9. – Il capitolo dei re.

Non avvilirti nemmeno per questo: da qualche tempo è entrato nelle nostre file consacrate alla mediocrità – che in fondo è la vera forza dei tempi – qualcheduno che non ti saresti mai aspettato, pure aspettandolo da un momento all’altro: il re. Con l’erre minuscola perchè, più che del Re d’Italia, qui si tratta del re come istituzione, o meglio dei re sentimento; cose borghesi e minuscolissime. Se tu non afferri la differenza che passa tra le tendenze repubblicane dello spirito moderno – fatalissime se vuoi – e questo fatto che il re sentimento è del tutto ignorato da coloro stessi che reggono la cosa pubblica, sei un cretino. Noi ignoriamo: cioè, non siamo nè monarchici, nè repubblicani. Niente. In questa atmosfera sentimentale, che non ha nulla a che vedere con lo sviluppo delle dottrine sociali, il re diventa un nostro carissimo compagno quotidiano; al quale si può dare magari qualche buffetto. Se dovesse andarsene per sempre dalla storia noi non ce ne accorgeremmo. Vedi? Non è il caso di Luigi Filippo che andava a prendere l’americano al seltz all’angolo della via, insieme agli operai dei vicini cantieri. I francesi è vero, ignoravano quel buon uomo e quando se ne andò non si lamentarono gran fatto, ma in Francia rimaneva il re, il quale continua anche oggi a dominare lo spirito della democratica repubblica. Rimaneva; e i monumenti equestri delle piazze non divennero fredde testimonianze di un passato dimenticato, ma severe, eloquenti determinazioni dell’immanente. Insomma, in Francia non sarebbe mai accaduto a nessuno dei quaranta re, lo scherzo che accadde a un Vittorio Emanuele II, che abita, cavallo compreso, in mezzo a una piazza di provincia.

Dunque, una notte... (mi permetto di prenderla un po’ comoda, perchè tu evidentemente non hai nulla da fare) una notte passando per la piazza, guardai in su: guardai la statua del Re Galantuomo. Hai notato che le statue del Re Galantuomo sono tutte brutte? Guardai in su perchè ero in un momento di pessimismo acuto e il mio senso estetico e le mie sensibilità pesanti, sommerse nella caligine pesante del dopo guerra, non avevano a temere nessun doloroso turbamento. Pensavo al meccanismo complicato di questa vita terribilmente faticosa, pensavo alle complessità insondabili dell’anima umana, voragine mascherata dal sempre verde fogliame delle belle parole; pensavo che i galantuomini erano tutti morti. Che ecatombe! L’onestà era scomparsa... (il pane costa... le scarpe costano... le automobili... molto sangue... gli abiti... molte lacrime) scomparsa... Anche in me stesso. Che orrore sentire in fondo alla propria coscienza, ieri tranquilla e limpida, serpeggiare per esempio, gli istinti del furto e dell’odio al prossimo... E poi dicono gli illusi che certe teorie di fraternità alla russa, come l’insalata, non prendono piede! Ma insomma: un galantuomo, chi mi dà un galantuomo per stringergli – se permette – la mano, per vederlo, almeno vederlo?

E guardai in su.

Stupii: al re mancava la sciabola. Io pensai che i monumenti – se Dio vuole – come un dì i monumentati, subiscono le leggi della vita e della morte e si consumano, come si consumano anche le nostre ossa, dopo la morte; non pensai che un incidente qualunque potesse avere mutilato – trattandosi di una fusione in bronzo si può dire – il monumento della sua sciabola, istrumento necessario per un Re che, snudandola in tempo di guerra, fa la guerra anche se non vede la guerra, e accarezzandone l’elsa col palmo della mano in tempo di pace, dimostra di incoraggiare la prosperità del suo popolo e di prometterne la tutela fino all’estremo. Non pensai dunque alle possibili ingiurie del caso e del tempo, o meglio, non solo pensai alle ingiurie del tempo, ma anche a quelle della paglia.

Dall’immenso scroscio della guerra sono uscite alla luce del sole due o tre persone, quattro o cinque idee. È poco, dato il numero dei morti, ma tant’è. Anzi bisogna ammettere che si tratta di uomini e idee poco lontani tra loro: eufemismi di assestamento, come si suol dire, per mascherare la vacuità della nostra esaurita civiltà occidentale. In fondo una reazione meccanica: reazione violenta alla violenza della guerra: disarmo, disarmo, disarmo.

Questo del disarmo è sopra tutto il chiodo fisso del secolo.

E incominciamo dai monumenti. Così Vittorio Emanuele, l’unico galantuomo di tutta la Piazza – compresi i passanti – è privato dell’istrumento necessario alla sua professione, del simbolo tradizionale del suo diritto. O che vuol dire? Chi sa? Forse si tratta soltanto di un semplice congedo di classi: la classe dei Re, classe di ferro come tutte le classi che vanno in congedo, classe infelice, anziana, e sempre sotto richiamo, e congedata senza indennità. Me ne dispiacerebbe, perchè fra un Re donato al popolo da una legge secolare che inchioda una corona sulla testa di Cajo o di Sempronio soltanto in base alle loro irresponsabilità genealogiche, e un re a scadenza fissa come le camere ammobiliate, donato al popolo dal suffragio universale, preferisco il primo: può anche darsi che sia un galantuomo.

Tutte fantasie inutili: seppi più tardi che era stato uno scherzo dei due repubblicani del paese. Il male è che se non mi fossi io stesso affrettato ad avvertirne il sindaco, nessuno se ne sarebbe accorto. Ciò non tolse che quando lo si riseppe, non si levasse da ogni contrada un urlo di indignazione. Poi tutti ci risero sopra.

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