12. – Sonata in minore.

Non facciamoci delle illusioni. Tu ed io – poverini – sappiamo benissimo che alla prima occasione ci lascieremo trasportare dallo zeffiro dell’ideale e scenderemo in lizza a combattere fieramente in nome dei proclamati ideali. Sei socialista tu? Io no, ma ciò non conta. Passerà una bandiera, parlerà un uomo, il nostro cuore pulserà più forte. E alla fine diremo: ecco una forza, ecco una voce, ecco un voto. Oppure ti accadrà di sentirti così inesorabilmente colpito da uno spettacolo qualunque della natura o dell’arte, che il primo uomo che t’avvicina, quello diviene il tuo migliore fratello; la prima idea, il primo sogno che ti si manifesta nell’attimo del rapimento, quello si confonde col tuo sogno e in te discende, in te, fatto improvvisamente capace di una molteplice umanità.

Bada che è questo il punto debole: il ceto medio è sentimentale.

Una sera, proprio qui, al conspetto della più ammaliante basilica d’arte gotica, mi fermai. La luce diffusa faceva più fosco l’edificio e più chiare di luci velate le tombe dei tre sapienti che son lì, a contrastare il passo al terrore mistico delle notti lunari, con gli ordini leggiadri delle colonnine bianche e le gugliette lucide. Era, o mi pareva che fosse, un parossismo di nostalgia: nostalgia di un mondo che forse non fu mai, proprio come la realtà del monumento lo evoca ai nostri sogni, ma che appunto per questo giustifica il passatismo degli inquieti e dei dubitosi; nostalgia di una bontà – che fu – dimenticata; di un amore – che fu – dimenticato; d’una bellezza – che fu ed è – più forte del tempo, testimone d’un immenso respiro di verità, soffocato dal tempo e dai tempi nel cuore degli uomini inquieti.

Al crepuscolo è lieve, dolcissimo, il riposo dello spirito, che s’affaccia indiscreto all’intimità di quelle finestrelle acute, donde pare sia possibile carpire al mistero una visione viva dei sogni accarezzati; e s’adagia nella tranquillità liquida d’un’atmosfera che s’intona, sotto l’ampia curva dei contrafforti, alla placidità rassegnata delle pietre secolari, delle tombe, del cielo; e si perde nell’armonia confortevole delle colonnine nascenti dal verde fondo del prato, del verde vivo delle tre gugliette incastonate al rosso cupo dell’abside; è dolcissimo il riposo dello spirito, se vaga intorno all’invidiabile tomba di Odofredo che non fu poeta ed ebbe forse per questo in sepoltura, l’eterno bacio della poesia.

Ricordo che quand’ero fanciullo, mio padre mi diceva: «Vedi? Lì dorme Odofredo. Tutta la sua vita dedicò allo studio del diritto per la giustizia fra gli uomini». E fin da quel tempo concepii per quelle tombe solenni e leggiadre un rispetto smisurato.

Non mi muovevo, tutto pervaso dall’ebrietà delle commosse fantasie. Quand’ecco, un’ombra viva si muove fra le colonnette superiori della tomba. Stupito guardo meglio. Un ragazzo del popolo mi si mostra col suo volto spavaldo e provocante. Saltella un poco, intorno al sarcofago secolare, poi svelto come un gatto vi si siede sopra tranquillamente. Il mio sangue ebbe un tuffo: ebbi per un momento il pensiero di gridargli qualche particolarità della sua fede di nascita, ma certe cose i ragazzi le sanno a memoria e anzi che turbarli, li divertono. Come fare, per dare un’espressione qualunque al senso di disgusto provocato al mio organismo fisico e morale da quell’irriverente? Dall’alto della tomba di Odofredo partì un canto che mi quietò: l’internazionale. Ne ho fin sopra ai capelli, ma le voci bianche abbelliscono anche le canzonette del volgo. E poi – lo confesso – fui preso da un altro sentimento, da una specie di persuasione armonica – che so? – dalla vivacità del contrasto poetico. Sì, lo so, la Russia... ma insomma, quel ragazzo mascalzone che, seduto comodamente sulla tomba di un giurista insigne, cantava l’internazionale, mi piacque. Non vidi più nulla di irriverente nel suo contegno, dal momento che anch’egli era là per la giustizia degli uomini, all’ombra di una basilica millenaria. Non solo non vidi più nulla di irriverente, ma ebbi un po’ paura di me stesso, dei miei pensieri, della mia coscienza. Insomma, anche oggi si invoca la fratellanza degli uomini, la comunanza dei destini, la reciproca bontà, in nome della giustizia, in nome della verità, in nome del diritto. E se c’è qualcheduno che invoca con sincerità e fede queste cose, bisogna amarlo, se invoca con coscienza e combatte con lealtà, bisogna amarlo, se canta col cuore, consapevolmente, bisogna amarlo. E ajutarlo e camminare e insegnargli forse anche a camminare per la via dolorosa della giustizia, della bontà, della verità...

Quando ti dico che il ceto medio è sentimentale! Di lì a poco fui costretto a gridare:

— Imbecille!

Disceso dal sarcofago, il ragazzo – al quale quella musica faceva evidentemente lo stesso effetto che a me – mi volse cortesemente le spalle e contro il sarcofago marmoreo del giureconsulto, brevemente, come un giovane cagnolino...

Un particolare: non cessò di cantare durante la bisogna; soltanto mutò canzone, sempre rimanendo in repertorio: «Noi siamo i soci fondatori della lega».

— Ma con chi dice? Con Odofredo? Con Vespasiano?

Dolorosamente troncai la mia sonata in minore. Aveva ragione lui ancora! La sua coerenza musicale e filosofica vinceva la mia labilità sognante. Il diritto? Ha ragione lui, perchè «diritto» significa sinteticamente i «doveri» e non c’è più che quel suo repertorio musicale che sia in grado di definire sinteticamente i diritti o meglio i doveri degli altri. Odofredo? E chi è? Ci hanno insegnato chi siamo noi – noi siamo i soci fondatori – e l’internazionale. E basta. La bontà, la verità, la giustizia, che roba è?

E me ne andai con un rancore sordo nel cuore. Ma era un rancore estetico soltanto.

Share on Twitter Share on Facebook