L’Amore dopo l’amore

Era, il loro, un matrimonio felice; scorrente come un fiume azzurro e quieto, in mezzo al nero oceano della vita, tra due sponde lussureggianti di invidia verde.

Pareva, almeno.

Forse la fiamma della passione non aveva mai divampato nel loro cuore, nemmeno nei primi giorni della loro unione, ma la corrosione del fuoco, rapida e violenta, era stata sostituita – con effetti certo più lenti, ma più durevoli – dalla carezza del sole, di un biondo sole primaverile, goduto con tranquilla voluttà, dietro i vetri di una finestra.

Pareva, almeno.

Tanto che gli amici di Giorgio – il marito – parlando della moglie, solevano dire con ammirazione: «Una donnina di spirito». E le amiche di Elena – la moglie – parlando del marito, amavano concludere con una smorfietta serpigna: «Troppa disinvoltura».

Ciò dimostra che, il loro, pareva veramente un matrimonio felice. E, poi che la felicità non si definisce, come l’amore e ognuno la intende a modo suo, così tutti possono godere dell’amore e tutti possono combinare in qualche modo un matrimonio felice. Per cui, si conclude senz’altro che Giorgio ed Elena erano veramente una coppia perfetta.

Alla domenica mattina, per via Rizzoli, quando, dopo la cerimonia religiosa le belle signore bolognesi, con eguale e forse maggiore compunzione, si abbandonavano alla dolcezza aperitiva della cerimonia pagana, nella quale la loro bellezza sfolgorava contro il sole, più del sole, nel cuore dei giovani e i giovani, chiassosamente aggruppati in piccoli crocchi uniformi, tradizionali oramai, immobili agli angoli strategici della via, attendevano a condensare, a confondere i propri desideri individuali in una compatta corrente elettrica, che poi, si rovesciava da cento pupille in cento pupille, con balenii di spade che si tentano; era veramente delizioso vedere da uno di quei crocchi staccarsi un giovane elegantissimo, che si avvicinava ad una signora bella, con volto di letizia.

— Elena.

— Giorgio.

E si allontanavano insieme, per via Mazzini, riposando nella frescura un po’ umida dei portici senza sole, gli occhi e l’anima, già affocati e stanchi di respirare il desiderio.

— Dove sei stata?

— A Messa. E tu?

— Da Bongiovanni a fare quattro chiacchiere con quel matto di «coso».

Non occorreva altro. Tacevano, forse ascoltando il fruscio leggero delle voci e dei pensieri che sollevavano passando.

— Come sono felici! Come si amano! Chi direbbe che è un matrimonio combinato?

Vi era anche chi, forse senza sapere che si dicesse, forse per rafforzar la lode, forse per non compromettersi troppo in un giudizio definitivo, diceva semplicemente:

— Come si comprendono!

Ed era più esatto.

* * *

In verità Giorgio ed Elena, che si erano incontrati per un disegno altrui e si erano legati per convenienza propria, avevano per loro buona sorte, tutto lo spirito e tutta la disinvoltura che occorrono per recitare nella vita una parte di ruolo dignitosamente. E il pubblico, di buona o mala voglia, applaudiva.

Non vedeva il pubblico l’atto più delicato, più terribile, più significativo della loro commedia, che essi recitavano a sè stessi, fra le pareti della loro casa.

Perchè Giorgio tradiva sua moglie.

Elena tradiva suo marito.

Tranquillamente, senza capricci, ciascuno per un proprio sogno, per una propria passione, coltivata con amorosa cura, con abbandono immutato di adolescenti, per anni. Essi avevano piegato il capo, sorridendo con le labbra, alle imposizioni della loro società ed avevano sorriso con l’animo, ammiccando, ai diritti, soddisfatti, della loro giovinezza. Si tradivano tranquillamente.

Elena che era una donnina di spirito, non chiedeva a Giorgio, nè come marito, nè come cavaliere, più di quanto non fosse strettamente necessario al buon andamento tecnico della scena e Giorgio, che era un uomo disinvolto, non aveva nemmeno il disturbo di essere geloso per dignità personale: sua moglie era di una delicatezza eccezionale. Nè l’uno nè l’altro sapeva, nè voleva sapere di più.

* * *

— Dove vai questa sera Giorgio?

— A teatro.

— Non vai più al circolo?

— Mi annojo. Tu resti in casa?

— Se verrà la zia a prendermi come mi ha promesso, andrei dai Ferrini.

— Vuoi che passi a prenderti, verso mezzanotte?

— Sì, vieni, se puoi. Se alle undici e mezzo non sarai ancora arrivato mi farò condurre a casa dalla zia.

Giorgio baciava la mano della sua deliziosa sposina, che gliela offriva sorridendo luminosamente e se ne andava piano piano, come un buon borghese qualunque, che sa bene in mezzo a quanta noja passerà la serata.

Elena suonava il campanello e, dopo alcuni ordini al cameriere, si ritirava nella sua stanza piena di luce e di profumo: la luce rossa e il profumo deliziosamente acuto che piacevano tanto a Giorgio. E ogni sera provava una nuova commozione di gioja nel mirarsi allo specchio così vivida nel rossore delle guancie, nel brillare delle iridi brune, così morbida nel bistro che, sotto gli occhi, le pareva gettato dal pollice di un pittore, in un momento di passione geniale. E la gola bianca e le spalle...

— Settecento, settecento purissimo – le diceva sempre l’amante in ammirazione gaudiosa.

— Bambino! – gli rispondeva ella, sorridendo alla leggera carezza che le sfiorava la nuca e la faceva tremare di vanità.

E in questi pensieri, innanzi allo specchio, Elena si apparecchiava lentamente e si ammirava con gli occhi di lui.

* * *

Poi, verso le nove, di sera, la carrozza la portava in una viuzza solitaria.

Una porta stretta, una scala incomoda a gradini alti e irregolari, lunghissima. Finalmente! Il cuore le batteva forte forte per la fatica e per la commozione.

— Cesare.

— Elena.

— Temevo che non venissi questa sera.

— Amore.

Elena sorrideva. Egli chinava la bella fronte, altissima, e le figgeva sulle labbra la fiamma dei suoi occhi grandi, sognanti, mobilissimi. Poi siedevano accanto a un tavolinetto, dove Cesare aveva preparato, con qualche sacrificio, una bottiglia di champagne, pochi fiori, pochi biscotti e moltissimi versi.

E mentre la voce del poeta, calda, vibrante, nervosa, balzava di parola in parola, di verso in verso, e la sua anima dilatata ascendeva di sogno in sogno, di pianeta in pianeta, su per la via infinita delle costellazioni, Elena, accoccolata al suo fianco, il bel capo leggero reclinato sulla sua spalla, lo guardava commossa, torturando con le labbra un fiore e confondendo in un solo fremito d’ebrietà sottilissima, l’orgoglio del cuore e il trasporto della tenerezza. Egli, con l’anima volava, nella più azzurra fantasia, e quando taceva, quando il sogno era finito, l’amore di lei esaltato, le sue labbra protese, lo accoglievano, lo cullavano, lo portavano piano piano, con morbida carezza, fino alla realtà più azzurra.

E le ore passavano, senza che essi ne avvertissero il passo, che era silenzioso o si spegneva sul tappeto della loro follia.

Quasi sempre lo champagne e i biscotti servivano per un’altra volta.

* * *

Giorgio rientrava verso mezzanotte.

— Sono passato dai Ferrini.

— Mi dispiace che tu abbia fatto tanta strada per niente. La zia non è venuta a prendermi ed io sono rimasta in casa.

— Ti sarai annojata.

— No. Sai che al pianoforte non mi annojo. E tu ti sei divertito?

Passo passo, con serena giocondità i due sposi percorrevano il lucido corridojo che portava alle loro camere. Si soffermavano ogni due passi e Giorgio, ascoltando la loquacità volubile della moglie, si appoggiava ad una delle statue che, in mezzo a grandi vasi di palmizi, adornavano il lungo andito con una leggera severità pagana.

— Sì, mi sono divertito. Una «Francesca da Rimini» eseguita squisitamente.

— Mi hanno detto che la Martinovic sia una cantante eccezionale.

Elena sorrise al pensiero che, a dirglielo, fu proprio Cesare, ed ebbe un momento di abbandono. Non vide passare sul volto di Giorgio un rapido movimento; non sentirono la illogicità del breve silenzio di assenza – lunghissimo – in cui tutti e due si immersero.

Prima, parlò Giorgio.

— Devi venire con me una sera.

— Volontieri – rispose ella meccanicamente.

— Deciso? Allora sarà per giovedì. Non ti accompagno alla serata d’onore, perchè sai che odio la folla endimanchée.

E, poichè erano giunti alla soglia della camera di lei, Giorgio si fermò a respirare le ultime boccate della sigaretta e gli ultimi sorrisi di Elena, che – aperto l’uscio e appoggiata allo stipite – graziosamente attendeva che lo sposo se ne andasse al suo letto, all’ala opposta della casa o restasse.

Quasi sempre Giorgio si inchinava a baciare la mano e la fronte di lei e si allontanava, mentre il servo, incaricato di spegnere i lumi e di chiudere le porte, sorrideva di compiacenza e di malignità insieme, nel salutare il padrone:

— Buona notte, signor conte.

* * *

Il giovedì seguente Elena fece una delle sue rarissime apparizioni al teatro del Corso in omaggio alla fama della prima donna.

Laura Martinovic aveva infatti tutto quello che occorre ad una cantante per essere famosa: perfino la voce. Poi, una figura delicatissima, giojelli meravigliosi, un marito americano. Per altro, da quando aveva stretto quel nodo morganatico con un autentico principe del trust, yankee fino al midollo, aveva abbandonato la scena e aveva scelto per sua dimora Bologna.

I giornalisti assicurarono che la scelta del domicilio regolare e legale era caduta su Bologna per ragioni di salute; e quando i giornalisti mettono in ballo le ragioni di salute, vuol dire che il soggetto sta benissimo. Del resto i più intimi, e come tale, forse anche il principe transatlantico, che non aveva voluto assolutamente lasciare gli affari e l’America, sapevano del suo romanzo sentimentale con Giorgio tanto è vero che per deciderla a cantare, non ad altri che a lui si rivolsero i promotori dello spettacolo di beneficenza. E fu una fortuna perchè nessuna «Francesca» poteva essere più voluttuosa, più colpevole, più «Francesca» di Laura Martinovic. Il successo fu enorme e gli incassi degni della beneficenza.

Elena appena entrata, appena affacciatasi all’imboccatura del suo palco, per cui entrava un soffio violento di festività, respirò ampiamente, quasi compiacendosi nell’intimo dei mille ricordi, che il vociare di quella folla irrequieta nella attesa, le sollevava dal fondo della memoria.

Profumi e scintillii di perle, lucidi occhi pieni di desiderio, spalle nude come le sue, affondate come le sue in un gajo svariare di colori, sparati bianchi, composti, irrigiditi nella loro funzione decorativa, binocoli, occhialetti, monocoli, pupille indaganti nella oscurità di ogni angolo, nelle anse di ogni sorriso e risa e voci e richiami di anime che si intonavano alla imminente gioja e allo spasimo; come le trombe, e i flauti e i violini che, dopo avere tentato con leggera volubilità, piccoli voli di vibrazioni, non cessavano di ricadere lungamente, lamentosamente sul la, sempre più vasto, sul la straziante, che assorbiva ogni sorriso e spegneva ogni voce, a poco a poco.

Un silenzio. Metà delle lampadine si spensero. Quelle della ribalta vibrarono. Elena approffittò dell’ultimo momento per puntare il suo binocolo un’altra volta sul gruppo dei giornalisti, che andavano disperdendosi per la platea.

— Non c’è.

Sedette con dispetto di fronte al marito, mentre i primi accordi si adagiavano nell’aria, calda e ferma.

— Non c’è nessuno questa sera.

— Come, nessuno? Non vedi Mari là nel suo palco? E l’avvocato Torelli? Guarda, Elena, guarda la contessa Mirelli che strana toilette...

Ma il grazioso binocolo d’argento della signora non mutava campo visivo: una porticina stretta, profonda.

— Eccola – disse ad un tratto Giorgio.

— Chi?

— Francesca.

Elena si volse a guardare la prima donna. Con occhio esperto ne esaminò la truccatura, l’abbigliamento, le movenze. Desiderò che Cesare non entrasse in teatro quella sera, a costo di morire per il desiderio di vederlo.

— È bella.

— Molto. Se permetti, Elena, nell’intermezzo faccio un salto a salutarla.

— Mi vuoi lasciare sola?

— Se sarai sola non andrò. Va bene?

Elena sorrise e distrasse il suo sguardo dal palcoscenico e dalla musica, in cui le corolle profumate dei fiori si confondevano ai sospiri e i sogni della bella castellana, si esaltavano, in mezzo al rifluire delle giovinezze.

— Eccolo.

— Chi?

— Paolo. È un po’ basso, ma armonizza perfettamente con la figura di lei.

Elena non guardò. Fu trascinata a seguire, col ritmo del suo cuore, i sussulti che scuotevano l’aria. Nel vano della porticina profonda apparve l’esile figura di Cesare.

Se Giorgio non fosse stato assorto nella contemplazione di Laura e di Francesca insieme, avrebbe veduto un sorriso purpureo tremolare sul volto di sua moglie. Tutta rianimata, eretta sul busto, essa aveva, con moto repentino, puntato le lenti del suo binocolo d’argento sul giovane, che, in piedi nella corsia, pareva immobile, a testa alta. Ma i suoi occhi correvano di su e di giù, con apparente indifferenza, dai volti protesi, allineati della platea, confusi nella penombra, ai grappoli umani, come sospesi dal miracolo sulle ringhiere del loggione, allo scintillare irrequieto dei palchi. Tremò d’ansia piacevole, Elena, quando sentì quello sguardo posarsi su di lei, come una pesante carezza, e vide le labbra del giovane piegarsi ad un impercettibile sorriso. Così si carezzarono lungamente.

Un urlo d’uragano li precipitò di colpo dall’estasi sottile alla violenza della piena luce. La folla sussultava, scrosciando. Si volsero entrambi, turbati, verso il proscenio chiuso.

— Hai sentito che voce? – domandò Giorgio che aveva gli occhi brillanti.

— Bellissima.

Tacquero aspettando: tutti e due. Non molto perchè l’uscio del palco si aperse e Cesare si affacciò.

— Si può salutare?

— Il nostro poeta! – esclamò Giorgio. – Venga, venga, s’accomodi.

— Era atteso, sa?...

— Da chi, se è lecito?

— Da mio marito. Si figuri che tremava di dover restare con me tutto l’intermezzo.

— Allora vuol dire che la mia visita si trasforma in un quarto di guardia.

— Impertinente! Si segga qui.

Giorgio sorrideva.

— Elena ha voglia di scherzare. Però, se permette, io mi assento un momento.

Quando furono soli gli amanti si abbandonarono per un istante l’anima negli occhi. Le loro mani si cercarono, si strinsero. Ascoltarono il tremore della carezza penetrare nell’intimo a ingigantire i desideri.

— Elena, puoi venire domani sera?

— Domani sera? È impossibile...

— Ho bisogno di parlarti, Elena...

— Che hai? Tu hai pianto...

— No, sono agitato. Ora non posso dirti. Potrebbe venire qualcuno. Vieni domani sera, te ne prego e dimmi che mi assisti con tutto il tuo amore.

— Amore...

* * *

Giorgio uscì dal camerino della prima donna sbattendo la porticina nervosamente. Si morse le labbra. Fece due passi poi ritornò indietro. Riaperse con calma fremente ed entrò.

Laura Martinovic era tuttavia seduta innanzi allo specchio, intenta a rendere vive di minio le sue labbra già rosse. Sorrise.

— T’è passata così presto?

Giorgio si sedette senza rispondere. La sua fronte spasimava in solchi violenti; i suoi occhi verdastri nascondevano i lampi in una durezza opaca di pietra. Parlò invece Laura dolcemente, mentre si accomodava intorno al capo un’ampia cuffia che la stringeva alle guancie, alla fronte, alla gola, come uno scialle monacale e con rapida mossa dava alle pieghe della veste abbandonata un’armonia pittoresca gonfia di segreti.

— Hai torto ad arrabbiarti. Mio marito in fondo ha ragione. Bisogna chinare il capo.

— Questa è una rassegnazione nella quale non mi riesce di vedere l’amore.

— Caro!... E poi pensa che un poco è anche colpa tua. Tu, proprio tu mi hai consigliata, costretta a cantare qui. I giornali hanno parlato di me; mio marito che se ne stava tranquillo fra i suoi chiodi e i suoi quattrini si è seccato. Anche un americano può seccarsi, no? Poi ci sono ancora otto giorni... Ci penseremo.

— Io penso che tu mi abbia già sacrificato alla infantile voluttà di fare un lungo viaggio nell’Atlantico, alla curiosità di vedere cose nuove, paesi nuovi, uomini nuovi...

— Quanto sei stupido! Non meriti nulla. Non sono forse quattro anni...

Il buttafuori gridò:

— Pronti, pronti! Scena!

Un campanello trillò lungamente.

— Ora lasciami. Va’ un po’ a fare il cavaliere a tua moglie.

Lo spinse fuori con grazia e lo seguì a passetti saltellanti.

— Ciao!

Giorgio si volse, mentre Laura raggiungeva la scena. Le coriste, le ballerine, le comparse, si rovesciavano dai soffitti con tumulto, ridendo sguajatamente e ritoccandosi le acconciature. Egli si trovò avvolto da un’onda sapida di profumi acuti: profumi di carne, di fiori, di essenze, che gli diedero un attimo di smarrimento folle, uno sgomento di fanciullo sulla soglia del mistero. Fu preso dalla tentazione di gettarsi fra quelle braccia nude, fra quelle spalle che si scrollavano ostentando, su quelle bocche artificiali che invitavano. Passò, invece, saltando su mille attrezzi abbandonati, senza nemmeno vedere una coppia di paggetti del duecento che, sotto un’architrave polverosa, si assaporavano sulle labbra, in pace, un sogno medioevale.

* * *

— Ma non è possibile che io resti così fino a domani... Dimmi, Cesare, dimmi una parola sola almeno, che io comprenda. Ora non viene più nessuno in palco.

— A momenti sarà qui lui...

— Ma una parola. Non farmi soffrire.

— Forse... parto.

Giorgio entrò con volto grigio di noja.

Cesare raccolse, non si sa da qual parte dell’anima, un sorriso e si alzò:

— Il mio quarto di guardia...

— No – disse il marito trattenendolo con una mano sulla spalla – resti; la prego di restare.

E Cesare restò per tutto il tempo dello spettacolo, tormentando Elena con uno stillicidio di monosillabi che, se rispondevano ad una domanda, ne sollevavano mille, inespresse, sul volto di lei.

L’aria diventava irrespirabile. La canzone della «primavera» dai lunghi abbandoni, gonfi di nostalgia e di paura scendeva nel cuore della donna, come una minaccia di prossimo dolore. Scuotere bisognava, quel senso oscuro del destino, che gravava sui cuori con una pesantezza magnetica. Bisognava alzarsi, andare, correre, non fermarsi più, fendere col volto l’aria leggera della notte, respirata dalle stelle.

— Giorgio, andiamo. Io sto male.

— Che hai?

Cesare non chiese nulla. Salutò e disparve.

* * *

Un mese. Due mesi. Tre. Una eternità. Giorgio ed Elena non mutarono il tono della loro vita invidiata.

— Giorgio, dove vai questa sera?

— Al circolo. E tu?

— Dai Ferrini.

Giorgio andava proprio al circolo.

Elena andava proprio dai Ferrini.

Rincasavano insieme ad ora tarda; passeggiavano un poco per il lucido corridojo; chiacchieravano lentamente di cose inutili ed ogni cura ponevano a celare, anche a sè stessi, la propria vacuità, come un tempo, non a sè stessi, avevano celato una esuberanza di gioja.

Poi si lasciavano, mentre il servo, immutabilmente, salutava con un profondo inchino:

— Buona notte, signor conte.

* * *

Un mese. Due mesi. Una eternità. Elena, nell’addio, nell’ultimo bacio, aveva giurato di attendere un anno, due anni, una eternità. Ma quando fu sola nella sua casa, quando pensò al domani vuoto, ai giorni prossimi vuoti a tutto l’avvenire paurosamente grigio – perchè non basta all’amore una parola giunta di lontano, eco di un bacio? – quando pensò alla sua solitudine oziosa e la pose accanto alla vittoria di lui, conquistata da solo, nella quotidiana battaglia, a tutta la vita di lui, gonfia di cure infiammate, comprese la profondità di quell’ultimo bacio, che sigillava un passato e la vanità di tutte le loro promesse, la menzogna della parola «sempre», che le anime si prodigano per confortarsi nella morte. Si gettò sul letto singhiozzando. È finita! È finita!

* * *

Giorgio non ebbe illusioni. Non attese. Rinchiuso in sè stesso, incominciò a lottare col dolore che lo feriva e sulla piaga viva spalmò con volontà paziente il balsamo della dimenticanza. La ferita, nei giorni che passavano, si chiudeva a poco a poco in una cicatrice perversa, che avrebbe resistito nei secoli.

* * *

Finalmente...

Quella sera pranzarono di mala voglia, dicendosi poche parole, ma sorprendendosi spesso a guardarsi negli occhi, assenti. Giorgio si diede a scorrere lentamente un giornale. A un tratto alzò il viso su di Elena, che giocherellava sulla tovaglia con una mica di pane.

— Hai sentito? Cesare si lancia nella gran vita...

— Mi pare di avere veduto... Che è quel cliché là giù?

— Niente: una cantante.

Giorgio ripiegò il giornale, distrattamente. Si alzò da tavola e si sdrajò sulla poltrona. Accese una sigaretta. Anche Elena si alzò, dandosi un’occhiata nello specchio della mensola.

— Non esci questa sera, Giorgio?

— Mah... E tu?

— Io resto in casa.

— Allora siediti qui, vicino a me. Non esco.

Elena fece di più. Gli si accoccolò accanto facendogli nei capelli una carezza leggera, melanconica.

— Sai Giorgio, che sei molto imbiancato? Guarda quanti....

E, per meglio vedere, gli prese il capo fra le palme e ve lo tenne rinchiuso. I suoi occhi bruni guardavano oltre i fili d’argento, nell’oro di un sogno. Sentì d’avere i polsi bagnati.

— Che è? Che è?

Le sue palme si strinsero più forte, tremando, ora, nella consapevole carezza.

— Giorgio, non chiudere gli occhi, guardami. Perchè piangi? Perchè... perchè piangiamo così tutti e due?

Giorgio alzò le braccia e strinse Elena a sè, con tenerezza infinita. E restarono così a lungo, lasciando che il pianto rifluente dall’abisso del loro segreto dolore, purificasse il bacio delle loro labbra.

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