11. – La romanza del mughè.

Tu immagini che io mi sia allontanato dall’Augusto Signore che mi aveva così affabilmente rivolto la parola, intonando la marcia reale. Nemmeno per sogno! Già, il primo a fuggirsene sarebbe stato proprio lui. No: senza intenzione, anzi, direi per un moto riflesso di pura incoscienza, e per ciò tanto più significativo, mi diedi a fischiettare la romanza del mughè, che credo sia la sola piattaforma sulla quale è possibile organizzare economicamente il ceto medio.

Nelle allegre serate familiari dove c’è sempre qualche giovane di belle speranze che recita dei versi, magari suoi, qualche fanciulla di mammà che strimpella la prima sonatina di Czerny; qualche tenore squalificato che ha il Rimpianto di Toselli; non manca mai il mattacchione allegro che si incarica di rimettere l’adunata in carreggiata con la vita, intonando fra le risate generali

vo’ cantarti la romanza
la romanza, la romanza...

Strada facendo di questo passo, si viene poi a capire che la peregrina romanza è dedicata a quel vago fiorellino che si chiama mughè (in borghese mughetto). Orbene la nojosissima melodia di questa canzonetta, balzata in una notte di malinconia dal cervello di uno studente ozioso e bighellone, ti si attacca all’anima e ai timpani auricolari e non ti abbandona più. Hai un bel cacciarla da te come una mosca importuna; essa ritorna ossessionante e implacabile e ti costringe a fischiettare, a balbettare, a riprodurre

vo’ cantarti la romanza

È inutile arrabbiarsi: la colpa non è di quella musica: la colpa è della vita. Bisogna riconoscere che in queste manifestazioni artistiche dell’ignoto, le quali hanno il magico potere di abbarbicarsi al nostro organismo fisico e morale, è una oscura aderenza a un non so che di panico, di eterno, di vero. Come il coro dei grilli che respira nelle serate calde la sua quiete idilliaca, come il mormorio dell’acqua corrente che ripete il suo ritmo all’infinito, e ti addormenta, anche ribelle, nei sogni più tranquilli. Come l’eterno sciamare del ceto medio in cerca della giustizia sociale.

Chiamala ipnosi se vuoi, ma visto e considerato che è in natura, prendiamone le esperienze per considerare il fenomeno musicale alla stregua delle medesime leggi biologiche. E sia rispettata la cantilena goliardica, come si conviene a uomini del ventesimo secolo, in presenza di un misterioso fenomeno in atto. Gli uomini passano e con gli uomini le idee. Sotto la cappa del cielo eterna, nelle sue luci profonde e ammonitrici, è uno svariare inafferrabile quasi insensibile di nebulose addensantisi e dilenguantisi sul nostro tormento sulla nostra stanchezza, sulla nostra noja. Passano in mille stratificazioni atmosferiche sotto la cappa del cielo mentre ci si uccide, ci si abbraccia, si piange, si soffre... Sopratutto mentre ci si stanca. E allora non sappiamo trovarci una espressione più persuasiva di questa. E si canta:

Vo’ cantarti la romanza

tante volte, tante volte, all’infinito: è una tormentosa rivoluzione della universale seccatura. La guerra, la pace, le lotte di classe, l’enorme confusione degli ideali, l’urto tra le aspirazioni filosofiche che hanno un significato evanescente nella vita mediocre e le braciole di majale che hanno un significato permanente da per tutto: è questa la miseria commessa al nostro secolo dalla guerra preparata dai nostri padri e che noi soli dobbiamo portare, noi soli, che patiamo la guerra e patiamo la pace, senza possibilità di rivalse, noi soli, che – come vedi – siamo costretti a ridurre tutti gli aspetti della nostra breve storia al loro aspetto economico!

E non ti pare che il «vo’ cantarti la romanza» cominci a rivelare un profondo significato e che potrebbe essere l’inno internazionale delle vittime? Tanto tra questo, e quello che è stato insegnato alle masse, come significato poetico e musicale, non c’è molta differenza. E noi ci intoneremo di più, come deve essere con le espressioni statiche, fondamentali, tetragone del regno naturale: i grilli cantano nelle serate calde, alla campagna: le acque non mutano il loro ritmo ipnotico, le stelle ridono. Attacca, maestro!

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