Di D. Innico Lopez Urtado di Mendozza Marchese di Mondejar; sua infelice condotta, e leggi che ci lasciò.
Il Marchese di Mondejar giunto appena in Napoli ne' 10 di luglio di quest'anno 1575, non avendo fatto buono scrutinio di coloro che offerendogli il loro ajuto e consiglio nell'amministrazione del Regno, s'introdussero in sua grazia, fece tosto comprendere, che il suo governo dovea riuscire pur troppo diverso da quello prudente e saggio del suo predecessore; poichè non tardò guari, che per insinuazione di quei che l'adulavano, rivocò molte belle ordinazioni fatte dal Cardinal di Granvela, già divenuto nella Corte Presidente del Consiglio d'Italia: imprudentissima condotta, poichè costui offesosi di queste riforme, per l'affetto, che ciascun suol portare a parti del proprio ingegno, divenne un vigilante fiscale di tutte le sue azioni. Accortosi però egli di questo gravissimo errore volle ripararlo; ma vi applicò un rimedio, che riuscigli più pernizioso del primo malore. Era in que' tempi nella Corte per Reggente provinciale di questo Regno Scipione Cutinari, originario d'Aversa, uomo, ancorchè dotato di buone lettere, assai vafro però ed ambizioso: costui, corrotto dal Marchese, avvisava al medesimo i più secreti trattati, che passavano in quel Consiglio, e quanto usciva dalla bocca del Cardinale contro alla sua persona; in premio di ciò aveane dal Vicerè estorta una relazione falsa, diretta a S. Maestà, della sua favolosa e vantata nobiltà; in vigor della quale ottenne dal Re molte grazie e prerogative ed in particolare la facoltà d'eleggersi uno de' cinque Seggi per goderne gli onori. Ma ciò non gli servì ad altro che per far scovrire al Consiglio ed al Re l'impostura; poichè avendosi egli eletto il Seggio di Nido, ed il Vicerè, ripugnando tutti que' Nobili, impiegando la sua forza a farlo ricevere, diede a costoro occasione di spedire in Madrid persona, che facesse conoscere le favolose genealogie contenute nella relazione del Vicerè. Il Cardinal Granvela favorì la missione, ed informatone pienamente il Re rimase stomacato non meno dell'inganno, che del Vicerè, onde rivocò il privilegio, comandò, che il Reggente fosse rinchiuso in un carcere, dove indi a poco si morì, e che il fratello si ritenesse nel Castel Nuovo, donde uscito dopo molti anni di angustie, esiliato dalla città, finì i suoi giorni nella Torre del Greco.
Ma oltre a ciò la poca corrispondenza, che il Mondejar passava con D. Giovanni d'Austria, diede più certi presagi d'un infelice e non molto lungo governo. Trattenevasi per anche D. Giovanni in Napoli in giuochi e tornei, e come a colui, che avea il supremo comando dell'armata, erangli da' Napoletani resi i primi onori; tal che la luce del Vicerè da un più grande splendore veniva quasi ad oscurarsi: ciò che il Marchese mal potendo simulare e peggio soffrire, vennero fra di loro in maggiori urti e disgusti, i quali giunsero a tale estremità, che D. Giovanni non ebbe riparo in presenza di molti Nobili in un certo incontro di chiamarlo mancator di parola; avendo voluto il Vicerè rispondergli, che di tanta baldanza ne avrebbe egli dato avviso a Sua Maestà, gli corse D. Giovanni dietro, cavando fuori il pugnale per offenderlo; come sarebbe senza fallo accaduto se dagli astanti con preghiere e scongiuri non fosse stato raddolcito.
Questi incontri infelici e queste inimicizie, che vi erano tra lui col Cardinal Granvela Presidente del Consiglio d'Italia e con D. Giovanni d'Austria, seco portarono, che di tutto ciò, che di avventuroso accadde in tempo del suo governo, fosse imputato non già alla sua vigilanza, ma, o alla fortuna o all'accortezza e valore altrui, o, quando tutto mancasse, a miracolo. Ciò si conobbe chiaro in due occorrenze. Quest'anno del Giubileo 1575, per la gran frequenza di stranieri, che da tutte le parti concorrevano in Roma, s'introdusse in Italia una pestilenza così fiera, che dopo quella, che nell'anno 1528 in tempo della spedizione di Lautrech afflisse cotanto Napoli, non s'era veduta maggiore. Da Trento, ove cominciossi prima a sentire, passò il contagio a Verona, indi a Venezia, e finalmente si diffuse per tutto insino a Sicilia. I più famosi Medici di que' tempi, come Andrea Graziolo Salonense, Alessandro Canobio Scrittore della peste di Padova ed Antonio Gliscens di Brescia, riputarono, non già dalla positura delle stelle o dalla malignità dell'aria o dal concorso de' forestieri venuti in quell'occasione in Italia, essere cagionato il male, ma nato nelle città istesse dalle immondizie e sordidezze delle private case. Che che ne sia, Trento rimase quasi desolato, Verona con pochi abitatori, ed in Venezia, nel seguente anno 1576, fece stragi cotanto crudeli e lagrimevoli, che per tutto quell'anno, si conta, avesse in quella città consumati più di settantamila uomini. Di tanto esterminio ne furono incolpati quei due celebri Medici Girolamo Mercuriale da Forlì e Girolamo Capovacca da Padova, i quali richiesti dal Senato della loro opera e parere, riputando il morbo non pestilenziale, ma che potesse curarsi, fecero, che gli appestati non si portassero più, come erasi cominciato, fuori della città in un luogo separato, ma si ritenessero, esponendosi essi (siccome dal loro esempio fecero gli altri Medici e Cerusici di quella città) alla lor cura. Ma il male crebbe in guisa, che attaccandosi più furiosamente, in breve spazio uccise non pur gli ammalati, ma cinquantotto fra Medici e Cerusici destinati alla lor cura. Non curarono il Mercuriale e 'l Capovacca il proprio pericolo, ed intrepidamente per qualche tempo infra gli appestati proseguirono la cura: ma a lungo andare, dimandata licenza dal Senato, scapparono via. In Milano, Cremona e Pavia si rese per ciò commendabile la pietà e vigilanza de' Cardinali Carlo Borromeo, Niccolò Sfondrato ed Ippolito Rosso Vescovi di quelle città, i quali con grande zelo e intrepidezza visitavano gl'infermi, e davan loro soccorsi. Lo stesso, ad imitazione del Borromeo, fece in Verona Agostino Valerio Vescovo di quella città, la quale non men, che Padova era miseramente travagliata ed afflitta. Si diffuse il male insino a Sicilia, ed in Messina fece strage sì crudele, desolandola in guisa, che si fece il conto esserne estinti più di quarantamila suoi Cittadini. Già la vicina Calabria cominciava a contaminarsi, e per lo continuo traffico tutte le altre nostre province erano in pericolo. Rilusse per ciò la provvidenza del Marchese di Mondejar, il quale con severissimi editti proibì l'entrata nel Regno a ciascuno, che veniva da luogo non sano: fece chiudere le porte della città, nè si permetteva far entrar alcuno, senza le necessarie fedi di sanità del luogo donde veniva: usò rigore estremo, anche ne' più leggieri sospetti: fece bruciare in Napoli molte balle di cotone venute di fuori, e dentro il Porto fece ardere una barca venuta di Calabria, ancorchè carica di balle di seta, senza riguardo dei gravissimi danni, che si recava per ciò a' Mercatanti. Tanto che Napoli ed il Regno restò libero ed immune da sì spaventoso male, che in Italia non s'estinse affatto, se non nel seguente anno 1577. Ma tutto ciò fu imputato, non già alla provvidenza del Vicerè, ma parte a' provvedimenti dati dalla città, e molto più all'intercessione di San Gennaro e degli altri Santi suoi Protettori.
Parimente Amuratte Imperador de' Turchi, proseguendo l'istituto de' suoi antecessori non tralasciava di fare scorrere la sua armata ne' nostri mari; il suo famoso Comandante Uluziali cominciò in quest'anno 1576 a saccheggiare le nostre riviere di Puglia: ma ripresso da molte soldatesche a cavallo ed a piedi, che vi spedì il Vicerè, si rimase dall'impresa, ed incamminandosi verso Calabria, fece sbarco delle truppe presso Trebisaccia, rovinando il paese ed i luoghi contorni, con ridurre in ischiavitù molti. Ne furono parimente scacciati e costretti a lasciar il bottino; ma tutto si ascrisse alla vigilanza e prontezza e valore di Niccolò Bernardino Sanseverino Principe di Bisignano, il quale, come pure scrive il Tuano, essendo accorso opportunamente, mentre s'imbarcavano, con sessanta cavalli e duecento archibusieri, obbligò quelli a lasciar la preda, facendone da quaranta prigionieri e più di cinquanta restarono ivi estinti.
Ne' seguenti anni s'accrebbero i suoi disgusti, per due incontri che diremo: tal che venuto in odio non meno alla Nobiltà, che al Popolo, fu finalmente richiamato dal Re in Ispagna, per dove convenne partirsi nei maggiori rigori di quell'inverno. Il primo, per aver voluto dar orecchio ad un Frate, che adescato dalle promesse d'alcuni avidissimi Mercanti, insinuò al Marchese, che per la gente minuta poteva farsi il pane di farina di grano, mischiata anche con quella dell'erba che i Botanici chiamano Aron, ed il volgo chiama Piede di Vitello, la quale è stimata di cotanto nutrimento, che Giulio Cesare vi mantenne le sue milizie nell'Albania. Parve tal espediente molto vantaggioso ed utile, non meno per l'annona, che per li grandi profitti, che potevan ritrarsi dal Re: ma appena fu questo trattato scoverto da' popolari avvezzi a mangiar pane di frumento, che stimolati anche da' Nobili mal soddisfatti del Vicerè per le passate contese dell'aggregazione del Reggente Cutinari ne' loro Sedili, prorruppero in aperte dichiarazioni di non dovervisi pensare, perch'essi altrimente avrebbero negato in ciò d'ubbidirlo; onde veduta dal Vicerè la loro fermezza ed ostinazione, gli fu duopo sciorre immantinente il trattato per quietarli. L'altro più strepitoso che diede l'ultima spinta alla sua partita fu, ch'educandosi nel Monistero di S. Sebastiano D. Anna Clarice Caraffa, figliuola del primo letto di D. Antonio Caraffa, Duca di Mondragone e di D. Ippolita Gonzaga, costei per mancanza de' maschi essendo considerata come succeditrice di tutto lo Stato paterno, era stata destinata dal padre per moglie al Conte di Soriano primogenito del Duca di Nocera, ch'era della medesima famiglia; ma il Principe di Stigliano, avolo paterno della fanciulla, tollerando di mala voglia, che dovesse estinguersi la sua Casa, risolse, benchè vecchio, d'ammogliarsi con D. Lucrezia del Tufo de' Marchesi di Lavello, ed ebbene di questo matrimonio un maschio, che meditava dovess'esser il successore di quello Stato; ciò che fece dividere la famiglia Caraffa in due potentissime fazioni. All'incontro il Vicerè, lusingandosi da queste contese poterne ritrar profitto, era entrato nell'impegno di impalmar questa Dama a D. Luigi Urtado di Mendozza Conte di Tendiglia suo primogenito, e prevedendo le difficoltà, prese risoluzione, col pretesto d'esplorarne la volontà, di far uscire da quel Monastero la fanciulla, e porla in luogo opportuno per suoi disegni; ed a far questo, vedendo che gli sarebbe riuscito vano ogni altro modo, parvegli usare non meno la sollecitudine, che la forza; onde mandò tre Reggenti col Segretario del Regno e centocinquanta Spagnuoli a torre con effetto la Donzella dal Monastero. L'atto improvviso e scandaloso animò quelle monache a prendere una risoluzione bizzarra e generosa; poichè unite tutte insieme con D. Clarice ancora, che fecero vestir Monaca, in lunghi ordini divise, salmeggiando e con le reliquie in mano di quei Santi che conservavano, fecero aprir le porte della clausura, e si fecero tutte incontro a que' Ministri, i quali sorpresi da un cotale nuovo spettacolo, postisi inginocchioni, adorarono le reliquie, e partirono immantenente dal Monastero. D. Clarice fu segretamente condotta in casa di D. Giovanni di Cardona, ed eseguendo la deliberazione di suo padre, fu privatamente sposata al Conte di Soriano, come poscia dichiarò essa stessa al medesimo Collaterale. Questa azione del Vicerè, quantunque avesse offeso sol que' due principali rami della famiglia Caraffa, ch'erano in que tempi il Principe di Stigliano, ed il Duca di Nocera, oggi estinti; gli irritò nondimeno contra tutto il numeroso stuolo de' Nobili di quel Casato, i quali aggiungendo quest'offesa all'antiche, mandarono il Marchese della Padula Giannantonin Carbone in Madrid a dolersene col Re Filippo.
(Di questa Missione del Marchese della Padula e della maniera da tenersi in ispedire alla Corte persone per far ricorso al Re, si legge una lettera di Filippo II spedita al Principe di Pietra Persia Vicerè sotto li 4 decembre 1579 presso Lunig ).
Fu la missione favorita anche dal Cardinal di Granvela, il quale agevolò l'impresa; onde esposte queste querele al Re, si risolse tosto di richiamarlo; ed ordinò a D. Giovanni di Zunica, il quale lungo tempo era stato suo Ambasciadore in Roma, che senza perder tempo passasse al Governo di Napoli; donde convenne, al Marchese agli 8 di novembre del 1579 partire, ed esporsi ad un viaggio di mare nel maggior rigore di quell'inverno. Partì su due Galee, accompagnato più dal proprio pentimento e dalle lagrime dei congiunti, che dalle benedizioni de' Napoletani, appo i quali, secondo che narra il Summonte Scrittor contemporaneo, lasciò di se malissimo nome.
Pure ne' quattro anni e quattro mesi che durò il suo governo, ancorchè i mentovati successi gli avessero concitato l'odio comune, lasciò fra noi qualche memoria, non meno commendabile per Napoli, che per lo maggior servigio, ch'egli prestò al suo Re. Nel suo tempo furon fatti al Re tre donativi: uno pochi mesi dopo il suo arrivo in novembre del 1575, quando per l'avviso del nascimento di D. Diego secondo figliuolo del Re Filippo, si congregò in S. Lorenzo il Parlamento, dove presedè per Sindico Gianfrancesco di Gaeta nobile della Piazza di Porto, e dove si fece donativo al Re di un milione: l'altro di febbrajo del 1577 dove fu Sindico Giangirolamo Mormile del Seggio di Portanuova, che fu d'un milione e ducentomila ducati: ed il terzo d'altrettanta somma conchiuso nel Parlamento tenuto a' 23 aprile del 1579, per supplire alle grosse spese della guerra di Fiandra, essendone Sindico Fabrizio Stendardo della Piazza di Montagna.
Cominciò ancor egli nel 1577 la fabbrica del nuovo Arsenale nella spiaggia di S. Lucia, ove al presente si vede, con la guida di Frate Vincenzo Casali Servita, famoso Architetto di que' tempi. Avea ancora cominciato le provvisioni necessarie per porre in mare un'armata contra gl'Infedeli, al qual effetto da Fr. Vincenzo Caraffa Prior d'Ungheria, e da Carlo Spinelli, assoldavansi tremila pedoni e quattromila guastadori a fin d'unirli a tutte le forze d'Italia, e farne un corpo sotto il comando di Pietro de' Medici, fratello del Gran Duca di Toscana, restandone il bel disegno estinto per l'improvvisa sua partenza. Ne' suoi tempi furon celebrate con grande magnificenza e pompa le feste per la natività di Filippo, quarto figliuolo del Re, natogli a' 27 aprile del 1578 dalla Regina Anna, che gli fu poi successore, siccome poco da poi fu pianta la morte del Principe D. Ernando, del quale il Re suo padre, forse per l'età sua infantile, avendo appena passati i sette anni, non fece celebrare nè in Napoli, nè altrove, nè funerali, nè esequie.
Ci lasciò ancora questo Ministro ventiquattro Prammatiche, nelle quali si leggono più provvedimenti molto saggi e commendabili. Proibì sotto gravissime pene le Case di giuoco e baratterie, nelle quali vietò a qualunque persona il potervi giuocare; represse i controbandi; diede norma a' Tribunali per le suspezioni dei Ministri; comandò che non potessero questi contrarre parentela spirituale, facendosi compari nel battesimo o nella cresima; e diede altri regolamenti salutari per l'abbondanza e politia della Città e del Regno: le quali, secondo il tempo nel quale furono stabiliti, possono vedersi nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche, secondo l'ultima edizione del 1715.