Il filo discreto

Il campanello del telefono squillava tre volte, brevemente, quasi timidamente.

Egli accorreva e, con la sua bella voce baritonale, mormorava:

— Pronto.

Come un’eco lontana, ella, con la sua bella voce di contralto:

— Pronta.

— Elena.

— Pier Luigi.

Sempre così. Tutte le notti, quando il rumore della città si spegneva in un palpito vasto e lontano, quando per la finestra aperta dal cielo egli spegneva tutte le lampadine dell’ufficio, e, dal cortile, salivano tutti i miasmi di una città addormentata, quando i «Morse» tacevano, egli spegneva tutte le lampadine dell’ufficio, sdrajato sulla vecchia e sdrucita poltrona, aspettava, abbandonava l’anima alle tenebre carezzevoli. Così passava la lunga attesa – è lento il tempo! –.

Finalmente tre tintinnii brevi, timidi. Un balzo nel cuore.

— Pronto. Elena, mi senti bene? Sì? Hai lavorato molto?

— Non tanto: le comunicazioni dei giornali e basta...

Egli ascoltava, convergendo ogni energia nell’udito, quasi per cogliere anche il respiro più lieve dell’amica invisibile e sconosciuta, anche il palpito del cuore, nel silenzio. Come era bella la sua voce di contralto, quando tremava così d’amore: «Pronta».

Sempre così. Parlavano insieme un poco, ma poco – è veloce il tempo! – chè il dovere troncava presto il loro colloquio idilliaco, chiamandoli alla verità, prima ancora che egli avesse trovato la forza e il tempo di dirle tutte le sciocchezze che voleva dirle, prima ancora che ella avesse saziato l’attesa di quelle parole insensate. Non riuscivano mai a dirsi nulla.

Alle volte Pier Luigi raccoglieva tutte le sue volontà in uno sforzo titanico che gli faceva battere il cuore fino al dolore e – lui, che poteva appena mormorarle un misero «ti voglio bene» – osava dirle queste parole terribili:

— Sei mia Elena, sei tutta mia, sempre...

Ma, appena sentiva in sè la forza di pronunciare quelle parole, un sudor freddo lo rabbrividiva e un terrore immenso della sua audacia e, allora, volendo e non volendo, attaccava furiosamente il ricevitore all’apparecchio, arrabbiato non sapeva bene di che e... le lasciava andare, quelle parole divine e terribili, le lasciava andare, sonore e palpitanti. Comunicazione interrotta: nessuno le sentiva. E quando, ansimante per la fatica fatta, si rimetteva il ricevitore all’orecchio, udiva ancora la bella voce di contralto:

— Pronta.

Egli, col cuore in gola:

— Pronto.

— Che è stato? Non sentivo più la tua voce...

— Non so...

— Che cosa mi dicevi?

— Io? Niente.

— Mi pareva che...

— No, niente; un contatto.

Poi il «Morse» chiamava. Addio, voce divina: tic-tic-ticchetic-tic... Era meglio... no, era peggio... no, era meglio...

* * *

Quella sera Pier Luigi si sentiva anormale. Lo sentiva, ma non sapeva darsene la ragione.

La passeggiata al Parco, forse?

Al Parco aveva veduto un giovanotto ed una signorina che andavano a braccetto stretti stretti, guardandosi negli occhi. Inciampavano, anche. Egli era solo e guardava ai ciottoli.

O forse il vino che aveva bevuto? Forse anche il vino. Il fatto era che si sentiva inquieto, ardito, quasi sfacciato. Quando rimase solo non si sdrajò, come soleva, sulla poltrona: si diede invece a passeggiare nervosamente come un leone in gabbia su e giù per la sala degli apparecchi, aspettando impazientemente che il quadrante dell’orologio segnasse l’ora del solito colloquio d’amore.

Intanto, le mani in tasca, il naso all’aria, mormorava delle parole tronche, che egli stesso forse non sentiva, non capiva e ad ogni momento lanciava delle occhiate torve al quadrante dell’orologio e delle occhiate dolci al telefono di servizio. Quante volte aveva fatto il contrario! La vita: la vita che lo aveva piantato là, senza ricordo, che lo aveva abbandonato là senza piacere, senza dolore, che ora gli dava la felicità, l’infelicità di amare e di essere amato da una soave fanciulla che non aveva mai veduto, che non lo aveva mai veduto.

Mormorava. Ma che cosa aveva dunque, nel sangue, quella sera?

Il campanello squillò tre volte, brevemente, timidamente. Il cuore gli diede un balzo pesante. Non rispose subito: si fermò davanti alla cabina indeciso, pallido come un morto. Poi si mosse, afferrò il ricevitore e buttò nel microfono un caos di parole, tutte d’un fiato, per tema di pentirsi:

— Senti, Elena, così non si può andare avanti: è troppo breve il tempo che passiamo insieme: l’attesa è troppo, troppo lunga... Sta’ zitta... L’hai detto tante volte anche tu. Io ti amo, ti amo senza averti mai veduta, ma ti amo e ti voglio... ti voglio almeno vedere, almeno per una volta, senza avere innanzi a me questo cassettone occhialuto, e negli orecchi il maledetto rumore di questi apparecchi nevrastenici. Senti domani, alle due, vieni al Parco... Sta’ zitta... Puoi benissimo: vai all’ufficio alle tre... Vieni alle due al Parco. Andremo soli, stretti, stretti, l’uno accanto all’altro, guardandoci negli occhi. Per farmi riconoscere avrò un fiore bianco in mano e lo fiuterò spesso. E tu pure, avrai un fiore bianco in mano... Passeremo un’ora insieme, senza noje, senza seccature. Pensa che felicità! Vieni, vieni domani alle due al Parco, vicino alla fontana, col fiore bianco che fiuteremo spesso... Vieni?

Si era scaricato. Quello che gli accadeva quella sera era stupefacente! Comunicazione regolare: fonogramma ricevuto.... La vita.... la morte... Attese ansimando. Silenzio.

— Elena...

— Pier Luigi...

Cielo! La bella voce di Elena tremava più del solito: era rotta, stentata. Tese l’orecchio per sentire anche l’alito più lieve, anche il palpito del cuore nel silenzio.

— Elena, tu piangi. Perchè piangi, Elena?

— Piero, non andiamo domani al Parco.

— Non puoi domani? Andremo dopo domani...

— No, no, mai, Piero, mai...

— E perchè? Hai paura? E di che?

— Non ho paura... non posso... non voglio...

— Non vuoi? Cosa vuol dire non vuoi?

Pier Luigi sentì il sangue dargli un tuffo, un pallore freddo coprirgli il volto come in un velo; ebbe un senso di sbalordimento non provato mai. La sua voce divenne lenta, grave, gonfia di lacrime e di collera.

— Elena, sii sincera. Perchè non vuoi venire?

— Ti prego di non insistere, Piero; se ti dico di no, non credere che sia perchè manchi d’affetto verso di te e di desiderio. Oh, questo no, non crederlo...

— E allora?

— Allora... Un giorno forse lo saprai e, forse, anche mi sarai grato. Per ora, abbi fiducia in me e non domandarmi più nulla. Non posso, non posso. Credilo.

Un profondo turbamento scosse il giovane fin nelle più profonde fibre, e un cumulo di sentimenti, di dubbi, di timori, di misteri si affacciò alla sua mente esaltata di dolore e di curiosità. Tacque un momento; poi, incapace di resistere, come tutti gli uomini, innanzi ad una preghiera femminile, così categoricamente formulata, preso dal bisogno di sapere tutto, tutto, riprese l’assalto con maggior vigore.

— Senti, Elena, io non so che cosa tu abbia e tu non voglia dirmi. Certo io non posso, per il mio amore e per la mia dignità, contentarmi di quello che mi dici. Senti. Io ti prego per l’ultima volta, se mi vuoi bene e se ti piace il mio amore, ti prego di venire domani alle due al Parco. Comprendi? Come una prova d’amore.

— Piero, Piero, pensa a quello che fai. Chiedimi tutto quello che vuoi, ma questo no, questo no.

— Questo, invece, ti chiedo. Come una prova... Dimmi...

Elena tacque un momento e poi, in fretta, come se le parole le bruciassero sulle labbra, disse:

— Sei proprio risoluto?

— Si.

— Domani, al Parco, alle due, verrò...

* * *

Il tocco e mezzo.

Pier Luigi era quasi pronto, tutto bello e spazzolato, abbastanza elegante, per quel tanto che permetteva la povertà di quell’abito nuovo da quattro anni, sul suo povero corpo non certo usato alle grazie cavalleresche. Aveva anche una cravatta, che non metteva da sei mesi. Per questo gli sembrò di moda. Ma, così, alla cieca, chi sa come era venuta? Eppure, uno specchio doveva averlo. Se non fosse stato così tardi, lo avrebbe cercato.

— Sarà come sarà. La cravatta non è poi una cosa molto importante... Però basta, alle volte, una linea... un segno. E poi chi sa come la pensano le donne in fatto di cravatte?

Gli venne in mente che nel cassetto in fondo al canterano aveva un vetro appannato, rimasto là, chi sa come?, tra i topi e i tarli. Quello! Lo trasse, si pose contro la scialba luce del suo abbaino e guardò, dunque, se la cravatta... No la cravatta non la vide. Vide un collo lungo, striminzito, tutto pelle, una mandibola enorme, un naso schiacciato con due narici!... Due narici... No, mio Dio, due frogie... Un povero naso che ricordava troppo vivamente i ferri del chirurgo e due occhi rossi, lacrimosi.

Cadde accasciato sulla seggiola. Brutto, orribilmente brutto! Perchè era così brutto? Perchè non si era mai guardato così bene? E ora? Ma dove aveva avuto la testa quando aveva forzato Elena ad andare al Parco? Non sarebbe stato meglio, tanto meglio, non farsi vedere mai e continuare sempre così, sempre, sempre? Elena! Povera creaturina. Lei forse bella, carina, vedendolo così... Ma dove aveva avuto la testa? E ora, che fare?

Non doveva andare, no, no assolutamente no. Ogni illusione svanita, ogni ricordo avvelenato, ogni soavità troncata per sempre. Avrebbe detto che era stato indisposto, che non aveva potuto, che un impegno imprescindibile, un parente arrivato dall’America improvvisamente.... Una scusa non poteva mancare; quello che importava era di evitare questo scempio inumano, questa cosa orribile. Per fortuna che se ne era accorto in tempo, che si era svegliato!... Sì, perchè bisognava dire che aveva lungamente dormito, dolcissimamente sognato.

Il tocco e tre quarti.

— Ci vado.

* * *

Quando giunse ai cancelli del Parco, lo invase un’ondata di profumi e di risate argentine, che lo distolse un poco dal pensiero che lo opprimeva e lo esaltava da un quarto d’ora eterno. Per alcuni passi proseguì sotto le fronde dei viali, nel fresco dei profumi, non ascoltando che il cinguettare dei bambini e il frastuono lontano, immenso, inebbriante della primavera.

Poi ricordò penosamente la compagna sconosciuta. Affrettò il passo, non pensando più a nulla, non ascoltando più nulla. Ebbe per un momento ancora il desiderio di non andare, di perdersi in quella folla spensierata di bimbi e di fiori, per dimenticare, dimenticare tutto. Ma, intanto, era giunto, quasi senza avvedersene, alla fontana.

Si fermò. Si sentì perduto. Una signorina gli voltava a pochi passi le spalle e pareva si trastullasse con un fiore bianco.

— È lei...

Ma Pier Luigi, inchiodato sul terreno, non seppe muoversi.

— Dio, Dio mio, perchè soffrire anche questo? Perchè...

Ma non si muoveva. Tra poco ella si sarebbe voltata, l’avrebbe riconosciuto. Quale orribile sguardo di meraviglia, di dispetto, di pietà, infine, gli serbava la sorte? Ma non era meglio morire? Ecco... ecco si volge... lentamente si volge... ecco: si è voltata.

Pier Luigi abbassò gli occhi per non vedere. Tolse con la mano paralitica il fiore dall’occhiello, lo annusò tre volte goffamente, furiosamente, sfasciandolo e, come spinto dalla disperazione, sempre con gli occhi bassi, si avvicinò. Ebbe appena la forza di toccarsi il cappello e di mormorare una parola, la solita:

— Pronto.

Come un abbonato al telefono; un condannato al patibolo.

— È lei?

— Signorina...

Ebbe la forza di alzare gli occhi su di lei. Dio! Era un sogno cattivo... Rimase immobile a guardarla, come impietrito. Ella non si mosse, non sorrise, non tremò.

— Sono proprio io.

Come era bella, quella voce, così vicina.

— Ma... signorina, che cosa ha fatto?

Il colpo di grazia. Elena che lo aveva guardato fino a quel momento impassibile, parve svegliarsi da un lungo letargo. I suoi orribili occhi cisposi ebbero un lampo di vita e la sua bocca semi sdentata, larga, si aperse ad una amara risata.

— Che ho fatto? Niente.

— Perdonatemi. Sono anche stupido, oggi. Del resto anch’io...

— Vedo, vedo. Non c’è che dire. Noi, oggi, ci offriamo a vicenda uno spettacolo veramente divertente.

— Elena, voi mi parlate così, con quella voce?

— Con la mia voce, con la mia solita voce. Non vi accorgete che siamo ridicoli? Perchè tremate?

— Io?... Non comprendo...

— Non avete mai capito nulla, nemmeno ciò che era così necessario per voi e per me. Non avete capito, sentito che bisognava non vederci mai... Vi era così facile...

— Ma io vi amavo tanto...

— Meno male che non parlate al tempo presente.

— Vi amo.

— No, no: non volevo provocare una dichiarazione troppo doverosa, per essere sincera.

— Vi giuro che...

— Basta così. Vogliamo fare, chiacchierando, due passi?

— Facciamo due passi.

Una bambina bionda, giocando a rimpiattino, rossa in volto per la corsa e la gioja, si accoccolò ai piedi di Elena, servendosi per gioco della sua sottana. Uno sciame di fanciulli, subito accorso intorno alla sorpresa bimba che rideva, avvolse i due infelici in un coro di grida festose, in una disordinata danza di innocenza e di bellezza. Poi tutti, sempre correndo, si allontanarono.

Una nube rapida passò sulla fronte di Elena e il suo volto butterato dal vajolo, ebbe uno spasimo. Un lampo. Guardò Pier Luigi e ritornò a sorridere.

— Elena, non ridete! Mi fareste quasi credere che non mi avete mai amato, che avete obbedito a un sentimento di....

— Di che? Oh, no: io vi ho amato. E come! Vi ho consacrato tutti i miei sogni di fanciulla; ho avuto anche il pensiero di darvi tutta la mia vita e la mia purità... Alla quale certo credete, non è vero?

— Oh, sì.

— Lo credo bene. Dicevo dunque che vi ho amato fino a ieri, fino ad oggi, fino a pochi momenti fa. Ora tutto è finito. Non so se sappiate che dalle sue prove supreme l’amore esce raramente intatto. Credete voi che una grande prova rinvigorisca l’amore? No: lo esaurisce. Questo mi accade ora. E sarebbe certo accaduto anche se voi foste stato, per avventura, un giovane bello... Scusate la mia libertà...

— Prego. Voi dite delle cose molto giuste.

Evidentemente il giovane aveva la testa altrove. Cominciava trovarsi a disagio. La verità nuda e cruda spiattellata in un modo quasi brutale, innanzi al suo cuore pur ora fremente di spasimo e di desiderio, gli faceva provare la spiacevole sensazione di una cattiva compagnia, della quale si desideri di essere presto liberati.

— Molto giuste. Lo so. Lo sapevo. Voi avete voluto una prova da me. Credevate che fosse una piccola prova. No; è immensa. Lo sapevo. Ma è più grande ancora. E non lo sapevo. Ma è tardi, per riprendersi. Mostrarmi all’uomo amato, così come sono: una vecchia di venti anni, col volto butterato, gli occhi lippi, la bocca devastata dalla carie, mostrarmi così, voleva dire imporre al mio cuore e alla mia femminilità lo sforzo massimo. Un’altra, ne sono certa, non ne sarebbe stata capace. Convenitene. Così, se voi foste stato piacente, elegante, spigliato quale mi compiacevo di sognarvi e quale dovevate restare per me; così ora, che vi ho visto troppo diverso. Con questa differenza, che invece di implorare la pietà di un sogno perduto e di andarmene col cuore spezzato, vi dico tranquillamente: Facciamo chiacchierando due passi. Iddio, che ho pregato, mi ha fatto una grazia immensa.

— Elena, ma è terribile questo...

Il povero giovane non sapeva più che cosa dire: un peso grave lo opprimeva, una stanchezza, una noja infinita lo invadevano a poco a poco, insopportabilmente.

— Sicuro – proseguiva l’implacabile – è così. Guardate quei bimbi. Guardateli: come sono belli! Guardate quei fiori e poi ditemi: noi due, qui in mezzo, che figura ci facciamo?

La fanciulla si tacque. Pier Luigi sentì il dovere di dire qualche cosa, non fosse altro per non farci davvero una brutta figura. Era stanco, aveva la mente vuota. Disse strisciando le parole a fior di labbro, quasi temendo di sbagliare il tono:

— Ma dunque... Il nostro sogno?

— Il nostro sogno? Chi se ne ricorda più? Quanto tempo è durato? Certo ora è finito. Siete troppo brutto! Oh, consolatevi. Potete giustificarvi la noja di quest’ora dicendo a me la stessa cosa. E avremo ragione tutti e due. E triste, ma è così.

Il giovane ricordò allora di avere letto molti romanzi e di dover essere cavaliere: sbottonò una delle tante frasi di repertorio eroico, delle quali ci si infiamma, a volte, perchè l’uomo è un animale canoro, a volte, perchè esse in fondo aprono all’anima la via della verità.

— Ma io vi amo lo stesso. Vi amerei anche se foste più brutta. Siete l’unica donna che io abbia amato e che mi abbia amato. Voi mi ricordate le sole ore belle della mia vita!

Innanzi a quell’orribile uomo che pareva gemesse d’amore, Elena sentì che il suo artificiale sarcasmo cadeva. Quell’uomo grottesco diventava sublime.

— Pier Luigi – disse Elena con la voce tremante che suscitò nel cuore del giovane una nostalgica tenerezza – forse voi dite la verità. Ebbene permettetemi di chiedervi alla mia volta una prova d’amore.

— Dite, dite. Farò tutto, tutto...

— Questa notte, all’ora solita, io vi chiamerò coi tre squilli soliti. Se risponderete, noi forse potremo ancora amarci, così a traverso il nostro filo discreto e nelle ore che il dovere ci regala. Comunque sentirò dalla vostra voce se avrete superato la prova.

— Elena, Elena, voi mi date una immensa gioja. Elena, prima di andarvene, lasciatemi quel fiore...

— Per ricordo? Oh, no! Procurate invece di dimenticare tutto. Soltanto a questo patto forse... Addio.

E prima che egli avesse il tempo di aggiungere una sillaba, ella si allontanò a passo rapido. Egli la seguì lungamente con lo sguardo. Vide che zoppicava.

* * *

Il campanello squillò tre volte brevemente, timidamente. Pier Luigi si alzò dalla poltrona sulla quale da una mezz’ora attendeva, fingendo con sè stesso di dormicchiare. Fece tre passi verso la cabina. Si fermò. Attese.

Il campanello ripetè più rapidamente, quasi con ansia, i tre squilli rituali. Pier Luigi ricadde sulla poltrona singhiozzando. Non rispose.

Il campanello non suonò più.

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