23. – La musa N. 10.

Così va la vita, amico mio. A noi, ceto medio – medio in tasca, medio in testa, medio da per tutto – a noi non rimane che una consolazione.

Per comprenderne l’importanza, bisogna ritornare indietro qualche passo: alle nove muse dell’alma Grecia.

Le nove muse dell’alma Grecia, nella loro disgrazia, sono state fortunate. Si vede che un oscuro pathos, chi sa per quali torbidi errori commessi in giovinezza contro il sommo Giove, gravava anche sulle loro teste aureolate; ma si è compiuto con una notevole indulgenza da parte degli Dei Olimpici, fatti forse più teneri dall’età cadente e dalle patrie disgrazie. Le muse sono state, almeno, più fortunate diEdipo, che dovette bere, fino alla feccia, il calice amaro del destino, senza alcuna luce nella notte eterna, se non quella che emanava dalla pietosa fedeltà di Antigone.

Le nove vecchie muse dell’alma Grecia hanno ottenuto di tirare le cuoia prima dell’esodo, che sarebbe stato, per esse, assai meno umano di quello immaginato dal caritatevole cuore di Sofocle.

Lasciarono l’Olimpo polveroso e discesero al mercato cosmopolita di Salonicco a vendere ad un ebreo malcontento del suo bazar i vecchi paludamenti della tradizione: roba fina, ma sdrucita. Piangendo si salutarono e andarono in cerca di fortuna per le vie del mondo. Calliope, morì ammazzata, qualche secolo fa, per opera di tale Ludovico Ariosto che quasi nessuno conosce; Melpomene, in Italia, tirò l’ultimo respiro esteticamente tisico fra le braccia di un poeta filelleno; Talia respira tubi di ossigeno a Parigi e Tersicore fa un numero al «Varieté»; Clio ci vede male e con questo po’ po’ di dopo guerra ha perduto la bussola del tutto; Urania fa il lunario per l’anno nuovo; Euterpe... – dove è finita Euterpe? – Polimnia ed Erato che hanno una certa resistenza fisica, girano imbellettate per i salotti dove si parla di arte e di poesia e si prende la cocaina, ma non si fanno più vedere in pubblico.

È finita.

Buon per loro perchè non più dalla Grecia ma addirittura dal mondo, è nata una creatura nuova: la musa n. 10, il Cinemà.

Se mai vagolassero per l’orbe terracqueo le mirabili vestigia delle antiche e tramontate figlie di Zeus, questa musa che si chiama con un nome mascolino, che non presiede a nessun’arte e nessun’arte inspira, ma tutte le riassume con una caotica ferocia, non saziabile, ben presto assorbirebbe, ineluttabilmente il fato forse predisposto dagli implacati Dei. Fortunatamente trova il campo libero.

Il cinemà trionfa senza sacrifici cruenti.

Lo – o la? – si potrebbe rappresentare naturalmente in corsa. Corre molto, il Cinemà, più di Mercurio, che al suo cospetto diventa un portalettere qualunque. E guai se si ferma. Sotto i piedi, invece della ruota alata, un marengo. Nelle mani un’altro marengo; in testa, una corona di marenghi: tutto un risplendere d’oro standard, che abbacina, vince, uccide. Altro che la testa di Medusa!

Degnamente è la decima – e speriamo l’ultima – Musa. Mi piace questo battesimo – chi sa quanto è costato ai padrini! – perchè quantunque io mantenga, a parte le sciocchezze, una fede rispettosa e malinconica alle altre nove disgraziate, trovo che questa nostra creazione nel suo dinamismo rivoluzionario, nelle sue deformazioni e depravazioni estetiche, nella volgarità stessa della sua essenza quattrinaia, rende meglio d’ogni altra espressione il nostro secolo miserabile. I così detti apostoli dell’ottantanove, misero sugli altari la Ragione, che poi si seppe bene chi fosse: noi mettiamo il Cinemà sulle cime più alte dei nostri entusiasmi. E ci siamo definiti.

V’è qualche ingenuo che sogna di liberare la decima musa dalle strettoie sfruttatrici degli ingordi mercanti. Giammai! Togli la fiamma sacra dal tempio di Vesta e le sacerdotesse fuggiranno inorridite. No, no: va bene così. Resti e risplenda la fiamma d’oro; noi faremo sacrificio agli Dei, offriremo su tripodi preziosamente cesellati a macchina e incastonati di pietre vitree multicolori, tutte le nostre povere ispirazioni, tutte le nostre canzoni fatte per chi non ha voce, tutte le nostre rime – per modo di dire – fatte per chi non ha più cuore. Poco, ma volentieri. Si fa troppa fatica e si guadagna troppo poco a scrivere La Divina Commedia – che barba! – I Promessi sposi – quanti difetti però, anche lui – o il Don Chisciotte – quanta ingenuità! –. Si fa troppa fatica! Noi li prendiamo già scritti e li vestiamo di nuovo. Perchè essi rappresentano ancora qualche cosa, nonostante gli anni trascorsi e gli uomini mutati, noi li mettiamo a perdifiato in film, levando loro tutto ciò che hanno di bello – finiamola con questa utopia della bellezza! – e lasciando, anzi caricando ciò che hanno di comune. Ci si guadagna tutti, anche Manzoni, che continua ad essere conosciuto, anche Francesca Bertini che trova il modo di diventare famosa, anche tu, ignoto, che ti risparmi per due lire la seccatura di leggere un libro grosso tre dita e pieno di cose serie.

Concludo affermando: sia quello che sia; ma noi dobbiamo amare il Cinemà come amiamo i nostri vestiti, la nostra casa, la nostra fotografia: è la nostra vera ricchezza, la nostra creazione, la nostra espressione, la sola eredità che l’arte nostra lascia e confida all’arte di domani.

È dunque, come dicevo prima, la sola nostra consolazione, perchè noi siamo lì dentro tutti, interi, meravigliosamente gesticolanti, con maschere, con bocche, con occhi, con mani che vogliono dire molte cose immense, ma non dicono nulla: arte inarticolata d’una generazione perduta a tutto: perduta al senso della vita e dell’amore, perduta al passato e all’avvenire, perduta anche a se medesima. Finita la guerra, per la quale nascemmo e che protende ancora su di noi ostinatamente le sue ventose sanguinolente, tutto è finito per noi, labili ombre d’un evo medio, che si rinnova senza l’intima salute e i profondi fermenti, che diedero alle tenebre barbariche un ansito gigantesco.

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