La fuga

Chiudere tutte le porte, tutte le finestre, tappare tutte le fessure, rimettere le tende pesanti dovunque, agli usci, nei corridoi, riaccendere la stufa monumentale nel salone, riattare la grande poltrona con i suoi quattro comodi cuscini: l’inverno si avvicina un’altra volta e la natura si rannicchia sotto la greve e caliginosa coperta. Minia, curva sotto il sessantesimo inverno, ha già messo il farsetto nero di panno e le pantofole silenziose.

— E preparare ogni sera un gran fuoco e vino caldo, perchè verranno tutti, oramai, intorno al mio fuoco e alla mia melanconia.

— Tutti? Tutti no, purtroppo. I giovani non verranno! Ah, la guerra.

— Minia, prepara la cena...

Nella gran sala silenzio, noja. I mobili, i panneggiamenti, i gingilli, sperduti in quella vastità templare, si guardano con una fissità ipnotica. Tic-tac-tic-tac. La grande pendola, soltanto, si muove.

— Minia, ferma quell’orologio.

— Come si fa a saper l’ora poi?

— Non importa. Ferma. Preferisco non sentire i passi di questo ignoto che aspetta. Torna in cucina.

Carlo Selvari sospira, si sprofonda nella grande poltrona a canto alla finestra; socchiude gli occhi. Anche la terra si addormenta di inedia sotto le umide ventate, che macerano il verde dei prati.

Ma è difficile la solitudine, è difficile anticipare a sè stessi, prima della morte, l’immersione nell’abbandono d’ogni cosa, è difficile non pensare, non fare, non esprimere; difficile anche per lui, Carlo Selvari, esule volontario del mondo; tanto difficile che, alla fine, ritornando a galla in quel silenzio – la pendola si è fermata con la mansuetudine di un cavallo stanco – sente il bisogno di rivolgere la parola ai suoi antenati, malamente effigiati in grandi quadri appesi alle pareti.

— Che pensi tu, glabra effigie di Andrea Selvari, sapiente della vita, dominatore dell’umanità, che ti ebbe mendicante e ti perdette milionario? Sorridi? Perchè? Perchè sono stanco? Sì, hai ragione, sono stanco. Colpa tua. Tu hai lavorato troppo e io sono molto stanco. Il nostro sangue, la sostanza spinale della nostra razza ha servito a te, tutta o quasi. Se ne rimase un poco, servì a lui, a mio padre, Leone Selvari che in quel ritratto non riconosco più. Che cane di pittore ti ha mai dipinto così? Sembri un guerriero. Io ti ho veduto al banco sanguinolento del beccaro. Il tuo aspetto era fiero, sì, con la grande scure in mano, che calava come una maledizione sulle ossa delle tue vacche. Ma eri meno altero. Lo so: tu, che pure sorridi, non mi canzoni: tu mi rimproveri perchè non faccio nulla. Sei più sentimentale del nonno, insomma. Che vuoi farci? Io mi riposo, io non mi farò nemmeno dipingere. Tanto, chi mi guarderebbe, chi mi venererebbe? E poi, anche posare è una bella fatica! Ho deciso di finire tutto con la mia vita: i vostri capitali, la mia stanchezza, la razza, tutto. Buona notte. Da due anni e mezzo ho cominciato a morire e questa vecchia casa vostra è l’anticamera del cimitero...

Fruscii di rame ignude di fuori, sotto le pazze ventate d’autunno che fanno piovere sempre, anche quando non piove più e portano, veloci per la pianura, volgoli di nebbia, densi come fumo di un grande incendio soffocato. Noja.

* * *

E quando i soliti a convenire, la sera, a bere il vino caldo e a dire quattro parole – pochissimi oramai – tardavano, egli impazientiva aspettando che giungessero e quando erano giunti, e si erano seduti, e, dopo un breve scambio di esclamazioni meteorologiche, avevano orientato la conversazione – il parroco siedeva sempre in cattedra – allora impazientiva, aspettando che se ne andassero. Da due anni, poi, non si parlava d’altro; da due anni: ma fin dalla prima volta egli si era sentito chiudere il petto dalla noja, dalla stanchezza, dal disagio, come ora, precisamente. La guerra. E anche quella sera...

— Colpa del governo – disse il fattore.

— Colpa dei socialisti e dei preti – disse il farmacista.

— Colpa di tutti – disse il parroco.

Carlo Selvari tacque e converse le sue cure al fuoco della stufa.

— Minia, porta del vino.

— Già – soggiunse il farmacista – preti e socialisti si trovano d’accordo, oggi, per rovinare il paese: hanno finalmente capito di essere degni gli uni degli altri...

— È una affermazione gratuita, caro professore: i socialisti hanno tormentato la sostanza della loro dottrina, con la negazione; noi abbiamo avvivato la fiamma della nostra, con la rassegnazione.

— Voi siete un prete idealista. Già, non vivreste qui in campagna, lontano dal mondo civile.

Carlo tentò, come sempre, di allontanare l’incubo.

— Andiamo, amici miei, non c’è dunque altro che la guerra?

— No – disse il prete – no, caro Selvari, non c’è proprio altro e per molto tempo ancora, anche quando sarà finita. Lasciatemi dire, ve ne prego, e sopportate la noja di questi miei pensieri: ricordare agli uomini è l’essenza della mia missione. Non c’è proprio altro che la guerra. Pensate con quanta leggerezza noi abbiamo continuato per lunghi mesi a conversare di politica e di filosofia e di altre cose inutili. Eppure un gran male rombava sulle nostre teste e, dopo il gran male, una grande rivoluzione spirituale. Abbiamo, per tutto questo tempo, lasciato vivere dentro di noi i detriti di un passato che sta scomparendo interamente, non per gradi, ma per impeto improvviso. Noi siamo rimasti qui immobili, tranquilli, sicuri dietro la grande corteccia del paese fatta di giovinezza e di bajonette; noi che fummo e siamo delle retroguardie civili; noi che non abbiamo veduto il processo storico che fatalmente maturava, il castigo che incombeva sulle nostre generazioni. Quando il Signore ci ha abbandonato, quando il tempo è venuto, la guerra è scoppiata. Prima, ne siamo rimasti stupiti e poi ci siamo illusi di un fenomeno di follia passeggera e abbiamo aspettato, aspettato lungamente il ritorno della saggezza. E intanto la corteccia dei popoli sui confini delle patrie si logorava, mentre la guerra si allargava, si allargava spaventosamente e assumeva, innanzi agli occhi stupefatti di queste retroguardie storiche, una profondità oscura, tragica; non più un porto o una montagna bastano alla vittoria, non bastano più nemmeno le vaste praterie e le valli disseminate di officine, i mari, i continenti. La vittoria non è più un’aquila: essa è diventata un arcangelo e rotea nei cieli la sua spada di fiamma. Dove cadrà il colpo della sua giustizia?

Minia, che era apparsa un momento sulla soglia della cucina, scomparve gemendo:

— Misericordia!

— Ecco perchè – proseguì il prete – ecco perchè il senso della guerra si allarga, ci sfugge, rompe i confini delle nazioni, attinge alle indefinibilità di un sacrificio universale. Noi vediamo tutto questo, ora, come improvvisamente, illuminati dal cenno di Dio o per intuizione, come dicono i filosofi; noi abbiamo ora questo senso panico della realtà umana, che non fu mai così potentemente rivelato agli uomini dagli Evangeli in poi. Perchè io lo affermo; io sento la passione immensa di quest’ora apocalittica, quasi come se si rinnovasse l’ascesa angosciosa di un Calvario verso una Croce di salvezza. E noi che cosa sapemmo fare fino ad oggi? Non sapemmo che aspettare. L’attesa non è finita. Ma se, prima, noi sentivamo la guerra soltanto davanti al ferito, che pareva venisse da un altro mondo a raccontarci dolorose istorie di un’altra gente, ora noi sentiamo la guerra dovunque, nell’aria, nella luce del sole, nelle parole, nelle preghiere e quando dormiamo e quando ridiamo e quando speriamo. Non c’è più zona di guerra: c’è la guerra. L’unica divisione possibile è questa; il luogo dove si muore, lassù; il luogo dove si patisce, qui. Le retroguardie delle generazioni sono entrate in conflitto e sono diventate elemento essenziale di vittoria. Se i soldati non hanno davanti ai loro occhi che la morte, come possiamo noi avere innanzi al nostro spirito e alla nostra volontà qualche cosa che non sia la sofferenza? Chi vi si sottrae? Chi non ne cerca la sua parte? Bisogna soffrire, per superare. Non c’è più che un problema: la guerra. Non c’è più che un dovere: il dolore. Non c’è più che una speranza la Fede.

Due degli ascoltatori non capirono niente, ma il sacerdote ebbe una grande pietà di Carlo Selvari: chino allo sportello aperto della stufa, per avvivarla, egli mostrava nel rosso bagliore della fiamma un volto, che restava livido.

* * *

Aveva compreso e ne aveva avuto un senso di sgomento. Non basta più dunque attendere in pace? Bisogna correre? E poi? Come? Raccolse le sue volontà e uscì un giorno di casa. Domandò a tutti non per confortare, ma per essere confortato:

— Tu perchè soffri?

— Ho due fratelli al fronte. Un altro è morto.

— Io non ho fratelli. E tu perchè soffri?

— Non ho più nulla, signore. La guerra mi ha ridotto alla miseria.

— Io non conosco la miseria. E tu?

E figli morti e figli mutilati e orfani e affamati e ciechi e moribondi e sperduti...

— E tu?

— Come vuole non soffrire, signore, in mezzo a tante lacrime?

Ritornò in casa col cuore che fuggiva. Sentì il tepore della sua bella stufa penetrargli le carni, carezzargli i nervi chiudergli gli occhi. E si abbandonò all’abbraccio della poltrona morbidissima. Per altro qualche cosa dentro di lui non quietava: una noja sottile, ma eguale, assillante, continua. La carezza del dolore? Ma che! Il disagio del senso morale? Ubbie! Chi sa? Ecco il sonno, il dolce sonno che ristora, che dà riposo; ecco il sonno, verità, pace, sorriso, gran dono... il sonno... il sonno... il sonno...

Uno scampanio alla porta, furibondo. Minia si affanna tanto che il suo respiro diventa un gemito doloroso – che è? –; due parole scambiate in fretta con l’importuno, che poi si allontana per il viale, frangendo con passo pesante la ghiaja – che è? –; Minia sbatte la porta così violentemente da far tremare i vetri – che è, insomma, che è?...

— Signor padrone, signor padrone, i tedeschi!

Carlo balzò in piedi.

— Dove sono?

— Legga il giornale, legga, l’ha portato il postino...

— Ma dunque?

— Hanno «fatto» una vittoria...

Riprese la sua posizione di prima.

— M’avevi fatto paura. Dammi il giornale. Vattene.

Un attimo di felicità! Passato. La piccola noja ritorna, dopo avere per un momento respirato nel palpito commosso dell’aria. Ecco, ricomincia a rodere. Passato, passato...

Dunque? «25 ottobre 1917 – La violenza della azione nemica e la deficente resistenza di alcuni reparti della seconda armata hanno permesso al nemico di calpestare il sacro suolo della Patria...»

Ecco il sonno che ristora, il buon sonno che riposa, ecco il sonno, verità, gran dono... il sonno...

Il petto gli si appesantì in un respiro di liberazione.

* * *

Anna Gradenigo era uno dei pochi ricordi luminosi di Carlo Selvari. Se quella stagione estiva si fosse protratta di qualche mese, se il mare si fosse mantenuto tiepido per qualche tempo ancora, se la moda non avesse imposto alla buona società di fuggire a mezzo settembre dalle spiaggie, per arrampicarsi un po’ dovunque, verso le solitudini alpestri, forse Carlo avrebbe amato quella donna dagli occhi sognanti e forse l’avrebbe anche sposata.

Dopo dieci anni quella donna stessa entrava ancora nella sua vita e per un momento temette, sperò, che questa volta nè la temperatura, nè la moda, nè il mare, nè i monti, avrebbero avuto il potere di impedire l’irreparabile.

Era fuggita da Treviso minacciata: nella grande casa tetra di Selvari il suo volto veneto velato di pianto, portava una luce nuova; la sua voce cadente velata di pianto, un palpito doloroso, vivo, un alito di tormento lontano, ignoto. Passavano per i suoi occhi le visioni della disfatta, ma senza accendere riflessi nelle cose opache e se, piangendo, parlava dei bimbi che gemevano, delle donne che fuggivano, dei vecchi che cadevano, se rievocava le urla di feriti, dei suoi feriti, lungamente assistiti con materna carità; se raccontava le lacrime dei giovani che avevano combattuto non più per liberare un lembo d’Italia, non più per salvare l’Italia, oramai perduta, ma per l’onore della stirpe e avevano attinto, con le anime lacerate, al più alto, al più puro eroismo, che non si cura della luce della gloria, sentiva di non muovere nè pietà, nè dolore, nè sdegno; nulla, se non meraviglia. Carlo Selvari ascoltava tremebondo, mentre il tarlo sottile strideva più acuto dentro di lui. Poi abbassava gli occhi e diceva:

— Ma...

Ella comprese infine, dallo stupore di tutte quelle cose addormentate, di avere con un soffio infranto un incantesimo. Si sentì, allora, a disagio. Gli parve di comprendere anche che lo stesso stupore delle cose confondeva l’anima di Carlo, la stessa vitrea immobilità delle cose, dentro di lui si infrangeva. Eppure al suo infallibile intuito di donna alcuni sguardi vivi, nel volto moribondo di Carlo, erano sembrati eloquenti e le avevano fatto rinascere un’intima speranza. Ella sentiva come nelle lunghe ore che essi passavano insieme, l’uno di fronte all’altra, egli leggendo, ella agucchiando, i loro occhi parlassero, i loro respiri si confondessero in mezzo a loro, per sussurrare parole non ancora concepite.

Ma erano fragili armonie, leggère, subito dileguanti nel tormento di un duello sordo, che non accennava a risolversi. Essi non parlavano quasi più fra loro: mille volte Anna avrebbe voluto aprire il suo cuore gonfio di nostalgia e parlare della sua terra, della sua casa, del nemico che minacciava – la pena più acuta è quella che tormenta l’agonia – ma capiva che le sue parole sarebbero scivolate come goccie d’olio su di una superficie metallica. E taceva.

— Voi soffrite?

— Molto, Carlo, e voi?

Di nuovo le parole stagnavano sulle loro labbra. Ma il colloquio proseguiva ora impercettibile, sottile, ostile, senza tregua. Ogni sguardo di lei, strappava alle labbra del giovane una confessione nuova; egli offriva una giustificazione, ma gli occhi sfuggiti incalzavano, domandavano, condannavano. Una volta accadde a lei di pronunciare, senza pensare, una parola: «Imboscato». Abbassarono gli occhi e arrossirono tutti e due, come se si fossero rivelati. Dopo un momento di silenzio gelido, Anna prese una mano di lui fra le sue e con una carezza disse:

— Carlo, siete stanco?

Era nella sua voce una dolcezza paziente da infermiera.

Le mani si strinsero con un fremito.

* * *

Di sera i conversari, resi più vivi dalla presenza di Anna Gradenigo, si prolungavano fino a tarda ora. Anna e il sacerdote si palleggiavano la palma di severe tenzoni verbali, alle quali i convenuti partecipavano a monosillabi; Carlo a sospiri di tedio e di viltà.

— Non esiste sconfitta, per nessuno.

— Allora come può esistere la vittoria?

— La vittoria dei popoli sarà la conquista della pace a traverso lo sforzo massimo di sacrificio.

Ah! Carlo, muto in un canto si rodeva: sentiva l’ossessione della didascalia, propinata in massime pesanti come goccie di piombo, che lo percotevano a tortura, senza posa. Anna, aggiunse:

— La sofferenza non è più dunque un previlegio, è una divisa.

— Certo.

— E chi non avesse dolore?

— Lo cerchi. Lo troverà. Lavorare, fare, fare. Nel lavoro è sempre il dolore, perchè il lavoro è prova, è lotta.

— Questo è giusto, reverendo. Ed ecco perchè ardo di impazienza di tornare fra i miei feriti. Attendo un telegramma da Vicenza.

— Signora – la voce del prete divenne lenta, quasi rispettosa – siamo sempre in mezzo alle ferite.

Anna liberò un sospiro profondo e un lieve rossore le colorò le gote.

— Ve ne sono delle incurabili. E allora?...

Carlo si alzò in piedi di scatto. Che tortura! Si piantò davanti al ritratto del nonno macellajo, coi pugni stretti affondati nelle tasche. La pena sottile, come una lama insidiosa, stava per recidere qualche cosa dentro di lui. Lo sentiva, con disperazione. «Ma che si vuole, da me, che si vuole? Che è questo processo? Che è questa persecuzione? Perchè, perchè?»

Gli ospiti, poi, se ne andarono. Anna rimase seduta innanzi al fuoco come in attesa. Il lieve rossore del suo volto si era fatto più vivo.

Carlo fece alcuni passi verso di lei, decisamente:

— Anna, io vi amo.

Anna si alzò. Si eresse in tutta la persona ed ebbe un sorriso indefinibile.

— È una vostra illusione. Bisogna saper soffrire.

— Anna...

— È una illusione. Domani mattina partirò di qui – voi comprendete? – e sono certa che dopo domani ogni movimento del vostro cuore sarà assorbito dalla stanchezza.

— Partite? E per dove?

— Vado a Vicenza.

— Ma non è possibile...

— Carlo, io vi perdono. Perdonatemi.

— Anna, una parola almeno... una condanna...

Ella fece col capo un leggero gesto negativo, ma gli tese la mano bianchissima, un po’ tremante. Gli affondò negli occhi lo sguardo. Una condanna, perchè era uno sguardo d’amore.

* * *

— Parte, va via; io non la vedrò più...

Si guardò nello specchio: la sua alta persona era curva e il suo volto era traversato da solchi violenti. Con luminosa chiarezza vide la propria miseria, come avrebbe veduto il proprio scheletro in uno schermo radioscopico. Si mosse per salire alla sua camera, ma non potè: la scala gli parve tetra, pesante, lunghissima. Preferì attendere nella grande sala silenziosa, dove, a buffi, alitava ancora il profumo di lei, penosamente.

Minia venne per spegnere.

— Va’ a letto, Minia, va’ a letto. Spegnerò io.

Minia non si mosse.

— Che faccia ha, signor padrone! Ma lei sta male, lei soffre...

— Che dici?

— Lei soffre.

— Va’ via...

Avrebbe voluto gridare, muoversi, rompere qualche cosa, stancarsi, addormentarsi, morire.

— Dopo tutto, se la felicità deve essere comperata a questo prezzo, meglio morire. Io sono un uomo inutile. Ma lei, lei se ne va e io resterò qui solo. Sono certo che mi amerebbe, che mi ama, ma repugna innanzi a me come davanti a un alcoolizzato, a un paralitico. Morire è nulla. È difficile vivere, invece.

Sentiva sul suo capo i passi di lei che andavano, venivano, battevano il tempo ai suoi pensieri.

— Non partire, Anna, non partire, perchè io comincio a soffrire!...

Salì la scala d’un balzo, battè all’uscio della camera di lei.

— Sono io, Anna.

L’uscio si aperse. Ella era tutta cadente come di stanchezza e aveva gli occhi rossi.

— Anna...

— Non siete andato a dormire?

— Non avrei dormito. Avevo bisogno di dirvi prima, che domani, con voi, io parto.

— Partite? E dove andate?

— Non so: mi fermerò a Bologna forse, o non so dove... Comunque Anna, lasciatemi sperare che guarirò...

— Forse siete già guarito.

— Credete?

— Forse.

Tacquero, immobili. Egli attese un momento, poi mosse per andarsene, come rassegnato, come insoddisfatto. Ella comprese e lo fermò con un gesto.

— Carlo...

Egli si volse rapido, raggiante. Trasse tutta a sè la bella persona, che tremava, con una tenerezza da fanciullo. Non baciò la bocca, che pure si offriva: affondò il volto nelle chiome di lei quasi disciolte e ve lo tenne chiuso, singhiozzando.

* * *

Alla stazione di Bologna si salutarono.

— A rivederci, Carlo.

— A rivederci. A quando?

— A Pasqua, spero. Intanto ci scriveremo.

Volle vederla partire e restò lungamente fermo sul marciapiede mentre, quasi allegra, affacciata allo sportello del treno, essa gli faceva mille discorsi inutili. Le anime si erano già salutate. Poi il treno partì. Un altro sguardo, un’altra stretta di mano. Egli non si mosse: pareva stupito di trovarsi solo in mezzo a quel fermento di vita metallica. Fu preso dalla sete di vedere, di sapere.

In fondo alla tettoja, faticosamente portate da due soldati crociati, passavano due barelle. Si avvicinò. Intravvide in una di esse, fra le coperte pesanti, le bende chiazzate e un penoso disordine di indumenti grigi, un volto di cera. I portatori procedevano lenti.

— Grave?

Per tutta risposta ebbe da un soldato uno sguardo di pietà.

Il dolore!

— All’uscita, signori!

Addossata al cancello, confusa nello sfondo latteo delle grandi vetrate, silenziosa nel tedio della pioggerella d’autunno, una gran folla attendeva: negli occhi di tutta quella gente ammassata in una bizzarra comunità, era una sola parola e tutti la cercavano nel volto di coloro che, attesi o no, giungessero. Egli sentì il peso enorme di tutti quegli sguardi infitti sulla sua persona, come per rivelarla; sentì la pena alitare nell’aria ferma.

Il dolore!

Si fece largo coi gomiti. Avrebbe voluto avere la forza di affrontare tutti quegli occhi che attendevano e di gridare: «Sono qui anch’io per soffrire!» Qualcheduno avrebbe forse sghignazzato – sono tanti i mutilati del dolore! – No, avanti! Procedette ad occhi bassi. Come fu all’aperto respirò ampiamente, ma non ne ebbe sollievo. Temette di essere malato. Salì, come per nascondersi, in una stanza d’albergo. Si guardò intorno sperduto. Dunque?

Dalla finestra vedeva di scorcio via dell’Indipendenza, l’aorta della città. Formicolava. Pareva che un respiro pesante, un sangue faticoso l’attraversassero in tutta la sua lunghezza; migliaja e migliaja di piccoli esseri neri vi si incontravano, si inseguivano, si aggruppavano, con un ronzio lontano, eguale, continuo. Dai portici alcuni balzavano in mezzo alla folla vibrante con acutissime grida, agitando in alto dei fogli bianchi. L’irrequietudine della folla pareva allora calmarsi e attorno ai gridatori, di qua, di là, vicino, lontano, come ad un comando la folla si addensava in piccole macchie brune, che dileguavano poi subitamente nell’ansia di prima. E grandi carri veloci, scivolanti all’impulso di scoppi e di rombi, ad ogni istante passavano in mezzo al brulicare della vita: portavano dipinte, per ogni lato e in alto, delle grandi croci sanguigne.

Il dolore! Il dolore!

Carlo sentì la vertigine dell’abisso e lo sgomento della solitudine a un tempo. Si tolse dal vano della finestra e si sdrajò sul letto.

— Sono solo. Lei è lontana. Che fare? Lei, non c’è più, non c’è più, non c’è più...

Ripetè ancora fra sè «non c’è più» indefinitamente, ma il suono della sua anima, in queste tre sillabe pensate, si fece a poco a poco sereno, limpido, lieto. Libero? Libero!

Allora disse forte:

— Non c’è più. Io mi sono prestato ad un contratto immorale.

Rise.

Col primo treno ritornò alla sua grande casa basilicale.

* * *

Non volle vedere più nessuno. Attese. La posta gli recava qualche volta una lettera di lei. Allora il tedio della solitudine chiusa, gli si faceva più vivo. Non apriva la lettera. La gettava nel fuoco e, quando la vedeva distrutta, respirava meglio. Trascorse così lunghi mesi, in macerazione.

Pochi giorni prima di Pasqua giunse un telegramma.

«Sarò al vostro fianco fra poco. Non vi abbandonerò. Anna».

L’irreparabile! Non vi aveva mai pensato, ma certo il suo istinto, inconsapevolmente, si era preparato anche a questo. E non ebbe nè meraviglia, nè dolore, nè paura.

Lasciò sul tavolo queste parole scritte:

«Minia, tieni celata gelosamente la mia fuga, fin che ti è possibile. Carlo».

Al crepuscolo uscì, carezzando, nel fondo della tasca, il calcio della rivoltella.

* * *

Quando, una settimana dopo, Anna Gradenigo giunse alla casa solitaria, non vi trovò che Minia disperata e sperduta. Un attimo di smarrimento, di sconforto. Poi più nulla.

— No, è inutile piangere, Minia: non è morto, non si è ucciso. È fuggito, ecco tutto. Molto lontano, molto vicino, non importa; fugge, fugge ancora, fuggirà ancora...

— Ma che cosa gli hanno fatto?

Anna Gradenigo vedeva l’infelice macerato dalla viltà camminare, camminare per le vie lunghe del mondo, curvo sotto il peso dell’angoscia, in cerca di un altro destino: camminare, camminare per le vie lunghe del mondo che conducono tutte al dolore. Sentì di essergli sorella e di avere il dovere di carità di non rivederlo mai più: i loro passi non avrebbero mai dovuto incontrarsi sullo stesso sentiero. Le vie lunghe del mondo conducono tutte al dolore, ma sono infinite: a ciascuno la sua.

— Aspettatelo, Minia, ritornerà. L’ultima tappa della sua fuga è qui.

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