4. – Le carrozze di nessuno

No: andiamo a piedi. Vuoi forse ripetere la monotona scena della disperazione? Oramai non v’è paese, non v’è piazza, non v’è uomo che non abbia fatta la triste esperienza. Sempre uguale.

È lunga la teoria delle carrozze così dette pubbliche, immobili e romantiche, sotto la carezza dei fanali semi spenti, avvolte in una atmosfera cupa, statica, sotto la vigile guardia degli alti merli comunali, che si profilano nel cielo profondo: immobili come statue, indistinte come fantasmi, esse guardano davanti a sè con i loro occhi gialli attoniti, stanchi; le cappe nere dei landeaux abbassate, quasi schiacciate sembrano gramaglie: la teoria delle carrozze un funerale fossilizzato per incantesimo. Il cittadino si avvicina, ansimando per la fatica che gli procurano due valigie da viaggio, titubante innanzi alla nera maestà di quel corteo chiuso. Si consola quando ode il rumore del fieno, che si frange fra le mascelle del cavallo.

— Si muove – pensa tra sé. Poi chiama:

— Ehi!

Nessuno.

— Carrozza!

Nessuno.

— C’è nessuno qui?

Una voce cupa, cavernosa, finalmente gli risponde di sotto la cappa nera del landeaux.

— Cosa vuole?

— Diavolo, non certo un mezzo toscano! Sei libero?

— No.

E il fiero proletario della cassetta si rimette a dormire placidamente. Il buon cittadino si morde il labbro inferiore e pensa alla guerra del Risorgimento per la libertà d’Italia. Ma ci sono altre carrozze, messe in fila e a costo di battere a tutte le porte....

Altro cavallo dalla testa immersa in un sacco di meditazioni malinconiche, altro cocchiere che dorme e che non vuole assolutamente essere disturbato. Uno, due, tre tentativi: identico risultato. Una parola d’ordine. Il cittadino trafelato ha un moto di riconoscenza verso uno dei vetturini, fra i tanti, che ha la bontà di alzarsi dal giaciglio per trattare una concessione:

— Sentiamo un po’: da che parte vuole andare lei?

— Io vorrei, se crede, essere trasportato a porta nord...

— Allora non se ne fa niente...

— Perchè?

— Fra poco vado a porta sud; se vuole...

— Mio Dio, come si fa? Se avessi potuto prevedere... Ma adesso è fatta: sto di casa a nord...

Ne restano ancora due, ancora uno. Niente. Il cittadino depone le valigie, trae dal taschino il suo carnet e segna il numero dell’ultima vettura, l’ultima goccia, la solita goccia che fa traboccare il famigerato calice.

— Che fa?

— Scrivo il tuo numero, per denunciarti all’autorità municipale...

— Benissimo. Ma lei intanto va a piedi. Buon viaggio.

E si riaddormenta sicuro sotto la protezione degli alti merli comunali che si profilano nel cielo profondo. Il cittadino si carica sulle spalle le due valigie e si incammina piano piano per la solitudine delle strade. Il monumento di Vittorio Emanuele col suo focoso cavallo gli sembra bello e poco dopo ringrazia, con le lacrime agli occhi, un’automobile che gli fa provare la dinamica paura di morire schiacciato da una velocità di 90 chilometri orari.

No: andiamo a piedi. Non ti lasciar sedurre nemmeno dal tramway. È ben vero che il nostro scopo è di girare intorno al campanile, ma, credi a me, evitiamo dei dispiaceri.

Les tramways de la ville... Già, si chiamano proprio così. È una vecchia caratteristica della nostra mentalità italica questa, di considerare le cose che vengono d’oltre Alpe, come perfette di fronte alla nostra indiscussa e rassegnata pochezza. Tanto è vero che un commerciante italiano – nato in Italia – accorgendosi che il suo «articolo» non andava, ha cambiato addirittura il suo nome traducendolo, in inglese: si chiamava Vicini; ora si chiama Neighbours. Il prodotto Vicini non andava assolutamente; il prodotto Neighbours va. La stessa cosa è accaduta per i trams, con la differenza che questi non vanno nemmeno tradotti, o, quando vanno, è un castigo di morti e di feriti. In provincia, in genere, non vanno. Ed è giusto. Les tramways de la ville, giallissimi, di un bel giallo canarino portano una pennellata diarmonicamente pittoresca nello sfondo dei palazzi rossigni di venustà o di vanità; sono graziosi ninnoli che luccicano nel sole, sopramobili di ferro smaltato, giocattoli a molla sempre guasti in mezzo a una città di cartone.

Queste fantasie si possono fare, guardando di lontano les tramwais de la ville che vanno bighellonando per le vie della città! Da vicino è tutta un’altra cosa. Non hai mai assistito agli assalti furibondi di una folla che attende la carrozza di tutti? È tragica: verrebbe voglia di parlare della carrozza dei più forti. In un battibaleno la vettura metallica è ricolma di animali ragionevoli che dopo di essersi pestati e contusi a vicenda e in ogni altro modo malmenati, ancora ansanti si ricompongono le vesti, le acconciature e le cravatte; guardandosi in faccia con un sorriso meravigliosamente cretino che, dice:

— Anche tu, amico, sei un bel mascalzone!

Tre tocchi di campanello: Partenza. D’incanto si forma nella vettura una atmosfera pestilenziale. I sorrisi si spengono, i nasi si arricciano, gli sguardi si fanno torbidi.

— Sei tu amico, che puti a codesto modo?

— No: siamo tutti e due...

Bastano due esseri umani talvolta a comporre le più sgradevoli combinazioni. Tutti i mali del mondo somigliano a quest’afa: anche la guerra, anche le epidemie. Nessuno ne ha colpa, ma impercettibilmente ognuno di noi vi porta il suo contributo involontario. Per non aver proprio rimorsi bisogna andare a piedi, e non tendere lontano, come noi.

Una fermata. Intanto il bigliettajo ti fa sentire la sua indiscussa superiorità, di capitano di piccolo cabotaggio, pestandoti ed ammaccandoti tutto ciò che per avventura ti fosse rimasto illeso durante la conquista del tuo posticino. La fermata continua.

Siamo ancora in principio. Per svagarmi guardo fuori dal finestrino.

La gente ci guarda, ridendo del tram completo e di noi, più completi del tram, e non c’è altro da fare che riconoscere che ha ragione. La fermata continua. Un giovanotto impazientito smonta.

Il bigliettajo parla animatamente col manovratore: discute delle supreme rivendicazioni della classe. La gente che non ha la forza morale di smontare, batte i piedi e sbuffa. Come corrono quelli che vanno a piedi! Tre colpi di campanozzo. Partenza. Ora si potrà correre finalmente e ridere di quelli che vanno a piedi. No.

Il manovratore osserva che più si corre adesso e più si deve attendere al prossimo scambio. Bisogna fare economia di pazienza e di velocità. Tutto razionato. Vede? Una fermata. Il manovratore e il bigliettajo riprendono da capo la discussione sulle supreme rivendicazioni della classe. La fermata continua. Senti: io smonto allegro come un matto per avere trovato la forza di fare una cosa intelligente. In due passi sono al portico e via! Filo come un bolide. Debbo rallentare il passo per non cadere di vertigine. Se un amico mi raggiunge e mi saluta, senza fermarmi gli grido:

— È proibito parlare al manovratore!

— E chi è il manovratore?

— E bada che è pericoloso sporgersi. Non toccare. Posti uno. Completo.

All’angolo della via mi volto e vedo là, in fondo, un gingillo grazioso, color giallo canarino, immobile e completo. Uno dei pochi, ma volenterosi, tramways de la ville, che vanno ancora bighellonando per le vie della città.

E non ti dico nulla di quello che accade quando i tramways si muovono. Hai fatto la guerra e ti fo’ grazia dei sacrifici che i manovratori consacrano alla memoria di Marte, morto come sai, per una indigestione di epicedi.

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