La verità fiorita

— L’amore è orribile. Poichè la donna è incapace di sentire amore, ma è solo capace di subirlo per la legge degli istinti, noi uomini, che siamo pieni di esigenze, troviamo nell’amore la più tetra delle infelicità. Colpa nostra, forse, perchè abbiamo spinto il nostro progresso fino a farci uscire del tutto dall’orbita delle leggi strettamente naturali: nell’amore, per noi, non è solo l’amore: è tutto, e dell’amore riempiamo tutta la nostra vita. Basta: non siamo più capaci di bere senza ubbriacarci e, se ci mettiamo in testa l’igiene, diventiamo senz’altro vegetariani. La colpa è nostra e Giovanna ha ragione. Perchè, in fondo, che cosa posso dire io? Forse mentiva: anzi è sicuro... ma, sono sicuro?

All’angolo della strada Galeazzo si volse e guardò alle finestre di Giovanna. Bujo pesto.

— Scommetto che è già addormentata! È enorme, dopo una lite simile. E io? Che faccio qui, in mezzo alla strada? L’amore è orribile.

Curvo, sotto i portici risonanti, Galeazzo proseguì con passo sempre più lento e pesante il suo cammino, disturbando nella più dolce e morbida quiete i gatti accovacciati nel bujo. Quel saettare improvviso di macchie silenziose nel silenzio lo seccava. Si fermò, ma vide che due occhi fosforescenti lo guardavano con una attenzione insidiosa.

— È tutta una questione di sensibilità. Per esempio: quei due stupidi occhi che mi guardano, mi dànno un certo malessere, un brivido nel sangue, una nostalgia infinita di sole, di cielo aperto. Si direbbe che sotto quello sguardo, io mi senta incatenato, schiavo, come se una verità più profonda, occulta, si distendesse sulla realtà volgare dei sensi e i miei nervi brancolassero improvvisamente in una atmosfera nuova, di un mondo nuovo, dove gli esseri viventi, invece di cinque sensi, ne hanno dieci. Se la ragione non mi tenesse, piangerei e, invece di toccare, come ora faccio, la chiave di casa mia, mi appoggerei al muro e abbandonerei me stesso ad una fantastica scorreria indo-orientale che mi porterebbe, supponiamo, al suicidio. Così, sulla mia tomba, si potrebbe scrivere che sono morto avvelenato da uno sguardo felino. Invece no: la ragione mi dice che tutto ciò sarebbe estremamente ridicolo. La ragione? La ragione forse è il risultato sintetico della attività dei sensi, che ora sono cinque, ma non è escluso che con l’aumentare dei sensi, o anche soltanto col raffinarsi di questi cinque, si distenda, si allarghi, si modifichi. E allora può darsi che i pazzi siano più ragionevoli di noi. E allora... Oh Dio! Dove andiamo a finire? Torniamo indietro. Dunque, è questione di sensibilità: debolezza. Ora voglio ribellarmi e, per essere sicuro di vincere la prova, dico a me stesso: voltati indietro e non guardare più alle elettriche pupille di quel gatto. Ecco. I miei cinque sensi tornano ad essere i padroni del mio io, il quale è in mezzo a un portico, di notte, mentre tutti dormono, solo, perchè ha bisticciato con la sua Giovanna, che, a dire la verità, non risulta, nel significato sperimentale della parola, infedele. Per cui? Torniamo indietro. È questione di sensibilità: debolezza. Ora voglio essere padrone di me stesso e d’ora in poi, quando due occhi misteriosi mi guarderanno, chiamerò a raccolta la forza dei miei soli cinque sensi e, per essere ben certo dell’effetto, mi volterò da un’altra parte, come ora faccio, per tornare senz’altro da lei.

Si mosse. Il gatto sgrattò via, lanciandosi nel bujo. Galeazzo sentì un oscuro turbamento nel sangue e uno strano stiramento al cuojo capelluto. Ma scrollò le spalle e si pizzicò un braccio.

Stava per aprire il portone della casa, ma si fermò.

— Un momento: riepiloghiamo. Per credere alla infedeltà di Giovanna e procedere di conseguenza, occorre dunque che si verifichi almeno uno di questi fatti: che veda con i miei occhi, che oda con le mie orecchie, che... eccetera... Perchè no? Con le donne tutto è possibile.

* * *

Penetrò furtivo ne l’appartamento tiepido di Giovanna, tutto immerso in una oscurità tentatrice. Non accese la gran lampada elettrica appesa in alto e chiuse l’uscio con molta circospezione. La serratura scattò con un colpo secco, che si ripercosse a lungo per le scale. Si fermò trattenendo il respiro. Silenzio. Fece tre passi innanzi. Annaspò nell’ombra, afferrò la maniglia dell’uscio del salotto...

— Ma insomma, si può sapere perchè questo contegno da ladro antico e da marito di tutti i i tempi? Tanto, dove vado io? Da lei. Dunque se non dorme, bene; se dorme, la sveglio. E allora? Ah, Galeazzo io so perchè apri l’uscio del salotto con tanta prudenza, io so perchè a costo di rompere la Venere di Milo, di gesso – eccola qui – procedi a passi guardinghi senza accendere nemmeno un cerino, io so perchè piano piano, ecco, ti metti a sedere nell’ultima poltrona presso la stanza di lei, tacitamente e tendi l’orecchio e figgi l’occhio nell’ombra... Ma sei un cretino, se pensi che proprio in questo momento Giovanna stia macchiandosi di infedeltà, o attenda a qualche servizio logistico o parallelo rivolto allo stesso scopo. Ella dorme, o si concilia col sonno, pensando alle cose difficili che le hai detto questa sera e che non penetreranno mai nel suo fortunato cervello. Un momento... una luce?... Come funzionano bene i cinque sensi! È la toppa. Vediamo.

Galeazzo sorrise da prima ed esultò, poi divenne arcigno, poi sussultò, quindi si abbandonò alla spalliera della poltrona, madido.

— Questa volta è proprio la vista che ti dice: Galeazzo sta’ in guardia.

Un quadro comune: la bella era seduta al tavolino e pareva immobile; la rosea veste notturna cadeva su di lei in vaporosi volgoli di trine e intorno alla sua testa china, intorno alla sua persona tutta, sulla quale il morbido rosa tramonto della veste pareva solcato dalla fluidità densa e bruna delle chiome liberate, era un alitare di tenui colori, vaporanti nella luce indefinita di una invisibile lampada azzurra, che tutto circonfondeva.

Un quadro comune per chi si intende di pittura o di cinematografia; ma Galeazzo che era profano in ogni arte, tranne che in quella dell’amore, trovò che la visione era celestiale. Una cosa sola sconvolse il suo senso estetico, come avrebbe sconvolto il senso estetico di un pittore: la bella scriveva.

Un artista avrebbe trovato che quella operazione obbligava il morbido corpo ad una asimmetria tortuosa e deforme, assolutamente insopportabile. Galeazzo invece osservò che ella scriveva; che ella scriveva troppo. L’importante è che, per una ragione o per un’altra, arte ed amore, ancora una volta, andavano d’accordo. Galeazzo sentì, più che non percepisse, questo parallelismo e pensò che sarebbe stato antiartistico penetrare di balzo nella stanza di lei per sorprenderla, tanto più che, alla fine, ella avrebbe potuto difendersi con la stessa antiartistica arma, adducendo una scusa volgare. In simili ricatti le donne sono maestre. Non solo:

— Un errore dietro l’altro – pensò Galeazzo – ed ogni illusione si sgretola. E poichè è necessario mantenere intatte le illusioni, che sono la ragione e il sapore della vita, noi due saremmo rovinati. Bisogna prendere un provvedimento, prevedere tutto, stendere un contratto particolareggiato, un contratto d’amore, una specie di regolamento di manutenzione stradale, per camminare dolcemente fino al primo svolto, dove il destino ci attenda, con la mano alzata, per fermarci.

E dopo avere bussato gentilmente e atteso, penetrò nella stanza di Giovanna con la compitezza di un commesso viaggiatore di articoli di novità.

* * *

La visione mutò. Giovanna non era più seduta al tavolino e sul tavolino non era più nulla: nè penna, nè carta, nè calamaio. Ella era invece sdraiata sul suo vasto e morbido letto, più bella che mai, tutta avvolta nella veste sottile. La luce azzurra dava alla pallida stanchezza del suo volto un tenerissimo tono di velluto. Galeazzo le si sedette accanto senza togliersi il pastrano.

— Sei tornato?

Nella sua voce stanca, come adagiata, senza inflessioni, era il perdono del passato e una promessa, una dolce volontà di dimenticare... O era un arte per mascherare il tradimento?

— Sono tornato, come vedi. Bisogna che ci intendiamo, una buona volta.

— Intendiamoci, non chiedo di meglio che di essere compresa.

— Incomincia col mutare il tono della tua voce e dimentichiamo il passato. Ascoltami – e per essere meglio ascoltato le prese una mano, che ella gli abbandonò carezzevolmente – ascoltami bene: io posso avere torto, anzi ho avuto torto; non sono di buon gusto le indagini poliziesche sulle intenzioni di una donna, che dopo tutto, ha l’aspetto di essere fedele...

— Ma tu puoi indagare fin che ti pare. Io ti ho detto la verità.

— Per l’amor di Dio! Su questa parola, proprio, occorre mettersi d’accordo. Io non voglio, intendimi bene, io non voglio sapere la verità.

— Ma se non più tardi di un’ora fa....

— Mi sono persuaso che volerla conoscere è male: è come avere fra le mani un bellissimo fiore variopinto e profumato e spogliarlo dei suoi petali ad uno ad uno. Non ci resta tra le dita che un calice verdastro, irto, sgraziato, su uno stelo cadaverico, ignudo. Proprio così, Giovanna: la verità ha due aspetti; uno coi petali e l’altro senza. Io da te desidero la verità fiorita.

— Oh Dio!

Galeazzo sembrava un medico al capezzale di un malato, durante l’esame del polso.

— Sta’ attenta: non è difficile. Poi, voi donne l’avete nel sangue l’arte di propinarci questa verità di illusione; soltanto, non ne avete la coscienza. Passate troppo facilmente dalla verità illusione alla verità cadavere e ciò è pericoloso e fa di noi uomini degli esseri insopportabili. La colpa è un po’ di tutti e due: nostra, perchè ci lasciamo andare a intemperanze di fantasia, qualche volta colpevoli; vostra, perchè ci fate fare troppo spesso il viaggio dal cielo alla terra e pretendete che non ci prenda la vertigine. Mettiamoci dunque d’accordo. Tu mi coltiverai in una atmosfera omogenea, ad una certa indispensabile altitudine, ed io comanderò ai miei sensi di mantenere un rigido controllo sulla mia attività mentale. Un po’ di Budda da parte tua e un po’ di Bacone da Verulamio da parte mia. Tu reciterai, aderendovi con lo spirito più che ti sia possibile, la tua parte di donna innamorata ed io mi fermerò alla apparenza, felice, cinque volte felice e farò tacere gli istinti speculativi che in amore sono una deformazione mostruosa. Perchè, vedi, se anche mi fosse possibile penetrare nella sostanza del tuo cuore, con indagine scientifica, l’esperienza avrebbe un valore temporaneo, transeunte. Un’ora dopo il tuo cuore potrebbe essere mutato. Mi spiego? E allora dovrei ricominciare da capo, e tu diventeresti una sostanza chimica qualunque, costantemente sottoposta al contatto dei miei reagenti. No, no, assolutamente. Tu non hai capito niente, ma va bene lo stesso: qualche cosa deve essere penetrato lì dentro. In altre parole: il tradimento, la menzogna, l’offesa, non possono tangermi per nulla, finchè io non ne abbia avuto una percezione immediata, cioè fino a che esse non divengano una realtà sensibile, che colpisca uno almeno dei miei cinque sensi specializzati. Il sospetto provocato da una inflessione della tua voce, da un profumo o da altre cause consimili, non germoglierà più nel mio cervello, che un caso fortuito, occorsomi questa sera, ha ricondotto nei suoi binari naturali: questa è la mia volontà ed è anche la promessa che faccio sull’altare del nostro amore. Tu non hai niente da fare dalla mattina alla sera: in mezzo alle tue frivolezze, vedi di pensare un pochino a me, per rendere meno monotone le mie ore di riposo e per mettere in valore tutta la tua genialità artistica, che io apprezzerò moltissimo. Così facendo tu riuscirai ad elevare fra me e il sospetto, fra me e la gelosia, fra me insomma e la verità tipo Bacone, una barriera di persuasione estetica, visiva, olfattiva, eccetera così avvincente, da incatenarmi, una cortina di petali multicolori ed aulenti così inebbriante da costringermi a dormire con tutti i miei sensi sovrapposti, per assorbire la bellezza, il profumo, la musicalità... mi intendi? Sono chiaro? Al di là di questa cortina di polvere di Cipro, fa’ ciò che vuoi, nascondi la verità più odiosa: io non mi sveglierò dal mio sonno orientale fatto di ebetudine tranquilla. Ma, bada! Non un attimo di smarrimento: io non voglio vedere più in là!

— Ma come saprò io fare tutto ciò?

— Saprai certo: sarà il nostro primo amore, sarà... Un momento: c’è un conto da regolare con la vecchia gestione. A chi scrivevi quando sono entrato?

Giovanna sorrise; alzò una mano e ne fece schermo sugli occhi ardenti del giovane: lo accarezzò mormorando, quasi cantando parole d’amore, con voce spenta, lontana, così che poi gli apparve come in una visione marina, sirena irresistibile, adagiata in una conca marmorea e sonora.

— Come sei bella! Rispondi! – sussurrò il giovane desideroso di profumi, di petali, di azzurro, di cipria – rispondi!

— Io ti amo, io ti amo – la voce della donna penetrava nell’anima del giovane sottile e dolce come un lento narcotico – io ti amo e tu mi devi credere. Non cercare dunque: qualunque sia la verità nascosta, tu devi odiarla perchè essa è nemica dell’amore. Chiudi, come nel sonno, i tuoi begli occhi... così...

* * *

Galeazzo è solo nell’ampia stanza ancora avvolta nella greve oscurità del sonno. Nel letto, nei mobili, in tutte le cose intorno è un disordine brutale, in cui sprofondano impalliditi i piccoli ricordi amorosi: nell’aria temperata di profumo è la graveolenza della notte, piena di respiri; la realtà è nuda intorno a lui, è violenta ed egli si tradisce, perchè anche nel suo spirito il disordine di quella pesante penombra sommerge le volontà e porta su gli istinti, ciechi e tormentosi. E fruga, fruga nel minuscolo tiretto di uno scrittojo che sembra fabbricato a Norimberga. Trovato!

«Al Conte Enrico... Signore vi prego di non turbare la mia pace, di cui sono gelosa, come dell’amore di Galeazzo. Giovanna».

— Santa, santa. Eccola!

Galeazzo ebbe appena il tempo di ricomporsi, ma il suo sguardo era ardente; si lanciò su di lei che entrava, le chiuse il volto tra le mani, le immerse le dita nei capelli, ancora scarmigliati, la baciò furiosamente...

Giovanna, dopo, la bufera, guardò negli occhi di lui, meravigliata:

— Ma che hai?

— Nulla; ti amo, ti amo.

— Ma lascia che finisca la mia toilette. Non vedi che sono ancora tutta spettinata? Dov’è la cipria?

* * *

Giovanna è sola. La stanza è stata riordinata e sembra un piccolo museo di gingilli luccicanti. Sull’ampio letto è distesa una rossa coperta di Damasco. L’aria del mattino, fredda, è entrata per un momento e ha spazzato via, violentemente, la grevità notturna, lasciando soltanto il fresco olezzo dei profumi esalanti da alcune boccette aperte. È in tutte le cose un senso di vigilante attenzione, di cura meticolosa, per trasformare quel talamo d’amore in una culla verginale, o almeno per distendere, su tutte quelle piccole cose sapienti, un velo denso e discreto.

È sola. I suoi occhi guardano lontano.

Trae dal minuscolo cassetto dello scrittojo di Norimberga il bigliettino per il conte Enrico e lentamente, morbidamente lo lacera.

Ne scrive un altro.

* * *

Galeazzo riflette:

— La lezione è stata efficace. Io ho veduto nella notte due occhi fosforescenti che mi hanno fissato. Mi sono voltato dall’altra parte per non vedere, ma ho sentito ancora quelle pupille sature di odio fisse su di me... Ecco, basterebbe che io facessi un solo passo, per vedere quella bestia balzare nella notte, con uno stridore d’unghie sulla pietra. Ebbene io non guardo; per non mettere a repentaglio la sicurezza di me stesso, io non mi muovo... così...

Galeazzo riflette ancora:

— Però sento nell’aria, un vago odore...

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