o false, così non importi nulla alla vostra filosofia che l'istesse regole sien false o vere.
Facc. 42, v. 37 [pag. 352, lin. 16-18]: L'altra obbiezione che fa il Buonamico, del legno che per altro galleggia, ma pregno e ripieno d'acqua nelle sue porosità cala al fondo, non è meno efficace della prima etc.
Qui comincia il Sig. Colombo a entrare in un pelago infinito di vanità, nate tutte dal non aver mai potuto intendere un semplice termine dichiarato apertissimamente dal Sig. Galileo, e usato ben mille volte nel suo Discorso; e questo suo disordine ha radice su 'l non aver egli considerato, che essendo al mondo tanti linguaggi diversi, e contenendo ogni linguaggio migliaia di nomi, imposti tutti da uomini a lor beneplacito, ben abbia potuto il Sig. Galileo ancora introdurne uno per suo uso, con dichiararne prima distintamente 'l significato. E se il Sig. Colombo tollera a i logici chiamare spezie quell'universale che contien sotto di sè molti individui; ammette a i grammatici nominare spezie quel che altramente noi chiamiamo sembiante o aspetto; comporta che gli speziali nominino spezie certa polvere fatta di varie droghe; acconsente a certi popoli il nominare con tal nome una terra posta sopra certo golfo di mare; per qual cagione si ha egli da perturbar tanto che 'l Sig. Galileo voglia servirsi dell'istesso termine in distinguer certi modi d'intender la gravità e leggerezza di alcuni corpi in relazione d'alcun'altri? Qui, o bisogna risponder che il Sig. Colombo non abbia mai posto cura, che ci son delle parole che si pigliano in diversi significati, come, v. g., fortezza, che significa una virtù, un propugnacolo, una certa qualità dell'aceto; o vero che egli non abbia appresa la significazione che 'l Sig. Galileo gli ha data, mentre si è dichiarato di voler chiamar corpi o materie egualmente gravi in spezie quelle delle quali moli eguali pesano egualmente, e più grave in spezie quel corpo di un altro, del quale una mole pesa più d'altrettanta mole dell'altro, etc.: nella qual relazione, Sig. Colombo, non si ha mai riguardo ad altro che alle moli di essi corpi e alle lor gravità, non cadendo mai in considerazione se quei corpi sieno o non sieno della medesima spezie, presa nel significato de' logici: ma egualmente si posson paragonare fra di loro i legni, i metalli, le pietre, i liquori, e i composti e aggregati di due, di quattro e di cento di tali materie: sì che facendo voi un composto di cera, di legno, di piombo, di pietra, d'aria e di mill'altre materie insieme, e comparando una mole di cotal misto con altrettanta mole d'altro qual si voglia corpo, come, v. g., con altrettanta mole d'acqua, se la mole di esso misto peserà giusto quanto quella dell'acqua, si dirà quel misto esser egualmente grave in specie con l'acqua; e questa è cosa differentissima dal dir che quel misto e l'acqua sieno corpi della medesima spezie.
Ma quando finalmente e' sia del tutto impossibile che voi restiate capace di questa cosa, io voglio almanco tentar di farvi conoscere, che quando bene il Sig. Galileo avesse introdotto questo termine malamente, non per ciò tal cosa progiudica alle sue dimostrazioni. E che sia il vero, pigliate il trattato del Sig. Galileo, e dove voi trovate scritto, v. g.: Facciasi con piombo e cera un corpo egualmente grave in specie con l' acqua, cancellate queste ultime parole, e scrivete: Facciasi con piombo e cera un corpo tale, che preso di lui e dell'acqua due parti eguali in mole, elle sieno anco eguali in peso; e parimente quando trovate scritto: L'ebano e 'l ferro è più grave in specie dell'acqua, mutatelo, e dite: L'ebano e 'l ferro son tali, che una mole di qual sia di loro è più grave d'altrettanta mole d'acqua: e fatte cotali mutazioni, seguite di leggere il resto, che quanto al senso e la dottrina procederà come prima.
Se voi aveste intesa questa definizione, non areste empiute ora cinque faccie di cose fuori di proposito, come avete fatto dalla facc. 42 [pag. 351, lin. 29] in là, ↑ oltre a tant'altri errori sparsi per tutto 'l vostro Discorso; ↓ e in particolare, alla facc. 44, v. 29 [pag. 354, lin. 2-8], non areste scritto: Come volete mai, per quel che aspetta alla vostra ampliazione specifica, che l' aria contigua ad un corpo, e anco come locata in quello, possa farlo differente di specie da quel che era prima? O se cotali accidenti mutassero le cose di spezie, non sarebbono tante varietà e mutazioni di colore nel camaleonte. Un vaso di rame o d'altra materia, pieno d'acqua, sarà mutato di specie? e poi ripieno d'aria, quando non vi sarà più acqua, sarà d'un'altra spezie? e così di tutte le cose. Un vaso di rame pieno d'aria o pieno d'acqua non muta di spezie, nè il rame, nè l'acqua, nè l'aria; nè mai chi ha intelletto caverà simil concetto dalle cose scritte dal Sig. Galileo: il quale non dice altro se non che un vaso di rame pieno d'aria, d'acqua, o di quel che più vi piace, prima è manifesto che tutta la sua mole peserà o più o egualmente o meno che altrettanta mole d'acqua, nè di ciò si può dubitare; di poi, stante questo, soggiugne e dice: Se cotal mole fatta di rame e d'aria, o di qual si voglino materie, peserà quanto altrettanta mole d'acqua, io la chiamerò egualmente grave in specie con l'acqua ↑ (e non dice: Io chiamerò tal mole mutata di specie, e esser diventata acqua o altra materia) ↓; se sarà più grave o meno, io la chiamerò più grave o men grave in spezie dell'acqua. E qui non casca mai eccezzione o limitazione alcuna, benchè voi, tra l'altre cause fuori di proposito che allegate, per le quali tal definizione non vi piace, dite l'aver ella bisogno di molte eccezzioni e limitazioni.
Non areste anco soggiunta l'altra vanità, con dire [pag. 354, lin. 11-12] che, stante tal definizione, la mutazion del luogo cagionerebbe nella medesima cosa mutazion di specie; perchè, oltre che questa mutazione di specie non si riferisce alla mutazione essenziale delle materie, preso anco 'l termine spezie nel senso del Sig. Galileo, le mutazioni di luogo non apportano alterazione alcuna ↑ ai corpi che fussero tra di loro egualmente gravi in spezie ↓; di modo che due corpi che, per esempio, in aria sieno tali, saranno ancor tali in ogn'altro luogo, e quel che, v. g., in acqua è più grave in spezie d'un altro corpo, sarà ancor tale se si costituiranno in aria, ↑ Ma se voi vorrete considerar la gravità di un corpo in sè medesima, ella dal mezzo potrà grandemente esser mutata; perlochè una pietra assai meno graverà nell'acqua che nell'aria, e molti legni che nell'aria son gravi e descendono con impeto, nell'acqua perdono la gravità e velocemente ascendono: ma questa non si domanda, Sig. Colombo, mutazione essenziale, non si mutando l'essenzia della pietra o del legno. ↓
Nè meno areste scritta l'altra maggior semplicità a facc. 45, v. 3 [pag. 354, lin. 16-19], cioè che il più o men grave o leggieri non muta la spezie della gravità o leggerezza, ma solamente la semplice gravità è differente dalla semplice leggerezza per cagione del subbietto in cui risiede, perchè sono i subbietti differenti di spezie fra di loro. Dove son tre errori: il primo è il prendere la parola spezie in significato diverso da quello in che si è dichiarato di prenderla il Sig. Galileo. Secondariamente, pigliandola anco in questo significato, e essendo vero che queste affezzioni di grave e di leggieri massimamente differiscono per le diversità e contrarietà de' movimenti da quelle dependenti, e essendo le contrarietà de' moti determinate dalla contrarietà de' termini, il più e men grave diversificheranno le spezie di cotali affezzioni; avvenga che se io prenderò due moli, v. g., di cera, e una di loro ingravirò con l'aggiugnervi limatura di piombo, questi due corpi, se ben in aria non aranno mutato spezie di gravità, sendovi amendue gravi e descendenti, tutta via l'averanno ben mutata nell'acqua, dove uno descenderà in fondo, e l'altro dal fondo ascenderà in alto; i quali movimenti essendo a termini contrari, dovranno, s'io non m'inganno, essere stimati da voi differenti e dependenti da diverse affezzioni. Il terzo errore è, che voi diversificate la gravità e la leggerezza per causa de' subbietti differenti di spezie in cui riseggono; dal che è manifesto che non solamente la semplice gravità e la semplice leggerezza, delle quali quella risiede nella terra e questa nel fuoco, saranno differenti di spezie, ma la gravità dell'acqua e la leggerezza del fuoco dovranno non meno esser differenti, se è vero che l'acqua differisca dal fuoco; e parimente, se la terra e l'aria non son men differenti che l'altre sustanze che differiscono in spezie, dovranno le lor gravità e leggerezza esser nell'istesso modo diverse; anzi e queste e quelle tanto più saranno tra di sè differenti, quanto molto più son contrarie la terra e l'aria, e l'acqua e 'l fuoco, che la terra e 'l fuoco.
Avreste anco taciuto l'inezzia che soggiugnete [pag. 354, lin. 20-22] del vaso d'argento pien d'aria, il quale pesa l'istesso appunto che se, rimuovendone l'aria, si ridurrà in un pezzo d'argento massiccio: il che è verissimo, ma non fa al proposito; perchè voi parlate d'una cosa diversissima da quella della quale parla il Sig. Galileo, e credete di parlare della medesima. Voi parlate della materia particolar dell'argento, e non d'altro; e il Sig. Galileo parla di quella mole che si ha da muovere o sommergere, e che cade in comparazione della mole d'acqua che sarebbe contenuta nel luogo che detta mole d'argento e d'altro occupa nell'acqua, senza la qual considerazione non si può produr altro che spropositi, volendo trattar della materia di che si parla. La gravità dell'argento, sia in forma di vaso o in una massa, è sempre l'istessa, nè si altera punto per l'aria inclusa; ma quello che voi usate poi nel far la vostra esperienza, non è l'argento solo, ma una mole assai maggiore, poichè non fate discender nell'acqua il solo argento, ma buona quantità d'aria insieme, la quale occupa tanto luogo nell'acqua, quanto se tutto 'l vaso fusse una mole d'argento massiccio; e credo pure che voi intendiate che una tal mole d'argento peserebbe assai più del vaso quando è pien d'aria: onde gran differenza è tra 'l por nell'acqua una semplice mole d'argento puro, e 'l porvi una egual mole, ma fatta d'argento e d'aria, poichè quella pesa molto più d'altrettanta acqua, e questa molto meno, onde quella andrà in fondo, e questa galleggierà. Però, Sig. Colombo, non dite che il termine di più o men grave in spezie non sia scientifico nè vero, come dite alla facc. 45, v. 14 [pag. 354, lin. 26-27]; cessate anco di dire quel che scrivete diciotto versi più abbasso [pag. 355, lin. 2-3], cioè ch'e' cagioni molti equivoci e stroppiamenti di dottrina e consequenze false; potrete anco emendare quel che scrivete appresso, alla facc. 46, v. 3 [pag. 335, lin. 14-16], cioè che grandissima contrarietà sia circa i fondamenti del Sig. Galileo, e che egli abbia rovinata totalmente la principal sua macchina, solo per rispondere al Buonamico, benchè male: perchè se voi arete pur una volta intese queste cose, conoscerete, i termini non scientifichi, gli equivoci, gli stroppiamenti di dottrina, le consequenze false, le macchine rovinate e le cattive risposte, aver lor propria residenza nel vostro Discorso, e non nel libro del Sig. Galileo.
E perchè io vi veggo, Sig. Colombo, molto bisognoso d'esser avvertito, in qual modo le difinizioni posson essere e non esser cause d'equivocazioni e di falsità di dottrine, voglio, per benefizio vostro o d'altri che fussero nell'istesso errore, discorrervi brevemente alcune cose intorno a questo particolare, aggiugnendovi, per maggior dilucidazione, uno o due esempi. Sappiate, dunque, come anco in parte vi ho detto di sopra, che l'esplicazioni de' termini son libere, e ch'è in potestà d'ogni artefice il circoscrivere e definire le cose, circa le quali egli si occupa, a modo suo, nè in ciò può mai cader errore o fallacia alcuna: e quello che chiamò sprone la parte che sporge più innanzi della galera, e timone la deretana, con la quale il vascello si volge e governa, poteva con altrettanta libertà chiamar questa sprone, e timone quella, senza incorrere in alcuna nota degna di biasimo; ma se poi, nel trattar l'arte navigatoria, egli confondesse questi termini o gli applicasse ad altre parti senza prima essersi dichiarato, errerebbe, e darebbe occasione a molte fallacie e equivocazioni. Eccovene un essempio. Aristotile si dichiara voler nella sua filosofia chiamar luogo l'ultima superficie del corpo ambiente, cioè che circonda il corpo locato; e sin qui egli non potrebbe mai da alcuno esser ripreso d'aver mal definito, nè mai commetterà equivocazione alcuna ogni volta ch'e' prenderà il termine luogo come esplicativo di questo concetto. Ma se egli o altri, per aversi in mente sua formato un concetto del luogo differente da quel che importano le parole con le quali è stato circoscritto, se ne volessero servire in differente senso, arrecherebbono confusione e fallacie non piccole; come appunto accade quando 'l medesimo Aristotile dice, il luogo esser eguale al locato; il qual è grand'errore, perchè, essendo il locato un corpo e 'l luogo una superficie, non solamente non posson esser eguali, ma non son comparabili insieme, essendo differenti di genere. Similmente, quando si dice, il medesimo corpo occupar sempre luoghi eguali, benchè si figuri in diverse forme, tal proposizione sarà falsissima, se per luogo si ha da intendere quel che è stato definito; avvenga che la medesima mole corporea, secondo che se gli daranno diverse figure, può esser contenuta da superficie molto diseguali, e maggiori l'una dell'altra, due, quattro, dieci, cento e più volte; alle quali superficie son sempre eguali quelle dell'ambiente, cioè i luoghi. Però, chi voleva parlar senza equivocazione, bisognava dire (stante l'addotta definizione) che il luogo è sempre eguale, non al corpo locato, ma alla superficie del corpo locato, e che 'l medesimo corpo può occupar luoghi disegualissimi tra di loro, secondo che egli sarà sotto diverse figure costituito. Però è forza dire, o che Aristotile nell'affermar cotali proposizioni s'avesse nell'idea formato concetto del luogo come che ei fusse lo spazio misurato dalle tre dimensioni, nel quale il locato vien contenuto e gli è veramente eguale, o che per difetto di geometria egli credesse che de i corpi eguali le superficie fosser sempre necessariamente eguali. Così nascono l'equivocazioni e le fallacie, non dalla prima definizione, ma dal non si contener dentro a i termini usati nel definire, e dal formar varii concetti della cosa definita. Quindi è gran vanità il quistioneggiare se l'Ultimo Cielo sia in luogo o no; perchè se fuor di esso non è altro corpo, e il luogo è la superficie del corpo ambiente, a chi non sarà manifesto, l'Ultimo Cielo non esser in luogo? Simil leggerezza o maggiore sarebbe di chi dicesse, il Mondo esser in luogo rispetto al centro; perchè chi troverà in un centro una superficie che circondi l'Ultimo Cielo? Eccovi altri equivoci, e le radici onde pullulano le vanissime controversie sopra i nomi, delle quali si empiono le carte e i libri interi. Ma pigliate un altro esempio. Definisce Aristotile, l'umido esser quella qualità per la quale i corpi facilmente si terminano de i termini d'altri. Sin qui non si può oppor cosa alcuna; perchè, trovandosi de' corpi, come, v. g., è l'acqua, che speditamente si terminano e figurano al modo del vaso contenente, era in arbitrio di Aristotile e d'ogn'altro il dir di voler chiamar tali corpi umidi, e tal qualità umidezza. Ma stante tal definizione, non bisogna poi dire che 'l fuoco non sia umido, perchè sarebbe inconstanza e un confessar d'aver auto in mente un concetto dell'umidità, il quale con parole non sia poi bene stato esplicato; posciachè in effetto si vede 'l fuoco per la sua tenuità accomodarsi alla figura del recipiente: e però chi chiamerà in dottrina d'Aristotile il fuoco umido, non sarà degno di riso; ma ridicoloso sarà quello che non avrà saputo definire e esplicare il concetto che egli avea dell'umidità, dal qual difetto nascono poi le vane e inutili contese. Ora, Sig. Colombo, se volete biasimare il Sig. Galileo e tassarlo per definitor manchevole, non bisogna che vi fermiate su le pure definizioni, perchè così date segno d'esser voi il poco intendente; ma conviene che voi mostriate, quello essersi servito de' termini definiti, diversamente da quello a che per le definizioni egli si era obbligato.
Facc. 46, v. 29 [pag. 355, lin. 38 - pag. 356, lin. 1]: Quel vostro termine o distinzione di gravità assoluta, non è anch'egli il miglior del mondo: perchè assoluto si domanda quello che non ha rispetto, nè si considera in comparazione ad altro; ora, questa gravità si considera respettivamente; adunque non è buona distinzione,
Il non aver intesa l'altra definizione fa che voi non intendiate nè anco questa; o vero il desiderio d'impugnare ogni detto del Sig. Galileo, vi fa, conforme al 6° artifizio, dissimular l'intelligenza di cose che, essendo manifestissime e facilissime, non è possibile che voi non l'aviate intese. Delle quali credo che questa sia una: poichè, preso questo termine di assoluto come piace a voi, cioè in quanto si contradistingue al respettivo, egli ha luogo benissimo nella definizione del Sig. Galileo; il quale, avendo definito il più grave in spezie con la considerazione delle moli de' corpi comparate tra loro, rimossa poi tal relazione di moli, chiama più grave assolutamente quel che semplicemente pesa più, non avendo rispetto alcuno di moli. Eccovi le parole precise del Sig. Galileo, alla facc. 7 [pag. 68, lin. 3-5]: Ma più grave assolutamente chiamerò io quel corpo di questo, se quello peserà più di questo, senz'aver rispetto alcuno di mole. Vedete, dunque, come egli usa questo termine d'assoluto dove e' leva la relazione delle moli. Ma, per aggiugner a tant'altri rincontri del vostro poco intendere e del troppo desiderio d'impugnare il Sig. Galileo, e sempre senza ragione alcuna, quest'altro indizio, sappiate, Sig. Colombo, che questa nota, che voi attribuite al Sig. Galileo, cade non in lui, ma in Aristotile, non avvertito da voi; il quale, dopo aver definito il grave e il leggieri respettivo, volendo anco definir l'assoluto e semplice, lo definisce pur con relazione, chiamando grave assoluto quel che sta sotto a tutti gli altri, e assolutamente leggiero quel che sta sopra tutti: di modo che se definizioni simili non vi piacevano, dovevi risentirvi contro Aristotile, e non contro al Sig. Galileo, che non vi fa errore.
Facc. 47, v. 7 [pag. 356, lin. 15-22]: Ora, perchè l'esempio de' venti non ci ha luogo, non accaderà che io mostri che non sarebbe a proposito. Ma se volete che io dica il mio pensiero, voi avete finto di creder così per metter in campo la disputa della leggerezza, se si trovi o no: ma perchè ne ho detto il parer mio nel discorso citatovi, che vedeste, contro 'l Copernico, e non ci avete risposto, aspetterò che facciate maggior risentimento di questo che fate adesso; perchè, a dirne il vero, se l'altre ragioni che avete non son migliori di quelle che per ora io veggo in favor della vostra opinione, potrete, per onor vostro, non ne parlar mai più.
È vero che se l'esemplo de' venti non ci ha luogo, non accade mostrar che ei non farebbe a proposito, perchè il non ci aver luogo e 'l non far a proposito credo che sien l'istessa cosa; ma dovevi ben voi mostrar che ei non ci avesse luogo, perchè il vostro semplicemente dirlo non è ancora di tanta autorità che basti. Che poi 'l Sig. Galileo abbia finto di creder che 'l Buonamico attribuisca ad Archimede il negar la leggerezza positiva, per introdur la disputa se tal leggerezza si dia o no, è manifestamente falso, essendo la imputazione chiara nel testo del Buonamico; ma, all'incontro, è ben più che certo che voi fate cotal finta per farvi strada a nominar di nuovo, fuor d'ogni proposito, il vostro discorso contro al Copernico, veduto dal Sig. Galileo senza rispondergli. La qual vostra vaghezza mi messe in necessità di toccarne quel poco che avete sentito di sopra: il che crederò che vi abbia in parte intepidito il desiderio delle risposte del Sig. Galileo, il quale, per quanto appartiene al presente luogo, non si essendo voluto allargar nella questione della leggerezza positiva, come non necessaria principalmente in questa materia, non sarebbe, se non con occasion troppo mendicata, potuto entrare nelle vostre ragioni poste nel discorso contro al Copernico; anzi non l'arebbe egli fatto in conto nessuno, per non vi levar con mala creanza la comodità di meglio considerare gli scritti vostri non fatti ancor publici: oltrechè, non si contenendo in quelli altro che una parte delle ragioni trite e scritte in mille autor publici e famosi, a che proposito intraprenderne contesa con voi? Ma perchè una sola dimostrazione, addotta dal Sig. Galileo per passaggio, vien da voi così poco stimata (se ben assai manco intesa), che voi consigliate il suo autore a non ne introdurre mai più di simili per onor suo, voglio brevemente esaminar quel che voi gli opponete.
Prima voi dite [pag. 356, lin. 22-25], esser vero che l'aria ha, per la sua leggerezza, inclinazione a star sopra l'acqua; ma non già nel suo luogo si muoverà per andar più su nel luogo del fuoco, perchè rispetto al fuoco è grave. Ma questo a che fine vien da voi proposto? forse il Sig. Galileo dice il contrario? o pure la vostra mira, che è solo di contradirli, sarà bastante a far che insin le cose affermate da lui gli divenghino contrarie, tutta volta che le sien poste da voi ancora? Voi soggiugnete [lin. 26-32], non esser inconveniente alcuno il dire che i corpi levi, come, v. g., il fuoco, benchè per sua propria inclinazione abbia facoltà d'ascendere verso 'l concavo della Luna, ascenda più tardo quando sia nell'aria che nell'acqua: imperò che, oltre al suo moto naturale, avendo 'l moto dell'impulso dell'acqua, che è più efficace che non è quello dell'aria, che meraviglia se ascendesse più tardo nell'aria? il che si nega, nè voi mel farete vedere. Quanto al non ve lo far vedere, ne son sicuro, nè credo che il Sig. Galileo si promettesse di farvi vedere anco dell'altre cose molto più visibili e chiare di questa. Ma proccuriamo almanco di far vedere ad altri una vostra contradizione nell'allegate parole: dove voi concludendo negate che 'l fuoco possa ascendere più velocemente per l'acqua che per l'aria, la qual cosa, poi che voi la negate, bisogna che la stimiate falsa e impossibile; nulladimeno nelle prime delle allegate parole avete conceduto, con manifesta contradizione, ciò non esser inconveniente. Ma come non sarà inconveniente quel che è impossibile? In oltre, come concedete voi, Sig. Colombo, quest'impulso per estrusione del mezo ne' corpi leggieri, più volte e apertamente negato da Aristotile? Adunque vorrete contradire a testi chiarissimi? E se concedete cotale impulso, perchè, multiplicando le cause d'un effetto senza necessità, volete anco a parte la leggerezza positiva del mobile? Non contento di questo, tornate anco la seconda volta a concedere e poi negare con grand'inconstanza la medesima cosa, scrivendo [pag. 356, lin. 32 – pag. 357, lin. 3]: Ma per questo sarà vero che non abbiano moto proprio e da causa intrinseca, perchè non andassero così veloci per l'aria come per l'acqua, se nell'aria manca quel maggior impulso? Anzi si può negare, e con ragione, che l'esalazioni ignee nell'acqua ascendano più presto che nell'aria; perchè, se ben vi è di più accidentalmente il movimento dello scacciar che fa l'acqua tali esalazioni come più levi, a rincontro cotali esalazioni, come ammortite e rese dall'umido e freddo, che domina, più gravi e corpulenti, non possono speditamente operare e metter in atto la virtù loro d'ascendere in alto: e però si muoveranno più tardi nell'acqua che nell'aria, poichè nell'aria, per la somiglianza che hanno seco, si ravvivano e son più in atto e più al proprio luogo vicine; donde nasce che verso 'l fine del moto le cose e i corpi naturali vanno più veloci. Se voi potete con ragion negare che l'esalazioni ignee ascendan più presto nell'acqua che nell'aria, perchè non lo negate voi con resolutezza, senz'andar tanto titubando, dicendo speditamente che l'ascendon più veloci, e che non vi è altramente lo scacciamento del mezzo? Ma due volte tornate a concedere, e poi a negare, le medesime proposizioni. È ben vero che passato questo pericolo, e allontanatovi alquanto, direte d'aver provato che l'ascendon per aria più veloci infallibilmente, come scrivete alla facc. 50, v. 33 [pag. 359, lin. 28-29], e allontanatovi un poco più, in sino alla facc. 51, v. 12 [pag. 360, lin. 5-6], direte aver dimostrato tali esalazioni nell'acqua esser fiacchissime: con tutto questo la verità è, che ora, che sete sul fatto, voi non sapete risolvervi, ma quando affermate e quando negate. Direte poi che il Sig. Galileo sia quello che mille volte il dì vuole e disvuole. Ma voi, per non saper quel che vi vogliate, vi riducete a voler (contro a quel che mostra l'esperienza) provar con ragioni che tali esalazioni si muovino più velocemente per l'aria che per l'acqua; le quali ragioni son poi di quell'efficacia che è necessario che sien quelle che provano 'l falso; e però vi riducete a fingervi che esse esalazioni vengono ammortite e rese gravi e corpulenti dall'umido e dal freddo che domina, e che però ascendono adagio nell'acqua, ma che poi nell'aria si ravvivano e son più in atto, e però si muovono più velocemente: ma con tutto ciò quando vi bisognasse provar il contrario, cioè che più velocemente si muovesser per l'acqua che per l'aria, sapete bene che voi affermereste che la nimicizia grande e l'antipatia che loro hanno con l'acqua, le scaccia con impeto via, e che esse speditamente fuggon le contrarie qualità; direste anco che per l'antiperistasi dell'umido e del freddo ambiente la lor virtù si concentra e raddoppia, non men che l'impeto de' fulmini ardenti per il circondamento delle nugole umide e fredde; all'incontro poi direste che nell'aria si quietano, convenendo con quella nel calore, e importando poco la discordia dell'umido e del secco, non essendo queste qualità attive: e in somma i vostri discorsi procedon con tant'efficacia, che sempre egualmente si accomodano alla parte affermativa e alla negativa di tutti i problemi; ↑ argomento pur troppo necessario dell'esser cotali vostri filosofamenti fondati sopra vanissimi accozzamenti di parole, nissuna cosa concludenti. ↓ Voglio ben mettervi in considerazione, Sig. Colombo, che se l'umido e 'l freddo dell'acqua rende, come dite, l'esalazioni gravi e corpulente, ciò sarà molto pregiudiziale alla causa vostra, perchè ogni piccolo ingravimento che se gli dia basta a renderle gravi quanto l'aria, per lo che elleno poi nell'aria non ascenderebbon punto; ma nell'acqua un tal ingravimento non farebbe quasi differenza sensibile di velocità: ↑ o vero, quando l'ingravimento fusse tanto che notabilmente ritardasse l'ascender per l'acqua, poste poi nell'aria necessariamente descenderebbono a basso. ↓ Voglio anco avvertirvi che non vi lasciate persuadere da alcuni Peripatetici, che la vicinanza del termine e luogo desiderato sia cagione di maggior velocità nel mobile, perchè questa è una bugia, sì come è anco falso l'effetto; avvenga che non la vicinanza del termine ad quem, ma l'allontanamento del termine a quo, fa maggiore la velocità; e queste due cose son differentissime, se ben forse vi parranno una cosa stessa.
Finalmente, avendo 'l Sig. Galileo portata una sola ragione per provare che non è necessario por la leggerezza assoluta e positiva, voi ancora vi contentate di addurne una sola in contrario, e, per non parlar se non con gran fondamento, non ve la fingete di vostra fantasia, ma la pigliate dall'istesso Aristotile, dicendo [pag. 357, lin. 3-6]: Ma che 'l fuoco sia assolutamente leggieri, e da principio intrinseco, veggasi per esperienza che un globo di fuoco maggiore ascende più velocemente per l'aria che non fa un minore; e pur se fusse grave, doverebbe far contrario effetto. Ingegnoso e sottil argomento: ma doveva Aristotile, o voi, Sig. Colombo, insegnarci il modo di far questi globi di fuoco grandi e piccoli, e fargli anco visibili per l'aria, o, se non visibili, al manco insegnarci qualche artifizio da poter comprendere le lor moli e i lor movimenti e le lor differenze di velocità; perchè quant'a me, com'io deva fermarmi su la sola immaginazione, stimerò che, sì come nel moto delle cose gravi accade che tanto velocemente descenda una zolla di terra di cento libbre e una di due (se ben conforme alla dottrina peripatetica quella si doverebbe muover cinquanta volte più veloce di questa), così avvenga di due moli di fuoco diseguali, cioè che le si muovino con pari velocità. Ma fuor dell'esperienza assai difficile a farsi, avete forse qualche ragione concludente, che vi persuada esser necessario che più veloce ascenda una mole grande di fuoco che una piccola? Direte forse che nella maggiore risiede maggior virtù, e che però maggiormente opera. Questo non conclude nulla, perchè se vi è maggior virtù, vi è anco maggior macchina da esser mossa, e maggior mole del mezzo resistente contrasta a cotal movimento. Se voi, Sig. Colombo, poteste ridur la forza e vigore di cent'uccelli in un uccello solo della medesima grandezza, sicuramente egli volerebbe più velocemente: ma se saranno cent'uccelli insieme, o vero se si farà un uccel solo grande quanto quei cento, io non veggo ragion nessuna per la quale il volo s'abbia nè anco a raddoppiare, non che a centuplicare; anzi veggiamo che i più veloci uccelli, o anco quadrupedi, non sono i più grandi. In oltre io vi dico, che quel medesimo che accade de' mobili, quando si muovessero all'in su per leggerezza positiva, accaderebbe appunto di quelli che si muovessero per estrusione del mezo; perchè un piccolo corpicello è spinto da piccola porzione del mezo ambiente, e una gran mole è sollevata da gran quantità del medesimo mezo, che è quella porzione che va sottentrando nel luogo lasciato successivamente dal mobile: talchè sin ora voi non avete accidente alcuno che vi possa render sicuro che verun corpo si muova all'in su da principio intrinseco. Anzi, quando pur fusse vero che un globo grande di fuoco si movesse più velocemente che un piccolo, forse ciò sarebbe più tosto argomento contrario che favorevole al vostro intento; perchè ne' movimenti de' quali noi siamo sicuri farsi da principio intrinseco, qual è il moto all'ingiù de' gravi, si vede sempre con pari velocità muoversi i mobili grandi e i minori della medesima materia; ma ne' movimenti che son fatti da motori esterni, tal volta accade i mobili maggiori esser mossi con velocità maggiore che i minori; come se con un'artiglieria si cacceranno nel medesimo tempo all'in su palle di pietra di diverse grandezze, noi vedremo le maggiori muoversi più velocemente e in maggior lontananza assai che le minori, il che si raccorrà dal veder queste ricader in terra prima che quelle: talchè il vostro argumentare è molto incerto, e più presto disfavorevole che no alla vostra opinione.
E già che noi siamo in questa materia, voglio additarvi un grande equivoco che è in un'altra ragione che Aristotile produce per confermare questa sua fantasia, acciò che voi o, se non voi, qualche altro vegga quali leggerezze si producono anco da uomini grandi, mentre vogliono difendere o persuader false conclusioni. Egli argomenta, e dice: Se il moto del fuoco all'insù non dependesse da principio intrinseco, ma da motor esterno, egli sarebbe violento e come quel de' proietti, e per consequenza si andrebbe sempre debilitando; ma egli acquista velocità e vigore, come gli altri movimenti naturali; adunque etc. Qui, primieramente, manca la certezza di quest'incremento di velocità continuato sino al fine, il quale Aristotile non ci insegna a comprendere, e l'esperienza ci mostra più presto 'l contrario, vedendo noi esalazioni e fuochi ascendenti più presto andar languendo e facendosi pigri, di che ci dà segno il fumo che da essi vien sollevato, che dopo breve salita si va debilitando e più presto allargandosi trasversalmente, che con maggior velocità inalzando. Ma quel che più importa è che il moto violento, come quel de' proietti, si va diminuendo dopo che il mobile è separato dal proiciente; ma mentre che il motore è congiunto col mobile, non ci è ragion alcuna per la quale la velocità deva diminuirsi, anzi in questo ancora accade che egli sia tardo nel principio, e che successivamente vadia per qualche tempo acquistando maggior velocità: e però, dandosi le vele al vento, assai lentamente si muove il navilio su 'l principio; ma continuando la forza del vento d'accompagnar la vela, si va introducendo maggior velocità, benchè tal moto non dependa da principio intrinseco della barca: e così essendo i mobili che per estrusione del mezzo si muovono in su, congiunti sempre col lor motore, non è necessario che il lor movimento vadia debilitandosi, come accaderebbe se loro dovessero continuar di muoversi, a guisa de' proietti, dopo che 'l motore gli avesse abbandonati. Or vedete, Sig. Colombo, di quanta forza sien quelle ragioni d'Aristotile, dalle quali vi sete lasciato persuadere doversi dar la leggerezza positiva; nè crediate che l'altre sien punto più gagliarde di questa. Ben è vero che per appagar voi, che già vi trovate aver una volta dato l'assenso a cotal opinione, bastano simili dimostrazioni, e anco più deboli, se di più deboli se ne trovassero; sì come, all'incontro, per rimuovercene, non credo che bastassero i computi aritmetici, avendo voi in mente vostra stabilito che esser filosofo importi esser impersuasibile di cosa alcuna diversa da i concetti già impressi. Della qual vostra determinazione, se ben già se ne son veduti moltissimi esempli, tuttavia ce ne restano ancora assai de' maggiori in quel che segue; dove, persuadendovi di difendere Aristotile, ed in consequenza di far l'ultime prove di filosofia, vi riducete a scrivere cose tali, che ben dimostrano quanto a voi, e non al Sig. Galileo, si accomodi l'esclamazione che ponete in questo luogo [pag. 357, lin. 6-8], dicendo: È possibile, Dio immortale, che nè voi, nè chi vi consiglia, conosca queste fallacie? Chi volete che non conosca che voi il fate a posta? E prima, voi dite, alla facc. 48, v. 3 [pag. 357, lin. 9-11], che, quanto all'intelligenza del testo d'Aristotile, la positura dell'avverbio simpliciter, accoppiato o con la parola cause o col verbo muoversi, inferisce sempre 'l medesimo, e che però il Sig. Galileo lo può locar dove gli piace, se però la sua gramatica non è differente dalla vostra, come la filosofia. A questo vi si risponde, la nostra gramatica esser tanto differente dalla vostra, che quella trasposizione del detto avverbio, che voi dite non saper veder che inferisca mai se non l'istessa cosa, io so veder che induce sentimenti contrarii, sì che in un modo direbbe che le figure non son cause, e nell'altro importerebbe le figure esser cause, della medesima cosa. Imperò che congiugnendosi l'avverbio simpliciter col verbo muoversi, dicendo: «Le figure non son cause del muoversi semplicemente», si viene a escludere totalmente dalle figure l'esser cause di moto; ma se l'avverbio si accoppierà con le cause, dicendo: «Le figure non sono semplicemente cause del muoversi», non determina che le figure non sien cause totalmente, ma solo che le non son cause semplici e assolute, il che importa poi, lor esser cause per accidente, o secondarie, del muoversi: il qual concetto è tanto differente dal primo, che l'uno è vero e l'altro è falso.
Facc. 48, v. 12 [pag. 357, lin. 17-19]: Ma non so già che da questo si possa cavare che quello che è causa di velocità e tardità nel moto per accidente, non possa esser cagione anco di quiete per accidente.
Io non so con chi voi abbiate questa disputa, perchè 'l Sig. Galileo vi concederà molto volentieri, nè mai si trova che egli l'abbia negato, poter esser che una cosa, che sia causa di tardità di moto, possa esser anco causa di quiete; come, per esempio, l'accrescer il ferro dell'aratro arreca tardità al moto de' buoi, e si può dilatar tanto che impedisca loro totalmente il più muoversi. Ma egli non concluderà già da questo particolare, nè da molt'altri dove tal regola avesse luogo, che universalmente tutte le cose che inducono tardità possin anco necessariamente apportar quiete; e un de' casi non compresi da tal regola, dirà 'l Sig. Galileo esser quello di cui si tratta; cioè che, se ben la dilatazione di figura induce tardità di moto alle cose che si muovono nell'acqua, non però potrà ella di necessità indur quiete. Voi, dunque, Sig. Colombo, e non il Sig. Galileo, come gl'imponete in questo luogo, vanamente ed a sproposito discorrete, per difetto di buona logica, poscia che da uno o più particolari vorreste cavare una regola universale, e stabilire che in ogni caso quella cosa che arreca tardità di moto, possa anco di necessità apportar la quiete.
Facc. 48, v. 21 [pag. 357. lin. 25-27]: E notisi che quelle parole del Buonamico, De causis adiuvantibus gravitatem et levitatem, non voglion dire che sien cause per sè, ma per accidente.
Quest'è un altro sproposito: perchè dove trovate voi che il Sig. Galileo abbia mai detto altrimenti? Leggasi, per manifestamente scorgere la vostra impostura, il suo trattato alla facc. 58 nel fine [pag. 124, lin. 30 – pag. 125, lin. 4], L'istesso dico a quel che voi soggiugnete, scrivendo [pag. 357, lin. 32-34]: Vedete dunque che Aristotile, nel quarto della Fisica al t. 71, non contraria a questo del Cielo, come vi pareva; e così in niuna maniera vien censurato a proposito da voi. Ma tali censure non si trovano nel libro del Sig. Galileo; e però voi, con artifizio assai grosso, tacete il più delle volte le sue parole, bastandovi che la vostra scrittura faccia qualche poco d'impressione in alcuno di quelli che non son mai per leggere 'l trattato del Sig. Galileo. Su la qual confidenza, seguitate di scriver così [pag. 357, lin. 35-36]: E quando dite che, se le figure son causa di quiete per esser larghe, ne seguirà che le strette sien causa di moto, contro a quel che afferma Aristotile; andate, conforme a l'artifizio ottavo, raccogliendo di qua e di là parole dette dal Sig. Galileo in propositi e sensi diversissimi da quelli che voi gli attribuite, tralasciando delle dieci cose le nove, e non citando nè versi nè carte, nè anco seguitando almeno per ordine di notare le cose dette prima e dopo, come stanno nel trattato: e ciò fate non per altro se non perchè vi mette conto che altri, infastidito di cercare, non possa rincontrar le cose tanto falsamente e fuor di tutti i propositi apportate da voi; il che non doverà con renitenza esser ammesso da alcuno, vedendosi quante poche volte i luoghi anco additati da voi sien legittimamente e nel lor vero senso apportati.
Facc. 49, v. 1 [pag. 358, lin. 4-5]: È possibile che stimiate, Aristotile aver inteso che l'ago si ponga nell'acqua a giacere?
Voi fate ben, Sig. Colombo, a cominciar la dichiarazione di questo problema con un'esclamazione, la quale minacci tutti quelli che l'intendessero diversamente da voi, e gli faccia entrar in sospetto d'esser reputati stolti se non ammetteranno la vostra ingegnosissima interpretazione. Alla quale avevo resoluto di non replicare altro, perchè il Sig. Galileo e io ci contentiamo d'esser tenuti per insensati da tutti quelli che applaudessero a una tal sottigliezza: però, senza far molto sforzo di rimuovervi da cotal fantasia, andrò toccando solamente, così alla spezzata, qualche particolare.
Voi scrivete, dunque, in questa medesima facc., a v. 4 [pag. 358, lin. 6-8]: Qual è quel matematico che non sappia che le dimensioni del corpo son latitudine, longitudine e profondità? Ma qual è quel filosofo simile a voi, che sappia delle matematiche più là delle tre dette dimensioni? anzi tra questi chi potrebbe esser altri che voi, che nè anco intendesse queste? E perchè sia manifesto, quanto io dico esser vero, veggasi in qual maniera voi l'esplicate, mentre seguite scrivendo: e che la latitudine, per esempio, dell'ago è quella che noi diciamo grossezza, e d'una cosa lunga, nella grossezza non rotonda, s'intende quella parte che è più larga, e la longitudine dalla cruna alla punta, e la profondità dalla superficie al suo centro: maniere di definire nobilissime, dove, dopo che con l'aiuto della Sfinge ne sarà tratto 'l senso, si troveranno più spropositi che parole. E prima, del vostro non intender queste prime minuzie assai chiaro argomento ne era l'averle voi ben due volte nominate disordinatamente, mettendo la larghezza avanti la lunghezza; che è errore, perchè la larghezza suppon sempre la lunghezza. Onde per vostra notizia sappiate, Sig. Colombo, che la prima dimensione, che voi vi immaginiate, si addimanda lunghezza, ed è l'estensione di una linea retta tra due punti; se poi da un punto di tal linea voi produrrete un'altra linea a squadra, ne nasce la larghezza, la quale non si può intendere senza la lunghezza già supposta; e finalmente, se dal medesimo punto voi produrrete una terza linea perpendicolare alle due già prodotte linee rette, ne nasce la terza dimensione, detta profondità o vero altezza. La prima dimensione, cioè la lunghezza, per sè sola costituisce la linea; questa con la larghezza determina la superficie; e tutte tre insieme fanno 'l solido, o volete dir corpo. Queste tre dimensioni nel corpo si determinano ad arbitrio nostro, se ben comunemente, dove esse fosser diseguali, come, v. g., in una tavola, la maggiore si domanda lunghezza, la mezzana larghezza, la minore altezza o grossezza: ma in un corpo lungo e tondo, com'un ago, la lunghezza si dirà, come dite voi ancora, l'estensione dalla punta alla cruna; ma le altre due dimensioni sono eguali, e formano la grossezza, risultante dalla larghezza e dalla altezza o profondità; e 'l dire, la profondità dell'ago esser la distanza dalla superficie al centro, come dite voi, è un dichiararsi ignudo della cognizione di questi puri e puerili termini: perchè io vi domanderò, qual è il centro dell'ago? e voi sicuramente non lo saprete, poichè egli non l'ha; ma voi avete scambiato i termini, e in mente vostra quando diceste centro volevi dire asse. Ma quando pur voi voleste figurarvi nell'ago un centro, come, v. g. il centro della gravità o altro punto a vostra elezione, come volete voi che egli vi serva per determinar la profondità nel modo che scrivete? Non vedete voi che dalla superficie dell'ago a un tal punto si posson produrre infinite linee diseguali? adunque da qual di queste determinerete voi la profondità dell'ago? Forse direte, da una tirata perpendicolare all'asse. Questo sarebbe il manco male: ma il saggio, che voi avete dato nel resto, del maneggiar questi termini, ci assicura che voi possedete tanto avanti, che voi erraste solamente della metà; che tanto sarebbe il determinar la profondità dell'ago da una tal linea, perchè ella è appunto la metà della vera profondità. Sig. Colombo, se mai vi venisse umore di replicar qualche cosa a queste mie scritture, non fate come avete fatto intorno al trattato del Sig. Galileo, nel quale avete saltato solamente i novantanove centesimi delle cose matematiche che vi sono; ma passatele tutte senza aprirne bocca, perchè gli errori in queste scienze non si posson palliar tanto come gli altri che commettete in filosofia, onde almanco un per cento de i lettori possino rimanere ingannati; ma in quest'altre scienze farete voi (e non, come dite in questo luogo, il Sig. Galileo) ridere i circostanti.
E chi riterrà il riso leggendo quel che soggiugnete [pag. 358, lin. 11-15]: Ora, se le piastre di ferro si devon metter su l'acqua, per la latitudine e larghezza, per lo contrario la lunghezza dell'ago è quella che deve esser la prima a toccar la superficie dell'acqua, che è dalla punta alla cruna; altrimenti, non posereste su l'acqua l'ago per la lunghezza, ma per la larghezza? chi, dico, riterrà il riso nel vedervi in modo confuso in questi inconsueti laberinti, che mentre avete in animo di scrivere una cosa che sia contraria all'avversario, scrivete appunto quel che fa per lui, e contraria a voi medesimo? Perchè se la lunghezza dell'ago è quella che deve esser la prima a toccar la superficie dell'acqua, e la lunghezza è l'estensione dalla punta alla cruna, chi non vede che questo è metter l'ago a giacere, come vuole il Sig. Galileo, ed anco Aristotile, e anco tutti gli uomini di senso? Se voi lo mettessi per punta, la prima cosa che toccasse l'acqua sarebbe un termine della lunghezza, e non la lunghezza. Ma per vostra maggior utilità sappiate, che non si potendo intender in un corpo la larghezza senza prima suppor la lunghezza, quando voi, ed Aristotile ancora, dite di posare su l'acqua le figure larghe, s'intende di posar la larghezza insieme con la lunghezza; e così, posando dell'assicella d'ebano una delle sue superficie, venite a toccar l'acqua con le due dimensioni lunghezza e larghezza, ed è impossibile toccarla con manco di due dimensioni, perchè una sola sarebbe una semplice lunghezza, indivisibile per larghezza, nè potrebbe toccar nulla. Ora, non si potendo far il contatto con manco di due dimensioni, ed essendo che, quando si considerano due dimensioni sole, l'una è la lunghezza e l'altra la larghezza, però Aristotile, quando dice le falde larghe, intende larghe e lunghe; e muove il dubbio, onde avvenga che i ferramenti lunghi e larghi galleggiano, ma i lunghi e stretti, come un ago, vanno in fondo; talchè dell'ago ancora si hanno a posar su l'acqua due dimensioni, e queste non posson esser altre che la lunghezza e larghezza, le quali importano, l'ago esser posto a giacere.
Voi soggiugnete l'altra esorbitanza, e dite [pag. 358, lin. 15-16]: Posar per lo lungo vuol dire a perpendicolo e retto; ma per lo largo, s'intende a giacere, come si direbbe una trave a giacere in terra. Adunque, Sig. Colombo, se voi aveste a misurare la lunghezza d'una strada con una picca, essendo che la misura e 'l misurato devon esser dell'istesso genere, voi non posereste altramente la picca a giacere (perchè così sarebbe un posarla per lo largo, e le lunghezze non si misurano con una larghezza), ma l'andereste fermando di mano in mano a perpendicolo e retta, per servirvi, nel misurar, della sua lunghezza? Or vedete quanto questi misuratori sien balordi, che adoprano simili aste a diacere, e credono così di servirsi della lunghezza loro: ma credo bene che per l'avvenire, fatti cauti dalle vostre sottili specolazioni, cangieranno stile.
Io credeva che non si potesse andar più avanti nelle semplicità, ma quel che voi soggiugnete m'ha fatto accorto dell'error mio; però sentiamolo [pag. 358, lin. 16-18]: Ma che più? A voler che l'ago e la piastra faccino effetto diverso, bisogna posargli diversamente. Ma, Sig. Colombo, come Aristotile non volev' altro che veder effetti diversi con l'intervento de i diversi posamenti, ci era un modo assai più spedito; perchè, senz'entrar in aghi o in globi, le medesime piastre di ferro facevano il servizio, posandole una volta per piatto e l'altra per taglio. Di maniera che, Sig. Colombo, voi concedete che quando l'ago e la falda di ferro si posano nell'istesso modo, amendue fanno il medesimo effetto: ed in tanto si nota, che per veder diversi effetti circa questo galleggiare, già non vi basta più la diversità di figure, ma ci volete ancora i diversi posari. Ma se 'l fatto sta così, onde avviene che Aristotile non l'ha detto, proponendo il problema in cotal guisa: Dubitasi per qual causa le piastre di ferro larghe galleggiano, e le lunghe, come gli aghi, e posate diversamente, vanno al fondo? Ma voi direte: «Se ben ei non l'ha detto, non importa, perchè ei non ha nè anco detto il contrario»; e la vostra filosofia è a bastanza perfetta quando ella non esclude nominatamente le vere cause de gli effetti, se ben quelle che ella nominatamente adduce non vi avesser che fare.
Ma sentiamo pure altr'aggiunta di esorbitanze maggiori, mentre scrivete [pag. 358, lin. 18-22]: E, finalmente, le cose si debbon usar per far un effetto in quella maniera che elle posson operare, e non altrimenti. Io dirò, per esempio: «La sega recide il legno»; ma se voi diceste che non fusse vero, e per ciò voleste che io lo recidessi dalla costa e non da' denti della sega, fareste ridere i circostanti, perchè di quivi non lo taglia. Dirassi per questo che abbiate ragione? Voi avete molto ben ragione, Sig. Colombo, a voler che per fare un effetto le cose si adoperino in quel modo che le lo fanno: e quando Aristotile avesse semplicemente detto, «Gli aghi vanno a fondo», e non altro, bastava, per verificar la sua proposizione, che in qualche modo vi andassero; ma se egli stesso mi dirà, «Gli aghi messi nell'acqua per lo lungo vanno in fondo», perchè volete voi mettergli in altro modo? E che egli abbia inteso ch'e' si devin por così, è manifesto dal suo parlare; perchè, oltr'alle tant'altre cose dette, trattando Aristotile de gli effetti di diverse figure, delle quali altre son lunghe e larghe, altre lunghe e strette, altre acute, altre ottuse, ed essendo l'ago lungo ed aguzzo, se gli avesse voluto intendere ch'e' fusse messo nell'acqua per punta, averebbe proposto il problema così: Dubitasi ora per qual cagione i ferri larghi galleggiono, ma gli aguzzi (e non i lunghi) com'un ago vanno in fondo. L'esempio che voi adducete della sega è del tutto a sproposito; perchè, se ben è vero che dicendo voi: «La sega recide il legno», chi lo negasse, e per sua giustificazione mostrasse che adoperata dalla costola, e non da i denti, non sega, farebbe un'impertinenza, questo avviene perchè già è notissimo e ricevuto da tutti che la sega è strumento indirizato all'uso del tagliare, e che perciò se gli fanno i denti, e dalla banda de' denti s'adopera: e così sconciamente farei, s'io negassi, gli aghi esser accomodati a cucire, e che per prova io volessi adoprargli per traverso, e non per punta, sendo ricevuto da tutti che per cucire s'adoperano per punta; ma perchè il fine e l'uso de gli aghi non è 'l galleggiar o l'andar in fondo, onde la consuetudine dell'usargli per punta, e non per lo lungo, possa favorir la vostra elezzione, però l'esempio della sega è fuor del caso, nè induce necessità alcuna per la quale e' s'abbino a por nell'acqua per punta, e non per lo lungo. Però potete lasciar da banda cotal esempio, e fermarvi nel concetto che si trae dalle parole del testo.
Facc. 49, v. 26 [pag. 358, lin. 26-27]: Nè so io vedere, perchè si debba pigliare un ago piccolo, il quale non abbia peso convenevole, acciò possa calare al fondo.
Che voi scrivete solamente per far volume, e non perchè non conosciate la debolezza de' vostri discorsi, è manifesto da moltissimi luoghi del vostro Discorso; e questo ne è uno, dove conoscendo la vanità troppo estrema del voler che Aristotile intendesse l'ago dover esser messo per punta, vi riducete ora a voler che ei sia tanto grosso, che anco posto a giacere non possa galleggiare. Ma se voi credete che la vostra prima esposizione sia per trovar luogo nelle menti de' lettori, lasciate pur prender l'ago quanto si voglia sottile, che io v'assicurerò che si affonderà sempre; com'anco, all'incontro, essendo molto grosso, calerà anco posato a giacere. Quanto poi al non aver peso convenevole per poter calare in fondo, voi sete in grand'errore, e mostrate di non intender punto questo negozio; perchè il Sig. Galileo ed io vi lasceremo pigliar un fil di ferro, che pesi dieci volte più che la piastra, pur di ferro, che fate star a galla, e vi faremo vedere tal filo disteso su l'acqua, o vero tessuto in una rete piana, galleggiar non meno che la medesima piastra, purchè tal filo non sia più grosso della medesima falda: dal che potrete anco intender quel che sottilmente ha notato il Sig. Galileo, che non la larghezza della figura, ma la grossezza, si deve considerare in questo fatto. Gli altri spropositi che voi soggiugnete, per non aver nè anco in queste cose minime inteso quel che scrive il Sig. Galileo, si posson trapassare, come tanto manifesti che per se stessi si palesano a chi solamente leggerà l'un e l'altro trattato.
Facc. 50, v. 2 [pag. 359, lin. 2-3]: Però sciocchezza è il credere che, dicendo minora e minus gravia, faccia comparazione del peso fra l'ago e la palla.
Il creder questo sarebbe non solamente sciocchezza, ma stoltizia ancora: ma il dir che tal cosa si trovi nel libro del Sig. Galileo, è ben temerità che eccede quella sciocchezza, e sarà ascritta a voi, come non si vegghin citati i luoghi e le parole onde voi traete queste e tant'altre falsità.
Facc. 50, v. 6 [pag. 359, lin. 5-6]: Oltre a ciò è da avvertire, che questi esempli son del vostro Democrito, e non d'Aristotile, il quale appo voi non è un balordo.
Ecco un'altra confermazione di quel che ho detto poco fa, cioè che voi conoscete internamente di non poter difender tante vanità: e però le vorreste addossare a Democrito, essendo di Aristotile che le scrive e cerca di sostenerle, nè producete d'onde caviate che le sien di Democrito. Il qual dicendo voi che appresso il Sig. Galileo non è un balordo, par che vogliate inferire che egli sia ben tale appresso di voi: però circa questo giudizio io credo che il Sig. Galileo si contenterà d'aver per compagno Ippocrate, e lascerà star voi nel numero de' compatriotti dell'istesso Democrito.
Facc. 50, v. 12 [pag. 359, lin. 10-12]: La polvere e 'l liso dell'oro, e non le foglie d'oro battuto, nuotan nell'aria, quant'a quel vagamento che dite voi: nè intende altramente Aristotile.
È tale il desiderio che voi avete di mostrar che il Sig. Galileo non abbia inteso Aristotile, che per conseguir questo non la perdonate nè anco al medesimo Aristotile ne a' suoi interpreti, nè vi curate di fargli dire sciocchezze, che lor veramente non hanno detto. Il Sig. Galileo, conoscendo che se nissuna cosa d'oro poteva trattenersi per aria facilmente, erano le foglie d'oro battuto, e non la rena o la limatura, e però, con alcuni interpreti, aveva nominato tali foglie, e non la rena, come leggon altri; ma voi, purchè s'attraversi al Sig. Galileo, non vi curate d'accrescer l'inverisimile d'Aristotile. In oltre, ponendo Aristotile nell'aria resistenza alla divisione, è ben necessario, come egli stesso ancor dice, che ci bisogni qualche forza per superarla, sì che da minor virtù non possa esser vinta, ed in consequenza bisogna che corpicelli di minima gravità non la possino superare, ed in consequenza non vi descendino: questo è 'l vero senso d'Aristotile e de' suoi interpreti migliori, e così l'ha inteso il Sig. Galileo; ma voi, che avete molto più a cuore il contrariare al Sig. Galileo che la reputazione d'Aristotile, non vi curate di raddoppiar la sua fallacia, e fargli dir fuor di proposito che egli ha voluto affermare che simili corpicelli minimi e leggierissimi non si trattengono per aria senza discendere, ma calano lentamente. Ma questo, che occorreva metterlo per problema degno di nuova considerazione, e che occorreva ridursi a questi minimissimi corpicelli, e che occorreva accoppiarlo con le falde di piombo che si fermano su l'acqua? non avev'egli cent'altre volte scritto che i corpi descendono tuttavia più lentamente, secondo che son minori e men gravi? Da questo chiaramente si vede che in questo luogo, avendo riguardo alla resistenza del mezo, egli intende di trattare di quei minimi li quali si riducono finalmente a non poter più superar tal resistenza, e però si fermano, e solo in tanto vagano in quanto l'aria stessa gli traporta. La distinzion poi, che fate de i due termini natare e supernatare, dicendo che supernatare vuol dir fermarsi sopra l'acqua, ma natare s'intende di quei che lentamente descendon per l'aria, è totalmente vana e fuor di proposito; perchè egli usa supernatare alle cose che stanno sopra l'acqua senza descendere, e natare vien usato per le cose che stanno non sopra, ma dentro, all'aria, pur senza descendere: sì che la differenza di questi due verbi non importa fermarsi quelle, e muoversi lentamente queste cose, ma fermarsi quelle sopra l'acqua, e queste fermarsi pure, ma per entro la profondità dell'aria. Ma perchè mi vo io meravigliando che voi, per impugnare il Sig. Galileo, non la perdoniate ad Aristotile, se non la perdonate nè anco a voi medesimo? Voi volete, in questo luogo, che il termine notare non si adatti alle cose che si fermano, ma a quelle solamente che lentamente descendono, dicendo che quello che nuota nell'aria, perchè è nel corpo e non nella superficie dell'aria, è necessario che non stia fermo, ma cali al fondo; e pur di sopra scrivete, a facc. 42 [pag. 359, lin. 32-33]: e per lo contrario nello stagno Pistonio tutte le cose che sogliono notare, calano al fondo: di maniera che, se quello che voi scrivete ora avesse veramente nel vostro concetto quel senso che ha su la carta, il senso di quel che scriveste di sopra sarebbe tale: e per lo contrario nello stagno Pistonio tutte le cose che sogliono calare al fondo lentamente, calano al fondo. Però, Sig. Colombo, se voi in tanti luoghi e tanto immeritamente pugnete il Sig. Galileo, che non ha nella sua scrittura commesso errore pur d'una sillaba; dicendogli, or che i suoi capricci lo fanno scorgere; or, che egli ha viso di sentenza contro; or, che da se stesso si sarebbe rovinato sino alle barbe; or, che si dà della scure sul piede, non sen'accorgendo; or, che non risponde cosa che vaglia; or, che egli fa tante bagattelle; altra volta, che i suoi scritti son pieni veramente di fallacie; altrove, che egli miseramente rifugge a dir cose delle quali più sconcie dir non si potrebbono; un'altra volta lo mandate a imparar filosofia dalla sua fante; altrove dite che i suoi termini non operano niente di buono, ma grandemente nuocono, cagionano molti equivoci, consequenze false e stroppiamenti di dottrina; appresso, che non avendo miglior ragioni per la sua opinione, potrà, per onor suo, non ne parlar mai più; che vano e a sproposito è fatto tutto 'l suo Discorso, per difetto di buona loica, e cent'altre ingiurie, non avend'egli nel suo trattato punto nessuno, e voi non pur nominato; dovreste tal volta specchiarvi in questa vostra scrittura, e considerare che questi scherni si perverrebbono a voi, e molto maggiori ancora a proporzion del poco sapere: e conoscereste quanto mal convenga che uno involto nel fango fin sopra i capelli rinfacci al compagno una sola minima pillacchera nell'estremità della veste, anzi pure una macchia, che non il suo compagno ha nella veste, ma egli stesso nell'occhio. E quelle parole che immediatamente soggiugnete in questo luogo, scrivendo: Aristotile ben inteso confuta Democrito nobilissimamente, ma non è da ogn'uno, applicatele non al Sig. Galileo, ma a voi stesso, che non ci è altri che voi che non intenda bene nè Aristotile nè altra cosa del mondo; il che ormai si è veduto per mille esempli, e vedrassi sino al fine.
Tornando, dunque, all'esplicazione che voi date alla confutazione che Aristotile usa contro a Democrito, non intesa per vostro detto dal Sig. Galileo, voi dite che, per intenderla, si supponga primieramente che ci sia il leggieri; il che vi si conceda, se ben è falso e supposto in questo luogo da voi inutilmente, poichè non ve ne servite poi a niente. Volete che si supponga, di più, che l'esalazioni ignee più velocemente ascendin per aria che per acqua, il che parimente si è provato esser impossibile; ma passiam questo ancora, per veder dove voi vi saprete condurre. Terzo, volete che si supponga che le falde che hanno a esser rette nell'acqua e nell'aria da dette esalazioni, abbiano tutte le condizioni pari: ed io a questo vi rispondo, che voglio che le sien le medesime per appunto, perchè così intende Aristotile, non nominando egli mai altro che falde di ferro, mentre parla di cose che abbino ad esser rette nell'acqua; talchè la glosa che ci aggiugnete voi, di non voler che le sien l'istesse, ma che quella che ha da esser nell'acqua sia in essa acqua così leggiera come l'altra nell'aria, è un vostro capriccio, nè se ne trova vestigio alcuno in Aristotile. Però sin che voi non producete un decreto di tutto 'l mondo, che determini che l'intelligenza vera del testo d'Aristotile sia quella sola che si confà non con la scrittura di lui, ma con le fantasie che senza fondamento nessuno vi possin, d'ora in ora venire in testa, io dirò che voi non intendete Aristotile, e non quelli che l'esplicano secondo che suonan le parole sue. Ma considero di più, che, ammesse queste vostre glose, immaginate solo per contrariare al Sig. Galileo, voi, secondo 'l vostro solito, progiudicate per un altro verso molto più ad Aristotile; perchè la conclusione del vostro discorso è che l'esalazioni ascendenti (contro a quel che dice il Sig. Galileo) meglio sostenghino per aria che nell'acqua. Or tenete ferma questa conclusione, e tornate al discorso che fa Aristotile per confutar Democrito. Egli dice: Se le falde fosser rette dall'esalazioni ascendenti, come stima Democrito, meglio sarebbon rette per aria che per l'acqua. Ma è vero (come voi, Sig. Colombo, affermate) che le falde meglio son rette dalle esalazioni per aria che per l'acqua: adunque, per la vostra concessione e per quel che argomenta Aristotile, Democrito perfettamente discorre. Niente dimeno Aristotile scrive, che lo stimar come Democrito circa la causa di tal effetto non sta bene.
Facc. 51, v. 23 [pag. 360, lin. 15-17]: Oltre che il corpo dell'acqua, per esser contrario di qualità all'esalazioni, bisogna che le dissipi e travagli, sì che non possano rettamente e unite ascendere.
Voi v'ingannate nell'effetto e nella causa: perchè, quanto all'effetto, elle ascendono rettamente e unite; e quanto alla causa, quando ben l'acqua e l'esalazioni sapesser d'esser contrarie, onde nascesse tra di loro odio e nimicizia, non però ne dovrebbon seguir travagliamenti e dissipazioni, ma sì bene una fuga e separazion più presta che possibil fosse, che è appunto quella che si fa per linea retta e unitamente. Ma se queste contrarietà dovesser partorir simili travagli e dissipamenti, non essendo minor contrarietà fra la terra e l'aria che fra l'acqua e cotali esalazioni, doverebbono i corpi terrei nello scender per aria patir grand'insulti ed esser agitati e dissipati: nulladimeno simili conturbamenti non si veggono nè in questo nè in quel luogo, nè hanno altra esistenza che nella vostra immaginazione e nel vostro discorso, li quali, se non producete altro che parole, non hanno autorità di por nulla in essere.
Facc. 51, v. 28 [pag. 360, lin. 19-20]: Male per tanto ha filosofato Democrito, e voi con esso lui, e non Aristotile.
Il metter qui il Sig. Galileo a parte del mal filosofare di Democrito è grande sproposito, poichè egli non convien con Democrito, anzi lo confuta.
Facc. 51, v. 30 [pag. 360, lin. 21-25]: L'esperienza che adducete del vaso di vetro pieno d'acqua bollente, per mostrar che per tal maniera si possa far sostenere qualche cosa grave da i corpusculi ignei, se ben è vero il sostentamento, non è vera la cagione in modo alcuno. Come volete voi che i corpuscoli entrino nel corpo del vetro e lo penetrino? Non sapete che è impossibile che un corpo penetri l'altro?
Se io volessi, Sig. Colombo, scriver tutto quello che sarebbe necessario per liberarvi dalle fallacie in che vi trovate insieme con molt'altri, le quali hanno riguardo solamente alle cose contenute nelle citate parole e nelle seguenti appresso, mi bisognerebbe cominciare un nuovo trattato, e molto più lungo di quanto sin qui ho scritto, e dichiarar non piccola parte de i fondamenti della buona filosofia, mostrando che 'l fuoco, il caldo, il freddo, ed altre che voi domandate qualità, la penetrazione de i corpi, la rarefazione, la condensazione, son cose diversissime da quei concetti che voi di loro avete. E non crediate che 'l Sig. Galileo non intenda quel che di presente vien inteso e stimato vero da voi, e che egli per tal causa non lo accetti, perchè simili cognizioni sono le prime dottrine dell'infanzia della comune filosofia, la quale, come potete aver provato, non è tanto profonda che nel corso di tre o quattro anni giovenili non venga da numerosa moltitudine di studenti trapassata; ed il Sig. Galileo non solamente fu tra questi nella sua fanciullezza, ma ha, come potete sapere, auto occasione di vederne ed ascoltarne i pensieri di molte famose persone per lo spazio di molt'anni: e se egli ha delle opinioni diverse dalle comuni, ciò è nato dall'aver, per lunghe osservazioni, conosciute queste mal fondate e inabili a sciòr le difficoltà che nascono circa le cause degli effetti di natura, e dal non voler mantener sempre sottoposta la libertà del discorso all'autorità delle nude parole di quest'o di quell'autore, uomo di sensi e di cervello simile a molt'altri figliuoli della natura; e però doppo l'aversi impennate l'ali con le penne delle matematiche, senza le quali è impossibile sollevarsi un sol braccio da terra, ha tentato di scoprir almeno qualche particella de gl'infiniti abissi della scienza naturale, la quale egli stima tanto difficile ed immensa, che, concedendo lui molti uomini particolari aver saputo perfettamente chi una e chi un'altra e chi più d'una dell'altre facoltadi, crede che tutti gli uomini insieme, stati al mondo sin ora e che saranno per l'avvenire, non abbino saputo nè forse sien per sapere una piccola parte della filosofia naturale.
Ma tornando a esaminare quanto voi vi sete anco avanzato nell'intelligenza comune, e ripigliando le vostre citate parole, dicovi che il Sig. Galileo, per accomodarsi alla vostra intelligenza, non vuole nè ha bisogno in questo proposito della penetrazione de' corpi; nè ci è bisogno, per cavar voi d'errore, se non che vi ricordiate d'aver voi stesso detto di sopra che tutti i corpi son porosi, sino a l'oro, l'argento e, non che 'l vetro, i diamanti stessi, e che per ciò i cani gli trovano all'odorato: e se questo è, come adesso vi par così strano che 'l fuoco, sottilissimo sopra molti altri corpi, possa passar per tali porosità? L'acqua passa per il feltro e per alcuni legni, dove non passerebbe, v. g., la polvere: l'olio, e l'argento vivo, ed altri fluidi più sottili trapasseranno per corpi, i quali nè l'acqua nè l'aria potrebbe penetrare; tuttavia il vetro gli potrà ritenere: ma il fuoco, sottilissimo, penetra tutti i solidi e tutti i liquori, senza che nessuno sia bastante a incarcerarlo; e questa è la maniera con la quale e' penetra il vaso e l'acqua, e urtando nella falda la solleva. Ma perchè la sottigliezza del fuoco avanza quella del discorso di molti, quindi hanno auto origine quelle qualità calde delle quali in questo luogo scrivete, dicendo che si comunicano per lo contatto al vetro e poi dal vetro all'acqua, onde poi l'acqua alterata si commuove per quella qualità sua contraria, si rarefà, gonfia, circola in sè medesima per refrigerarsi e conservarsi contro 'l suo destruttivo, nè potendo resistere interamente, si risolve in vapore aereo e calido, e finalmente, doppo tanti suoi discorsi e manifatture, facendo forza d'evaporare all'aria, solleva le dette falde; alle quali tutte chimere voi sottoscrivete e le producete, non v'accorgendo come la moltitudine solamente de' puntelli, con i quali voi avete bisogno d'andarla sostenendo, apertamente dimostra la debolezza de' fondamenti sopra i quali simil dottrina è fabbricata. Io voglio anco in questo particolare, com' in tant'altri, veder di arrecarvi qualche giovamento e cavarvi d'errore, se ben temo che, sendo voi assuefatto a vivere in tenebre, sentirete più tosto offesa, e con fastidio riceverete qualche raggio di luce. Pigliate una palla di vetro col collo lungo e assai sottile, simile a quelle che i nostri fanciulli chiamano gozzi, e empietela d'acqua sino a mezzo 'l collo, e segnate diligentemente il termine sin dove arriva l'acqua; tenete poi tal vaso sopra alcuni carboni accesi, ed osservate che come prima il fuoco percoterà nel vetro, l'acqua comincia a ricrescere (nè ci è bisogno aspettar che ella bolla per veder tal effetto, come forse vi eri immaginato; e però nel recitar l'esperienza scritta dal Sig. Galileo per veder le falde sollevate da gli atomi ignei ascendenti per l'acqua, aggiugnesti, l'acqua dover esser bollente per dar luogo a quella circolazione che introducete): volendo poi veder sensatamente da che derivi questo ricrescimento, andate con diligenza osservando, e vedrete che secondo che gli atomi di fuoco si vanno multiplicando per l'acqua ed aggregandosene molti insieme, formano alcuni piccoli globettini, li quali in gran numero vanno ascendendo per l'acqua e scappando fuori della sua superficie, e secondo che per entro l'acqua ne sarà maggior numero, ella più si alzerà nel collo del vaso; e continuando di tenergli sotto i carboni lungo tempo, vedrete molte migliaia di tali globetti ascender o scappar via. Questi, Sig. Colombo, non sono, come vi credete, vapori generati da alcune parti d'acqua, che, mediante la qualità calda del fuoco, si vadia in quelli risolvendo e trasmutando: il che è manifesto, perchè se, doppo che se ne saranno andate moltissime migliaia, voi rimovorete i carboni ed aspetterete che anco gli altri, che più sparsamente, e per ciò invisibili, per l'acqua erano disseminati, si partano loro ancora, vedrete l'acqua andar pian piano abbassandosi, e finalmente ridursi al segno medesimo che notaste nel collo del gozzo, senz'essere scemata pur una gocciola; e se voi mille volte tornerete a far tal operazione, vedrete passar per l'acqua milioni di tali sferette di fuoco, senza che l'acqua scemi mai un capello. Anzi, se per vostra maggior sicurezza farete serrar con l'istesso vetro la bocca del vaso, doppo che vi arete messa dentro l'acqua, potrete lasciarlo star sopra i carboni i mesi interi, e sempre vedrete i globetti del fuoco ascendenti, li quali poi, passando per il vetro dell'altro capo, se ne vanno per l'aria; nè mai si consumerà anco in cent'anni una sola dramma dell'acqua rinchiusa, ma ben, mentre che tra essa sarà mescolato 'l fuoco, ella rigonfierà per dargli luogo, e partito 'l fuoco, si ridurrà al suo primo stato immutabile. Ma se poi voi piglierete vasi larghi ed aperti e scalderete l'acqua assai, all'ora la grandissima copia del fuoco, il quale dal fondo del vaso voi vedrete salire, s'aggregherà in globi molto grandi, li quali con impeto maggiore ascenderanno, e cagioneranno quell'effetto che noi chiamiamo bollore, e nello scappar fuori solleveranno e porteranno seco molti atomi d'acqua, nel modo che aliti gagliardi sollevano la polvere e seco ne portano le parti più sottili: e sì come la polvere così traportata non si converte nè in vento nè in aria nè in vapori, così anco gli atomi aquei portati via da quei del fuoco restano acqua, e non si trasmutano in un'altra cosa; la qual acqua in molti modi si può anco ricuperare, ↑ Questi medesimi atomi ignei, che nello scappar fuori de' carboni, dove in grandissimo numero eran calcati e compressi, si movevano con somma velocità e con tal impeto che speditamente molti passarono per l'angustissime porosità del vetro, arrivati all'acqua, per entro la profondità di quella più lentamente si muovono, avendo perduto quel primiero impeto che dalla propria compressione ricevettero; e se nell'acqua incontreranno qualche falda piana, e di poca gravità per la sua sottigliezza o per la qualità della materia, sotto quella si aggregano in piccolissimi globetti, li quali benissimo al senso si scorgono in aspetto quasi di rugiada; e questo aggregato di innumerabili vescichette di materia leggiera solleva lentamente la falda, e la riporta sino alla superficie dell'acqua: riducendosi pur sempre la ragione di tutti questi effetti al medesimo principio, che è che i corpi men gravi dell'acqua ascendono in quella. ↓ Questo, Sig. Colombo, è un poco di vestigio del modo di filosofare del Sig. Galileo; e credo che sia molto più sicuro che l'andar su per i soli nomi delle generazioni, trasmutazioni, alterazioni ed altre operazioni, introdotti e bene spesso usati quando altri non si sa sviluppare da i problemi ch'e' non intende.
Facc. 51, v. 35 [pag. 360, lin. 25-26]: E se pur fosse possibile, non credete che l'acqua gli affogasse, e spegnesse la virtù loro?
Che gli atomi ignei passino per il vetro, è possibile, come avete inteso per il discorso fattovi; ma non arei già creduto, che mi fosse per venir mai bisogno d'affaticarmi in dichiararvi come e' faccino a non affogare nel passar per l'acqua. Forse debbon ritenere il fiato per quel poco di viaggio che vi fanno, o forse han più del pesce che dell'animal terrestre. Del non si spegnere non ve ne dovreste meravigliare, poi che non vi entrano accesi, ↑ se voi ben considererete quel che importi ardere, spegnere, esser acceso, essere spento. ↓ Ma quando ben e' si spegnessero e affogassero, non sapete voi che anco molti corpi annegati vengono a galla? e per il nostro bisogno basta che cotali atomi venghin su, o vivi o morti. Voi direte poi, non si poter dir cose più sconcie di quelle del Sig. Galileo: a me par che queste vostre sieno sconciature, aborti e mostri, da far trasecolare chiunque gli vede.
Facc. 52, v. 3 [pag. 360, lin. 35-40]: Aristotile, per tornare a lui, ha non solo impugnato benissimo Democrito, ma nel medesimo tempo ha resa la cagione di tutti gli accidenti da lui proposti, riducendola alla facile e difficil divisione del mezzo ed alla facultà del dividente, fatta comparazione ancora fra la gravezza de gli uni e de gli altri; come che voi neghiate, Aristotile aver auto questa considerazione, solo perchè non l'avete veduto.
Sarebbe stato necessario, Sig. Colombo, che voi aveste dichiarato quello che appresso di voi significa vedere un libro; perchè io comprendo che 'l leggerlo e intender quel che vi è scritto, non basta; ma parmi che vogliate che altri non solamente lo legga e intenda, ma s'immagini quello che passa per la vostra fantasia dover esservi scritto, se ben non ven'è parola: e però dite ora che il Sig. Galileo, per non aver veduto Aristotile, non ha inteso come quello, nel render le cagioni de gli accidenti proposti da Democrito, fa comparazione tra la gravità del mezzo e de i mobili; la qual cosa nel testo d'Aristotile non si trova, nè egli paragona la virtù della gravità delle falde con altro che con la resistenza dell'acqua o dell'aria all'esser divise o distratte, senza pur nominar la resistenza del mezzo dependente dalla sua gravità. Ora, che voi, o per non aver inteso Aristotile, o per migliorare la causa vostra appresso a quelli che non lo son per veder mai, diciate queste falsità, tra tant'altri vostri errori resta in certo modo tollerabile; ma che abbiate a non v'astener di scrivere che il Sig. Galileo sia quello che non abbia nè inteso nè veduto in questo particolare e in tant'altri Aristotile, è ben altro difetto che d'ignoranza. E perchè sia in pronto a ciascuno la vostra impostura, metterò le parole stesse d'Aristotile, che son queste: «Perchè la gravità ha certa virtù, secondo la quale descende al basso, ed i continui hanno resistenza all'esser distratti, queste bisogna comparar fra di loro. Imperochè se la virtù della gravità supererà quella che è nel continuo all'esser distratto e diviso dalla forza del mobile, questo descenderà a basso più velocemente; ma se ella sarà più debole, galleggerà». E con questa conclusione finisce i libri del Cielo.
Facc. 52, v. 12 [pag. 361, lin. 4-9]: Dice Aristotile, che se fusse vero, secondo Democrito, che il pieno fosse il grave, e il vacuo si domandasse leggieri non come leggerezza positiva, ma come causa dell'ascendere in alto, ne seguirebbe che una gran mole d'aria, avendo più terra che una piccola mole d'acqua, discenderebbe più velocemente a basso che la poca acqua; il che non si vede adivenire; adunque è falso. Fortissimo argomento ed insolubile.
Ancorchè dal Sig. Galileo sia stata manifestamente dichiarata la fallacia di questo modo di argomentare, tuttavia il Sig. Colombo, pensando di giovare ad Aristotile, lo vuol sostener per insolubile, non che forte: però sarà bene che veggiamo, con la maggior brevità che si potrà, quanto Aristotile debba restar obbligato a tal defensore. Il qual cominciando a spiegar la forza di tal argomento, dice che, per conoscerlo, bisogna suppor due cose: l'una è, che secondo la mente di Democrito, contro 'l quale parla Aristotile, non si dia se non il grave assolutamente, e sia della terra, ed altresì l'azzione; l'altra, che il vacuo non sia ente positivo, e che per ciò non abbia qualità. Venendo poi, all'esplicazione, come l'argomento d'Aristotile, in virtù di tali supposizioni, conclude necessariamente, dice: Se la sola terra è quella che fa l'azzione con la sua gravezza, dove è più terra ivi sarà maggior azzione; adunque più presto calerà l'aria che l'acqua nella proporzion detta. Le fallacie ed errori, Sig. Colombo, che sono nel presente discorso e 'n quel che segue, per esser molti e di diversi generi, non mi permettono di procedere secondo un sol filo diritto, ma forzano me ancora a piegarmi or qua or là.
E prima, nel por le vostre supposizioni voi ne avete lasciata una più necessaria dell'altre, non avendo proposto dove voi intendevi che si avesse a far tal movimento: il che era tanto più necessario doversi dichiarare, quanto che, facendosi tutti i movimenti conosciuti da noi in mezzi pieni o d'aria o d'acqua etc., voi intendete, questo, di cui si parla, esser fatto nel vacuo; assunto molto più recondito de gli altri due specificati e proposti: nulla dimeno voi non lo mettete tra gli assunti, e non ne parlate se non dopo aver lungamente discorso.
Secondariamente, mi pare che da gli altri due principii voi, equivocando, ne tragghiate una consequenza non dependente da loro. Imperò che io vi domando: Qual è l'azzione della terra con la sua gravezza? Se voi mi risponderete bene, direte esser il muoversi rettamente verso il centro ed in quello fermarsi: ma ciò non fa al proposito vostro, perchè il muoversi rettamente al centro e 'l fermarsi in quello non ricevono il più e 'l meno, onde voi potessi concludere la più terra muoversi rettamente più al centro e più in quello fermarsi, perchè e la molta e la poca per la medesima retta vi descendono e nell'istesso modo vi si fermano. Ma se voi risponderete, l'azzione della gravità della terra esser la velocità, e che ella conséguiti in maniera alla terra, che alla maggior mole risponda maggior velocità proporzionatamente, errerete doppiamente: prima, perchè tal cosa non solamente non è in maniera nota, che meriti d'esser supposta, mostrandoci l'esperienza tutto 'l contrario, cioè che due parti di terra grandemente diseguali si muovono con velocità insensibilmente differenti; ma quel che raddoppia l'errore è 'l suppor che questo accaggia anco quando 'l moto si facesse nel vacuo, dove molto ragionevolmente io vi posso negare che tal differenza accadesse, quando ben la si vedesse nel pieno. Ed acciò che voi intendiate che noi non neghiamo senza fondamento e solo per travagliar l'avversario, considerate come ne' mezzi pieni, secondo ch'e' saranno più tenui e sottili, le velocità de i mobili, anco di differente gravità in specie, son manco differenti: perchè se, v. g., voi farete descendere nell'acqua una palla d'ebano e una di piombo, le lor velocità saranno assaissimo differenti, e se ne potrebbe far una così poco più grave dell'acqua, che l'altra di piombo andasse mille volte più veloce di quella; niente di meno queste poi nell'aria saranno tanto simili di velocità, che non ci sarà a pena un centesimo di differenza; sì che, attenuandosi ancora più il mezzo, ed in consequenza facendosi tal differenza di velocitadi minore, molto probabilmente si può concludere che nel vacuo tutti i corpi si moverebbono con la medesima prestezza.
Terzo, io non so chi v'abbia insegnato, argumentando ad hominem, far ipotesi contrarie a quelle dell'avversario, che è un perder il tempo e le parole, e un far apparir Aristotile, che fu grandissimo logico, molto poco intendente di questa facoltà. Ed acciò che voi intendiate questo errore, eccovelo specificato. Voi fate dire ad Aristotile così: «Se quel che dice Democrito fusse vero, cioè che il pieno fusse 'l grave e che 'l vacuo fusse cagione dell'ascender in alto, ne seguirebbe il tale assurdo, etc.»; per provar poi che tal assurdo ne seguirebbe, voi dite che si deve con Aristotile supporre che il vacuo non abbia qualità ed, in consequenza, azzione nessuna: ma se per provare l'assurdo voi avete bisogno di suppor che 'l vacuo non abbia azzione, come non v'accorgete che l'assurdo non seguirà dalla supposizione di Democrito, ma dal suo contrario, poichè egli suppone l'ascender in alto essere azion del vacuo? Or vedete quali stoltizie fareste dire ad Aristotile, se fusse vero che voi l'intendeste, sì come è falso che il Sig. Galileo, come affermate voi, non l'intenda.
Quarto, voi tornate a metter in dubbio se la distinzione speciale del Sig. Galileo sia vera; e questo avviene perchè il concetto che di lei vi sete formato è lontanissimo da quel che ha detto il Sig. Galileo: perchè se voi l'aveste inteso, troppo ridicolo sarebbe il dubitare se ella sia vera, perchè sarebbe l'istesso che dubitare se si possa concepir due corpi che sieno eguali in mole ed in peso, e due altri che, essendo pur eguali in mole, sien diseguali in gravità; errore tanto puerile, che, quando ben fusse falso ed impossibile il ritrovarsi tali corpi in natura, non per ciò sarebbe inconveniente il definirgli ed anco il discorrervi attorno ex suppositione, sì come, per esempio, io posso definire il moto fatto per una spirale ed anco dimostrar le sue passioni, benchè tal moto non sia o non fusse al mondo. Or pensate qual inezzia sia il dubitare circa 'l definir cose che sono in natura, e molto manifeste.
Quinto, voi supponete che Democrito, nel proposito di che si parla, supponga che il movimento si faccia nel vacuo; cosa che credo sia una vostra pura immaginazione, poichè Aristotile non ne fa menzione alcuna, anzi dalle sue parole si raccoglie il contrario: poichè egli scrive che, se tal opinione fosse vera, ne seguirebbe che la molta aria scendesse più veloce che poca acqua, il che, soggiugne, si vede non accader mai, ma che sempre si muove più velocemente qualunque piccola quantità d'acqua di qualunque gran mole d'aria, e questo concetto e simili replica molte e molte volte; ed affermando sempre, ciò vedersi per esperienza, è ben manifesto che egli non intende nè può intendere di moti fatti nel vacuo, i quali nè si veggono nè sono. In oltre, replicand'egli, come ho detto, molte volte l'istessa cosa, mai non dice che s'intenda, tali movimenti dover esser fatti nel vacuo; e pur questo era un requisito da non esser passato come supposizione manifesta. Ma io, Sig. Colombo, ho gran sospetto che voi equivochiate, non v'accorgendo che gran differenza è tra 'l dire che nel vacuo si farebbe il moto, e 'l dir che 'l moto si fa nel vacuo; e che, concedendo per avventura Democrito che, dandosi il vacuo, in quello si farebbe il movimento, questo vi paia 'l medesimo che quello che ora affermate, cioè ch'e' voglia che quel che si muove, si muova nel vacuo. Però tornate a studiar meglio Aristotile, e non gli fate dir le vanità che egli non dice.
Sesto, voi pur tornate a voler, contro all'opinione del Sig. Galileo, sostener per vera quella d'Aristotile, che corpi diseguali, ma della medesima materia, si muovino con velocità diseguali tra di loro, e differenti secondo la proporzion de' pesi; in confermazione di che proponete che si faccia esperienza con una zolla e con un grano di terra, o pur con un di quegli atomi che intorbidan l'acqua. Ma questo, Sig. Colombo, è un fuggir la scuola: bisogna, se voi volete difendere Aristotile, che voi mostriate, tal proporzion servarsi tra quei mobili che vi proporrò io ↑ (avvenga che la proposta d'Aristotile è universale), ↓ e che facciate vedere che una palla di terra di cento libbre venga mille dugento volte più veloce che una d'un'oncia, e che una di mille libbre descenda dodicimila volte più presto della medesima d'un'oncia, sì come, all'incontro, il Sig. Galileo vi farà vedere che tutte tre queste e tutte l'altre di notabil grandezza scendono con velocità insensibilmente differenti; e di queste intende e parla Aristotile specificatamente, e non di paragonare un atomo con un monte, e contro queste discorre il Sig. Galileo. Ma perchè vi sete intestato (uso un termine posto da voi in questo luogo) di far prima tutte le cose, che conceder d'aver appresa una verità dal Sig. Galileo, vi conducete a farvi scudo con i seguenti assurdi:
Prima, tentando di figurare e far apparire il Sig. Galileo stoltissimo sopra tutti gli uomini, gli fate dire che, per render ragione onde avvenga che una zolla di terra di venti libbre descende più veloce d'un grano, ciò proceda dalla figura, la quale, per esser più larga dov'è più materia, opera cotal effetto; e poi redarguendolo dite, questa ragion non esser buona, perchè doverebbe seguir tutto 'l contrario, essendo che le figure dilatate ritardono il moto, e non l'accelerano. Sig. Colombo, non cercate d'addossargli queste pazzie, che egli non è così sciocco; e se pur veramente credeste in mente vostra, che ei potesse produr simil concetti, v'ingannate in digrosso, e fate grand'errore a misurare gli altri col vostro braccio.
Dite secondariamente, che per veder verificarsi come, secondo la dottrina d'Aristotile, anco i corpi diseguali e di notabil grandezza si muovono con velocità diseguali, secondo la detta proporzione, bisogna far l'esperienze da luoghi assai alti, acciò che la differenza sia sensibile. Adunque, Sig. Colombo, voi concedete che da luoghi non così alti tal differenza non può esser sensibile. Or notate quali esorbitanze voi dite e fate dire ad Aristotile, mentre vi pensate di difenderlo. Prima, se tale era la sua mente, doveva dichiararsi, e farci avvertiti che da una altezza di centocinquanta o dugento braccia, che sono delle maggiori che noi abbiamo, tal differenza di velocità non è sensibile, e doveva determinarci quanta doveva essere un'altezza acciò che da quella un sasso di mille libbre arrivasse in terra mille volte più presto che un altro d'una libbra sola: perchè, per dir il vero, i giudizii ordinarii (benchè voi non ci abbiate scrupolo) non s'accomoderanno facilmente a credere che possa esser vero, che nell'istesso tempo che la pietra grande, cadendo dall'altezza, v. g., di mille miglia, arrivasse in terra, l'altra minore non avesse ancora passato a pena un miglio solo, mentre che si vede che venendo le medesime dall'altezza di mille palmi, quando la maggiore percuote in terra, l'altra gli resta addietro appena un palmo o due. In oltre, che questa vostra ritirata sia non solamente vana, ma lontanissima dalla mente d'Aristotile, è manifesto: perchè egli dice che tal posizione si vede seguire; or se ella si vede, è forza che se ne possa far l'esperienza, e che, in consequenza, bastino le altezze delle torri per farcela conoscere; se già voi non diceste che Aristotile avesse qualche torre più alta di quella che ebbe Nembrotte nell'idea. Di più, grandissima sciocchezza fareste voi dire ad Aristotile, se il suo sentimento fusse stato simile alla vostra intelligenza; perchè egli si serve di questo principio per destruggere 'l vacuo, per la cui destruzione egli ha bisogno che sia vero, i mobili di differente grandezza muoversi con diseguali velocità, secondo la proporzione de' loro pesi; ma se tal disegualità non si verifica se non in spazii di migliaia di braccia o di miglia, e' non verrà, in virtù di tal argomento, a provare se non che è impossibile darsi di simili spazii immensi vacui, ma che, in consequenza, non è assurdo alcuno darsi spazii vacui di cento o dugento braccia, poichè in questi la detta posizione non si verifica. E finalmente una gran contradizione a voi medesimo in questo proposito sentirete poco di sotto. In tanto, perchè dovunque io mi volgo incontro gran vanità in questo vostro discorso, noto certo compensamento ingegnoso che voi producete, scrivendo [pag. 362, lin. 32-34] che, già che non si possono avere eminenze tanto alte da far vedere la differenza di velocità tra i corpi amendue di notabil grandezza, si può in quella vece far grandissima differenza tra le moli e grandezze de' mobili, quasi che voi vogliate dire, che sì come i mobili grandemente differenti in piccole altezze mostran gran diversità di velocitadi, così i men differenti in grandissime altezze mostrerrebbon la medesima diversità; proposizione detta, ma non provata, nè probabile, nè verisimile, e, quando pur non totalmente falsa, certo non concludente cosa alcuna per voi: perchè se voi piglierete un piccolissimo grano di terra ed un pezzetto mille volte maggiore, che sarebbe, per caso, ↑ quello quant'un grano di papavero, e questo ↓ quant'un cece, e gli lascerete cader da una altezza, v. g., di quattro braccia, vedrete gran differenza nelle lor velocità; ma se piglierete poi un'altra zolla di terra mille volte maggiore d'un cece, che sarebbe, v. g., grande quant'un arancio, e così sarebbe conservata la medesima differenza di moli, voi non troverete più quella disagguaglianza di velocità, nè anco facendogli cadere da cento braccia d'altezza; e pur secondo voi doverebbe esser l'istessa, e se intendeste Aristotile, bisognerebbe che fusse mille volte più veloce. Ma sentiamo rinforzar il vostro argomento. Voi scrivete [pag. 362, lin. 36-38]: Che dà maggior percossa, un sasso grosso o un piccolo? Il grosso: adunque aggrava più; e se aggrava più, vien più veloce . È certo, Sig. Colombo, mirabile la vostra incostanza: perchè, se poco fa diceste che non si trovavano altezze tanto grandi che ci potesser far sensibile la differenza delle velocità di tali mobili diseguali, come, sì presto scordatovene, la fate voi ora grandissima , non che sensibile, nelle percosse di questi sassi cadenti? Bisogna, dunque, o che voi facciate cader tali sassi al manco dalla sfera del fuoco, o che voi caschiate in contradizione a voi stesso, o che sia falso che tra tali percosse si scorga differenza. Io non posso, oltr'a ciò, a bastanza ammirare il vostro avvedimento, poichè, non vi fidando de gli occhi proprii, che mostran che due sassi diseguali, venendo dalla medesima altezza, arrivano nell'istesso tempo in terra, ricorrete per assicuramento del fatto ad una coniettura presa dalla disegualità delle percosse, quasi che la maggior gravità del percuziente non basti a far il colpo più gagliardo, se non percuote ancor con maggior velocità. ↑ Ma che dico? Voi stesso, nell'istesso argomento, referite la maggioranza della percossa all'aggravar più; ma per aggravar più non basta che il sasso sia più grosso? non è dunque l'argomento vostro di veruna efficacia. ↓ Voi, Sig. Colombo, mandate il Sig. Galileo a imparar da gli stampatori cosa che egli benissimo sapeva; però posso mandar voi da i magnani ↑ per apprender questo che vi è ignoto, ↓ i quali vi diranno che posson dare in manco tempo cento colpi con un martello di quattro oncie che venticinque con uno di dieci libbre, e che, in consequenza, molto più velocemente maneggiano il piccolo che 'l grande; con tutto questo, quando hanno bisogno di dar gran colpi, adoperano il martello più tardo, cioè il più grave, e non il più veloce.
E da questi suoi discorsi vanissimi raccoglie il Sig. Colombo le seguenti conclusioni [pag. 363, lin. 3-8]: Diciamo dunque che Aristotile, argomenta nobilissimamente contro Democrito; e che è vero, che la distinzione specifica non solo non ha luogo contro di lui, ma nè anco tra di noi; e che non pende detta distinzione sempre dalle molte parti e più spesse di terra in un corpo che in un altro; e che, conseguentemente, sia miglior regola di tutti questi effetti la considerazione del predominio de gli elementi e la facultà del mezzo.
Qui, primieramente, è detto fuor d'ogni proposito che la distinzione di più o men grave in specie non dependa sempre dalle molte parti di terra e più spesse (dico per quel che aspetta alla presente disputa), perchè 'l Sig. Galileo non ha mai presa tal distinzione nè da terra nè da fuoco, ma solamente ha detto di voler chiamar più grave in spezie quel corpo di un altro, del quale una mole pesa più che altrettanta mole dell'altro, proceda poi questo da terra o da acqua o da quel che piace a voi. Ma lasciando da banda quest'errore, già che voi ritornate a dir che miglior regola di tutti questi effetti è la considerazione del predominio de gli elementi, come molt'altre volte avete di sopra detto, veggiamo quanto questo e 'l detto altrove consuoni con le cose seguenti. Ma prima riduciamoci a memoria alcuni de' vostri altri luoghi; e benchè ce ne sien molti, bastici per ora di quattro posti nella facc. 43 [pag. 352], dove a v. 7 [lin. 25-27] dite che il Buonamico attribuisce cotali effetti al dominio de gli elementi ed alla facoltà del mezzo, e ciò con molta ragione, poichè questa regola sarà molto più lontana dall'eccezioni che quella d'Archimede; sei versi più a basso [lin. 32-39] dite che se ben è vero che la gravità e leggerezza nasce dal predominio dell'elemento, non dimeno, procedendo da esso ancora altre qualità, come la siccità e l'umidità etc., però miglior regola è questa del predominio che quella d'Archimede e del Sig. Galileo, che è tanto manchevole; replicate poi, quattro versi più a basso [pag. 353, lin. 2-3], la medesima mancanza, mediante 'l patir ella tante eccezzioni, le quali non vi sarebbono senza questo ristringimento di regola; nel fine poi della faccia [lin. 14-17] replicate pure che, dovendosi ricorrere o alla ragione o al senso, si debbe andar a quelle cause che hanno manco eccezzioni, come è 'l dominio de gli elementi e la facoltà del mezzo, la qual regola è più sicura che quella della gravità e leggerezza etc. Or mentre io considero questi ed altri luoghi, e leggo poi quel che segue appresso in questa facc. 54 [pag. 363, lin. 9 e seg.], resto sì fieramente stordito, che io non so s'io dormo o s'io son desto, non sapendo comprendere come sia possibile che si abbia a trovar un uomo, il quale, scrivendo molte cose e tutte diametralmente contrarie alla sua intenzione, si persuada di dichiararla e stabilirla; e che rifiutando una regola semplicissima e sicura, gli anteponga non dirò una regola, ma una sregolata confusione; che stimi dubbio il camminar per una breve e diritta strada, e spedito e certo l'avvolgersi per un inesplicabil laberinto; più facile il camminar di mezza notte per una intrigata selva, che per un prato di mezzo giorno. Il Sig. Colombo, dunque, il quale stima chiaro facile e distinto il filosofare circa i movimenti de' gravi e de' leggieri in diversi mezzi per via de gli elementi dominanti nelle lor mistioni, e fallace incerto e pieno di confusione il fondarsi, con Archimede e col Sig. Galileo, su la relazione della gravità del mobile e del mezzo, scrive poi le seguenti cose:
Facc. 54, v. 25 [pag. 303, lin. 9-12]: E che dite voi dell'olio e altri corpi, che son molto più terrei dell'acqua, data parità di mole, e nulladimeno galleggiano? Ed acciochè non attribuiate all'aria cotal effetto, non sapete che anco in bilancia pesati son più leggieri dell'acqua, e nella bilancia non ha che far l'aria?
Che altro volete voi che dica 'l Sig. Galileo, se non che questo vostro primo esempio manifesta la vanità della vostra regola e conferma la sicurezza della sua? poichè egli dice, anzi con Archimede dimostra, che tutti i corpi men gravi di altrettanta acqua necessariamente galleggiano; e voi affermate ora che l'olio è più leggier d'altrettanta mole d'acqua, e che ei galleggia; adunque la regola sua ci quadra a capello, nè l'esser più terreo, o più aereo, o più tutto quel che piace a voi, apporta scrupolo, difficoltà, eccezzione, limitazione o confusione alcuna a cotal regola, la quale non ricerca altro se non che sia men grave dell'acqua: ed, all'incontro, considerand'egli che voi non sete per negare che molti corpi più terrei dell'acqua vanno al fondo, e che ora dite che l'olio, ancorchè più terreo dell'acqua, galleggia, e di più escludete da tal effetto il poterne esser cagione l'aria, che altro può dire se non che dal vostro esser più terreo o più aereo non si può determinar cosa veruna di certo? Ma considero uno sproposito d'un altro genere, in queste medesime parole. Voi dite che all'aria non si può attribuire l'effetto del galleggiar l'olio, perchè anco in bilancia, dove l'aria non ha che fare, l'olio ed altri corpi simili son più leggieri dell'acqua. Se io dovessi dir liberamente il mio parere, Sig. Colombo, direi parermi che voi siete talmente fuor di strada, che non sappiate verso che banda vi camminiate. Che l'aria non abbia che far nella bilancia, non importa nulla, avvenga che l'effetto del galleggiare non si ha da far nell'aria, dove è la bilancia; ma basta che l'aria abbia che far nell'acqua, dove non credo che voi neghiate che ella sia leggiera, ed in consequenza che ella possa produr l'effetto del galleggiare. Sig. Colombo, io comincio a non mi meravigliar più che voi così ardentemente vi siate posto a impugnare 'l Sig. Galileo, poichè io veggo che di tante verità che sono nel suo trattato, pur una non v'è stata di profitto; che se, all'incontro, voi l'aveste intese, non dubito che, come d'animo grato, più sareste rimasto obbligato a quel piccol trattatello che a tutto 'l resto de' vostri studii. Ma che si ha da dire della contradizione a voi stesso, che si legge due versi più a basso? Già, come si è veduto, voi avete scritto che l'effetto del galleggiar dell'olio e d'altri corpi simili, e dell'esser più leggier dell'acqua, non si deve attribuire all'aria; poi immediatamente, per fuggire l'obbiezzione di chi volesse inferir che questo, in consequenza, si dovrebbe attribuire alla terra, rispondete ciò non dalla terra, ma da altro accidente, cioè dall'aria stessa, cagionarsi, e massime nell'olio ed altri corpi simili. Or qual incostanza è questa? Ma più vi dico: se dall'esser più terreo o aereo dell'acqua s'ha da determinare ne' misti il lor galleggiare e l'andar al fondo, ogni misto farà l'uno e l'altro di tali effetti; perchè, essendo l'acqua uno de gli elementi semplici, ed essendo ogni misto composto de gli elementi, ciascun di loro sarà più terreo e più aereo ed anco più igneo dell'acqua, e però doverà far nell'acqua quell'effetto che da qual si voglia di tali condizioni depende. Però non tanto sarà necessario comparar il lor terreo o aereo col terreo o aereo dell'acqua, nella quale, se sarà pura, niuna di tali condizioni si troverà, quanto sarà necessario paragonar tali participazioni tra di loro.
Poco più a basso [pag. 363, lin. 18-24] scrivete: Non è egli chiaro, nell'ariento vivo esser più acqua e men terra che nel ferro ed in altri simili metalli, e nulladimeno pesar più di essi di gran lunga? anzi, Aristotile dice che l'ariento vivo è a predominio aereo, ed ad ogni modo pesa tanto. Adunque non è necessario che dove è più terreo, quivi sia maggior gravità; perchè vi può esser tanto più acqua o aria in porzione e così densa, che avanzi la gravezza della terra del corpo a cui si compara, ancorchè sia molta più. Io, per venire alla breve, per ora vi concederò tutte queste cose: ma già che l'ariento vivo è a predominio aereo, e nulla di meno è più grave del ferro e di tant'altri corpi che sono a predominio terrei, anzi della terra stessa, in cui si deve pur credere che la terra predomini più che in tutti gli altri corpi; e più, se non è necessario che dove è più terra ivi sia maggior gravità, ed in consequenza che l'esser a predominio aereo o igneo non inferisca di necessità maggior leggerezza; dov'è, Sig. Colombo, quell'evidenza, quella sicurezza, quella lontananza dall'eccezzioni della vostra regola, di reggersi dal predominio dell'elemento nel determinar quali corpi sieno per galleggiare meglio e quali per descendere più speditamente? L'argento vivo molto più validamente descende nell'acqua che 'l ferro, anzi il ferro galleggia nell'argento vivo meglio che il legno nell'acqua; e pur questo è terreo, e quello a predominio aereo. Che alcuni corpi a predominio terrei calino al fondo nell'acqua, non lo negherete; ed in tanto concedete che molti di loro galleggiano: che altri a predominio aerei galleggiano, lo concederete; ma in tanto dite che l'argento vivo è a predominio aereo, e pur va in fondo; e se egli vi va, molt'altri ve n'andranno. E queste son regole lontane dall'eccezzioni? queste son più sicure che il reggersi con l'eccesso della gravità del mobile o del mezzo comparati tra di loro, che mai non varia un capello? Ma dato che la regola del predominio, anco così sregolata, fusse vera, chi mai se ne potrà servire? Insegnateci, Sig. Colombo, il modo, col quale voi sì speditamente conoscete i predominii di tutti i misti, o se non volete publicare il segreto, fate al manco un indice per alfabeto a benefizio pubblico, onde noi possiamo veder i predominii, notando, per esempio: Argento vivo, aereo: Piombo, aqueo; Ferro, terreo, etc. Ma avvertite che bisognerà che lo facciate doppio, perchè semplice non basterà; e converrà che, oltre al predominio, notiate l'effetto che faranno ne' mezzi dove si troveranno, scrivendo, v. g.: Argento vivo, aereo, che va a fondo in acqua; Abeto, aereo, che galleggia; Olio, terreo, che galleggia; Ferro, terreo, che va in fondo; Piombo, aqueo, che va in fondo, etc., perchè senza un tal vostro aiuto credo che gli altri uomini si affaticherebbono in vano a ritrovar il predominio sicuro anco d'un sol misto; perchè io vi confesso ingenuamente che mai non mi sarei accorto che l'argento vivo fusse corpo aereo a predominio.
Facc. 55, v. 15 [pag. 363, lin. 37-40]: Mi piace che circa 'l luogo nel quale si doverebbe far l'esperienza, voi beffiate Aristotile, perchè egli lo merita. O voi che avete invenzione da trovar cose maggiori, non sapete trovarlo? Non è egli attualmente sopra la terra, dove siamo noi? Domandatene Democrito, e vi dirà ch'è 'l vacuo.
Aristotile fa poco altro, in tutto 'l quarto del Cielo, che provar la leggerezza positiva, contr'a Platone, Democrito ed altri, che volevano che tutti i corpi naturali fosser gravi; e molte volte replica che, se ciò fosse vero, bisognerebbe che una gran mole d'aria fosse più grave che poca acqua, ed in consequenza che quella scendesse più velocemente; il qual effetto, dic'egli, è falso, perchè noi veggiamo qualunque piccola quantità d'acqua descender più velocemente di qual si voglia gran mole d'aria. Il Sig. Galileo domanda ad Aristotile in che luogo si vede quest'effetto, di scender più velocemente ogni poco d'acqua di qualunque gran mole d'aria. Il Sig. Colombo risponde, per Aristotile, ciò vedersi nel vacuo, che è il luogo sopra la terra, dove attualmente siamo noi: la qual risposta assai sconcia io non saprei in qual maniera accomodare ad Aristotile, perchè il dirla come sua vera sentenza è gran follia, avend'egli sempre negato 'l vacuo, e lungamente disputatogli contro. Non si può anco dir che ei lo dicesse come posizione di Platone e di quegli altri; poichè in tutto questo libro, dove ex professo tratta questa materia, non si trova che egli attribuisca loro il por vacuo il luogo sopra la terra, dove siamo noi: e pur sarebbe stato necessario il ricordarlo, come punto principalissimo tra gli assurdi loro; e tanto più, che non facilmente altri si può indurre a creder di quelli un tanto inconveniente, li quali nominando, pur per detto d'Aristotile, acqua ed aria, è credibile che vedessero ed intendessero l'acqua e l'aria che è intorno alla terra. Però, Sig. Colombo, se voi non vi dichiarate meglio e non rispondete altro per Aristotile, dubito che egli non solo resterà nella fallacia oppostagli dal Sig. Galileo, ma che voi glien'approprerete qualche altra maggiore; onde ragionevolmente alla domanda che voi fate in questo luogo al Sig. Galileo, dicendo: Chi cammina più freddamente adesso, Aristotile o Democrito?, si potrà rispondere: Aristotile, perchè l'avete stroppiato.
Cosa assai ridicola è il sentir il Sig. Colombo, in quel che segue appresso, equivocar sempre, mentre vuol far apparire equivoci alcune proposizioni vere del Sig. Galileo. Egli scrive dunque così, alla facc. 55, v. 26 [pag. 364, lin. 6-10], parlando al Sig. Galileo: Voi soggiugnete, a car. 68 [pag. 135, lin. 30-31], che noi non ci sappiamo staccare da gli equivoci; e veramente che il detto calza appunto nella persona vostra: imperò che di sopra s'è provato che quel che resiste alla divisione fatta con tanta e tanta velocità, può resistere anco assolutamente, e così cagionarsi la quiete, al moto . Sig. Colombo, voi qui primieramente equivocate da l'esser diviso all'esser mosso; ed il Sig. Galileo, trattandosi della resistenza che si sente nell'acqua mentre vogliamo per entro lei muover con velocità qualche corpo, ha dichiarato quella depender non dal doversi divider le parti dell'acqua, essendo divisissime, ma dall'esser mosse; e ne dà l'esempio del muover un corpo per l'arena, la quale resiste, e non perchè parte alcuna di lei si abbia a dividere, ma solo perchè hanno ad esser mosse verso diverse bande. Ma pigliandosi anco quel movimento e separazion che si fa delle parti dell'acqua come se fusse un dividere, voi doppiamente equivocate nelle sopraposte parole. Imperò che, o voi volete che la vostra proposizione sia universale, o no: se la volete universale, dovevi dire che quel che resiste alla division fatta con tanta e tanta velocità, resiste anco necessariamente all'esser diviso assolutamente; e non dovevi dire può resistere, perchè il dir può resistere non esclude il poter esser anco che non resista, sì che sia vero che de i resistenti alla divisione fatta con tanta velocità, alcuni ve ne sian che resistino alla semplice divisione, ed altri no: ma se voi prenderete la proposizione in questo secondo senso, equivocherete per un altro verso, volendo, senza provarlo, concluder tal accidente dell'acqua in particolare; perchè il Sig. Galileo vi concederà l'un e l'altro membro della vostra proposizione, ma vi negherà che il corpo particolare dell'acqua sia di quelli che resistino all'esser divisi assolutamente, se ben resistono alla tanta e tanta velocità. E perchè tutto 'l vostro errore deriva dal non esser sin qui restato capace come possa essere che un mobile resista all'esser mosso con tanta e tanta velocità senza che egli resista all'essere assolutamente mosso, voglio con un'altra esperienza tentar s'io posso arrecarvi qualche giovamento. Ditemi, Sig. Colombo, non è egli noto che una palla di piombo non resiste punto all'esser mossa semplicemente all'ingiù? Certo sì, anzi ella naturalmente discende: nientedimeno se voi la voleste far venire da una tal altezza sino a terra più velocemente di quel che per sua natura verrebbe, ella a tal velocità farebbe resistenza, e tanto maggiore quanto la caduta dovesse esser più veloce; e però volendola far descendere con prestezza quasi momentanea, bisognerebbe cacciarla con la forza d'un'artiglieria. Ecco, dunque, che quel mobile che non resiste punto al moto assoluto ↑ in giù, ↓ repugna e contrasta all'esser mosso con tanta e tanta velocità.
Voi seguitate scrivendo [pag. 361, lin. 10-17]: Equivocate ancora nel dire che l'aria e l'acqua non resistendo alla semplice divisione, non si possa dir che resista più l'acqua che l'aria; perchè, supposto che alla divisione assoluta non resistessero, se ben dell'acqua si è provato il contrario, non dimeno, resi stendo circa 'l più e men veloce muoversi, non è questa resistenza più nell'acqua che nell'aria? E questa velocità e tardità è pur conceduta da voi. Anzi, che dove fusse la resistenza assoluta propriamente presa, non si potrebbe dir che ci fusse più e meno resistenza, non sendo in modo alcuno divisibile. Come volete voi, Sig. Colombo, che il più ed il meno si trovi in quel che non è? Voi pur sapete, e di sopra avete ammesso, che non entium nullae sint qualitates: se dunque ora voi concedete, la resistenza alla semplice divisione non essere, come volete che in lei sia il più ed il meno resistere? La resistenza al più e men veloce muoversi è e si trova nell'acqua ed anco nell'aria, ed il Sig. Galileo la concede; e parlandosi di tal resistenza, egli non solamente ve la concederà più nell'acqua e meno nell'aria, ma nell'acqua per sè sola considerata vi concederà il più e men resistere, secondo che si vorrà il più o men veloce muovere: ma voi equivocando trapassate da questa resistenza, che è, a quella che veramente non è, e che voi per ora concedete non essere. Parlate poi non solo equivocamente, ma fuor del caso, mentre dite: Anzi dove fosse la resistenza assoluta etc. Eccovi l'equivoco e lo sproposito manifesto. Il Sig. Galileo dice: Perchè nell'acqua e nell'aria non è resistenza all'esser semplicemente divise, però non si può dir che l'acqua resista più dell'aria all'esser semplicemente divisa. Voi contro di questo dite: Anzi dov'è la resistenza assoluta (intendendo ora, con equivocazione, resistenza assoluta quella che da forza alcuna non si può superare), non si può dir che vi sia il più e meno resistere, sendo tali resistenze insuperabili ed infinite. Là il Sig. Galileo nega 'l più e 'l meno, perchè non vi è resistenza nessuna; qui negate voi il più e 'l meno, dove la resistenza fosse infinita: amendue dite il vero; ma il vostro detto equivoca da quello del Sig. Galileo ed è fuor di proposito, nè a lui apporta pregiudizio alcuno, ↑ nè utile a voi. ↓
Le risposte che dopo questo voi apportate a certe considerazioni che fa il Sig. Galileo circa alcune esperienze addotte da alcuni per provar che la resistenza alla divisione dell'acqua sia causa del galleggiare, sono tanto deboli, che per mostrare la lor nullità basta ricordarle al lettore, senz'altre repliche.
Contro a quelli che avesser potuto credere che un sughero o un pezzo di cera, descendendo per aria e fermandosi poi in superficie dell'acqua, non calasser più per l'impotenza a dividerla, aveva scritto 'l Sig. Galileo che anco questi corpi leggieri penetravan l'acqua e ne scacciavano quella parte che era proporzionata a i momenti della lor gravità, nè restavano altramente per inabilità al dividere la crassizie di quella: in segno di che egli diceva che i medesimi, posti in fondo dell'acqua, la dividevano velocemente all'insù, ed arrivati all'aria si fermavano; dal qual accidente con altrettanta ragione altri arebbe potuto affermare, lor fermarsi per non poter divider l'aria, che sarebbe stato assurdo. A quest'argomento risponde 'l Sig. Colombo [pag. 364, lin. 23-25]: Può far il mondo! che volete che faccia il sagginale e la cera quand'è giunta su la superficie dell'acqua? Domin, che gli abbino a cercar di salire in aria, se son più gravi di lei? Il Sig. Galileo non vuol che faccin altro se non insegnarvi a scorger quella medesima cosa che voi pur avete innanzi a gli occhi; cioè che, sì come voi intendete che l'esser loro più gravi dell'aria, e non la difficoltà che abbia l'aria all'esser divisa, è cagione che loro non ascendon in quella, così la gravità dell'acqua maggior della loro, e non la resistenza che sia in lei alla divisione, gli vieta il calare al fondo.
A un'altra esperienza di alcuni Peripatetici, che avevano scritto, un uovo galleggiar nell'acqua salsa e descender nella dolce per esser la salsa più crassa e corpulenta, risponde il Sig. Galileo, questa essere una sciocchezza grande, perchè con altrettanta ragione e con i medesimi mezzi si proverà, l'acqua dolce esser più grossa della salsa; avvenga che l'uovo posto in fondo della salsa ascende, dividendo la sua corpulenza, la quale egli non può dividere nella dolce, poichè resta nel fondo: il quale inconveniente non segue nella regola che attribuisce tali cagioni all'eccesso della gravità; perchè senza nessun intoppo si dirà, l'uovo descendere nella dolce e non nella salsa, perchè è più grave di quella e non di questa, ascender nella salsa e non nella dolce, perchè quella è più grave dell'uovo e questa no. A questa ragione il Sig. Colombo risponde così [pag. 364, lin. 25-26]: Quella sperienza dell'uovo è del medesimo sapor dell'altre; nè più oltre si distende la sua risposta. Ma che tal sapor non piaccia al Sig. Colombo, potrebbe per avventura non esser la colpa nella sua insipidezza, ma in quel che l'Ariosto scrive di Rodomonte:
Ma il Saracin, che con mal gusto nacque,
Non pur l'assaporò, che gli dispiacque.
Però se voi non mostrate con miglior ragione la sciocchezza di quest'esperienza, credo che la risposta del Sig. Galileo resterà, quale ella è, efficacissima.
Facc. 56, v. 12 [pag. 364, lin. 30-34]: L'error che voi stimate comune, di quella nave o altro legno che si crede galleggiar meglio in molt'acqua che in poca, è error particolare, perchè è solamente vostro, sì come a car. 17 [pag. 79, lin. 30-35] dite contro Aristotile ancora; mostrando non sapere che tali problemi non son d'Aristotile, come prova 'l famoso Patrizio.
Il Sig. Galileo non ha mai attribuito a sè stesso, o detto che sia suo proprio, questo errore del galleggiar il legno meglio nella molt'acqua che nella poca: però quello che scrivete qui, o è falso, o le vostre parole son senza senso e costruzione. Se poi i libri de' Problemi sieno d'Aristotile o no, poco importa alla causa del Sig. Galileo, il quale vedendogli publicati sotto nome d'Aristotile e per tali ricevuti da i più, non so che sia in obbligo di credere a un particolare quel che può essere e non essere. Parmi ben che non sia senza qualche pregiudizio d'Aristotile il dubitare così d'alcuni libri: perchè se son pieni di buona e soda dottrina peripatetica, perchè rifiutargli, e conceder in tanto che altri possa avere scritto di stile simile a quello di colui, per bocca del quale solo dicono aver parlato la natura? ma se la dottrina non è tale, come hanno uomini intendenti potuto credere che Aristotile ancora abbia scritto cose frivole? Ma venendo a quel che più attiene a noi, io vi veggo, Sig. Colombo, far superfluamente un lungo discorso per riprovar del Sig. Galileo cosa, che con due sole parole poteva esser confutata, anzi voi stesso dentro al discorso la confutate, stante l'interpretazioni che voi date al problema: ma il non vi voler contentare d'attribuire un error solo al Sig. Galileo, ha fatto traboccar voi in moltissimi. Il problema è: Per qual cagione la molt'acqua sostenga meglio che la minor quantità, onde le navi manco si tuffino in alto mare che in porto? Il Sig. Galileo nega il fatto, dopo aver dimostrato che ogni mole natante può essere egualmente sostenuta da piccola e da immensa quantità d'acqua; e questo intend'egli accadere nell'acque quiete e nelle navi ferme, e non fluttuanti ed agitate dalle tempeste, che così pareva a lui che sonassero le parole del problema, nel quale le navi costituite in porto, dove ordinariamente si tengono ferme e suol esser minor quantità d'acqua, si paragonano con lor medesime poste nel mare aperto e profondo: e così gli pareva che il problema (quando la proposizione fusse stata vera) fusse degno d'uomini giudiziosi; dove che il dubitare della cagione, perchè le navi cariche, nelle fortune, meno sicure stessero nell'acque basse che nelle profonde, gli pareva dubitazione da insensato: oltre che la soluzione addotta dal medesimo autor del problema, dichiara manifestamente la sua intenzione, poichè ei non ricorre mai a produrre il pericolo del naufragio o dell'arrenarsi, ma ne adduce cagioni che hanno luogo ne' legni costituiti in quiete. Ma il Sig. Colombo, trovandosi confuso dalla determinazione del volere in ogni maniera contrariare al Sig. Galileo e dal non poter rispondere alle dimostrazioni di quello, da sè non intese, prima riceve per ogni buon rispetto che il problema non sia d'Aristotile, poi concede che nella quiete tanto regga la poca acqua quanto la molta, e finalmente, fondandosi, com'altre volte di sopra ha fatto, su la regola che le proposizioni s'hanno a intendere nel modo nel quale elle riescono, vuol che 'l problema parli delle navi fluttuanti tra i cavalloni delle tempeste. E se qui si fosse fermato, averebbe commesso questo solo errore, di non intendere il problema; ma il voler troppo contrariare al Sig. Galileo l'ha fatto in una carta di scrittura commetter moltissime fallacie e contradizion, delle quali una parte sono l'infrascritte:
Prima, egli adduce [pag. 364, lin. 35-40] per ragion del galleggiar meglio la nave nella molt'acqua che nella poca, perchè nel tuffarsi, se le parti dell'acqua saranno in maggior copia e più profonde, maggior sarà la resistenza che nelle poche, perchè l'acqua che è sotto e da' lati, benchè non cali più giù il legno, quant'è più, più resiste di sotto e regge, e da i lati ancora ne' movimenti premendo maggiormente, perchè la virtù più unita è più efficace. Or questo discorso è molto titubante e senza nessuna energia, e pur troppo chiaro si scorge che quel che lo produce ha più speranza sopra 'l non si lasciar intendere che su la forza della ragione. Voi dite, Sig. Colombo, che l'acqua di sotto quanto è più profonda più regge, e quella da i lati ancora dite far l'istesso, col premer più quanto è in maggiore quantità, ed insieme dite che il legno non cala più nella poca che nella molta. Ma come è possibile che, se la molta resiste più per di sotto e preme più dalle bande, che il medesimo legno penetri tanto in questa quanto nella poca, che resiste men di sotto e preme manco dalle bande? Non vedete voi che questo è un dir cose incompatibili? In oltre, che ha che far qui la virtù più unita? E perchè è più unita la virtù nella molta acqua che nella poca? la molta può ben aver maggior virtù, ma non già più unita.
Secondariamente, voi confermate [pag. 364, lin. 36-37] questa vostra ragione con quel che dite a car. 23 [pag. 334, lin. 13-40]. Ma quello non ha che fare in questo proposito; perchè quivi si parla della resistenza che fanno le parti dell'acqua all'esser mosse da una trave che si vadia tirando per quella, la qual resistenza è maggiore nell'istess'acqua rispetto alla maggior velocità della trave, e qui si parla del resistere diverse acque diversamente secondo la maggiore o minor quantità d'acqua, nulla importando che il legno si muova tardo o veloce.
Terzo, adducete [pag. 364, linn. 40 – pag. 365, lin. 1] un'altra confermazione, tolta da un esempio di due monti diseguali di rena, de' quali dite voi che più difficile è 'l dividere il più alto che il più piccolo: il che sarebbe vero quando si avessero a dividere dalla cima al fondo; ma se voi vorrete che quel corpo che ha a dividere, penetri, v. g., non più d'un palmo nell'uno e nell'altro, come nel nostro proposito fa il legno nell'acqua, il quale già concedete che non cali più nella poca che nella molta, l'istessa resistenza si troverà in amendue.
Quarto, voi fate un supposto falso con dire [pag. 365. lin. 3] che nel mettersi il legno nell'acqua si muove tutta l'acqua, non se ne movendo sicuramente se non pochissima di quella che gli è sotto, e di quella dalle bande non molta, in comparazion del mare. Ma quel che importa più è, che non cade in considerazione se non la resistenza di quella che cede il luogo al legno che si tuffa, la quale è sempre manco della mole demersa, come sottilmente dimostra il Sig. Galileo.
Quinto, voi concedete [pag. 365, lin. 3-5], doppo questo discorso, che nella quiete tanto è retta una nave dalla poca quanto dalla molt'acqua. Ma questo è fuor di proposito, perchè le ragioni e l'esempio della rena, addotte sin qui, quando fosser buone, proverebbono, del legno costituito in quiete, meglio esser retto dalla molta che dalla poca: oltre che ci è l'altro sproposito detto di sopra, atteso che il Sig. Galileo, ed anco Aristotile, parlano della nave ferma, poichè ne i porti stanno ferme.
Sesto, se ben avete conceduto che tanto sia retta la nave da poc'acqua quanto da molta, nulladimeno dite [pag. 365, lin. 5-12] che la molta la regge più validamente; il che esemplificate con due canapi di disegual grossezza, de' quali se bene il più sottile reggerà un peso di mille libbre non meno che il grosso, mentre tal peso si riterrà in quiete, nulladimeno il grosso sarà poi potente a reggerlo nella violenza aggiuntagli, ed anco in più lunghezza di tempo: e così dite che la molt'acqua contro a queste violenze accidentarie resisterà meglio che la poca (era bene aggiugner «anco contro alla lunghezza del tempo», perchè più presto si rasciugherebbe poca quantità d'acqua che molta). Ora, il discorso e l'esempio son molto fuor del caso: prima, perchè si parla di quel che accaggia nella quiete, e non nelle agitazioni: secondariamente, la ragione perchè l'esempio de' canapi è fuor di proposito, è perchè noi vediamo sensatamente, al canapo grosso avanzar della forza sopra quella che egli impiega nel reggere il peso di mille libbre, e non avanzarne al sottile, perchè, aggiugnendo altre mille libbre il grosso non si rompe, ma il sottile cede all'aggiunta di dieci solamente; argomento necessariamente concludente la maggiore robustezza di quello che di questo. Ora, se l'istesso accadesse delle acque, bisognerebbe che raddoppiandosi il carico alla nave retta sopra gran profondità, ella galleggiasse nell'istesso modo che prima, e che sopra la poca acqua ella cedesse ad ogni minor peso; il che non accade, anzi seguiterà di demergersi per l'aggiunta di nuovo peso in amendue l'acque nell'istesso modo, indizio manifesto che nella molt'acqua non era virtù di soverchio per sostener la nave, diversamente da quel che si fosse nella poca.
Settimo, per istabilir questa vostra dottrina scrivete [pag. 365, lin. 12-14], per esperienza vedersi che un corpo più leggier dell'acqua, quanto si spinge più sotto, tanto più cresce la resistenza; adunque quanto sarà l'acqua più profonda, tanto sarà la forza maggiore nel resistere alla violenza. Qui sono falsità, equivochi e contradizioni in poche parole. Falsa è l'esperienza che voi nominate: perchè se fusse vero che nell'acqua, quanto più si va in giù, tanto maggior resistenza si trovasse, molti corpi si troverebbono che, descendendo nelle parti superiori, trovando poi nell'inferiori maggior resistenza, si fermerebbono a mezz'acqua; il che è falso: e stando nell'istesso vostro esempio, aggiugnendo al corpo più leggier dell'acqua tanto peso che lentamente, lo tirasse in giù, quando incontrasse quella maggior resistenza che dite, doverebbe fermarsi; il che è falso. Ma voi avete equivocato, nel sentir crescere la resistenza nello spinger sott'acqua un pallon gonfiato o altro corpo leggierissimo, crescer, dico, sin che tutto è tuffato, e vi sete immaginato che tal resistenza si vada sempre agumentando sino al fondo; nel che v'ingannate, perchè doppo che egli è demerso tutto sotto la superficie dell'acqua, è finito il bisogno di far la forza maggiore, ma quella che l'ha spinto sin lì, lo conduce anco sino al fondo. ↑ Nè potrebbe scusarvi in parte da quest'errore se non chi v'attribuisse un altro 'nganno: il quale è, che può esser che voi, nello spigner sott'acqua un pallone o una zucca secca, aviate veramente sentito crescer la resistenza non solamente sin che la zucca è entrata tutta sotto l'acqua, ma più ancora sin che si è profondata un palmo o due, seguendo voi di spignerla col braccio. Ma questa, Sig. Colombo, è un'altra nuova resistenza, dependente non dalla zucca nè dalla profondità dell'acqua, ma da l'altra acqua che voi avete a far alzare per dar luogo al vostro braccio, che, accompagnando la zucca, si va demergendo; alla qual resistenza dell'alzamento dell'acqua s'aggiugne lo scemamento di peso del braccio stesso, il quale sott'acqua pesa pochissimo, sì che il suo peso non spigne più tanto a gran pezzo come faceva mentre era fuor d'acqua, per lo che tutto l'aggravamento deve farsi per forza di muscoli, che accresce la fatica al premente. Ma tale accidente non ha che far col galleggiar delle navi o d'altri corpi che per propria gravità si demerghino; onde resta del tutto inutile per la causa vostra. ↓ Vedesi anco manifestamente che voi non avete intesa la cagione del sentirsi maggior resistenza nell'abbassar più e più tal corpo sin che tutto sia sott'acqua; il che procede dalla maggior quantità d'acqua che s'ha da alzare, e non perchè le parti dell'acqua più basse resistano più, come avete creduto voi. Di più, voi che avete mille volte detto che i mezzi più grossi resiston più, e che in difesa del Buonamico sostenete, le parti superiori dell'acqua marina esser assai più grosse dell'inferiori, come ora accorderete questa contradizione, che nelle inferiori si trovi resistenza maggiore? Ma che direte d'un'altra più sottil contradizione, posta nelle due presenti vostre proposizioni? Voi dite nella prima, che quanto più sotto si spinge un corpo leggieri, tanto più cresce la resistenza nell'acqua; e da questa n'inferite la seconda, concludendo che per ciò quanto sarà l'acqua più profonda, tanto sarà maggior la sua forza nel resistere alla violenza. Ma ditemi, Sig. Colombo: Il corpo che si demerge, quando ha egli sotto di sè maggior profondità d'acqua, quand'è nelle parti supreme, o verso l'infime? Certo nelle supreme: or se la maggior resistenza è dove l'acqua è più profonda, ella sarà nelle parti superiori, e non nelle più basse, dove, contradicendo a voi stesso, la riponete voi.
Ottavo, inducendo nuovi spropositi e contradizioni seguitate scrivendo [pag. 365, lin. 15-18]: e questo, perchè nel profondo e più calcata dalle parti superiori, è perchè verso 'l fondo è più unita e ristretta, come avete in Archimede per la regola delle linee tirate dal centro alla superficie, che ristringon sempre verso 'l centro e fanno alle parti dell'acqua luogo più angusto, onde sono meno atte a cedere 'l luogo. Primieramente, Sig. Colombo, come accorderete voi la contradizione diametrale, che è tra 'l dire che l'acqua del fondo è calcata dalle parti superiori, e quel che altre volte avete detto, e quattro versi qui di sotto replicate, scrivendo: imperò che l'acqua di sopra non pesando, per esser nell'acqua, poco o niente disaiuta? Or se l'acqua nell'acqua non pesa, in che modo son calcate le parti basso dalle superiori? Qui non si può dir altro se non che ella pesa e non pesa secondo il vostro bisogno. Ma sentitene un'altra più sottile. Voi dite che l'acqua del fondo, essendo più calcata e ristretta, cede manco e resiste più; e poi volete che le navi tanto meglio sien rette, quanto sopra maggior profondità si ritrovano. Ma, Sig. Colombo, le navi costituite in grand'altezza d'acqua son rette dalle parti superiori, e poco o nulla hanno che far dell'infime; ed all'incontro, dov'è manco acqua, galleggiano nelle parti vicine al fondo: adunque, se è vera la vostra dottrina, meglio galleggeranno nella poca che nella molt'acqua.
Nono, voi errate grandemente in proposito d'Archimede, il quale non disse mai che le parti dell'acqua di sotto sien calcate o ristrette dallo superiori per la regola delle linee tirate dalla superficie al centro; ma ben dice, che de gli umidi consistenti non ven'è una parte più calcata dell'altra, e che quando, per qualche peso aggiunto in una parte, l'altre circonvicine restassero men calcate, elle sarebbon da quella mosse e scacciate, nè resterebbe l'umido fermo e consistente come prima; e suppose di più che questi solidi prementi fanno forza secondo le linee tendenti al centro della sfera dell'acqua: cose tutte molto lontane dall'intelligenza che gli date voi; il che depende dal non aver veduto di Archimede più là che le semplici supposizioni. In oltre, qual semplicità è il dire che, facendo le linee verso 'l centro il luogo più angusto alle parti dell'acqua, ella ne venga più ristretta ed unita? Queste linee, Sig. Colombo, non son tavolati o muraglie che circondino l'acqua, ma son cose immaginarie: e quando anco elle fusser reali, e potenti a far il luogo più angusto, prima, non sendo la profondità de' mari cosa di momento rispetto al semidiametro della terra, questo ristringimento che si fa dalla superficie dell'acqua sino al fondo è del tutto insensibile; ma, quel che accresce la vanità del vostro discorso, quando anco questi luoghi più bassi fossero più angusti, perchè volete che ristringessero ed unissero le parti dell'acqua contenuta in loro? Si ristringerebbon le parti quando nel luogo più angusto si dovesse contener tant'acqua quanta nel più spazioso; ma quando vi sen'ha da contener manco a proporzione che nel più largo, io non so vedere che tale strettezza possa far nulla.
Decimo, voi seguitate di discorrere a rovescio ed a introdurre nuove falsità, mentre dite [pag. 365, lin. 19-21] che un corpo più grave dell'acqua, sollevato dal profondo con la mano, più facilmente si solleva di sotto che verso la superficie: la quale esperienza, facilissima a farsi, è falsa; perchè se legando un tal corpo con un filo, il quale fuor dell'acqua si faccia passar sopra una carrucoletta, con legarvi un peso pendente, quello che lo solleverà dal fondo, lo condurrà sempre sino alla superficie. Ma più (parlando in particolare dell'acqua del mare), voi poco di sotto direte che verso la superficie ell'è di parti più grosse e più terree, come dimostra la lor maggior salsedine, ed in consequenza nel fondo vien a essere più sottile e meno terrea, e però men grave; ed essendo, di più, verissimo che i mezzi fluvidi sollevano con l'eccesso della gravità loro sopra la gravità del mobile, come volete voi che l'effetto non segua all'opposito di quel che scrivete? Non sapete voi che l'acqua salsa sostien meglio che la dolce? or se l'acqua marina è più salsa verso la superficie che nel fondo, men facilmente si solleverà un peso nelle parti più basse che nelle supreme.
Undecimo, trovandovi, per quant'io scorgo, irresoluto di quel che vogliate affermare o negare, ancor che i discorsi fatti sin qui riguardino alle navi costituite in quiete, vi risolvete a scrivere [pag. 365, lin. 24-29] che le navi, non si mettendo nell'acqua perchè stien ferme e scariche, ma perchè solchino per l'onde, le quali nelle tempeste con i cavalloni le sollevano, se nel tornare a basso l'acqua non fosse molta e profonda, si fracasserebbono, e massime quando son molto cariche. E per render ragione di questo segreto, avete, Sig. Colombo, avuto bisogno di far tutte le soprascritte considerazioni e di proporre 'l problema in quella forma? o perchè non dicevi voi (e sarebbe stato un elegantissimo quesito): Cercasi per qual cagione le navi cariche, nelle tempeste precipitando giù da i cavalloni dell'onde, vanno più a pericolo di perquotere e rompersi nel fondo del mare se tal fondo sarà vicino, come quando l'acqua è poca, che se sarà lontano, come quando l'acque son profondissime? che così vi assicuro che avreste auto poca fatica a persuaderlo, e meno a dimostrarne la cagione; e potevi speditamente dichiararlo con l'esempio che adducete, del notar noi più facilmente dove l'acqua è più profonda, che in quella che appunto basta a reggerci, perchè in questa poco ci possiamo agitare, se non vogliamo romperci le braccia e le ginocchia nella ghiaia e nel sabbione.
Duodecimo, per non lasciar contradizione immaginabile indietro, soggiugnete [pag. 365, lin. 30-33]: E come volete caricar le navi, e che vadano veloci, dove non è più acqua che quella che basta per reggerle, e più solamente un mezzo dito? Quella poca acqua che è sotto il cul della nave, non è egli vero che più facilmente ne' moti si distrae, che non fa la molta quantità? Prima, l'autor del problema ed il Sig. Galileo non parlano dell'andar veloce, perchè nel porto non si naviga, ma dell'esser sostenuto semplicemente. Secondariamente, se voi vi ricordate di quelle cose che poco di sopra avete scritte, conoscerete come ora vi contradite. Voi avete affermato che le parti dell'acqua, essendo in maggior copia e più profonde, più resistono ne i movimenti; e replicato, che quanto l'acqua è più profonda, tanto è maggior la sua forza nel resistere alla violenza; dal che, per il converso, ne segue, che quanto manco ella sarà e men profonda, minor sarà la sua resistenza contro a i movimenti e la violenza; e soggiugnendo anco ora che quella poca che è sotto il fondo della nave più facilmente si distrae che se fusse molta, non vedete voi che questo è un apertamente concedere che più facile e velocemente ella sarà mossa nella poca acqua che nella molta?
Facc. 57, v. 30 [pag. 366, lin. 1]: Sig. Galileo, volete voi il giudizio di tutta questa opera vostra?
Voi dite, Sig. Colombo, in questo luogo che ogn'uno si maraviglia che il Sig. Galileo abbia fatto quest'ultimo argomento, non essendo in lui proposito alcuno per argomentare contro Aristotile; ed io mi meraviglio molto più che voi abbiate scritto questo concetto in cotal forma, senz'aggiugnere almanco che tal cosa non genera in voi ammirazion veruna, come quello a cui pare che tutti gli altri suoi argomenti sien parimente fuor di proposito: ora, poi che voi trapassate la comune meraviglia di tutti gli altri, come ragionevole circa questo particolare argomento, venite a concedere gli altri argomenti essere stati reputati efficaci da ogn'uno; ed io voglio brevemente esaminare se nel giudicar questo, vi siate dimostrato punto differente da voi medesimo.
Voi scrivete [pag. 366, lin. 5-9]: Volete provare ad Aristotile in quest'ultimo argomento, che non altramente la larghezza della figura è causa del soprannotare, ma la grossezza del corpo, come dite a car. 95, che è il medesimo che il peso, come avete dichiarato nell'aggiunta; ed in vero ce n'era di bisogno, perchè è più difficile a intendersi che a solverlo. E però, Sig. Colombo, col non l'aver soluto vi sete dichiarato d'averlo tanto meno inteso; ma non solo non avete inteso l'argomento, ma nè anco l'intenzione del Sig. Galileo, il quale non ha mai scritto di voler attribuir la causa del sopranotare alla grossezza del solido, avendol'egli sempre referita all'aria o ad altro corpo che lo renda più leggier dell'acqua. Quello che ha scritto 'l Sig. Galileo, e che si legge alla facc. 45 [pag. 112, lin. 13-21], è che l'ampiezza della figura non solamente non è cagione del galleggiare, ma che nè anche da lei depende il determinare quali sien quelle falde che possono stare a galla; e dice che tal determinazione si deve attendere dalla grossezza di esse figure, escludendo totalmente la considerazione della lunghezza e della larghezza: talchè la grossezza non viene introdotta dal Sig. Galileo, come pare a voi, per causa del galleggiare, ma solo come segno ed argomento da poter determinare quali solidi sien per galleggiare, e quali no. Che poi, oltre al non aver intesa l'intenzione del Sig. Galileo, non aviate anco inteso l'argomento, credo che si farà manifesto col replicarlo, e lasciar poi far giudicio al lettore se possa stare l'averlo inteso col creder di poterlo solvere. E per intelligenza io suppongo, la determinazione d'un effetto doversi prendere da quell'accidente, il quale posto, sempre segue l'effetto, e non posto, non segue mai, e non da quello che posto o non posto segue ad ogni modo. Ora, venendo al caso nostro, intendasi, per esempio, una palla di ferro d'una libbra, la quale non galleggia; cercasi come si possa fare che ella galleggi. Risponde Aristotile: Riducasi in una falda larga, e galleggierà. Io dico che questa risposta è imperfetta; perchè anco in una striscia stretta e lunga come un nastro, e più in un filo lungo e sottile com'uno spago, disteso su l'acqua o tessuto in forma di rete, sta a galla. Il Sig. Galileo interrogato dell'istesso risponde: Assottiglisi il detto ferro alla grossezza d'un spago, e galleggierà; sia poi la figura larga, o stretta, o lunga, o come più piace a voi, egli sempre soprannuota, e mai non galleggierà se non ridotto a tal sottigliezza (intendendo sempre, per l'una parte e per l'altra, che la figura sia piana, e non concava). Però il problema, per esser vero ed universale, non doveva esser proposto come fa Aristotile: «Per qual cagione il ferro o 'l piombo in falde larghe galleggia etc.?»; ma sì doveva dire: «Per qual cagione il ferro assottigliato galleggia?»: sia poi nell'assottigliarsi ridotto in una piastra, in un nastro o in un filo, questo niente importa, perchè sempre e nel medesimo modo per appunto galleggia. Ma perchè Aristotile credette che fatto in un filo non galleggiasse, però s'ingannò nel propor la questione, come anco nel solverla.
Se voi, Sig. Colombo, arete inteso questo, conoscerete che il Sig. Galileo ha, in questo ultimo luogo ancora, discorso non men saldamente che nel resto: che poi l'altra parte di questo medesimo discorso sia parimente vera, credo esser manifesto a chiunque l'intende. Egli dice, che quando ben fusse vero che la renitenza alla divisione fosse la propria cagione del galleggiare, meglio galleggerebbono le figure più strette e corte, che le più spaziose; sì che tagliandosi una falda larga in molte striscie e quadretti, meglio galleggerebbono queste parti che tutta la falda intera, intendendo questo non assolutamente, come vorreste voi, sì che ogni striscia per sè sola meglio si sostenesse e maggior peso reggesse che tutta la falda intera; ma fatta comparazione della grandezza della striscia con quella della falda, la striscia a proporzione più reggerebbe che la falda: e questo depende da quello che dice il Sig. Galileo, cioè perchè nel dividere la falda si cresce assai il perimetro, secondo 'l quale si fa la divisione nell'acqua. Ma se voi voleste comparar la forza della striscia con quella della falda larga assolutamente, la proposizion sarebbe vera nè più nè meno, pur che i corpi fussero eguali. Mi dichiaro. Pigliate, Sig. Colombo, due pezzi di piombo d'una libbra l'uno, e di uno fatene una falda quadrata assai sottile, e l'altro tiratelo in una striscia lunga, v. g., dieci braccia, ma di grossezza eguale all'altra falda, sì che di larghezza resterà manco d'un dito: dicovi che assolutamente la striscia galleggerà meglio e sosterrà più peso che la falda (dato però che fusse vera la causa del lor galleggiare posta da voi e da Aristotile). E questo è manifesto: perchè quanto alla quantità della superficie che posa su l'acqua, tanto grande l'una quanto l'altra; ma quanto al perimetro, la striscia lo potrà avere due, quattro e dieci volte maggiore: adunque la resistenza alla divisione, che si trova nelle parti dell'acqua che sono intorno al perimetro, sarà due, quattro o dieci volte maggiore nella striscia che nella falda larga. Ma il non aver voi capito nè questi termini nè quelli, v'ha fatto scriver molte fallacie, quali sono le infrascritte:
Prima, voi dite [pag. 366, lin. 13-15]: Chi non conosce che la grossezza del solido ed il peso si vanno accrescendo e diminuendo per causa della figura? Se quella cresce in larghezza, e questi scemano; se quella si diminuisce, e questi augumentano: proposizioni inaudite e false, non avendo che far niente la mutazion della figura con l'alterazion della gravità. Ma se pur volete, Sig. Colombo, darle qualche azzione, bisogna che voi gli concediate questa che scrivete e la contraria ancora, secondo che sarà necessario per il bisogno vostro, e converrà che voi diciate che la dilatazione di figura scema il peso quando piace a voi, ed anco lo cresce quando n'avete di bisogno: e così quando il crescer la figura v'ha da servire per impedir al solido l'andar al fondo, bisognerà che ella gli diminuisca il peso; ma quando poi vi bisognerà che ella gli proibisca il venir a galla, converrà che ella gliel'agumenti. Parv'egli, Sig. Colombo, che se ne possin dir delle più sconcie di quelle che voi fate dire al Sig. Galileo?
Secondo, voi dite [pag. 366, lin. 15-17] che la gravità concorre all'operazione insieme con la figura, ma che la figura opera come principale. Ma come vi sete già scordato d'aver letto in Aristotile, e detto più volte voi stesso, tal operazione riseder essenzialmente nella gravità o leggerezza, e secondariamente e per accidente nella figura?
Terzo, voi dite [pag. 366, lin. 20-24] esser sofisticheria il dir che le figure larghe, accresciute e scemate, galleggiano come prima; perchè, se ben è vero che l'une e l'altre galleggiano, le più larghe galleggiano con più efficacia, poichè reggerebbono addosso maggior peso le più larghe che le più strette, senza calar al fondo. Questo che dite voi è falso; quel che dice il Sig. Galileo è vero e non sofistico, ma non è inteso da voi. E la ragione di tutto questo è, perchè il Sig. Galileo dice che le parti di una gran falda tagliata galleggiano come prima; ma questo galleggiar come prima non vuol dir che ciascuna di loro sia atta a sostenere tanto peso quanto tutta la falda intera, ma vuol semplicemente dire che l'esser di minor ampiezza non le fa andar in fondo. Quanto poi al galleggiar con efficacia, non pur galleggiano come prima, ma più efficacemente; perchè una falda che possa regger, v. g., cento grani di piombo, tagliata in cento quadretti, ogn'un di loro reggerà il suo grano e qualche cosa di più, rispetto all'accrescimento del perimetro; o vero se una tal falda si tirasse in una striscia lunga e stretta e della medesima sottigliezza, ella reggerebbe (com'anco di sopra ho detto) molto più, avend'il perimetro molto maggiore (e ricordatevi che ora si parla ad hominem, cioè posto che fusse vero, la causa del galleggiare esser nella resistenza alla divisione). Onde resta falso quel che voi soggiugnete [pag. 367, lin. 12-15], cioè che fatta comparazione tra le figure più o meno larghe semplicemente, meglio galleggia la più larga che la più stretta, e maggiormente resiste, se ben cavata del medesimo legno e grossezza. Questo, dico, è falso; perchè se della medesima tavola voi caverete un'asse quadrata di dieci dita per lato, ed una striscia lunga cento dita e larga uno, queste quanto alla superficie saranno eguali, com'anco quanto alla grossezza e quanto al peso; nulladimeno la lunga doverà galleggiar più efficacemente della larga, avendo quella dugento dua dita di perimetro, e questa quaranta solamente. E questo, come vedete (ch'è la mente del Sig. Galileo), non solamente fa contro ad Aristotile e contro di voi, che scrivete il contrario, ma, stando nella sua dottrina medesima, dimostra che egli in questo particolare ha diametralmente filosofato contro al vero, poichè ei dice che le figure larghe e piane galleggiano, e le lunghe e le rotonde no.
Quarto, il non aver voi ancora inteso quel che sia il perimetro e l'aver creduto che sia l'istessa cosa in una falda che la superficie, anzi pur il non aver capito nulla di tutta la struttura di questa dimostrazione del Sig. Galileo, ha fatto confusamente, e per lo più senza senso, scriver voi, ed attribuire a lui errori puerili, mentre scrivete [pag. 367, lin. 6-8] (parlando al Sig. Galileo dell'assicella tagliata in quadretti piccoli): perchè, come dite voi, il peso del quadretto, rispetto alla sua larghezza, è molto minore che il peso del quadro grande rispetto al suo perimetro o larghezza; e però resiste maggiormente il minore etc. Dove, prima, chiaramente si vede che voi stimate, il perimetro e la larghezza del quadrato esser l'istessa cosa; e pur differiscono in genere, essendo quello una linea e questa una superficie, ↑ pigliando per larghezza la piazza e spazio risultante dalla lunghezza e larghezza della falda, come comunemente s'è preso sin qui, e da Aristotile medesimo, quando propose, Cur lata ferramenta etc. ↓ In oltre, il Sig. Galileo non arebbe detto una sciocchezza tale, qual è il dir che il peso del quadretto piccolo, rispetto alla sua larghezza, è molto minore che il peso del quadro grande rispetto alla sua; perchè questo è falso, avendo (come pur egli scrive in questo medesimo luogo) i detti pesi la medesima proporzione appunto tra di loro che le dette larghezze, cioè che le lor basi: ma quel che ha detto il Sig. Galileo, e che è vero, non riguarda le larghezze de' quadretti, ma i perimetri, cioè, Sig. Colombo, i circuiti, gli ambiti, i contorni, i lati, che circondano le lor piazze e superficie; e di questi è vero quel che scrive il Sig. Galileo, che il peso del quadretto piccolo, rispetto al suo perimetro, è minor che il peso del grande rispetto al suo. E questo è molto differente dall'altra sciocchezza che a voi pare che il Sig. Galileo non provi e che abbia auto obbligo o intenzione di provare, mentre scrivete [pag. 367, lin. 35-39]: Ma non provate già voi che 'l minor corpo abbia maggior perimetro del grande, con queste divisioni geometriche delle quali siate tanto intelligente. Fate a mio senno: attendeteci meglio, e poi non v'arrischiate ad ogni modo a far il maestro ad Aristotile. Qui, Sig. Colombo, è molto fuor di proposito il rimproverare al Sig. Galileo che egli non abbia provato con sue geometriche divisioni che 'l minor corpo abbia maggior perimetro del grande, atteso che non cen'è stato di bisogno. E benchè io penetri l'intenzion vostra, ch'è di burlar con leggiadria il Sig. Galileo, come che egli si fosse obbligato a cosa che al sicuro a voi par impossibile, con tutto questo io voglio con due atti di cortesia contraccambiar il vostro affetto contrario, ed insieme farvi conoscere che la nota che in questo luogo date al Sig. Galileo, dicendogli [pag. 367, lin. 26-27]: se però intendeste quello che dir vole vate, si perviene a voi, che al sicuro non intendete quel che dir vi vogliate. Il primo atto sia il farvi avvertito di cosa che vi giungerà molto nuova, cioè che non solamente il Sig. Galileo, ma ogn'uno che intenda i primi e puri termini di geometria, da una di queste falde che abbia, v. g., un braccio di perimetro, ne taglierà una parte, che sia a vostro beneplacito la metà, il terzo o 'l quarto etc., la quale parte abbia il suo perimetro maggiore del perimetro del tutto due volte, quattro, dieci, ed in somma quante volte piacerà a voi: e qui voi stesso sete a voi medesimo consapevole, quanto da tal cognizione fosse lontana la vostra intelligenza. L'altro sia il consigliarvi, in contraccambio dell'avvertimento che date al mio maestro, che quando volete nelle vostre opere trascrivere qualche parte delle scienze non intese da voi, ed in particolare di queste tanto scrupolose geometrie, non v'assicuriate ad alterar o mutar di vostra fantasia pur una parola di quel che trovate scritto, perchè v'interverrà sempre quel che avete veduto intervenirvi tante volte nel presente vostro Discorso, cioè che, dove copiando solamente ad verbum, o vero (e questa sarebbe la più sicura per voi) tacendone totalmente, qualcuno poteva restar incerto se voi ne sapeste o no, l'averne voluto parlare, per mostrarvene intendente, v'ha dichiarato del tutto ignudo di tal cognizione.
Quinto, voi soggiugnete [pag. 367, lin. 39 – pag. 368, lin. 8] che la resistenza non consiste solamente nel taglio che si dee far nella circonferenza, ma ancora nelle parti dell'acqua sottoposte alla piazza della falda; il che vi si concederà dal Sig. Galileo, ma questo non è d'util alcuno alla causa vostra: avvenga che in due falde fatte di due pezzi di ferro eguali e ridotte alla medesima sottigliezza, quella che fusse più lunga e stretta troverebbe tanto maggior resistenza dell'altra più larga, quanto il suo perimetro fosse maggiore dell'ambito di questa, restando eguali quanto alla resistenza dependente dalle parti dell'acqua sottoposte alle lor superficie, nelle quali altra differenza non sarebbe, se non che le parti soggette alla più larga in più lungo tempo verrebbono scacciate dal mezzo all'estremità; la qual tardanza non arrecherebbe aiuto alcuno al galleggiar più validamente, come credete voi, perchè il galleggiar si fa senza moto, ma solo al descender più lentamente la larga che la stretta, accidente conceduto sempre dal Sig. Galileo, e stimato da voi, con equivocazione, favorevole alla parte che sostenete.
Sesto, voi scrivete [pag. 368, lin. 8-13]: Digrazia, riduciamola a oro, acciò che ogn'un l'intenda. Io piglio una falda con dieci palmi di larghezza ed una di due palmi, e le metto nell'acqua: qual di lor due avrà più resistenza alla divisione? Mi risponderete: Quella di dieci palmi. Benissimo. Or fate conto che quel di dieci palmi fusse dodici, e poi ne fosse spiccato quel di due, che tornerà nel vostro argomento de' tanti quadretti: e così vien chiaro che l' argomento non val cosa alcuna. Qual'è l'argomento che non val cosa alcuna, Sig. Colombo? questo vostro ridotto a oro per farlo intelligibile, o quel del Sig. Galileo? A me par che quel del Sig. Galileo sia intelligibilissimo e concludente, e da questo vostro non ne so trar costrutto alcuno; dal quale, ↑ già che è ridotto in oro, ↓ facciasi giudizio de' precedenti discorsi, lasciati in piombo. Se voi, Sig. Colombo, intendeste questa materia, non fareste simili interrogatorii, e non direste: io piglio una falda con dieci palmi di larghezza, ed una di due, senza determinar nulla delle lor figure; perchè io vi posso dare una superficie di due palmi, che abbia tanto maggior perimetro che un'altra di dieci, che, rispetto alla divisione da farsi secondo detto perimetro, ella trovi maggior resistenza; come sarebbe se io vi dessi un quadrato di dieci palmi di superficie, che n'arebbe manco di tredici di perimetro, ed una striscia lunga otto palmi e larga un quarto, che arebbe pur due palmi di superficie, ma di perimetro più di sedici; e pur questa troverebbe maggior resistenza rispetto alla divisione. Ma quand'anco quest'errore vi si perdoni, e vi si conceda che una superficie di dieci palmi trovi maggior resistenza e più efficacemente galleggi che una di due, che ne volete inferire contro al Sig. Galileo, quand'e' v'abbia conceduto 'l tutto? assolutamente nulla, come potrete intendere se avete capite le cose dette sin qui.
Settimo, posto che la causa del galleggiar le falde gravi dependesse dalla resistenza dell'acqua all'esser divisa, avea considerato il Sig. Galileo la divisione che si fa tra le parti dell'acqua che sono intorno al perimetro della figura e quelle che gli son sotto, e come, in consequenza, quanto maggior fosse il perimetro, maggior si trovasse la resistenza; per lo che, parlando in questo proposito, scrisse che crescendosi o scemandosi le superficie, crescono o scemono i lor perimetri, cioè le resistenze che trovano in fender l'acqua. Contro al qual detto voi insurgete, e dite [pag. 368, lin. 14-16]: I perimetri poi, che vengon da voi chiamati col nome di resistenza, non so io vedere perchè si debbon domandare con tal nome; se già non lo faceste per generare maggior confusione, come de gli altri termini. In questo, Sig. Colombo, non voglio tòrre a difendere il Sig. Galileo, essendo veramente il maggior errore che egli abbia commesso in tutto il suo trattato, e però meritevole della vostra censura. Solo voglio che mi concediate che io faccia avvertito 'l lettore ch'e' consideri qual sia la disposizione del vostro ingegno all'intendere scienze e snodar lor difficoltà, se cotali nomi e termini generano in voi sì gran confusione: voglio anco che mi crediate che il Sig. Galileo non arebbe commesso tal errore con usargli, se egli avesse creduto trovarsi al mondo ingegni che fusser per restarne confusi e che non avessero mille volte, non che una, osservato nominarsi la causa per l'effetto e l'effetto per la causa, con metafore tanto più remote di questa, quanto, senza preparamento di parole precedenti, durissima cosa parrebbe che le lagrime d'un amante avesser a importare la sua donna; e pur leggiadrissimamente disse 'l Petrarca:
E 'l Ciel che del mio pianto or si fa bello.
Io direi che voi medesimo avreste senza nota potuto dir molte volte, e forse l'avete detto, v. g.: «crescendo la larghezza della falda, cioè crescendo la difficoltà al dividere l'acqua etc.»; ma non per questo pretenderei con l'esempio vostro far men grave la colpa del Sig. Galileo, perchè a voi è lecito senza nessuno scapito deviar della dritta strada del filosofare cento miglia ad ogni passo, che a lui non s'ammetterebbe il deviar un dito solo in tutto il cammino.
Credo, Sig. Colombo, che da quanto avete sin qui sentito, e da quello che potrete sentire nelle sequenti risposte agli altri oppositori, assai chiaramente si comprenda quanto puntualmente si sia verificato il detto che attribuite al Sig. Galileo in proposito delle qualità de' contradittori e delle contradizioni che si poteva aspettar che fusser fatte al suo trattato; ↑ il qual detto fu, che di quelli ch'avessero 'nteso 'l suo trattato, nissuno al sicuro si sarebbe messo a contradirgli. ↓ Potete anco vedere com'egli non si serve del silenzio per quell'ultimo e disperato scampo che insegna Quintiliano; chè se io, che son suo discepolo, ho potuto avvertire una parte de gli errori che commettete in tutte le vostre opposizioni, potete ben credere che egli molti più ne averebbe notati, e molto più gravi, quando si fusse messo a simile impresa. Staremo ora attendendo il consiglio al quale vi apprenderete voi, già che il tacere, come dite, è da disperati e convinti; il gettarsi interamente alle mordacità e punture, ha troppo de l'incivile; le burle e facezie non convengono con la filosofia; il confessar d'aver errato e 'l mostrarsi docile e grato a chi ci abbia insegnato il vero, da molti vien riputato atto poco generoso (se ben io lo stimo nobilissimo); il risolversi a empier le carte di parole lontane da tutti i propositi e prive di costrutto e sentimento, non è partito da prendersi se non da quelli che si contentano dell'applauso del vulgo, il quale tanto più stima le cose, quanto meno l'intende, atteso che le intese da lui son tutte da sprezzarsi; e finalmente il contradire con ragioni alle verità dimostrate, quali son quelle del Sig. Galileo, è del tutto impossibile, etc.