2. – L’orologio del campanile.

Vedi? Fa le tre e due minuti. Farà sempre le tre e due minuti. Viaggiando in provincia non è difficile notare che ogni campanile ha un orologio a ora fissa. La storia di questi orologi è molto semplice e si ripete inalterabilmente per tutte le parrocchie.

In principio il campanile non c’era e, naturalmente, non c’era nemmeno l’orologio sul campanile. (Il discorso è stupido, ma è classico: «nè torre v’era, nè alla torre, in cima, la campana»). Poi fecero l’uno e, nell’uno, l’altro, con grande radunanza di popolo e molta letizia di danze e canzoni. Le ore suonarono quel giorno, regolarmente, solennemente e la folla, gonfia di una vanità serenissima, allo scoccare di ogni ora interruppe le sue canzoni e l’esultanza, per meglio udire il risonare del bronzo nuovo sotto la volta armonica del cielo, e goderne, guardandosi l’un l’altro negli occhi, l’ultima vibrazione dolcissima. E ciascuno guardava al proprio orologio e si compiaceva dell’accordo stabilito tra il quadrante che guardava il sole e il quadrante che guardava l’uomo: era una così profonda sensazione di virtù conquistata, di una nuova, piccola verità rivelata, di una quiete raggiunta, che tutti, appena scoccata l’ora si rimettevano a ballare. Poi i giorni passarono e tutti continuarono a mettere i propri orologi in regola col Massimo, che faceva sentire la sua voce molto lontano. Poi passarono gli anni: le generazioni mutarono. I figli dei figli non sentirono più alla voce dell’orologio tremare in petto l’orgoglio dei padri: cominciarono invece ad annojarsene come di un creditore troppo insistente, a desiderare il silenzio della campana ammonitrice, padrone ciascuno di provvedersi d’un cronometro di precisione ad uso consumo della propria coscienza. Non lo fecero apposta, no, ma lo trascurarono questo povero orologio da campanile. E un bel giorno si fermò.

Quel giorno si fermò qualche altra cosa, in paese: l’amministrazione comunale a cui era commessa la sorveglianza della suprema clessidra. Il che mi fa sempre più convinto che Napoleone Bonaparte la sapeva lunga.

Durante la campagna d’Italia, prima di schierare le sue forze contro una qualunque delle città che si disponeva ad espugnare, egli chiamava il suo ajutante di campo e gli domandava:

— Come vanno in paese gli orologi?

— Sono tutti fermi, generale.

— Sta bene. Allora non occorre che mi occupi della faccenda. La città è presa. Vado a dormire.

Se invece gli orologi andavano bene, Napoleone Bonaparte alzava la spalla sinistra e si ficcava il mignolo nell’orecchio destro.

Se Napoleone Bonaparte dovesse rifare oggi la campagna d’Italia – ma non la farebbe – non avrebbe mai bisogno di uscire dal wagon-lit.

Ma insomma, che vuol dire? Mio caro amico, il quadrante è lo specchio dell’anima comunale. Oggi in Italia sono moltissimi gli orologi pubblici ad ora fissa.

Hai mai veduto in qualche casa di impiegato pubblico, un quadretto oleografico a rate mensili, in cui è riprodotta alla meglio una scena di scuola fiamminga? Sono quattro o cinque figure intorno a una rozza tavola. Due soldati dagli occhi iniettati di giocondità e i nasi rubescenti, ridono a quattro ganasce tenendosi con una mano il ventre incontinente e reggendo con l’altra boccali ricolmi d’ambrosia; un uomo, un cuoco forse, ha il volto immerso in un piatto di carne odorosa e mostra a chi lo mira una calvizie, che ride di riflessi alcoolici; una donna è in piedi, le mani ai fianchi gagliardi e tutta rossa in viso: saluta altri due galantuomini pantagruelici che entrano, attirati probabilmente dal profumo della imbandigione, più che dalle grida degli ebbri e hanno il volto sprizzante cupidigia. Una scena che, lì per lì, ti mette addosso un appettito e una allegria da non si dire. In mezzo, in alto, sulla cima di una torretta color di legno di noce, è un quadrantino bianco, sul quale – guarda, guarda – le due sfere si muovono, si muovono...

È un orologio vero. Passano i minuti, le ore, forse gli anni e a quella tavola siedono irremovibili due soldati, che bevono e un cuoco che mangia, mentre altri, insaziabili corrono a conquistarsi la gioja bestiale della crapula. A lungo andare quella scena ti fa schifo. Ma come? Seguitano a mangiare? E l’orologio fa tic-tac. Ma scusa, io trovo naturalissimo che un’ora o l’altra l’orologio si fermi anche lui, in attesa che quello sconcio finisca.

Hai capito com’è che gli orologini veri delle oleografie, e gli orologi comunali di tante città d’Italia, incominciarono a giocare al prossimo tascabile il tiro di fermarsi?

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