CAPITOLO IV.

Del Governo di D. Ramiro Gusman Duca di Medina las Torres; e de' sospetti che s'ebbero di nuove invasioni tentate da' Franzesi.

Il Governo del Duca di Medina, durando le medesime cagioni, anzi vie più crescendo, non poteva riuscire men gravoso a' sudditi, che il precedente. Le guerre infelici, che consumavano gli Stati della Monarchia di Spagna, mantenevano tuttavia, anzi rendevan assai più esausto l'erario regale, ed in continue necessità di denaro. Il nostro Reame era il bersaglio infelice, dove per provvedersene si dirizzavano tutti i disegni, e nulla pietà avendosi delle miserie estreme, nelle quali era il Regno caduto per le somme immense cavate in tempo del Monterey, altre nuove se ne richiedevano. Furono perciò imposte nuove gabelle e dazj, ed accresciuti gli antichi: s'aggiunsero gravezze alle sete, all'olio, al grano, alla carne, a' salumi; e s'imposero nuovamente alla calce, alle carte da giocare, all'oro ed argento filato, e sopra tutti i contratti de' presti, che celebravansi nella città e nel Regno. S'introdusse, all'uso di Spagna, la gabella della carta bollata, della quale bisognava necessariamente servirsi in tutti li contratti e negli atti giudiziari, sotto pena di nullità; quantunque poscia, come cosa troppo odiosa, fosse stimato meglio sopprimerla. S'arrivò a tale estremità, che si pose sul tappeto il dazio d'un grano il giorno per testa agli abitanti di Napoli, per lo spazio di quattro anni; e facevasi il conto, che toltone gli Ecclesiastici ed i putti, se ne sarebbero cavati cinque milioni di scudi: ma poscia, essendosi considerato il pericolo che si correva di porre in pratica tal esazione, e quanto avrebbe sembrato intollerabile al Popolo questo peso cotidiano, si lasciò di più parlarsene.

Si tassarono bensì tutti i Mercatanti ai pagamento di duecentomila ducati per pagarne le soldatesche: si venderono li Casali di Napoli, quelli di Nola, e molti altri luoghi demaniali, che non ebbero modo di ricomprarsi, passarono dalla libertà che godevano sotto il Demanio Regale, alla servitù de' Baroni.

E perchè niente mancasse, il Vicerè fece convocar un Parlamento generale, dove per Sindico intervenne D. Ippolito di Costanzo, nobile di Portanova, e s'estorse dal Baronaggio e dal Regno un donativo d'un milione di ducati, in vece d'una nuova gabella di cinque grana per moggio di frumento, che pretendevasi d'imporre in tutto il Reame. Solo tra tanti aggravj e gabelle se ne tolse una, che riscuotevasi in Napoli da tutte le meretrici, riuscendo ciò di non picciolo giovamento alla pubblica tranquillità, per gli scandali continui che ne nascevano.

Fu perciò seriamente risoluto, per non ridurre i popoli cotanto oppressi all'ultime disperazioni, di mandar Ambasciadore alla Corte, per implorare dalla clemenza del Re qualche conforto a tanti e sì estremi mali; e concorrendovi anche il Vicerè, mosso ancor egli a pietà di tante miserie, fu eletta dalla Città la persona del Consigliere Ettore Capecelatro. Lo stato in che erasi ridotto il Regno, era pur troppo lagrimevole: oltre le tante gravezze, che impoverivano gli abitatori, si vedeva da giorno in giorno mancare d'abitatori, e struggersi tra le miserie e sciagure. Gl'incendj del Vesuvio avevan cagionate morti e miserie estreme; ma sopra tutto la guerra che consumava coi disagi e col ferro le soldatesche, avea desolato il Regno: n'erano uscite dal Regno in numero infinito per reclutare gli eserciti, non pur di Lombardia, ma d'Alemagna, de' Paesi Bassi e del Principato di Catalogna; ed avendo tutte quelle spedizioni avuti infelici successi, pochi ne ritornavano alle paterne case.

Ma i tremuoti, che avevano desolata la Puglia in quest'anno 1638, portarono nelle Calabrie danni assai più gravi ed irreparabili. Furono in queste Province così spaventosi, che abbatterono la Città di Nicastro ed il famoso Tempio di S. Eufemia. Rimasero ancora distrutti molti luoghi ed altre Terre, Nocera, Pietramala, Castiglione, Maida, Castelfranco, ed altre di minor grido. La Città istessa di Cosenza, con molti de' suoi Casali patì notabilmente: Catanzaro, Briatico ed altri luoghi soffrirono il medesimo flagello: in fine non vi fu luogo di Calabria, che potesse vantarsi di essere stato esente dal danno; e calcolandosi il numero de' morti, si trovò essere periti sotto le ruine degli edificj più di diecimila persone; siccome l'istesso Consigliere Capecelatro, che fu spedito dal Vicerè a rincorare que' popoli (a' quali non solamente bisognò rimettere i pagamenti fiscali, ma soccorrerli con abbondanti limosine somministrate parte dal Patrimonio Regale e parte dal Monte della Pietà insino alla somma di ottomila ducati) poteva, come testimonio di veduta, testificare al Re le miserie di quelle Province. Si aggiunse ancora la costernazione, nella quale l'avea poste un solenne impostore, chiamato Pietro Paolo Sassonio, medico Calabrese, il quale andava disseminando che doveano sopraggiungere tremuoti più orribili: che non solamente il Regno, ma tutto il Mondo dovea crollare, avvicinandosi già il Giudicio finale: che il Mare dovea uscir dal suo letto ed inghiottir le campagne e sommergere le città: che doveano piovere dal Cielo grandini di peso di cinque libbre l'una, e che i monti doveano vomitar tutti fiamme per incendiar l'Universo. Queste infauste predizioni, vedendosi verificate in parte per li tremuoti e gl'incendj preceduti dal Vesuvio, posero in tale costernazione i paesani, che credendo, che la Calabria dovess'essere la prima a sopportar queste desolazioni, che doveano precedere alla destruzione del Mondo, ciascuno abbandonava la Patria, e cercava altrove ricetto: laonde il Vicerè per liberare gl'incauti da questi falsi pronostici, comandò, che il Sassonio fosse preso, e condotto legato in Napoli, come fu eseguito, dopo di che fu condennato a remare in una Galea.

Non meno che da' tremuoti, fu questa Provincia, nel medesimo anno, travagliata da' Turchi di Barbaria, li quali avendo concepito il disegno di saccheggiare il Santuario di Loreto, scorrevano con sedici Galee i nostri mari, e danneggiavano i naviganti, e le nostre riviere; tal che se i Vineziani non fossero occorsi per rompere i loro disegni, di mali peggiori sarebbon stati cagione.

I Franzesi intanto sempre più profittandosi de' disordini, e della declinazione della Monarchia di Spagna, oltre d'aver contrappesata in Italia la potenza degli Spagnuoli, erano ancora entrati in pensieri, per le speranze, che lor davano alcuni mal contenti del governo spagnuolo, di far un'invasione nel Regno di Napoli. Essi per mezzo del Marchese di Covrè Ambasciadore del Re di Francia in Roma, e di Monsignor Giulio Mazzarini a questi tempi semplice Prelato, poi Cardinale, e primo Ministro di quella Corona, aveano con un Titolato del Regno ordita una congiura per sorprender Napoli, e già in Roma se ne concertavano i modi; ma scovertosi da uno de' congiurati il trattato al Vicerè, fu fatto arrestare in Roma, ov'erasi portato, il Titolato, e condotto nel Castel Nuovo, fu con ogni sollecitudine fabbricato il processo. Fu eretta dal Vicerè una Giunta per sentenziarlo, la quale componevasi del Reggente D. Matthias di Casanatte, de' Consiglieri D. Flaminio di Costanzo, D. Giovan Francesco Sanfelice, Annibale Moles, D. Ferrante Mugnos, D. Ferrante Arias di Mesa, e D. Diego Varela. Il Fiscale fu Partenio Petagna Presidente della Regia Camera; ed i Pari della Corte furono i Principi della Rocca e del Colle. Furono intesi gli Avvocati del Reo Pietro Caravita, ed Agostino Mollo celebri Giureconsulti di que' tempi; e proferitasi dal Vicerè la sentenza, sedendo pro Tribunali nell'Assemblea dei mentovati Ministri, coll'assistenza dell'Uscier delle armi, e con tutte le solennità consuete, fu condennato sul palco ad essergli mozzo il capo. Così, spogliato prima del titolo, e dell'abito di Cavalier Gerosolimitano, lasciò sul talamo nella piazza del Mercato ignominiosamente la vita.

Ma con tutto che si fosse scoverto il trattato, non tralasciarono però i Franzesi di tentar l'impresa, fondati sopra la mala soddisfazione, che mostravano i Napoletani del Governo spagnuolo: laonde nell'anno 1640, avendo nel Porto di Tolone un'armata sotto il comando dell'Arcivescovo di Bordeos, dopo essersi trattenuta alcuni giorni ne' Porti di Corsica e poi alle spiagge dello Stato della Chiesa, s'inoltrò ne' mari di Gaeta, e quivi fermata, si pose in speranza di sottomettere quella Fortezza; ma valorosamente rispinta dal cannone di quel Castello, continuò il suo cammino, e giunse al Golfo di Napoli.

Il Vicerè, considerato il pericolo, spedì tosto D. Francesco Toraldo e Cesare di Gaeta, Sargente Maggiore del Battaglione della Provincia di Terra di Lavoro, a' confini dello Stato del Papa, per guardar quelle frontiere; ed al Maestro di Campo D. Giovan-Battista Brancaccio appoggiò la difesa della Città di Pozzuoli e del Territorio di Baja e di Cuma a quella vicini. Mandò in Salerno Fr. Giovan-Battista Brancaccio Cavaliere Gerosolimitano, perchè col Principe di Satriano Governadore di quella Provincia attendesse alla difesa di quel paese: fu spedito a Gaeta Vincenzo Tuttavilla Commessario Generale della Cavalleria; ed il Maestro di Campo D. Diomede Caraffa ebbe la cura di guardar tutto il rimanente con l'Isola di Capri. Chiamò poscia gli Eletti della città co' Deputati delle Piazze, affinchè allestissero le artiglierie, per guarnire i baluardi delle marine: convocò i Baroni, perchè stesser pronti alla difesa del Regno, e l'Eletto del Popolo Giovan-Battista Nauclerio offerse trentamila uomini tutti armati per difesa della città. Mancava però il danaro onde, nascevano li fastidiosi e molesti pensieri per trovare i modi di provvedersene.

Mentre la città era per ciò in continue agitazioni, verso la metà di settembre di quest'anno comparve l'Armata Franzese, composta di trentaquattro Navi di guerra, a vista di Napoli: ciò che pose in maggior scompiglio la città. Fur prestamente tolti i cannoni, ch'erano nel campanile di S. Lorenzo, e posti nelli torrioni del Carmine, in quello di S. Lucia, nell'altro delle Crocelle e sopra il Molo: se ne piantarono alcuni altri sul colle di Posilipo, da quella parte, che guarda il picciol Porto di Nisita, sotto la guida di D. Antonio dal Tufo Marchese di S. Giovanni e del Mastro di Campo D. Tiberio Brancaccio; ed altri quattro sopra l'Isola di Nisita sotto la cura di D. Antonio di Liguoro, che la guardava con titolo di Capitan a guerra: Scipione d'Afflitto, vecchio e valoroso soldato, guardava tutta quella riviera, che chiamasi de' Bagnuoli. In Napoli presero le armi ottomila Borghesi, divisi in quaranta compagnie, delle quali fu creato Maestro di Campo Generale D. Tiberio Caraffa Principe di Bisignano. Ma ciò che preservò Napoli da mali maggiori, fu l'esser quivi opportunamente giunto D. Melchior di Borgia con le quattordici Galee del Regno; alle quali essendosene aggiunte quattro altre, che conducevano D. Francesco Melo da Sicilia a Milano, si fece che il Borgia preposto alla custodia del mare, impedisse le scorrerie de' nemici, li quali insultando insino alla spiaggia di Chiaja, aveano più volte tentato lo sbarco, ma ripressi dalle soldatesche poste alle marine, spaventati dagl'incessanti colpi di cannoni, che tiravano da' colli e da' torrioni, e costeggiati in mare dal Borgia, finalmente si ritirarono verso Ponente, e ritornarono a Ponza, non mancando il Borgia d'andar lor dietro seguitandoli fino al Promontorio di Minerva. In cotal guisa i Franzesi rimaser delusi dalle speranze, ch'erano state lor date da' malcontenti, i quali aveano lor dato a credere, che alla sola comparsa della loro armata, i popoli mal soddisfatti del Governo spagnuolo, avrebbero prese l'armi per introdurli nel Regno. Ma non furono vani i loro ufficj, nè andarono a voto le loro assistenze nelle rivoluzioni di Catalogna ed in quelle di Portogallo, gli infelici successi delle quali saremo ora a narrare: poichè essendosi accesa fiera guerra nel Principato di Catalogna, bisognò pure, che dal nostro Regno si supplisse di gente e di danaro in quella non men lunga che dispendiosa spedizione.

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