14. – Le idee e i simboli.

Io ti volevo dire qualche cosa. Ecco: ci sono. I partiti. Se ti vuoi convincere che in Italia non si possono più numerare, fa come ho fatto io durante le ultime elezioni politiche; una collezione di schede elettorali. Vedrai che variopinte sorprese! È il trionfo del simbolismo.

Ricordo che una delle più feroci fatiche sopportate dal mio cervello mi fu imposta da una non più giovane e non più poetessa maestrina elementare. Il mio cerebro avrebbe avuto bisogno di svilupparsi tranquillamente, senza scosse violente, con uniforme continuità ascendentale. Invece l’educatrice incauta mi commosse un giorno con la vivificazione di un simbolo: la bandiera nazionale. Fu un gran pasticcio fra il rosso che è amore, il verde che è speranza, il bianco che è, naturalmente, candore; poi fra il rosso del sangue latino, il verde delle valli latine, il bianco delle nevi latine: tanto che tutti perdemmo la nozione dell’idea e confondemmo terribilmente quella del simbolo. E tutte le volte che vedevamo sventolare al cielo il grande simbolo della Patria a farlo apposta, dimenticavamo tutti l’Italia e le sue glorie, per almanaccare nel nostro giovane cervello – ancora gelatinoso e forse per questo orientato verso una concezione tragica della vita – un rosso tramonto, un verde alto mare, un bianco caffè e latte; oppure un rosso rubino, un verde smeraldo, un bianco majolica. L’idea saltellava così allegramente per le materializzazioni più fantasiose e audaci e perdeva se stessa. Soltanto quando il rosso del sangue vivo e versato da mille fratelli nelle generose battaglie della guerra e della piazza, mi ha trascinato – prendendomi per il cuore – fuori dell’alchimia tropica, ho riattaccato indissolubilmente il simbolo all’idea.

Orbene, quella fatica feroce – che avevo dimenticata ma che ha indubbiamente avuto incalcolabili ripercussioni e influenze sul modo di sviluppo del mio pensiero – mi si è riaffacciata alla memoria durante l’ultimo periodo elettorale della quarta Italia esaminando i simboli delle schede su cui migliaja di elettori erano invitati a combattere e a sperare. Allora tremai anche un poco per l’avvenire delle giovani generazioni; pensai agli sforzi eroici ai quali centinaia di padri costrinsero i cervelli ancora gelatinosi e tragici di migliaia e migliaia di figli – viva l’Italia prolifica! – per rendere loro evidente l’idea del simbolo; pensai alle mille idee secondarie, alle composizioni e decomposizioni ideali dei figli, saltellanti irrefrenabilmente per le fantasiose vie dell’associazione e della analogia; veloci, veloci verso altri porti, verso altre idee madri.

Perchè un’idea può non avere conseguenze di sorta. Può esser nata statica, paralitica, può respirare male l’aria della nostra storia, può dunque entrare in tutti i cervelli di tutte le età lasciandovi qualche volta, sia pure rarefacendosi, il vuoto.

Per esempio: ci fu l’idea di un candidato che taccio, che non ebbe se non la conseguenza di «un voto» – filosoficamente fu il plebiscito più significativo delle ultime elezioni. – Ma ciò accade di rado. I simboli invece hanno per forza delle conseguenze, poi che sono trampolini del pensiero, il quale avendo quasi sempre una funzione interpretativa, vi si porta sopra con tutto il suo peso e salta in aria. Non si sa dove caschi.

Mi spiego. Trecento persone hanno proposta la candidatura alla quale ho accennato precedentemente; una soltanto ha combattuto sul simbolo della scheda corrispondente. Le altre duecentonovantanove sono saltate – per modo di dire – in aria e sono capitombolate senza volerlo, senza saperlo, ad altri porti, ad altre idee madri, ad altre schede. Insomma hanno votato per un altro. Di chi la colpa? Del simbolo dell’idea del candidato? No: delle idee secondarie del simbolo del candidato. Un solo cervello ha mantenuta intera la sua adesione all’idea del simbolo e tutto farebbe credere che quel cervello appartenesse proprio all’autore e candidato in persona; ma nulla vieta a me di pensare che lo stesso autore e candidato, figgendo attentamente lo sguardo sulla sua scheda abbia rincorso, raggiunto, afferrato una qualche altra prepotente verità e abbia finito, da uomo di coscienza, per votare contro se stesso.

Generalizzando si può affermare che all’atto del voto molti elettori sono passati da un campo all’altro non per infedeltà politica, ma per effetto di quel processo consecutivo al quale ho rapidamente accennato. Non voglio con questo infirmare la bontà della legge in favore della quale sta un’altra considerazione: che gli uomini sono fatti presso a poco tutti a un modo e che se il capo lega ha votato per l’agrario, il prete ha votato per il fascista e il liberale non ha votato. La legge non considera la qualità, il numero, per cui ventimila persone intelligenti valgono esattamente come ventimila idioti. Nè più, nè meno.

Ma noi parlavamo di partiti, di idee e di simboli.

A Palermo un ex ministro si presenta in lista personale con un simbolo impressionante: una castagna. Non si può sapere donde sia venuto quel frutto privilegiato – non certo da un castagno – e per quale ragione tra i tanti che i castagneti disseminano per i declivi montani, proprio quello abbia avuto l’onore di salire all’importanza di simbolo; ma si intuisce che esso può avere una importanza decisiva, in determinate condizioni di spirito. Si ha un bell’avere nel cervello, o, magari, nello stomaco, la falce e il martello e la spiga e il sole, e avere in tasca il libro ma quando si è nati nel verde e ubertoso Appennino, quando si è vissuta tutta una adolescenza all’ombra dei castagneti, nella tranquillità pacata delle glauche volte di fogliame, donde il sole non penetra che per far scintillare una gemma di brina o per carezzare una fantasia; quando si hanno vive nel cuore le lunghe serate invernali, le veglie patriarcali dagli ampi focolari, dagli alti fuochi, dalle parole lente, dal vino generoso e le bruciate ancora fumanti; ma chi se ne infischia di Leniti? Chi se ne infischia, viceversa, dell’ex ministro borghese? Voto per la castagna, no? E saluto la mia giovinezza perduta. Ed ecco il partito della castagna.

Ma ci sono altri simboli magnetici; il vapore col tender, disegnato come sui libri di lettura per la terza elementare, col suo fumo a pennacchio, l’alberino e il macchinista, simboleggia una frazione del socialismo indipendente che ha voluto evidentemente esprimere la legittima persuasione, per cui «noi siamo i padroni del vapore».

E tutti, da ragazzi abbiamo fatto qualche capriccio per possedere quella macchina quel tender quel fumo e quel macchinista. Ma ora mai vi sono troppe cose che richiamano noi stessi alla nostra greve età. Di qui il fiasco di quella scheda, di quel simbolo, di quel partito, che era però pieno di ottime intenzioni.

«Una buona stretta di mano» è il simbolo di un altro partito così detto economico. Tu pensi invece che si tratti di due persone che si salutano per non rivedersi mai più: il candidato e il suo programma. Commoventissimo.

Altri due ex ministri tirano in campo il partito dell’aratro meccanico, significa che meno si lavora con le mani meglio è. Naturalmente ha avuto il suo piccolo successo di simpatia, ma era naturale che su questo terreno, il simbolo dei Soviet avesse il vantaggio incommensurabile di presentare il grano già maturo, senza bisogno di lavorare, nè a mano, nè a macchina. Più il sole.

Ve ne sono anche dei repulsivi come l’«orologio» di una sfumatura liberale e la «bilancia» di un partito speciale di combattenti: tutte cose che danno l’idea di tempo che passa, di morte che si avvicina, di conti da rendere, le quali piacciono poco agli uomini specie quando sono elettori, cioè nel momento più temporale della loro vita. Per questo forse, una sfumatura antiliberale ideò il simbolo di un orologio spezzato in due parti, senza domani, dunque, sicuro di misteriosa esperienza.

Ti ricorderai certamente la scheda della foglia. Alcuni volevano sostenere che fosse una foglia di fico, ma io credo che fosse di vite. Comunque gli elettori invece di votarla, la mangiarono...

E tanti e tanti altri! O non ti pare che siano troppi i partiti in Italia? Tenendo sotto gli occhi le decine e decine di simboli, pensando alle parecchie centinaja di idee da cui furono espressi, alle parecchie migliaja di idee che generarono, alle incalcolabili che ottenebrarono, vien fatto di concludere ancora, che l’Unità d’Italia è un mito, che la fratellanza universale è una pazzia, la dabbenaggine dei popoli una lacrimevole fatalità. Vien fatto di dubitare che i troppi simboli, di troppe idee, di troppi partiti, di troppe tendenze, di troppe sfumature, non siano che la riprova vertiginosa di una assoluta assenza di idee. Che, infine, per questo, l’unità ideale, a cui tende con tutti i suoi moti convulsi e le sue miserabili espressioni l’umanità che mangia, che beve e che dorme, è molto lontana dalla unità ideale inespressa ma immanente e posseduta dalla umanità che sogna: un simbolo solo.

Ma i sognatori sono dei pessimi elettori: dimenticano sempre di votare.

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