22. – Il principio di organizzazione e il tamburo.

Te l’ho detto a proposito dei simboli elettorali: le idee non si sa mai dove vanno a finire, se pure si sa dove cominciano. Dirò meglio (ma non perdere la pazienza): le idee – espressioni di eternità – non incominciano mai e non finiscono mai. Sono una concatenazione, una successione di cui non si avverte l’origine, di cui non si può prevedere la fine. Tanto meno se ne possono prevedere gli sviluppi, le fasi, le movenze. Ed è una sorpresa continua per chi osserva.

Mi spiego: da quando sei nato, non sei mai stato colpito che io mi sappia nè da un accidente, nè da una catalessi, nè da nessun altro di quegli inconvenienti patologici che paralizzano il cervello di un uomo più o meno durevolmente. Dunque tu, al riparo anche da quelle che possono essere le sofisticazioni intorno alla coscienza di pensare, tu, dico, hai sempre pensato, il tuo cervello ha continuamente lavorato. Puoi dunque avere assistito direttamente al fenomeno accaduto in te per il quale uno schiaffo disciplinare piovuto sulle tue guancie quando erano ancora floride di adolescenza, dalle mani di una guardia civica o di tuo padre, ha provocato nel tuo spirito un orientamento definitivo verso Lenin; così come molto probabilmente il nostro deputato socialista riformista è divenuto tale in seguito alla rappresentazione cinematografica d’una corrida nella quale un banderillero ci faceva una magnifica figura. Questo per dire che le idee sono boites à surprise inverosimili.

E per essere più chiari, facciamo un esperimento. Prendiamo una testa – supponiamo – senza idee. Per esempio? No, lascia andare gli scherzi. Cosa c’entro io? Mettiamo un capolega dei suonatori d’orchestra. Mettiamo in questa testa un’idea, per esempio quella della organizzazione e qual meraviglia, dico, se da questa sola idea, così, per concatenazioni, sviluppi, associazioni e dissociazioni, si arriva quasi insensibilmente all’idea del tamburo? Mi spiego. Tu sai che i suonatori d’orchestra si dichiarano meccanici della musica e si sono uniti in una lega economico-politica (ah, la politica dei tromboni!) per difendere i loro interessi. E sta bene. Questa è l’idea, nel corso della quale si innestano esteriorità arbitrarie e artificiali, come quella del comunismo, della fratellanza gastronomica, dell’internazionale interventista. L’idea si gonfia il sacro ideale rivoluzionario, con relativo odio agli impresari e mal celata fobia delle masse seguaci di Tersicore. L’idea s’inturgidisce d’orgoglio per «l’unione che fa la forza» per il «tutti per uno e uno per tutti» per «la coscienza proletaria» e per tante altre cose di questo genere.

Accadono cose folli: il trombone abbraccia il primo violoncello; il primo violino confida la sua estetica al fagotto; il direttore d’orchestra giura che gli ottoni non stonano mai; i timpani sorridono all’arpa; il contrabasso intona una serenata con accompagnamento di flauti e il tamburo – ecco il tamburo – segna, a colpi di tuono, il ritmo solenne del gran cuore organizzato.

L’idea si complica. Una sera il primo violino si trova a suonare un «a solo». Gli altri rimangono indecorosamente inoperosi, muti. Naturale, dici tu.

Naturale niente affatto. Terminata la rappresentazione... Facciamola breve... L’idea si perfeziona, si sottilizza, si bizantinizza. Ecco: è riuscito, il primo violino, a farsi pagare gli «a solo», a parte, con una tariffa discretamente aristocratica. La sera dopo, al momento voluto, e mentre gli altri stanno muti intorno a lui, muti e crucciati, il primo arco sfoggia un chilogramma di cavata più del peso normale e sorride beatamente, pensando che alla fine del mese è un bell’affare! Finalmente solo! «Come suona bene!» dice un signore che ha pagato l’ingresso e la poltrona. «Molto – aggiunge, il vicino – tanto, che a momenti lo prendo a pedate». Il vicino è l’impresario.

L’idea si arrampica di fase in fase, su per le allegre scalinate dell’assurdo. Mi spiego. Qualunque suonatore che suoni un «a solo» ha diritto, per quella sera e per quanti «a solo» incontri nella partitura, a paga doppia.

Queste cose me le diceva un impresario, nel foyer di un teatro internazionale, mentre si svolgeva la rappresentazione di un’opera del maestro Giuseppe Verdi. Le melodie del cigno di Busseto giungevano al nostro orecchio, come velate di lontananza, meravigliosamente. A un tratto – ah, cigno di Busseto, che facesti? – bum! bum! bum! tre colpi di grancassa, tre battiti del gran cuore organizzato, in un silenzio gravido di rivendicazioni sacre. L’impresario sviene. «Tre colpi di grancassa? Venti lire!»

L’idea si martirizza nella solitudine delle scatole craniche capopopolari. Nel corso di pochi anni non la si riconosce più. L’idea della organizzazione a forza di maciullarsi a questo modo, è diventata l’idea della disorganizzazione. Così come il leninismo, a contatto con la espressione della propria realtà, nell’incomponibile conflitto, che l’inquietudine accende in tutte le realizzazioni umane, si trasforma si bizantinizza, si martirizza, si snatura nell’antileninismo che emana dagli stessi decreti firmati dal dominatore. Io farei bene a tacere, forse... E poi no: tutto ciò è meravigliosamente meccanico. Il cervello è la sola macchina che faccia delle sorprese, ma è una macchina. E chi può mutarne il cammino? Il popolo subisce lo sviluppo automatico delle idee degli altri. Ma fin d’ora ha un segno di profonda significazione: il tamburo.

Parla un deputato socialista da una tribuna pavesata come una galera di vittoria. Parla un «a solo».

— Popolo! Popolo! Popolo!

Tre colpi di grancassa: Quindicimila lire.

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