I paradisi artificiali

Soli, nel caffè deserto ci eravamo osservati lungamente. Egli poteva avere trent’anni o anche cinquanta. Aveva un aspetto di vizioso cinico che repugnava e attirava nello stesso tempo, come certi cattivi odori. Beveva un’orzata. A un tratto si volse decisamente verso di me, come per incominciare un discorso ed io, che non amo parlare con gli sconosciuti perchè non ne conosco il linguaggio, aprii un giornale e finsi di leggere.

Egli non comprese, o non volle. Deciso ad attaccare discorso, mi fece a bruciapelo una domanda così strana, perchè assai comune, che dovetti abbassare il giornale per ascoltarlo.

— Insomma, che c’è da meravigliarsi? Lei crede alla donna fedele?

— Mio Dio... sa...

— Non mi vorrà far credere di non avere idee in materia. Perchè in questo caso dovrei pensare che lei non ha idee di sorta. Questo è il problema più veramente universale, dopo quello dello stomaco.

Io pensai che mi volesse raccontare qualche storia d’amore e risposi seccamente, pentito di essermi lasciato trascinare ad un approccio infelice:

— Che vuole? La sua domanda ha tante risposte quanti sono gli individui ai quali la si rivolge; e ogni individuo ha una opinione che varia a seconda delle donne che ha conosciuto.

— No, no: ci crede lei, sì, o no?

— Sì!

— Ha torto. Perchè non c’è. L’ha mai trovata lei?

— E allora no!

— Ha torto ugualmente. Io l’ho trovata. E morirà con me!

Se non avesse pronunciato queste ultime parole col tono spiritato di un pazzo, io gli avrei detto di andare al diavolo e mi sarei, ad ogni buon conto, allontanato da lui: ma la sua voce si era commossa e il suo volto alterato. Lo guardai con un immenso punto interrogativo stampato sul volto. Mi aveva conquistato. Egli lo comprese perchè fatto con la persona un quarto di giro sulla seggiola, incominciò a tirarsi il baffo destro. Segno evidente che si concentrava. Dopo un attimo di silenzio incominciò:

— Lei non mi conosce, ed è bene, perchè potrà ascoltarmi con maggiore imparzialità. Le manifestazioni del pensiero, per essere apprezzate al giusto valore, dovrebbero essere anonime. Parlo, si capisce della attività speculativa e artistica del pensiero. Il resto non mi riguarda. Potrei dirle che mi chiamo Bruno della Selva Bruni, tanto per esserle più simpatico. Il nome è un secondo volto che ci rende amabili o ridicoli, senza che noi vi abbiamo messo nulla della nostra volontà: è un peccato o una virtù originale che nessun battesimo può lavare, nessuna colpa macchiare. Lo pseudonimo è una maschera che, in quaresima, bisogna deporre. Ma non divaghiamo. Il nostro soggetto è l’amore, considerato come la più alta e nobile espressione dello spirito umano, o per meglio dire, dello spirito degli uomini. Distinguo, perchè non credo vi sia affinità alcuna fra lo spirito degli uomini e quello delle donne. Hanno una diversa costituzione, un diverso cammino, un diverso sviluppo. Lo spirito dell’uomo nel brevissimo corso di una vita può diventare secolare. Quello della donna rimane dodicenne. Va bene?

— Ascolto.

— Premetto che l’amore è una imposizione della natura. Bisogna amare. Tutti i nostri sforzi per spezzare questa catena, sono vani. Ora, è bene intenderci. Iddio ha comandato agli uomini di amare il prossimo come sè stessi. Non so se gli uomini pensino che la donna sia «prossimo»: certo essi l’amano più di sè stessi, almeno per un momento. E l’amano più di sè stessi perchè, ordinariamente, le conferiscono – con arbitrarietà di giudizio assolutamente ingiustificabile – qualità che essa, poverina, non ha assolutamente, o ha in misura insufficente al consumo. Mi spiego. Tutto quello che di supremamente squisito hanno le donne, è un cortese dono della nostra fantasia, la quale prima di evaporare nel nulla, come è giusto, ha bisogno di passare a traverso alla esperienza tangibile. Gli uomini, amano le donne più di sè stessi, appunto fino all’esperienza tangibile. Poi, l’amano meno di sè stessi, perchè, con la consuetudine, la cortesia cavalleresca, diventa un lusso impossibile e allora, non è più lecito ad alcuno che amministri la propria sostanza sentimentale con sobrietà, regalare alla donna qualità che essa non abbia – perchè le virtù della nostra compagna sono in fondo dei debiti nostri – nè tanto meno è lecito misconoscerne i difetti – i quali, in ultima analisi, diventano dei crediti per noi. Sarebbe una follia tutto ciò. Vede? La nostra fantasia amorosa è il nostro male peggiore, perchè l’uomo è un animale che pensa, ragiona e vuole. E ragionare vuol dire contaminare il pensiero che non è un tramway e non ama scivolare sui binari; e volere, vuol dire frantumare il prodotto della ragione che è fatalmente in conflitto con la nostra volontà. Se tutti al mondo volessero delle cose ragionevoli, come sarebbe facile la vita! Dunque: pensiero, ragione, volontà: ecco il treppiede che regge l’umano patibolo. Amare: ecco un pensiero. La donna ideale: ecco un altro pensiero. La donna vivente, suoi rapporti con la vita, suoi rapporti con l’amore: ecco una via dolorosa di ragionamenti. La felicità nell’amore: ecco una volontà, anzi la sola volontà. Questi sono i tre atti della tragedia amorosa, che finisce sempre con un morto: l’amore. Se l’uomo potesse fare a meno di volere è evidente che la fantasia amorosa, o non esisterebbe, o, anche esistendo, rimarrebbe allo stato interiore di «sport» psicologico. Se potesse anche fare a meno di ragionare, allora la fantasia amorosa esisterebbe allo stato acuto, ma sarebbe una sollazzevole passeggiata nei campi fioriti dell’irreale. Il più bello sarebbe che l’uomo potesse fare a meno anche di pensare. Allora non se ne parlerebbe più. Ma no; pensiero, ragione, volontà vogliono un morto. E ci ha da essere, e l’uomo, superstite, ha da piangere. Ecco perchè la fantasia amorosa – bisogna amare, ricordi l’imperativo della natura – è il nostro male peggiore. Concludo: la donna è necessariamente infedele, per il solo fatto che essa non è il prodotto nè del nostro pensiero, nè della nostra ragione nè, tanto meno, della nostra volontà. Nessuno ne ha colpa. Una donna può ripetere questo ragionamento per noi e anche lei, poverina, avrà ragione. Ma è così. Amate, dunque. Sognate, dunque. Riflettete, dunque. Infine... Mio giovane amico, lei non può evitare il matrimonio che è una istituzione sacrosanta, appunto per le ragioni precedenti! Se non ci fosse, noi assisteremmo anche per le strade, alla più tragica delle cinematografie passionali, dalla mattina alla sera, tutto l’anno. No. Lasciamo andare. La natura è più forte di voi: vi prende al laccio dell’amore e vi porta via; vi soffoca di realtà, vi incatena alla infedeltà. Come se vi trovaste nel cuore del Congo, vestito in tela kaki e a un tratto, un essere fatato e misterioso vi portasse a traverso alle steppe moscovite e vi deponesse delicatamente fra le gole degli Urali. Dopo tre ore siete morto di polmonite. Ma intanto la natura ha compiuto, durante il tragico viaggio, il suo miracolo secolare e si beffa dei vostri sternuti. La natura è perversa ma non onnipotente!

Tracannò d’un fiato l’acqua d’orzo rimasta in fondo al suo bicchiere e tacque. Lo vidi improvvisamente stralunare gli occhi. Rimase immobile, orribile. Il labbro inferiore gli penzolava spaventosamente, mentre le sue mani si aggrappavano con disperazione al petto. Stavo per domandargli qualche cosa, per aiutarlo, ma egli mi trattenne con un cenno della mano.

— Non è nulla. Passerà. Soffro di mal di cuore, un poco. Una cosa da nulla. Sto meglio. Vede? Se io amassi una donna viva, morirei presto per i dispiaceri. Mi è vietato soffrire, capisce?

Dopo un momento di riposo, continuò:

— Perversa ma non onnipotente. Nel duello fra lei e me, ho vinto io. Sì, signore: io mi sono liberato dalla sua rete vischiosa, io mi sono sottratto al suo tranello infame, io non farò il salto da un emisfero all’altro, io non soffrirò l’onta della beffa. Io amo, sono riamato e la mia donna è fedele, fedele della grande fedeltà sognata, universale, eterna, compiuta ed infrangibile. Mi ascolti ancora un poco.

* * *

— Sì. Fui tradito dalla mia compagna vivente. Tradito nel modo universale, prima; poi... Ma si legga qualche romanzo di autore vivente e di moda – di quelli che tutto sanno dell’amore, meno la poesia, e tutto dell’arte loro, meno l’originalità (è una bella scusa il verismo per me che odio la fotografia!) leggete quella roba e vi troverete precisamente come fu che io dovetti mandar fuori di casa mia moglie. Non insistiamo dunque, per non urtarci con la letteratura moderna.

Avevo trent’anni, ero ricco, sano, intelligente anche. Non potevo non riamare; ma se avessi ceduto ai palpiti improvvisi che mi sconvolgevano il sistema nervoso, alla vista di un pudibondo volto di fanciulla, avrei commesso un reato contro me stesso. Sarebbe stato come se, volontariamente, mi fossi procurato una tortura insopportabile e inutile. Bisogna avere una idea chiara dei propri bilanci ed amministrare sè stessi con una grande cautela. Vedete? Io non ho vizi, non fumo nè tabacco nè oppio; non bevo nè vino, nè liquori, nè assenzio, nè hascisch; non uso nè etere, nè morfina, perchè mi farebbero male e infrangerebbero la mirabile armonia del mio essere, che ha compiuto il miracolo, inconsapevolmente. Se Beaudelaire vivesse ancora, sarebbe costretto ad aggiungere ai suoi paradisi artificiali, questo, che è un mistero per tutti e che a voi confido, perchè sento il dovere di salvare l’umanità, gettandole la scintilla che io ho rubato al sole. Sentivo dunque di amare, ma sentivo anche il dovere di non amare e in questa lotta titanica mi dibattevo da mesi e mesi, soffrendo tutti i tormenti di Tantalo, perdendo la vigoria giorno per giorno, non la speranza, sanguinando, piangendo, sentendo di morire un poco ad ogni istante, quando – stavo per cedere, lo confesso – dalle intime profondità del mio essere una notte a mezzanotte in punto, la natura tacque, vinta, ed io cantai l’amore e la vittoria. Come fu? Non lo so. Seppe forse Dante come gli nacque in petto il grande canto? Seppe Copernico come potè in un minuto, sovvertire i firmamenti e per essi lanciare vertiginosamente questo miserabile pianeta? Seppe Volta come potè folgorare il mondo, con la scintilla breve della pila? No, no e no! Non lo seppero. Dirò di più; non lo compresero. Se l’avessero compreso, il loro cervello sarebbe scoppiato. Così io non so come trovai la mia vittoria, non so come liberai gli uomini, ma, ahimè, comprendo lo slancio della gioia, il grido selvaggio della liberazione, il peana che scoppierà domani dal petto di mezza umanità. E sento che mi scoppia il cuore.

* * *

— Una notte sognai. Era mezzanotte in punto e sognai. Sognai di essere nel castello di un barone boemo sullo stretto di Magellano. Sdrajato su una comoda poltrona, accanto al mio ospite Tristano ascoltavo il canto della prima donna, mentre una fontanella che era in mezzo al prato, lasciava cadere, goccia per goccia, nel fondo verde di una conca alpina, una melodia malinconiosa, che mi preparavo a bere, per dormire di continuo, e senza sogni. La prego di non ridere, perchè questo è il più grave momento della mia vita. E poi prenda contatto con la nuova poesia italica. Mi preparavo – dico – a bere e trovavo strano che ella non fosse ancora giunta.

— Ella chi?

— Chi? Ella. Ma non tardò. A un tratto sentii alle mie spalle un passo leggero e musicale, che si avvicinava. Non ebbi tempo di voltarmi. Due manine profumate, morbide mi coprirono gli occhi e una voce, una voce divina mi disse queste precise parole: «Indovina chi sono...» «Sei tu» risposi. Voi mi direte che la risposta era facile, ma se aveste sentito il tono di quel tu non avreste sorriso. Tu, tu: significava tutto, tutto quello che con molti discorsi complicati voi dite alla donna del vostro cuore che non li capirà mai. «Hai indovinato» mi disse, lei che mi aveva compreso e mi liberò dalla dolcissima stretta rivelatrice. La guardai: le caddi innanzi in ginocchi tanto era bella. Non ve la descrivo perchè non me la ricordo più, ma era bella. Mi abbracciò in un modo... mi baciò in un modo... e mi disse il suo amore... Ecco: io non posso descrivere tutte queste cose con maggiore precisione perchè tutto, di quella sera, è dimenticato. Voi vi ricordate di una gioja fino al giorno che non ne incontrate una più forte e siccome le gioje sono rare, specialmente nell’amore, così voi uomini comuni avete molto da ricordare. Di qui la leggenda del primo amore. Ma io? Io non mi ricordo più niente per il semplice fatto che tutti i giorni ho gioje nuove e sempre più profonde. Come voi avete ogni giorno dolori nuovi e più profondi. Chi li ricorda i tanti dolori passati? E poi non so bene se ero io che parlavo a lei o se era lei che parlava a me. Ma questa è una prova di più del perfetto amore che ci univa indissolubilmente.

La chiamai Fidelia e l’amai ogni giorno più. Sì, perchè tutte le notti, a mezzanotte in punto, da sei mesi a questa parte, Fidelia mi raggiunge dove io sono o io raggiungo lei, che fa lo stesso e per lunghe ore ci guardiamo negli occhi e ci amiamo. Ogni sera cambia: alle volte è bionda, alle volte bruna, alle volte paffutella, alle volte diafana; ma, come la scorgo, subito la riconosco ed ella mi riconosce, sia io vestito da cacciatore di lepri o da guerriero romano, da padiscià o da Cow boy, sia io grasso o magro, giovane o attempato, alto o basso. Ci riconosciamo sempre e ci amiamo sempre allo stesso modo, fedelmente.

Le donne? Niente. Non le guardo, non le vedo, non le conosco e se qualche immagine mi resta, essa dilegua presto dalla mia memoria, come in lei, signore dileguano i sogni. Perchè io, naturalmente, ho invertito. Questa, che io vivo ora e che per lei è realtà, per me è illusione, sogno. La mia realtà incomincia alle undici quando mi sdrajo nel letto, per dormire. Ricorda lei i fantasmi che le compaiono nei sogni? No. Perchè dunque debbo ricordarmi delle donne, che vedo per istrada? E di lei? Domani non mi ricorderò più di lei. Ora le parlo, vede, credendomi un Prometeo modernissimo, destinato a salvare mezza umanità dagli artigli della natura, ma, in fondo, nella subcoscienza, sento che non è vero niente; lei non mi comprende, nessuno mi comprenderà, non avrò salvato nessuno, la natura non si darà la briga di incatenarmi alla rupe, nessun avvoltojo mi roderà il fegato e la mezza umanità, che io volevo salvare, rimarrà schiava. Buona notte. Non fa niente. Ciò non toglie che io, almeno io, abbia vinto...

— Siete felice, insomma.

— Non ho detto questo. Ho vinto, ma ho combattuto e combatto tuttora, lasciando nel mio cammino brandelli di pelle, come tutti voi. Io ho in più sei ore di felicità, da mezzanotte alle sei, tutte le notti. Oh, felice! È una parola. Lei non sa che io fra poco, coricandomi, sarò preso da un violento assalto di male: un male oscuro, strano, di incubo, di dubbio e di timore. Fra poco lo squallore entrerà nel mio cuore devastato e per un’ora mi tormenterà crudelmente. Oh, non si saprà mai quello che io soffro! Il mio cuore malato sussulterà fino a togliermi il respiro, il mio respiro sarà un rantolo continuo, le mie membra non avranno pace, il mio cervello non avrà ragione. Se non verrà? Se non verrà? Oh, io sento che se non venisse morirei. Ma viene. A poco a poco il mio cuore si calma; il mio respiro si fa debole come quello di un fanciullo, le mie membra si adagiano morbidamente nelle lenzuola e nel mio cervello passano i ricordi. Dopo i ricordi il sonno. M’addormento ed essa viene. Così, io, Bruno della Selva Bruni mi burlo della natura. E voi?

Stavo per rispondergli che io ero un povero disgraziato figlio della sventura e della impotenza, ma egli si alzò e dopo avere pagato la sua acqua d’orzo ripetè:

— E voi? Voi, dove troverete la vostra donna questa sera?

— Al parco.

— Sapete dunque che essa vi attenderà al terzo o al quarto platano a sinistra del gran viale centrale. Tutto ciò è vile. È bionda o bruna?

— Bruna, diavolo!

— Ecco: sapete anche che è bruna, che ha un nèo sulla guancia destra e una lieve ombratura di bistro sotto gli occhi. Tutto ciò è vile. E vi è fedele?

— Non lo so.

— Come? – sogghignò – Sapete che è bruna e non sapete se vi è fedele? Oh, ma tutto ciò è vile, vilissimo. Ma come fate a vivere?

Io mi strinsi nelle spalle, umiliato.

— E scommetto che non sapete nemmeno se sarà allegra o mesta, dolce o aspra!...

— Confesso che nemmeno questo so: tutto ciò è vile: me lo avete già detto tre volte, ma è così.

— Povero giovine! Io non so nulla. So soltanto che, quando la vedrò, fra poco, a mezzanotte in punto, sulla torre maestra di un castello provenzale, o sull’altopiano del Tibet, fra le miniere dell’Alaska, o in fondo al mare, in un giardino nipponico o nell’anello di Saturno, Fidelia sarà come io la voglio, io la vorrò come essa è, divinamente bella, amante e fedele.

— E se non venisse?

Un lampo torbido passò per quegli occhi malati.

— Verrà, verrà. È fedele... È mia...

* * *

È veramente doloroso, per il sesso gentile, che Bruno della Selva Bruni, sia poi morto, così presto, d’accidente.

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