Prima Oleografia.

Un cielo notturno pieno di stelle, tutte uguali. C’è anche una luna di biacca, senza macchie. Un cipresso nero le fa il solletico sotto la gola. Un poco a destra un merlo ghibellino, chiomato di vitalbe, dalle campanelle spalancate e, sotto, confitto alla parete rossastra, un povero fanale a gas, che pare vergognoso di dovere far lume a un così rispettabile squarcio di mistero e di memorie. Non può fare a meno di rispettare anche una ombra che s’avanza per il vicolo deserto e buio, un’ombra certo umana, ma così chiusa dal velo delle tenebre e della fantasia, da non lasciar trapelare nulla di sè, nemmeno il sesso, che è la prima cosa che si vede negli uomini; nemmeno la foggia del vestire, cioè l’età storica. Nulla.

A proposito: il vezzo di nascondere la propria età che è comune agli uomini e alle donne – le quali, a vero dire, in questo spesso abusano – non è ancora penetrato nelle generazioni della storia. Non se ne vede la ragione. È evidente che chi nasconde al prossimo il numero delle primavere vissute, è mosso a ciò soltanto dal commendevolissimo bisogno di celare i difetti, le debolezze, le caratteristiche negative dell’età.

E si giustifica facilmente la signora, che presenta agli amici la figlia trentenne come una sorella minore. «Nessuno saprà mai che io necessariamente sono senza denti, e senza capelli, che la mia esperienza incombe sulla mia personalità fino a cristallizzarne ogni atteggiamento, fino ad affaticarne la plastica, fino ad affiochirne, a spegnerne la luce. Mai. Se ciò si vedesse, io sarei senza scampo catalogata come un libro di biblioteca, che nessuno legge, perchè tutti hanno letto!»

Ma come rimarrebbe la Signora se, fra due o trecento anni, avesse il potere – e chi lo sa che non l’abbia? – di udire dalla bocca del primo postero a cui vada per le mani il suo ritratto, queste parole feroci di sicurezza:

«To’, una signora della fine del 1900!» Via: è una bella umiliazione!

Perchè nell’accertamento dell’epoca è implicito un giudizio, che può variare a seconda dell’esperienza del giudice, ma che in ogni modo fissa delle caratteristiche non sempre tali da solleticare la vanità, specie d’una signora. Quando si vede il ritratto di una castellana del duecento, si pensa al trovatore, sì, ma si pensa anche che quella signora portava la stessa camicia per tre mesi. Ora perchè tanta gelosia per i contemporanei e tanta indifferenza per i posteri? No, o leggiadre signore, non rispondete che i contemporanei sono lì e i posteri sono là: confessereste che la vostra eleganza e lo sviscerato amore per la moda di Parigi hanno in voi un fine immediato, ahimè, non confessabile!

— Io sono elegante per me, per me sola. Della gente non m’importa nulla. Puah! –

— E allora, perchè non vesti, di grazia, un bel costume babilonese?

Tutto questo per dire, signore e signori, che una volta ammesso il principio per il quale hanno fortuna le tinture per i capelli, i cosmetici e le matite per le labbra, si deve arrivare fino in fondo a fil di logica, perchè se c’è una età da nascondere, è proprio la nostra. Io tremo al pensiero che, guardando a un mio ritratto al bromuro d’argento si possa dire un giorno senza un attimo d’esitazione: «Ceto medio 1920.»

Le signore dei nostri tempi hanno quì un ottimo pretesto per mutare da un giorno all’altro e tutti giorni le foggie del vestire e dell’acconcio così da parere, di volta in volta, femmine sensuali barbariche o dame spirituali della rinascenza, o cortigiane del Re sole. E così dicasi di noi.

A scherno della posterità!

…... Un’ombra s’avanza per il vicolo buio, mentre il fanale a gas fa «grogrogro,» sotto il merlo ghibellino coperto di vitalbe. Si può anche supporre che quell’ombra che s’avanza sia un lanzichenecco arciducale, ma il quadro è bello perchè c’è il lampione. Se ci fosse invece una lampada in ferro battuto col lucignolo ad olio, questa oleografia sarebbe addirittura riprovevole, insopportabile anche quì, davanti a un canapè che ha le molle rotte.

La storia, veduta al lume d’un anacronismo, è affascinante.

Guardo intensamente, fraternamente il becco del gas. Trovo che tra me e lui, tra me e la sua luce un poco malinconica di meschinità, un po’ beffarda di amarezza e di realtà; tra la mia relatività ambientale e la sua c’è molto di comune. Uomini e cose obbediscono a leggi simili: accade che nella parabola della nostra obbedienza ci imbattiamo sovente in fraternità liriche, tanto più tenere, quanto più in esse la coscienza è fioca.

Questo spiega la ragione per la quale molte donne amano alla follia gli animali domestici e qualche volta anche le fiere.

Chi ha fatto: «gro-gro-gro?» Io o lui? Non importa.

Una voce – questa volta sono sicuro è la voce del merlo ghibellino – profonda, senza timbro, stranissima così da ricordare l’odore dei libri di avventure di Ponson du Terrail, risponde come un’eco:

— Che hai da brontolare, o scherzo di natura?

— Niente sospiro. Guardo, al lume della mia fiamma la luna titillata dal galante arcipresso, e la tua barba verde o merlo, che mi cade addosso paternamente. Guardo mo’ su, mo’ giù, ozioso e triste, aspettando l’alba che non verrà forse mai e il volto d’un uomo; un volto aperto e chiaro che significhi qualche cosa e modifichi la faccia della terra. Pazzie! Uomini non ce n’è più. Vedo laggiù un’ombra che s’avanza. Ma non si avvicina. Chi sarà?

Il merlo ghibellino, che da secoli aveva mantenuto una rigida e solenne posizione verticale, si chinò un momento a guardare, con molta cautela per non essere veduto dal lampione, ma la sua barba fiorita di campanule inverosimilmente spalancate avvolse l’inteleiatura del fanale. La fiamma ebbe un brivido di delizia.

Io ho provato per un attimo il senso d’una immersione voluttuosa in una corrente d’acqua profumata e armoniosa di fondi misteri. Sento il bisogno di sdraiarmi sul canapè.

Il fiero ghibellino subito si ricompose un po’ turbato. Dopo un breve silenzio riprese, con voce di ira rattenuta:

— Ma che uomo, che uomo! Non c’è più un uomo. Hai ragione tu. L’ultimo è stato il mio Frangipane, che è morto in Palestina...... Tutto il mondo parlò di lui.....

— Io non l’ho mai sentito nominare.....

— Perchè non c’eri. A quel tempo c’erano soltanto dei padroni, che erano davvero padroni e dei servi, che erano veramente servi. E gli istrumenti come te non usavano, allo stato, almeno, di indipendenza.

Il fanale umiliato non rispose, tanto più che la voce dell’amico era diventata aspra e s’era rovesciata, lungo i rami della barba, con fremiti di insofferenza.

— Fai bene a tacere. Io ho visto Frangipane scudisciare trecento servi tutti in una mattinata e poi è andato a morire in Palestina. Adesso nella camera da letto di quell’uomo, per il quale anche il sole ha tremato, c’è l’ufficio del castasto. Tu non puoi capire. Tu, tu.... Chi sei tu? Chi ti ha fatto? Chi ti ha chiamato? Che cosa rappresenti?

Abbiamo risposto:

— Mah! È una storia lunga e stupida. Vorrei poterla dimenticare. Un uomo! Un uomo ci vuole...... Un pensiero.....

L’ombra in fondo al vicolo ha fatto un passo avanti, no, indietro, no, avanti.....

— Gro-gro-gro.... Non capisco se va, o se viene. In ogni modo qualche cosa deve accadere. Così non si va avanti.... Non si va avanti. Pare che il mondo si sia dato un gran pugno nei fianchi e non tiri più il fiato.... Dunque lo vuoi sapere chi mi ha fatto?

— Un lanternaio.....

Il merlo rise. L’aria sonò di squilli ariosteschi, che frantumarono il cielo di vetro. Fulminea visione di galoppi ferrigni su groppe di ippogrifi, sotto un’orgia bianca di nubi, fendute dalle alabarde saettanti.

Gustavo Dorè.

— Gro-gro-gro... Lascia andare. Io sono un essere tranquillo e positivo, ma ho una storia anch’io. Un lanternaio, sta bene. Ma bisogna fare un altro passo indietro. Prima del lanternaio ci fu la rivoluzione francese. Il mio albero geneologico spirituale incomincia là, cioè io profondo le radici del mio tubo conduttore nel sottosuolo sostanziale dell’enciclopedia e per conseguenza brucio il gas dei principi dell’89. Capisci? Chi mi fece così superbo e così umile? Chi mi fece così indipendente e così schiavo? Chi mi diede la libertà e l’inquietudine? Chi mi diede un orario fisso, che è il culmine delle conquiste morali e il non plus ultra dell’avvilimento? Chi mi tolse dalla miseria per consegnarmi alla povertà? Chi propose al mio pensiero tutte le realtà e non le risolse senza il sogno? Chi sostituì alla mia fede il ferro di cavallo, il gobbo e il 13? E per la mia mediocrità si versarono fiumi di sangue e di lacrime! Abbasso la rivoluzione francese! Mi dispiace per Robespierre, che n’ebbe la testa mozza, ed era in buona fede. Ma il boia era un profeta! Gro-gro-gro.... Evviva Frangipane!

Io guardo intensamente l’ombra misteriosa: Un uomo? Un uomo? Il Salvatore? Mi travaglia l’ossessione dell’attesa. Così non si va avanti. Qualche cosa dovrà pure accadere! L’aria è ferma, la barba vegetale s’allunga, s’allunga, investe il fanale, l’avvolge, lo fascia, lo chiude, lo strozza... Quell’ombra, quell’ombra...

La luna si inchina finalmente alle goffe carezze del necroforo e discende, scompare, a poco per volta, nel fosco della notte. Certo sta per accadere qualche cosa perchè i segni oscuri del cosmo non fallano. Quell’ombra, quell’ombra..... Non si vede più.... Non si vede più perchè è lontana, è dileguata nel nirvana di tutte le mie speranze. No. È vicina. È qui. È sopra di me, È intorno a me. Chi sei? Chi sei? Chi sei?....

Speriamo che non sia una donna.

Come si dorme bene su questo canapè.

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