CAPITOLO I.

Del Governo di D. Antonio Perenotto Cardinal di Granvela, e de' più segnalati successi de' suoi tempi: sua partita, e leggi che ci lasciò.

Questo Ministro, di cui altrove abbiam ragionato sotto il nome del Vescovo d'Arras, fu figliuolo di Niccolò Perenotto Signor di Granvela, Borgognone di nascimento, e primo Consigliero dell'Imperador Carlo V. Nella sua giovinezza essendosi dato allo studio delle scienze, riuscì in quelle assai rinomato: onde col favore dell'Imperador Carlo V, per la sua letteratura, e per li meriti del padre, fu fatto Vescovo d'Arras nel Paese d'Artois. Per la sua grande attività e saviezza fu poi impiegato nell'Ambasciarie d'Inghilterra e di Francia; ed entrò in tanta grazia e stima di Cesare, che quando rinunziò al Re Filippo suo figliuolo la Corona, gli diede per guida questo Prelato, per la buona condotta del suo Regno. Fatto poi Cardinale, ed Arcivescovo di Malines, ebbe il peso degli affari più gravi de' Paesi Bassi sotto il governo della Duchessa di Parma sorella naturale del Re; ma entrato in odio di que' Popoli, i quali mal soffrivano il suo rigore, che non ben conveniva usare in que' tempi cotanto difficili, riputò bene il Re Filippo richiamarlo in Ispagna alla sua Corte. Quivi per la grande capacità che avea delle cose di Stato, fu impiegato nei negozj più gravi e rilevanti della Monarchia. Passò poi in Roma, dove, come s'è detto, era dal Re trattenuto, affinchè, poco sperandosi della salute del Duca d'Alcalà, potesse passar subito, come fece, al governo del Regno.

Niuna altra più tormentosa cura agitava in questi tempi l'animo di questo Vicerè e de' Napoletani, quanto i continui timori per le scorrerie del Turco: onde per prevenirle, bisognava rivolgervi ogni studio ed ogni pensiero. Non vi erano più sospetti di spedizioni d'altri Principi: molto meno dalla Francia, cotanto allora occupata nei suoi proprj mali e rivoluzioni. Non si temevano moti interni, e le Province libere da' fuorusciti, erano tutte tranquille e pacate: solo tenevano in agitazione le minacce e le frequenti sorprese, che nelle nostre marine facevano i Turchi implacabili e fieri nostri nemici.

Si aggiungeva ancora un altro fastidioso pensiero: il Re Filippo, oltre la guerra, che per difesa de' suoi Stati d'Italia era obbligato mantenere col Turco, si vide in questi tempi per una condotta molto rigida e boriosa de' suoi Ministri intrigato in un'altra guerra non meno fiera e crudele, che dispendiosa ne' Paesi Bassi, ove per sostenerla, non v'era denaro, che bastasse. La Spagna cominciava a perdere le sue forze, e tuttavia s'andava desolando per li tanti Presidj, che nelle proprie Città ed altrove manteneva, come nella Sicilia, nel nostro Regno, nel Ducato di Milano e sopra tutto in Fiandra, dove, oltre i Presidj, dovea mantenere numerosi eserciti armati. Vedevasi desolata ancora ed esausta per le tante Colonie, che si mandavano nell'Indie: per la poca attitudine degli Spagnuoli di proccurare ne' loro Porti traffico e commercio, e molto meno nelle sue città mediterranee: per la minor cura, che i suoi naturali prendevansi dell'agricoltura, tanto che i loro terreni, ancorchè ampi e feraci, e per la rarità de' coloni, e per la poca inclinazione che vi aveano, non erano coltivati abbastanza. Da ciò nasceva un'estrema penuria di denaro, e la mancanza delle forze per supplire a tante spese. Per queste cagioni il Re Filippo, dovendo sostenere il peso di tanta guerra, cominciò a dar di mano a' fondi del suo regal patrimonio, a vendere le gabelle, ad impegnare le dogane e tutti gli altri emolumenti delle supreme sue regalie agli Italiani, ed in particolare a' Genovesi, ai quali, per l'impronti fattigli di rilevantissime somme, pagava grossissime usure. Quindi per soddisfare anche a' creditori cominciarono le distrazioni delle città e terre de' Regni di Sicilia e di Napoli, e ad esporsi venali gli onori ed i titoli di Contado, di Marchesato, di Ducato, insino a quello di Principato, proccurando con questi nomi senza soggetto, e con queste vane apparenze, niente dando di fermo e di stabile, nel miglior modo che poteva quietare i creditori, dando ombre ed onori, in vece di denari.

Si aggiungeva, che gli Spagnuoli per sostenere le guerre che il Re Filippo teneva accese fuori della Spagna, in Fiandra ed in Italia, non permettavano, che uscisse fuori di Spagna un soldo, nè contribuivano a cosa veruna, ma solo contribuivano alle spese, che bisognavano per difesa de' loro proprj confini. Le miniere, e le fodine dell'Indie erano quasi che esauste e mancate per loro avarizia, e molto più per non sapersene ben servire. Dalla Fiandra non vi era che sperare, ardendo ella d'una crudele e fiera guerra, e posta in iscompiglio, impedito ogni commercio, appena le forze di quelle province bastavano agli stipendj dei soldati, che ivi militavano. A tutto ciò s'aggiunse alcuni anni da poi la guerra di Portogallo, per la quale pure il nostro Reame fu costretto far donativi, ed il Re a proseguire vie più che mai le alienazioni del suo regal demanio, e gli emolumenti delle supreme sue regalie.

Il Regno di Napoli per ciò era sopra tutti gli altri riserbato per supplire a tante spese: quindi le premure e continue dimande di donativi e tasse: quindi in decorso di tempo si venne a tale estremità, che vendute le gabelle, impegnati i dazj, le dogane, e tutto, al Re poco rimanesse: onde avvenne, che dovendosi all'incontro supplire a' pesi, che porta seco la conservazione del Regno, s'imponessero nuovi pesi e gabelle, e che i nostri Cittadini si comprassero le proprie catene da non potersene mai prosciogliere: che si fossero le Signorie e' Feudi e' Titoli posti in ludibrio e conceduti non per merito di virtù, ma per denaro; e che ne nascessero in fine que' tanti mali e disordini, che si noteranno ne' seguenti libri di quest'Istoria.

Fra le principali cure adunque che angustiavano i nostri Vicerè, non era meno di quella del Turco, considerabile questa, vedendosi spesso premuti dalle pressanti richieste del Re di proccurar da questo Reame denari per sostenere le tante guerre. Nè erano agitati meno dalle fastidiose cure, che gli Ecclesiastici lor davano per le sorprese, che si tentavano sopra la Giurisdizione del Re e sue regali Preminenze.

Il Cardinal di Granvela intanto venuto al governo di questo Regno, per quanto la sua condizione e quella di questi tempi comportavano, non trascurò in tutte e tre queste occorrenze d'impiegarvi tutti i suoi talenti e tutto il suo vigore e prudenza.

La potenza Ottomana in questi tempi erasi resa formidabile e tremenda, non meno a' Principi vicini, che a' remoti, e l'Italia era in pericolo di cadere nella sua virtù; quindi i più gran sensati politici, e coloro, che più a dentro penetravano le forze di sì potente nemico, e l'estensione smisurata del suo Imperio, non tralasciavano esclamare co' Principi Cristiani per scuoterli dal lungo sonno, e facendo lor vedere così da presso i loro pericoli, gl'incoraggiavano ad una gloriosa unione per reprimere tanta potenza. Infra gli altri leggiamo tra le opere di Scipione Ammirato un lungo discorso drizzato a' Principi della Cristianità, dove gli fa tutto ciò vedere, animando loro alla lega. Ma niuno fu di ciò più zelante e caldo del Pontefice Pio V, il quale dopo varie Legazioni, conchiuse quella famosa Lega, della quale fu eletto Generalissimo D. Giovanni d'Austria figliuol naturale dell'Imperador Carlo V, il quale, ancorchè giovane di ventun'anno, avea però dato gran saggio del suo valore contra i Mori nel Regno di Granata.

Giunse questo Principe in Napoli a' 9 d'agosto di quest'anno 1571 dove dal Cardinal di Granvela fu ricevuto con molti segni di stima, e da' Napoletani con quegli onori, che ad un tanto personaggio si convenivano. S'unirono alla sua armata le Galee di Sicilia e di Napoli, ed oltre molti Signori spagnuoli, vollero seguirlo in così celebre espedizione i primi Baroni e molti Nobili della città e del Regno. I Turchi dall'altra parte scorrevano con una potentissima armata l'Arcipelago, e dopo avere saccheggiate le città di Budua, Dolcigno, ed Antivari, erano passati sino a vista di Cattaro. Perchè dunque non s'inoltrassero maggiormente in quel Golfo, sollecitando il Pontefice ed i Vineziani l'unione dell'Armata, partì D. Giovanni da Napoli nel vigesimo giorno d'agosto, e giunse a' 24 a Messina, dove trovò le Galee del Papa e de' Vineziani, alcune dei Genovesi e tre de Maltesi, ed altrettante di Savoia. S'intese poco da poi la perdita di Famagosta; onde fu determinato, senza perder più tempo, di combattere coll'inimico; ciocch'essendosi parimente risoluto da' Turchi, si posero con questo proposito le due Armate alla vela, senza che l'una sapesse il pensiero dell'altra. Così andavansi scambievolmente rintracciando, fin che il settimo giorno di ottobre furono a vista, e s'incontrarono, mentre i Cattolici uscivano dagli scogli de' Curzolari, ed i Turchi dalla punta delle Peschiere, che i Greci chiamano Metologni. Vennero le due Armate con uguale ardire al cimento, e dopo un ostinato combattimento riuscì a' nostri disfare l'armata nemica, con inestimabile loro perdita e scorno. Questa fu quella famosa vittoria che accaduta nella prima Domenica d'ottobre, nella quale i Frati Domenicani solevano con processioni celebrar il Rosario, diede occasione al Pontefice Pio dello stesso Ordine ed a Gregorio suo successore, in memoria di così gloriosa giornata, d'istituire per tutto l'Orbe Cattolico una festa solenne del Rosario, da celebrarsi ogni anno in quel dì: la quale vediamo mantenuta sino a' tempi nostri con molto maggior pompa ed apparato; e fu ancora occasione d'essersi eretti poi in Napoli Tempj ed Ospedali sotto il titolo di S. Maria della Vittoria.

La sconfitta fu considerabile, poichè oltre la prigionia del Bassà e degli altri Generali di conto, di un'Armata di poco meno di trecento vele, appena ne scamparono quaranta, ne rimasero più di cento affondate, ed altrettante in potere de' vincitori. D. Giovanni fece ritorno in Italia, ed entrato trionfando in Messina, quivi si trattenne, proseguendo gli altri Capitani il lor cammino verso Napoli, dove a' 18 del seguente mese di Novembre approdarono, conducendo prigioni Maometto Sangiacco di Negroponte, con due figliuoli d'Ali Capitan Generale del Mare, rimaso estinto nella battaglia. Il Basso col minore de' due fratelli, giacchè l'altro morì in Napoli di cordoglio, furono condotti in Roma al Pontefice, e rinchiusi nel Castel di S. Angelo, furono sempre cortesemente trattati.

L'anno che seguì 1572 non fu cotanto prospero al Collegati, siccome ognuno si prometteva da questa vittoria; i sospetti, che s'aveano, di potersi accendere una nuova guerra colla Francia per le rivoluzioni di Fiandra, non permisero al Re Filippo ed al suo Capitano D. Giovanni di soccorrer tanto a' Collegati, quanto sarebbe convenuto. S'aggiunse ancora la perdita del Pontefice Pio, il quale nel primo di maggio di quest'anno trapassò. Successegli nel Pontificato Ugo Boncompagno, detto Gregorio XIII, il quale se bene avesse non minor desiderio del suo predecessore per la continuazion della Lega, con tutto ciò, e per esser nuovo all'impresa, e perchè i Turchi sfuggivano ogni incontro di combattere, si passò l'anno senza far que' progressi, che si credevano.

Intanto per la morte del Pontefice Pio, essendo convenuto al Granvela portarsi in Roma al Conclave, rimase D. Diego Simanca Vescovo di Badajos per Luogotenente nel Regno; ma pochi giorni durò la sua amministrazione, per ciò che, seguita a' 13 di maggio l'elezione del nuovo Pontefice Gregorio, ritornò il Cardinale in Napoli a' 19 del medesimo mese, ed a ripigliarne il governo, insieme con le fastidiose cure: poichè appena giunto, fu duopo spedire a Messina la squadra delle Galee del Regno con gli Spagnuoli della guarnigione di Napoli e cinquemila Italiani comandati da D. Orazio Acquaviva figliuolo del Duca d'Atri per opporsi a' Turchi. S'avviarono parimente da Napoli molti nobili venturieri di diverse Nazioni, frai quali ve ne furono settanta Napoletani sotto il comando del Duca d'Atri lor Generale. Intanto avanzandosi la stagione, e fatti certi i nostri della resoluzione de' nemici di non combattere, D. Giovanni d'Austria, nel mese di novembre di quest'anno ritornò in Napoli, dove in quell'inverno fu trattenuto in continue feste e giuochi di tornei, giostre e barriere; sinchè approssimandosi la primavera del nuovo anno non convenne pensare agli apparecchi d'una nuova espedizione.

Mentre D. Giovanni col Cardinal di Granvela erano, in questo nuovo anno 1573, tutti intesi di fornire l'armata del bisognevole per continuar l'impresa in Levante, s'intese che per la mediazione del Re di Francia, i Vineziani aveano conchiusa la pace col Turco, con vergognose condizioni: ciò che recò sommo rammarico al Pontefice Gregorio e non picciola gelosia al Re Filippo, il quale vedendo che gli Ottomani s'affaticavano non poco per far cadere la Corona di Polonia sopra la testa del Duca d'Angiò, fratello del Re di Francia, dubitava non i Vineziani e' Franzesi si collegassero contra di lui. I Vineziani, per iscusare co' Collegati il fatto, mandarono suoi Ambasciadori al Pontefice ed al Re Filippo rappresentando loro la necessità, che gli avea costretti alla pace.

Il Re, pubblicata che fu quella pace, non volendo tener oziose le sue arme, tosto si rivolse alle cose d Affrica, cotanto alla Spagna unite; onde comandò a D. Giovanni d'Austria di far l'impresa di Tunisi. Partissi questo Principe da Napoli colla sua armata verso Messina, dove in due giorni approdò: indi proseguendo il suo cammino giunse alla Goletta; quivi posti a terra i suoi soldati per cammin dritto s'avviò verso Tunisi, della qual città (essendo sfornita di presidio) si rese tosto padrone senza combattere; ma non per questo la risparmiò dal sacco, che vi diedero i suoi soldati; ed avendo disegnato di costruire ivi una nuova Fortezza, come fece, vi lasciò con titolo di Vicerè Maometto figliuolo d'Assano, fratello d'Amida e fece prigioniero Amida, meritamente sospetto agli Spagnuoli e più sospetto a' Turchi, e mal veduto da' Tunesini, per avere con grande scelleratezza ammazzato Assane suo padre. Mandò in Palermo prigioniero Amida con due suoi figliuoli, il quale, per via, avendo inteso, che Maometto suo fratello cotanto da lui odiato, era stato lasciato per vicerè di quel Regno, venne in tanta rabbia, che se non era impedito da Amida suo figliuolo voleva, dalla Galea, che lo portava, buttarsi in mare. Intanto, per maggiormente porre in sicurezza quel Regno, Biserta fu anche presa; ed avanzandosi la stagione, essendosi approssimato l'inverno, D. Giovanni tornò in Sicilia, donde si restituì a Napoli, dove fece condurre Amida co' suoi figliuoli, che fece porre nel Cartello di S. Ermo sotto sicura custodia. Narra il Presidente Tuano, che nel seguente anno 1574 essendosi egli accompagnato con Paolo de Foix, mandato in Italia a render le grazie a' Vineziani, al Papa ed agli altri Principi d'Italia, che aveano mandato loro Ambasciadori in Francia a congratularsi col Re del nuovo Principato di Polonia di suo fratello, dopo avere scorse le città più cospicue d'Italia, venne anche in Napoli, dove giunto, ebbe vaghezza di vedere questo Amida co' suoi figliuoli. Fu da quel Castellano cortesemente introdotto, e vide esser un uomo molto vecchio, e siccome dell'aspetto potè egli conghietturare, s'accostava agli ottanta anni, ed avendo al Castellano con molta curiosità dimandato de' costumi di colui, gli disse, che ancorchè fosse così vecchio, non perciò s'asteneva ogni notte di dormire con una Mora sua concubina. Di que' due suoi figliuoli amava il più brutto, ch'era anche zoppo, ritenendolo sempre seco nella sua camera, odiava l'altro, ancorchè molto avvenente e spiritoso, al quale, entrato per ciò in somma grazia degli Spagnuoli, se gli permetteva andar libero per la città, cavalcare ed armeggiare: e se le cose non si fossero da poi mutate, era stato disegnato successore di Maometto suo zio nel Viceregnato di Tunisi, che si credeva poter lungamente durare sotto la Monarchia di Filippo.

Ma tosto andar vote sì belle speranze; poichè nell'istesso tempo che per lo ritorno di D. Giovanni e per la nascita del primogenito del Re Ernando, si facevan celebrare in Napoli dal Cardinal di Granvela pompose feste, con giuochi di Tori, di Caroselli e di Lancie, s'intese, che i Turchi scorrendo vie più formidabili i nostri mari, s'erano avvicinati al Capo di Otranto, ed aveano saccheggiata la picciola città di Castro; ed in questo nuovo anno 1574 avendo discacciati i nostri da Tunisi, s'eran impadroniti di quel Regno; poichè a' 23 agosto di quest'anno, caduta in lor mani la Goletta, presero la città di Tunisi con la Fortezza quivi innalzata da D. Giovanni, la quale fu da' medesimi superata a' 13 di settembre colla prigionia di Pietro Portocarrero e di Gabriele Sorbellone; e demolirono tosto amendue queste Piazze da' fondamenti, per torre a nostri la speranza di riacquistarle. Ed ecco il fine di tanti travagli sostenuti per questo Regno di Tunisi, che conquistato da Carlo V, e mantenuto con tante spese e travagli per lo spazio di quarant'anni dal Re Filippo suo figliuolo, finalmente si perdè senza speranza di poterlo più riacquistare.

Queste fastidiose cure resero il governo del Cardinal di Granvela assai travaglioso; poichè a riparare i mali, che da sì potente nemico si temevano, bisognò usare tutta la sua vigilanza e providenza. Egli fu il primo, che pose in effetto nel Regno la nuova milizia detta del Battaglione, istituita dal Duca d'Alcalà suo predecessore; era quella composta di soldati che a proporzione de' fuochi eran tenute l'Università del Regno somministrare: non aveano soldo in tempo di pace, ma solo alcune franchigie, ed in occasione di guerra tiravano le paghe, come tutti gli altri: il lor numero era considerabile, arrivando a venticinque e talora a trentamila persone: aveano i loro Capitani, ed altri Ufficiali minori: ma ora di questa milizia appena sono a noi rimasi vestigi. Non abbiamo più soldati, tutti siamo pagani, e la milizia è ora ristretta negli stranieri, che ci governano: in mano di costoro sono le armi, ed a noi solamente è rimasa la gloria d'ubbidire.

Per somministrar le spese a tanti bisogni era duopo che da dovero vi si pensasse: premeva il Re al Cardinale, e lo richiedeva spesso di sovvenzioni e donativi. Il Vicerè per adescar i popoli, e trovar modo di ricavarli dal Regno senza molta lor difficoltà e ripugnanza, fece dar prima esecuzione a tutte le grazie e privilegi, che nell'anno 1570 furono dal Re Filippo conceduti alla città ed al Regno. Poi avvalorato dalla presenza di D. Giovanni d'Austria, avendo insinuato a' Baroni il bisogno della guerra, che da dura necessità costretti era d'uopo sostenere contra un sì formidabile nemico, che minacciava porre in servitù il Regno, fece nel primo di novembre del 1572 convocare in S. Lorenzo un general Parlamento, nel quale intervenne per Sindico Cesare di Gennaro Nobile di Porto, e si fece un donativo al Re d'un milione e centomila ducati. Avutosi da poi l'avviso della perdita di Tunisi e sue Fortezze, di nuovo per soccorrere il Re, fu unito nel 1574 un altro Parlamento, ove fu Sindico Gianluigi Carmignano Nobile di Montagna, e si donò al Re un altro milione e ducentomila ducati. Fu fama, che D. Giovanni pretendendo anche per se un particolar dono dalla città, il Cardinale commiserando la strettezza de' Napoletani, avesse destramente impedito, che non gli si fosse fatto, e che per ciò nascessero fra loro que' disgusti, che partorirono la chiamata del Cardinale in Ispagna, come diremo. Cotanto afflissero queste spedizioni di Tunisi e queste guerre contra i Turchi i Napoletani. Narra il Summonte Scrittor contemporaneo a questi successi, che per mantenere la Fortezza della Goletta costava a Napoli prezzo di sangue; poichè ogni volta, che in questa città era penuria di qualsivoglia sorte di roba tutta la colpa si attribuiva al mantenimento di questa Fortezza, e per ciò, se s'alzava il prezzo de' grani, se incariva il vino, se non si trovavano salami, l'olio si pagava a caro prezzo, tutto si diceva avvenire, per essersi fornita la Goletta, e così di tutte le altre cose del vitto umano, e per insino a' carboni incarivano, tal che pareva, che questa Fortezza inghiottisse ogni cosa; poichè per ingordigia de' Ministri tiranni, tutte le cose si mandavano fuori di questa città, sotto pretesto di servire alla Goletta, ma poi altrove si portavano.

Ebbe in fine il Cardinal di Granvela, come successore d'Alcalà, a sostenere anch'egli ed opporsi all'intraprese della Corte di Roma sopra la giurisdizione e preminenze del Re. Proseguiva ella con tenore costante le sue imprese, e come l'esperienza ha sempre mostrato, che morto un Pontefice, l'altro successore entra nel medesimo impegno, e forse con maggior emulazione del suo antecessore, così morto Pio V, Gregorio, che gli successe, seguitando le medesimo pedate, non mancò d'imitarlo; ma in ciò fu commendabile la costanza del Vicerè Granvela, il quale ancorchè Cardinale, seppe resistergli con vigore. In tutti gli altri punti giurisdizionali di sopra rapportati fu imitatore d'Alcalà, ma in quello de' casi misti, per un'occasione che gli si presentò, si distinse sopra di costui assai più. Il Sacrilegio vien riputato dagli Ecclesiastici un delitto di misto Foro, e che perciò debba darsi luogo alla prevenzione: accadde che un ladro, dopo aver commesso un furto nel Duomo di Napoli d'alcune sagre suppellettili, riuscitogli felicemente questa volta, volle provarsi la seconda nella Chiesa di S. Lorenzo; ma i Frati di quel Convento, coltolo in sul fatto, dopo averlo arrestato, e ben concio di bastonate, lo diedero nelle mani de' Bargelli dell'Arcivescovo, allora Mario Caraffa, il quale postolo nelle sue carceri pretendeva, ancorchè il ladro fosse laico, di conoscere egli del delitto per aver prevenuto. Il Granvela fece richiedere più volte all'Arcivescovo ed al suo Vicario, che rimettessero il ladro nelle mani de' Giudici Regj, a' quali s'apparteneva la cognizione di quel delitto; ma riuscivano inutili queste richieste, onde ostinandosi l'Arcivescovo a non consignarlo, fu costretto il Vicerè a mandare l'Avvocato Fiscale Pansa con famiglia armata a rompere le carceri dell'Arcivescovado, ed a prendersi il ladro. L'Arcivescovo fece scomunicar dal Vicario tutti coloro, che aveano avuta parte nell'accennata esecuzione, i mandanti, i consenzienti e tutti coloro, che erano intervenuti in quell'atto, facendo affiggere i Cedoloni per li luoghi pubblici della città. Ma gli fu risposto dal Cardinale con maggior giunta, perchè fece imprima covrire di carta e d'inchiostro i cedoloni: fece sbrigar subito la causa del ladro, e lo fece appiccare a' 10 marzo del 1573 nella piazza di S. Lorenzo: ordinò, che il Vicario fra 24 ore uscisse fuori di Napoli, e continuando il suo cammino fosse uscito dal Regno, e non ritornasse in quello fin ad altro ordine suo o del Re, come fu tosto eseguito: si fecero imprigionar i Cursori, che aveano affissi i Cedoloni; i Consultori e l'Avvocato di quella Arcivescoval Corte, i Mastrodatti ed il Cancelliere, tutti laici, furono parimente carcerati; ed in fine furono sequestrate all'Arcivescovo tutte le sue entrate, anche le patrimoniali. Ciò eseguito, ne fece il Cardinale con sua Consulta de' 25 dell'istesso mese di marzo distinta relazione al Re Filippo, il quale a' 13 luglio del medesimo anno gli rispose, non solo approvando, quanto egli avea per la conservazione della sua chiara giustizia adoperato, ma gli incaricò, che per l'avvenire mirasse sempre, che la sua regal giurisdizione fosse mantenuta in modo, che per niuna via o causa fosse pregiudicata, e che colla sua destrezza e prudenza si governasse in modo di non permettere che niuno de' Reggenti, nè i suoi Ufficiali, pretesi scomunicati per quella causa, andassero in Roma per l'assoluzione, conforme avea preteso il Pontefice passato con quelli del Senato di Milano. Parimente l'istesso dì scrisse a D. Giovanni di Zunica suo Ambasciadore in Roma, il quale avealo ancora ragguagliato di questo successo, dicendogli, che passasse col Pontefice con vigore gli uffici, che si convenivano alla qualità dell'affare; e quando si dovesse cedere al punto dell'assoluzione, si contentasse sì bene, che i censurati si assolvessero, ma che non si pensasse di dovere per ciò andare in Roma alcuno de' Reggenti di Napoli e suoi Ufficiali; poichè questo sarebbe diroccare dal suolo l'autorità de' suoi Ministri.

Il Pontefice Gregorio, dall'altra parte, fece dal suo Nunzio residente in Napoli passare col Cardinale aspre doglianze miste di minacce, ma per la mediazione dell'Ambasciadore Zunica, e per la opera d'altri personaggi di autorità, e sopra d'ogni altro del Presidente del S. C. Giovan Andrea di Curte, Ministro di grande efficacia e prudenza, fur sedati gli animi, e trovato questo temperamento: che tutti coloro, ch'erano stati scomunicati per tal cagione, fossero privatamente assoluti nella camera del Tesoro, ed in cotal guisa questo affare terminossi.

Dopo avere così bene adempito il Cardinal di Granvela le sue parti nel governo di questo Reame, e sperandosene da lui ora, che le cose erano alquanto in riposo, un migliore, per la sua integrità e prudenza civile, fu a noi involato per un ordine del Re Filippo, che lo richiamò in Ispagna alla sua Corte a più supremi onori, avendolo creato suo Consigliere di Stato e Presidente del supremo Consiglio d'Italia. Fu fama, che avesse D. Giovanni d'Austria, per le cagioni di sopra rapportate, proccurata la sua remozione, per farvi in suo luogo sostituire il Duca di Sessa: ma il Re tolse sì bene a sua richiesta il Granvela dal Regno, ma ingelosito dell'autorità di D Giovanni, per lo supremo comando che avea dell'armata, in vece di mandarvi suoi partigiani, vi spedì il Marchese di Mondejar, che era di D. Giovanni poco amorevole. Partì il Cardinale da Napoli nel principio di luglio di quest'anno 1575, avendo governato il Regno pochi mesi più di quattro anni. Ci lasciò 40 Prammatiche tutte sagge e prudenti, che rendono sempre ragguardevole la memoria de' suoi talenti. Egli severamente proibì qualunque sorte d'asportazion d'armi corte: comandò, che gli atti tra vivi, come delle ultime volontà non potessero stipularsi, che da Notari Regj: impose rigoroso secreto a' Ministri; ed ordinò, che niun portiere, trombetta o servidore di Palazzo, o di qualunque altro ministro andasse per la città cercando mancie, imponendogli pena di quattro tratti di corda: proibì a Ministri di dimandare, nè per suoi congiunti, nè per altri, beneficj o prebende Ecclesiastiche, nè ufficj da' Baroni, senza espressa licenza del Vicerè. Vietò alle persone Ecclesiastiche, ancorchè fossero Cavalieri Gerosolimitani, di potere esercitare in Napoli e nel Regno Ufficj Regj o Baronali: che niuna persona potesse giocarsi più di diece ducati in un giorno; proibì tutte le sorte di contratti usurari, e diede altre leggi salutari, le quali secondo l'ordine de' tempi possono con facilità osservarsi nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

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